Corriere della
sera, 1 ottobre
Nel nome di Sogno, tra omaggio e sfida
«Non, je
ne regrette rien», diceva
citando vezzosamente la celeberrima canzone di Edith Piaf. Non rimpiangeva niente: né la scelta di partecipare
alla guerra di Spagna dalla parte dei fascisti, né d' aver
fatto la Resistenza
sparando alle camicie nere, né d' aver progettato un colpo di Stato contro un'
eventuale deriva «comunista» della politica italiana. Di aver detto «nì» all' idea di dedicargli una
piazza, invece, si è pentita la sinistra varesina. Che a tre settimane dall' inaugurazione è tormentata da dubbi e rimpianti: come
ha potuto farsi passare sotto il naso la decisione di intitolare la prima
piazza d' Italia a Edgardo Sogno, dando una specie di silenzio-assenso? A
destra, a dire il vero, sostengono di avere in tasca qualcosa di più che un
silenzio-assenso. «Legga: sulla delibera c' è scritto che la nostra proposta è
passata all' unanimità», mostra soddisfatto Pierangelo
Berlinguer, cugino del più amato dei segretari
comunisti («con titolo di nobiluomo, cavaliere e don») e insieme promotore
della iniziativa. E «unanimità - insiste - «significa che la
sinistra non solo non si è opposta, ma ha votato a favore. Il che, se non si rimangiano tutto, è molto bello». «E'
vero, votai a favore», sospira Sonia Brunelli, la diessina additata dai compagni quale responsabile, diciamo
così, dell' infortunio: «Lì nel consiglio di
circoscrizione 1, centro storico di Varese, dove si decide la toponomastica
della zona, sono la sola rappresentante della sinistra contro
undici (dico: undici) della destra. Quando arrivò quella delibera, nel
maggio scorso, loro erano tutti d' accordo. Sarebbe
stato inutile votare contro. Inutile. Ho preferito dare il mio ok, sperando di portare a casa anche una via intitolata a Caponnetto. Un errore: loro hanno incassato il sì a "Largo
Sogno" e non hanno neppure messo ai voti la proposta mia». A indurla al consenso, spiega, furono «il ricordo delle
parole dette su Sogno da Carlo Azeglio Ciampi e la
scelta dei funerali di Stato presa dal governo Amato. Mi chiesi: chi sono io,
per contestare i loro giudizi? Certo, avrò sbagliato a non tener conto delle
rivelazioni successive». Cioè del libro-intervista
Testamento di un anticomunista. Nel quale il leggendario comandante partigiano
della «Franchi», da molti additato come una vittima delle «toghe rosse»
infangata dall' allora magistrato Luciano Violante con
l' accusa di avere progettato un golpe, aveva confidato prima di morire ad Aldo
Cazzullo che sì, effettivamente ci aveva pensato. «Si
trattava di un' operazione politica e militare,
largamente rappresentativa sul piano politico, e della massima efficienza sul
piano militare. Nell' esecutivo, che avrebbe dovuto
essere guidato da Pacciardi, erano autorevolmente
rappresentate tutte le forze politiche, a eccezione dei comunisti, con
personalità liberali, repubblicane, cattoliche, socialiste, ex fasciste ed ex
comuniste». Aveva parlato dei reparti militari disponibili, dei ministri pronti
ad entrare nel governo, degli appoggi al di sopra di
ogni sospetto come Giovanni Colli, allora procuratore generale presso la Corte di Cassazione («era
totalmente d' accordo con me sulla necessità di rovesciare il regime cattocomunista con qualsiasi mezzo»), dei problemi da
risolvere: «Sapevamo ad esempio che il comandante e il capo di Stato maggiore dell' Arma dei carabinieri dovevano essere neutralizzati».
Rivelazioni ustionanti. Che spinsero ad esempio
Francesco Cossiga, il quale aveva per anni bollato il
futuro presidente della Camera come «un piccolo Vishinskij»,
ad ammettere: «Qualche scusa a Violante va fatta». Scelta di onestà
intellettuale ribadita da Indro Montanelli: «Chiedo
scusa a Violante». «Mio marito ha avuto il coraggio di dire
la sua verità», spiegò la vedova, Anna. «Se anche la
parte avversa facesse altrettanto, le cose andrebbero a posto. Ma loro non lo fanno. Giocano a fare gli angioletti e dietro
le ali nascondono milioni di morti». Le polemiche, va da sé, furono roventi. Né
si placarono quando due anni dopo la morte, sulla
facciata della casa del discusso eroe partigiano, venne affissa una targa che
esaltava l' «alfiere della monarchia». Targa contestata («con bel modo»,
sorride Anna Sogno) dal sindaco Sergio Chiamparino:
«Io ho votato sì al rientro dei Savoia e sono pronto a
concordare un testo condiviso, ma quella frase è sbagliata». Un braccio di
ferro risolto col buon senso: «Resto dell' idea che la
frase sia infelice, ma certo non mando i vigili a toglier la targa». Una posizione in qualche modo simile a quella della sinistra
varesina. Certo, qualche mal di pancia c' è. «Largo Sogno? A Varese? Non
ne sapevo niente, è una ennesima revisione della
storia», dice ad esempio il bertinottiano Angelo Zoppoli. «Dare il nostro assenso è stato un errore»,
concorda il diessino Fabrizio Mirabelli.
«Non si fa così! Abbiamo chiesto una targa per Ferruccio Parri
e non ci hanno neanche risposto», si associa il presidente dell'
Anpi Angelo Chiesa. Ormai, però, è andata. E nessuno ha voglia di alzare barricate. «Meglio così»,
respira di sollievo Berlinguer: «Questa è la prima,
in Italia. Ma noi vorremmo dieci, cento, mille "piazze Sogno", perché
forse ha commesso degli errori ma a tirar le somme
della sua vita il risultato è positivo. E vorremmo che il 23 ottobre, all' inaugurazione, venissero tutti. Compresi i partigiani».
Difficile. Nel tentativo di condividere la cerimonia il più ecumenicamente
possibile, la targa questa volta dovrebbe evitare ogni parola di
contrapposizione. Basterà?
Gian Antonio Stella