FONTE:
www.labitalia.com -
Eurispes,
il rapporto Italia 2003
di
Sabrina Rosci
Il mobbing
Il lavoro, nel mondo industrializzato, sta
vivendo un processo di cambiamento epocale: dalla fine dell’Ottocento ai giorni
nostri le tipologie di lavoro sono profondamente cambiate. Negli ultimi anni,
poi, abbiamo assistito e stiamo assistendo ad una continua, incessante
evoluzione che, con l’affacciarsi di moderne tecnologie e di mutate condizioni
di organizzazione del lavoro, sta modificando sia i rischi che le patologie
professionali. Tra le patologie emergenti in Medicina del Lavoro, nell’ambito
dei fattori di tipo organizzativo e psico-sociale, a partire dagli anni Novanta
le patologie connesse con la sfera psichica (stress, mobbing e burn out) stanno
acquisendo un ruolo particolarmente rilevante. In particolare, il mobbing è a
tutt’oggi un fenomeno non ancora chiaramente definito, come sottolineato dalla
Commissione per l’occupazione e gli affari sociali del Parlamento europeo, per
cui è necessario un confronto tra gli specialisti, sia medici del lavoro sia
psichiatri che psicologi, che si occupano quotidianamente della materia, per
adottare criteri oggettivi per la diagnosi e la certificazione. Secondo un
sondaggio, eseguito nel 1998 per conto dell’Unione europea, l’8% dei lavoratori
della Comunità, corrispondente a 12 milioni di casi, è stato vittima del
mobbing sul posto di lavoro. Le percentuali più elevate si registrano nel Regno
Unito (16,3%), Svezia (10,2%), Francia (9,9%), Irlanda (9,4%), Germania (7,3%);
l’Italia guida la parte bassa della classifica con il 6% e precede Spagna
(5,5%), Belgio (4,8%) e Grecia (4,7%).
Si calcola che in Italia il fenomeno del mobbing
coinvolga direttamente oltre un milione di lavoratori, su oltre 21 milioni di
occupati, maggiormente nelle regioni del Nord (65%), con prevalenza tra i
quadri e i dirigenti, con età media di 43 anni, in particolare nel settore
pubblico e in quello dei servizi. Le statistiche nazionali riportano tra le
tipologie di lavoro più colpite: beni e servizi (38%), Pubblica amministrazione
(22%), scuola ed università (12%), ospedali (8%), commercio (3%), agricoltura
(2%). Un gruppo di ricerca, operante presso l’Ospedale Sant’Andrea di Roma,
costituito da medici del lavoro e psichiatri, ha intrapreso un’attività
ambulatoriale dedicata specificamente al mobbing, con l’intenzione di
analizzare tale fenomeno e sollecitare la proposta di criteri di valutazione. È
opportuno premettere che parte dei soggetti esaminati è già oggetto di una
preventiva selezione effettuata dagli psicologi del lavoro di uno Sportello
Antimobbing, che hanno sottoposto ad una prima valutazione oltre 1.250 persone.
Dal giugno 2001 al settembre 2002 sono stati osservati, presso l’ambulatorio
dell’Ospedale, circa 250 pazienti. Tra essi si evidenzia una modesta prevalenza
delle donne (54%) rispetto agli uomini (46%). La percentuale di impiegati
(quadri, dirigenti e professionisti), in accordo con i dati nazionali ed
internazionali, è maggiore (73%) rispetto alla categoria degli operai (27%).
