Corriere della sera, 3
ottobre
Trieste La città delle mille culture 50
anni fa tornava italiana
È difficile dire se le cose si
vedono meglio da vicino o da lontano, se i grandi eventi storici li comprende più a fondo chi li vive direttamente sulla propria
pelle, appassionatamente coinvolto nel loro precipitare, oppure chi li guarda
da un' angolazione più distante e più ampia, che permette di non lasciarsi
sopraffare dalla loro immediatezza e di inquadrarli nel contesto generale. (Nella foto, la festa per il ritorno all' Italia, nel 1954)
La prospettiva giusta, come anni fa dicevano in due eccellenti libri Alberto Cavallari e Tito Perlini, è
quella duplice, vicina e lontana, che continuamente si sposta dalla bruciante
assolutezza del vissuto al quadro complessivo della situazione storica e
viceversa, dal particolare all' universale, che possono essere compresi solo in
questa relazione reciproca. Quel 26 ottobre 1954, in cui Trieste
ritornava all' Italia dopo una lunga drammatica
odissea, è una data storica che fa parte della mia biografia, che ho vissuto -
ragazzo di 15 anni - in quel giorno e in quella notte di festa per le strade. Un anno prima, in uno dei momenti di maggiore tensione alle
frontiere orientali d' Italia, era caduto sotto il piombo della polizia al
comando degli inglesi - che insieme agli americani governavano la Zona A del Territorio
libero di Trieste - il mio compagno di classe Piero Addobbati, 14 anni, insieme
ad altre cinque persone, durante la repressione delle manifestazioni per l'
italianità della città. In quel 26 ottobre ho provato quel
sentimento cantato da Manzoni: «Oh giornate del
nostro riscatto! / Oh dolente per sempre colui / che da lunge, dal labbro d' altrui / come un uomo straniero, le udrà! / Che a' suoi figli narrandole un giorno
/ dovrà dir sospirando: io non c' era». In quel giorno si chiudeva, per
Trieste, il lungo periodo d' incertezza in cui la
città di frontiera, divenuta essa stessa una specie di terra di nessuno tra due
sbarre di confine, era, come diceva Salvatore Satta,
una «sventuratissima posta» del gioco fra le grandi potenze, dal quale
dipendeva la sua futura appartenenza non solo all' Italia o alla Jugoslavia, ma
- specie nei primi anni - all' Occidente o all' universo staliniano. Quel 26 ottobre era pure, in qualche modo,
la conclusione di una lunga passione risorgimentale della città, cui le odierne
celebrazioni organizzate dal Comitato Tricolore insediato dal Comune non
rendono giustizia, perché tendono a mettere in ombra
la fondamentale componente mazziniana, democratica e ispirata a ideali di
fraternità con tutte le altre nazioni, sottolineando invece la componente
nazionalista. La gioia di quel 26 ottobre copriva la tristezza per la
perdita dell' Istria e di Fiume, ingiustizia che aveva
spinto un grande antifascista come il fiumano Leo Valiani - incarcerato dal fascismo, difensore dei diritti
degli slavi, combattente in Spagna e leader della Resistenza, oltre che
eminente storico - a votare contro il Trattato di Pace. Per molti anni il
dramma di Trieste - e dell' esodo istriano - è stato
ignorato; molti italiani non sapevano nemmeno dov' era l' Istria o se Trieste
fosse in Italia o in Jugoslavia; purtroppo anche nella «Nota sulla storia di
Trieste» contenuta nel kit distribuito dal Comitato Tricolore ci sono errori
geografici e cronologici, lacune e omissioni. Per
molti anni, del dramma della Venezia Giulia - che ha pagato per tutta l' Italia i disastri della politica fascista - non si
parlava quasi mai: per ignoranza, disinteresse oppure - da parte democratica -
per vile timore di passare per nazionalisti. Da parte della destra se ne
parlava invece per riattizzare quegli odi sciovinisti e quei sentimenti
antislavi, che erano stati all' origine del dramma
giuliano e della mutilazione di quelle nostre terre. Quella strumentalizzazione
della sofferenza era empia e quella rimozione era stolta e fautrice a sua volta
di regressione, destinata anch' essa a intorbidare i
rapporti tra le diverse comunità. Quando,
parecchi anni fa, scrivevo sul Corriere delle foibe, non se ne interessava
quasi nessuno, perché l' argomento non poteva essere
utilizzato a fini politici; ora se ne parla, anche a vanvera, perché si pensa
possa servire alla lotta politica attuale. La patria è un valore, nasce come
idea progressiva e rivoluzionaria di affrancamento dei
popoli, all' epoca della Rivoluzione francese, quando i cittadini patrioti
sconfiggono, combattendo per essa, i soldati che combattono solo per il loro
sovrano-padrone e per la casa regnante. La patria così intesa non si oppone al
sentimento di appartenenza all' universale umanità:
Dante diceva di aver appreso ad amare Firenze a furia di bere l' acqua dell'
Arno, ma aggiungeva che la nostra Patria è il mondo, come per i pesci il mare.
