Repubblica, 6 ottobre
Intervista
alla storica Chiara Frugoni
Ma san Francesco era pacifista
NELLO AJELLO
«Quella di Francesco di Assisi
fu sempre una pace senza se e senza ma», dice Chiara Frugoni,
la massima studiosa italiana del Santo, autrice di volumi molto apprezzati, da
Vita di un uomo: Francesco d' Assisi a Francesco e l' invenzione delle
stigmate, ambedue editi da Einaudi. Invitata a
commentare il «messaggio agli Italiani», pronunziato l' altro
ieri da Gianfranco Fini alle celebrazioni francescane di Assisi («San Francesco
non condannò mai l' uso delle armi per la legittima difesa»), la scrittrice lo
definisce così: «Un' operazione ambigua, perché
suggerisce l' ipotesi che con le armi e con la guerra Francesco avesse fatto
qualche compromesso». Una lettura politica, insomma, della lezione francescana?
«Una lettura erronea, direi. Nel testo di Fini, c' è una confusione evidente. Per evitare la quale - a patto di volerlo - bastava poco: uno
sguardo alle Lettere di Francesco, alle Regole da lui elaborate, al Testamento.
Ne emerge che la pace è l' atto costitutivo della sua
dottrina e della sua azione. Ciò non esclude che un certo numero di frati
francescani abbia poi potuto sedersi nei tribunali
dell' Inquisizione. E' tanto più essenziale, perciò, operare una distinzione fra Francesco e il francescanesimo. Ecco che cosa manca, fra
l' altro, al "messaggio" di cui parliamo».
Per sostenere che quello di san Francesco fu un pacifismo relativo, e che egli
non dissuase alcuno dal portare armi almeno come legittima difesa, il
vicepresidente del Consiglio si rifà a un documento
del terzo ordine francescano, emanato nel 1228, confermato poi da papa Niccolò
IV. Vi si leggeva che l' uso di armi era consentito in
caso di «difesa della Chiesa romana, della fede cristiana, della terra», e con
il consenso dei superiori. «E' un documento che con Francesco non c' entra
nulla. C' è una svista temporale. Nel 1228 il Santo era morto già da due anni,
e la conferma da parte di Niccolo IV si sarebbe avuta
addirittura sullo scadere del secolo XIII. Di fatto, in nessuna delle Regole di
san Francesco, né in quella "non bollata", né in quella
"bollata" (che ottenne cioè l' imprimatur
pontificio nel 1223), si parla mai di armi. E ciò, in un' epoca
irta di guerre, - fra Assisi e Perugia, fra Papa e
Imperatore, per non parlare delle Crociate -, suonava quasi incomprensibile. Lo
stesso saluto francescano - "Pax et bonum", "Pax huic domui", pace e bene, pace a questa casa - spingeva
molti contemporanei a considerare i primi francescani
dei puri folli». Nel messaggio di Fini si legge, fra l' altro,
che Francesco riportò la pace fra Chiesa e Stato. «Non direi proprio. Egli era
del tutto fuori da ogni gioco di potere. I suoi frati
chiedevano ai rappresentanti politici del tempo lettere di presentazione o di
privilegio che li aiutassero a svolgere la loro
missione. Ma nel suo testamento san Francesco
proibisce esplicitamente una simile pratica». Si può considerarla una prova di
ciò che oggi si direbbe il suo «anticonformismo»? «Se ne trovano molte altre». Anche nei riguardi delle autorità ecclesiastiche?
«Certamente. Fra lui e la
Chiesa ufficiale spiccano differenze
sostanziali. La Chiesa
predicava la
Crociata. Prescriveva, di fatto, che in ogni funzione
religiosa si parlasse male degli infedeli: era consuetudine chiamarli
"figli di cani". Lo stesso papa Innocenzo III definiva Maometto
"bestia sporcissima". Nel corso di ogni messa si raccoglievano offerte per la Crociata». E Francesco che fa? «Non attacca la Chiesa, ma la contesta nei
fatti. Per cominciare, considera quel genere di elemosine
danaro sottratto ai poveri. E non inveisce contro gli
infedeli. Anzi. In Egitto nel 1219, al tempo della V Crociata, chiede ai
combattenti cristiani di smettere ogni atto di guerra. Ma
non gli danno retta. Allora, essendosi fatto ricevere dal sultano Malik Al Kamil, non si limita a
fargli una predica. Rimane lì molti mesi. E quando,
colpito dall' accoglienza ricevuta, torna fra i
confratelli, metterà nella sua regola che i frati vadano dai Saraceni, abitino
con loro, non aizzino liti né dispute. "Se
possibile - raccomanda - parlate loro di Cristo. In caso contrario siate
disposti anche a morire". Ciò, rifacendosi al "porgete l' altra guancia" del Vangelo, rientra in pieno nel
magistero di Francesco, che consiste nel divulgare la parola di Cristo in
maniera mite, semplice, umana. Il contrario del missionario,
che è sicuro della propria fede e la vuole imporre». Fini definisce il francescanesimo un «movimento religioso
ascetico». «Francesco non era un asceta. Ammirava il creato. Amava il cibo,
purché consumato con parsimonia. Quando sta per morire chiede a una matrona romana, sua amica spirituale: "Portami
quei mostacciòli, che mi piacciono tanto!". E lei glieli offre. In un tempo in cui tutti sono molto
osservanti quanto a regole ed astinenze, dice ai suoi: "Se vi offrono un
pollo di venerdì, mangiatelo, perché è essenziale che percepiate la carità di
chi lo offre". Un novizio, dedito a digiunare per sacrificio, una certa
notte si sente morire. Lui, Francesco, lo rimprovera: "Non fare più
così". Poi fa accendere le lucerne e indice una cena con tutti i frati.
Quando si trova in Egitto, Francesco viene raggiunto
da un frate, inviatogli per informalo di certi sintomi di dissoluzione del suo
Ordine. Il messaggero trova il Santo mentre, in
compagnia dei suoi confratelli, sta consumando un pasto di carne. Ed è di venerdì». Un' ulteriore
prova di santa duttilità, si direbbe. «Più precisamente un richiamo alla
lezione di san Paolo contro la precettistica intesa come obbligo invalicabile:
"La lettera uccide e lo spirito vivifica"». Ma
torniamo alla sostanza politica del "messaggio". Dimostra che non è
facile modernizzare la lezione di san Francesco a livello dell'
attuale guerra al Saraceno. A meno di non voler commettere qualche
arbitrio. «Le rispondo con un episodio. Al presepe allestito
in una notte di Natale nel paese di Greccio, san
Francesco fa collocare soltanto un bue e un asino. E
pronunzia un discorso trascinante, quello che sarà detto della "nuova
Betlemme". Nell' allegoria presepiale, il bue
rappresenta gli ebrei e i saraceni, l' asino i pagani
e gli eretici. Mangiando insieme il fieno, metafora dell' ostia
sacra, essi troveranno la pace. Cristo, in sostanza, è venuto a redimere tutti,
a pari condizioni. Basta ascoltarne il messaggio d' amore.
Non occorre partecipare a Crociate. La Terrasanta è dovunque».