Il 62,5% dei pazienti visitati provengono da
aziende private, il 27,5% da aziende pubbliche. L’età media è intorno ai 44
anni (44,2%); così divisi per fasce di età: fino ai 30 anni, 4%; tra 31 e 40
anni, 31%; tra 41 e 50 anni, 33%; tra 51 e 60 anni, 30%; oltre 60 anni, 2%. Il
52% è diplomato, il 24% laureato, il 24% ha conseguito licenza media. Il 48%
degli utenti è coniugato, il 14% divorziato o separato e il 38% celibe o
nubile. Alcune delle situazioni più frequentemente riferite per esercitare
violenza psicologica sono: accuse di scarsa produttività; assegnazione di
compiti superiori a pari grado o a subordinati della vittima; assegnazione di
obiettivi impossibili per il livello professionale della vittima e per il tempo
concesso non adeguato al compito; attribuzione di compiti non necessari,
richiesti urgentemente e, una volta assolti,
neppure controllati; contestazioni o richiami disciplinari non adeguati
all’entità della mancanza; declassamento delle mansioni rispetto alla qualifica
attribuita; eccessivo ricorso a visite fiscali; esclusione da riunioni
plenarie; generiche critiche circa lo svolgimento del lavoro, con rifiuto a
motivarle; imposizione ai colleghi della vittima di non parlare con la vittima
stessa; minacce di trasferimento; ossessivo controllo dell’orario di lavoro;
richieste di lavoro urgente anche in giorni festivi o fuori orario; ripetute e
repentine variazioni di orientamento sul lavoro da eseguire; tendenza a
riferire giudizi negativi di terzi; uso di minacce esplicite o implicite; uso
di tono arrogante in presenza di colleghi; valutazioni di profitto non adeguate
al lavoro svolto, sia perché in contrasto con i risultati, sia perché difformi
rispetto a precedenti rapporti. Per il 3% le azioni di mobbing registrate dai
medici avevano una durata inferiore ai 6 mesi, per il 27% tra 6 mesi e 1 anno,
per il 40% tra 1 e 2 anni e per il 30% oltre i 2 anni.
Alcuni pazienti (39%) presentavano sintomi
patologici riconducibili ad una situazione di stress: astenia, ansia,
depressione, panico, disturbi del sonno, irregolarità nell’alimentazione,
alcolismo, tabagismo, uso improprio di farmaci. Non raro (31%) anche il
riscontro di sintomi fisici quali cefalea, vertigini, eruzioni cutanee, tachicardia,
ipertensione arteriosa e disturbi dell’apparato gastrointestinale come
gastrite, ulcera e colite spastica. I dati emersi indicano un ‘disturbo
dell’adattamento’ nel 63% dei casi esaminati; il 28% risulta affetto da
patologie psichiatriche; il 9% dei pazienti non hanno presentato patologie
psichiche degne di nota.
Tra i pazienti, il 15% aveva sofferto già in
precedenza di patologie psichiatriche, mentre per l’85% non risultano
all’anamnesi sindromi psichiatriche pregresse. L’atto finale è la certificazione
di compatibilità con il mobbing o stress occupazionale, che è stato rilasciato
nel 67% dei casi, ossia quando è stato diagnosticato un ‘disturbo
dell’adattamento’, ovvero anche in alcuni, rari, casi scevri da patologie
psichiche in atto, quando si è ritenuto di poter correlare la patologia con gli
episodi riferiti. Per il 33% dei pazienti non è stata rilasciata
certificazione, sia perché il riscontro di patologie psichiatriche ha indotto a
rinviare ad una successiva visita di controllo, raccomandando una opportuna
terapia presso centri specializzati e consigliando, ove possibile,
l’allontanamento dal posto di lavoro, sia perché non è stato possibile
esprimere un giudizio per insufficienti elementi diagnostici.