È giusto e doveroso che il 26 ottobre sia vissuto come una
festa patriottica, purché la patria sia intesa quale amore per la propria
identità in armonia con le altre, di pari dignità. Inoltre Trieste ha un' inconfondibile peculiarità, che le celebrazioni attuali
mettono in sordina, perché incarna e comprende in se stessa questa pluralità.
Città italiana di grande passione italiana, essa è
stata, in passato, un crogiuolo di genti diverse arrivate dai più diversi
Paesi, che si sono italianizzate, divenendo spesso - con i loro cognomi
tedeschi, slavi, greci, armeni e così via - i più
ferventi patrioti. Trieste comprende varie comunità, che vi sono
di casa a pari titolo. Anzitutto la comunità slovena, presente da secoli. Quella ebraica, che ha avuto un grande ruolo nell'
irredentismo, ma ha anche conosciuto l' unico campo di sterminio nazista
esistente in Italia, la
Risiera. Quella tedesca o austro-tedesca, numericamente
modesta ma di vaste tradizioni. Quella greca, quella armena
anch' essa esperta di tragedie, quella serba, la presenza croata, altri
cittadini di altre nazionalità. Queste comunità hanno storie diverse e memorie diverse, spesso contrapposte, lacerazioni che non si possono
ignorare ma che occorre sanare. Geografia e storia hanno fatto di Trieste un
caso particolare. Pure il 25 aprile a Trieste è stato diverso, perché
simboleggia sì come ovunque la liberazione dal nazifascismo, ma è stato
immediatamente seguito dall' occupazione titoista con le sue violenze anti-italiane
e i suoi crimini. L' insurrezione contro i tedeschi del 30 aprile ' 45 -
guidata da mons. Marzari, Ercole Miani
(torturati dai nazisti) e Antonio Fonda Savio - fu doppiamente tragica perché,
come ricorda uno dei suoi più intrepidi protagonisti, Vasco Guardiani, gli
antifascisti italiani si trovarono tra due fronti, aggrediti pure da quei
partigiani che, per motivi nazionali o politici, miravano all'
annessione di Trieste alla Jugoslavia comunista. Allo stesso modo, il
novembre 1918, con l' arrivo dell' Italia a Trieste, è
stato una festa per la grande maggioranza italiana, ma non per quei triestini
che, legittimamente, si erano sentiti appartenenti al plurinazionale impero absburgico e avevano combattuto per esso e tantomeno per gli sloveni e i croati della Venezia
Giulia e dell' Istria divenuti cittadini italiani, per i quali purtroppo l'
Italia - anche quella prefascista, per non parlare di
quella mussoliniana - è stata non madre bensì
matrigna, con una politica di snazionalizzazione, di negazione dei loro
diritti, di inconsapevole disprezzo e infine esplicita violenza. La storia
di queste terre è intrisa di sangue, di colpe e di sopraffazioni reciproche, di
rancori e di lutti. Anche di contese culturali a suon
di «false etimologie ingiuste come invasioni», scriveva Tommaseo,
uno dei padri del nostro Risorgimento, che a Trieste si firmava «un italo-slavo». Queste
lacerazioni non si possono ignorare, come fa la «Nota storica» contenuta nel
kit distribuito dal Comitato Tricolore, che ad esempio non menziona le leggi
razziali del ' 38, particolarmente rilevanti a Trieste
dato il grande ruolo italiano della sua comunità ebraica, né la Risiera né l' oppressione snazionalizzatrice antislava. Tacere, rimuovere è un
atto involontariamente autolesionista, perché «la verità vi farà liberi» dice
il Vangelo, e chi la reprime diviene uno schiavo. Naturalmente - giacché una
chiave fondamentale per Trieste è il rapporto fra italiani e sloveni - lo
stesso vale, da parte slovena e croata, nei confronti delle violenze compiute
da parte loro contro gli italiani e nei confronti di una regressiva fissazione
nazionalista e identitaria che certo non manca fra
gli slavi come tra gli italiani e gli altri popoli. Qualche tempo fa, nel
comune di Duino-Aurisina, in provincia di Trieste, si
è litigato sulla precedenza da dare, nelle scritte bilingui sui cassonetti di immondizie, all' italiano o allo sloveno. Non sempre i
contrasti sono stati così comicamente lievi. È necessario guardare in faccia
questo retaggio negativo, per sfatarlo. Franche indagini storiche, non timorose
di offendere nessuno, possono e devono rivedere giudizi e versioni dei fatti,
rettificare cifre di vittime o di carnefici, ma con la serenità di chi cerca la
verità storica, non con l' astio di chi fruga nelle
piaghe per farle suppurare ancora, felice se scopre di aver subìto
un' infamia di più dal nemico per poterlo accusare ancora di più. Certo la
serenità non è facile per chi ha subìto direttamente
o nella sua famiglia una prevaricazione. Tuttavia il
revisionismo storico, ora vincente, ha spesso inquinato a sua volta di
preconcetta ideologia la sua rettifica di ricerche e schemi precedenti,
trasformandola talora in giustificazione. Fra l' altro
è singolare che il dibattito sulla Resistenza, l' esodo istriano e le altre
drammatiche vicende di quegli anni siano spesso egemonizzati dai post-fascisti
e dai post-comunisti, quasi in una reciproca legittimazione, mentre avrebbero
più diritto di parlare i resistenti democratici, cattolici e laici, che hanno
ricostruito l' Italia. Una patria è tale solo se è patria di tutti i cittadini,
di qualsiasi nazionalità, religione e fede politica, egualmente e lealmente
partecipi senza riserve, e non solo tollerati. I grandi scrittori italiani di
Trieste hanno sempre sottolineato con fierezza la
pluralità della città: Slataper, che è morto
combattendo per la sua italianità, diceva «io sono slavo, tedesco e italiano» e
Saba, che definiva Trieste «un crogiuolo di razze»,
scriveva: «Gli incitamenti agli odi di razza (degli italiani contro gli slavi,
degli slavi contro gli italiani) oltre ad essere
infinitamente nocivi, sono anche infinitamente stupidi». Trieste
italiana fa onore all' Italia solo se ognuna delle sue comunità e ognuno
dei suoi cittadini vi si sente a suo agio e a casa propria. In questo senso,
negli ultimi anni si sono fatti grandi passi verso una reale convivenza, in cui
ognuno comincia a sentire come propri anche i valori raggiunti dai suoi
concittadini di altre nazionalità. Altri passi vanno
ancora fatti, da tutte le parti. Kosovel, il grande poeta sloveno del Carso,
non è certo per questo meno mio. Se non si riesce a capirlo, si rimane quel
«nazionalista povero e diseredato» di cui scrive Enzo Bettiza,
aggiungendo che a costui «non rimane che l' esasperazione
a vuoto dei propri sentimenti: non gli rimane che la nevrastenia». 1954-2004 La
questione giuliana Cinquant' anni fa, il 5 ottobre 1954, veniva firmato a Londra il
memorandum d' intesa tra Italia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Jugoslavia che
sanciva il ritorno di Trieste al nostro Paese: il successivo 26 ottobre le
truppe italiane entrarono in città, per sostituire il precedente governo
militare alleato. La questione si era aperta nel maggio 1945, quando le forze
jugoslave avevano occupato Trieste con l' intento di
annetterla. Poi gli angloamericani avevano indotto
Tito a ritirarsi e il successivo trattato di pace aveva sancito la creazione
del Territorio libero di Trieste, diviso in una Zona A (comprendente la città)
amministrata dagli alleati occidentali e una Zona B controllata dagli
jugoslavi. Con l' intesa del 1954 la Zona A tornò all' Italia,
mentre la Zona B
passò di fatto alla Jugoslavia, cui venne formalmente assegnata con il trattato
di Osimo del 1975.
Claudio Magris