Il crescente interesse sul fenomeno della fuga
dei cervelli, testimoniato da studi, convegni e articoli sulla stampa
quotidiana, ha posto in primo piano le problematiche inerenti il sistema della
ricerca in Italia e, in particolare, le difficoltà del Paese a trattenere ed ad
attrarre capitale intellettuale. Il fenomeno della fuga dei cervelli s’iscrive
ed è espressione della debolezza strutturale del nostro sistema di ricerca. Si
tratta di un’affermazione ampiamente dimostrata dal confronto con i maggiori
paesi industrializzati. La distanza che separa l’Italia da paesi come Francia,
Germania e Regno Unito si acuisce nel raffronto con i colossi statunitense e
nipponico. Il gap italiano nei confronti dei paesi industrializzati per quanto
concerne la spesa per R&S (Ricerca e Sviluppo) ha pesanti conseguenze in
termini di output del nostro sistema di ricerca. Ciò appare evidente negli
indicatori di performance (pubblicazioni, tasso d’inventiva). La crescita
registrata dal nostro Paese negli ultimi anni relativamente alle domande sottoposte
all’Ufficio Europeo dei Brevetti (UEB), passate dalle 2.845 del 1998 alle 3.329
del 2001, risulta del tutto insufficiente nella rincorsa alle performance dei
maggiori paesi industrializzati. L’incidenza percentuale delle domande italiane
sul dato mondiale è infatti ulteriormente diminuita negli anni presi in
considerazione (scendendo dal 3,47% del 1998 al 3,03% del 2001) e conferma
ulteriormente la distanza del Paese dalle prestazioni della Germania, degli
Stati Uniti o del Giappone, che, per lo stesso dato, registrano rispettivamente
il 19,37 %, il 27,68% e il 18,04% (dati del 2001). I dati, anche se parziali e
in fase di aggiornamento, relativi a un totale di 1.234 ricercatori italiani
all’estero (dati 2002), consentono di delineare i percorsi di fuga dei nostri
ricercatori: Germania, Regno Unito, Svizzera e Francia sono i paesi di
destinazione privilegiati, mentre fuori dall’Europa è verso gli Stati Unti, e
in misura molto minore, in Australia, che i cervelli in fuga scelgono di
risiedere. Le informazioni relative agli ambiti di ricerca in cui sono
impegnati i cervelli in fuga riguardano ricercatori che afferiscono per lo più
all’area scientifica ma gli studiosi di lettere, filosofia e storia
rappresentano comunque una quota importante (165) del dato complessivo.
Per quanto
riguarda, invece, i ricercatori stranieri in Italia, i dati tracciano un quadro, che seppur incompleto,
consente di disegnare la geografia della migrazione intellettuale verso il
nostro Paese. La maggior parte dei ricercatori proviene dall’Albania,
dall’Ungheria e dalla Polonia. Del tutto assenti, fatta eccezione per il Canada
e in base ai dati forniti dal Ministero, i ricercatori provenienti dai paesi
industrializzati.
L’Italia non è
il solo paese interessato dalla fuga dei cervelli. L’attenzione crescente della
politica comunitaria nei confronti della migrazione intellettuale verso i
colossi statunitense e giapponese ha spinto la Commissione Europea ad
intervenire al fine di favorire lo sviluppo del capitale intellettuale e di creare
uno spazio europeo della ricerca, maggiormente competitivo in termini di
risorse umane, strumentali, finanziarie.
Gli obiettivi
delineati dalla Commissione hanno trovato una prima risposta finanziaria nel VI
Programma Quadro di ricerca e sviluppo tecnologico (anni 2003-2006) del
febbraio 2001, che, con un importante incremento finanziario, pari al 17%,
rispetto al precedente Programma Quadro, riserva 16.270 miliardi di euro al
fine di integrare e rafforzare lo spazio europeo della ricerca. I ricercatori
rimproverano al sistema italiano una mancata valorizzazione della qualità;
l’assenza, nell’allocazione dei fondi e nell’avanzamento di carriera, di
criteri meritocratici. Nell’aprile del 2002 il Governo ha tracciato le “Linee
guida per la politica scientifica e tecnologica” con cui vengono individuati i
nodi strategici verso cui si concentreranno i maggiori sforzi per la ricerca e
viene tracciato il futuro assetto del sistema di ricerca italiano. E’ la
risposta del Governo alle necessità, segnalata da più parti, di un più stretto
rapporto tra sistema della ricerca e sistema delle imprese incoraggiando, in
primo luogo, la capacità degli organismi pubblici di ricerca di farsi impresa e
inserendo, nella valutazione dell’eccellenza per l’allocazione dei fondi,
criteri premianti le commesse private.
Con la
cosiddetta “Operazione rientro dei cervelli”, messa in atto con il decreto
ministeriale n. 13/2001, sono stati messi a disposizione, per una durata
triennale, complessivamente 78 milioni di euro. Sul fronte degli investimenti
pubblici, il Governo si è posto l’obiettivo di elevare i finanziamenti
destinati alla Ricerca dall’attuale 0,6% all’1% del Pil nell’arco temporale
degli anni 2003-2006. L’operazione “rientro dei cervelli” costituisce un primo
timido tentativo di arginare la fuga di tanti ricercatori italiani all’estero e
testimonia della rilevanza che il fenomeno ha progressivamente acquisito
nell’agenda politica del nostro Paese. Sembra tuttavia possibile affermare che
si tratti di una iniziativa per moltissimi versi ancora inadeguata. Lo dimostra
il numero fin troppo modesto dei ricercatori che vi hanno aderito, l’altissima
percentuale di domande cui non è stato accordato alcun finanziamento (48,4%) e
lo conferma la mappa relativa ai paesi di provenienza, costituita per gran
parte dai paesi dell’Est. Questi dati dimostrano chiaramente che gli incentivi
avviati con il Dm 13/2001 non rappresentano che una risposta parziale al
problema e che cambiare la rotta, rendendo il sistema di ricerca più attraente
nei confronti dei nostri connazionali all’estero, necessita di misure capaci di
incidere concretamente e profondamente sul piano della valorizzazione del
capitale intellettuale.
La dispersione scolastica è un fenomeno a
tutt’oggi esistente in misura significativa, anche se negli ultimi anni si
riscontra un rallentamento, soprattutto nella scuola dell’obbligo. Valori
ancora ragguardevoli si registrano nella secondaria superiore, ed in
particolare negli istituti professionali; il fenomeno, pur caratterizzando
tutto il territorio nazionale, assume connotazioni diverse a seconda delle zone
geografiche prese in considerazione, tanto che si può parlare di due diverse
tipologie di dispersione scolastica: una dispersione da “evasione”, propria
delle zone meno sviluppate economicamente e/o socialmente, in cui il fenomeno è
ben visibile già nella scuola dell’obbligo, e una dispersione da “abbandono” o
da crescita economica, propria delle zone maggiormente sviluppate e più
benestanti, in cui il fenomeno è più
marcato nelle scuole superiori. Nelle scuole elementari statali la percentuale
di alunni non valutati agli scrutini finali si è attestata su valori dello 0,1%
a partire dall’anno scolastico 1992-93; nelle scuole medie statali si assiste
ad una diminuzione costante del fenomeno a partire dall’anno scolastico
1990-91, fino a raggiungere un valore dello 0,3% nell’anno scolastico 2000-01.
Nelle scuole secondarie superiori, confrontando i dati relativi agli anni
scolastici 1999-2000 e 2000-01, emerge come la percentuale di alunni non
valutati agli scrutini finali abbia subìto una leggera flessione nel caso di
studenti non valutati perché ritirati ufficialmente, mentre è rimasta invariata
quella relativa agli studenti non valutati per altro motivo. Tassi elevati per
le scuole secondarie superiori si registrano anche prendendo in esame i dati
relativi a ripetizioni di una classe, bocciature ed interruzioni di frequenza.
Nell’anno scolastico 2000-01, la percentuale di respinti nelle scuole superiori
è pari al 14%, quella di ripetenti è del 6%, e quella relativa alle
interruzioni di frequenza è pari allo 0,9%. Nel medesimo anno scolastico nelle
scuole medie la percentuale di alunni respinti è pari al 4%, quella dei
ripetenti è del 3,6%, e quella relativa alle interruzioni di frequenza è dello
0,3%. Osservando uno degli anni di corso più critici per i fenomeni d’abbandono
e bocciatura, e cioè il primo anno del triennio superiore, la distanza fra i
valori del ritardo per i due sistemi di insegnamento (pubblico e privato) è di
quasi 9 punti percentuali: 27,61% per gli istituti statali, 36,63% per gli
istituti non statali. Lo stesso andamento è riscontrabile anche negli ultimi
due anni della scuola superiore: se per la scuola statale la percentuale di
ritardo nel quarto anno superiore è pari al 28,21% e nel quinto anno al 25,28%,
per la scuola non statale la percentuale del ritardo negli ultimi due anni
della scuola superiore è pari rispettivamente al 39,67% e al 50,40%. Variabile
estremamente interessante nello studio del fenomeno della dispersione
scolastica risulta essere il sesso. La lettura dei dati relativi alle
percentuale di alunni respinti e ripetenti distinti per sesso evidenzia come la
“dispersione scolastica” sia un fenomeno soprattutto maschile: in ogni ordine
di scuola i maschi presentano sempre maggiori difficoltà rispetto alle femmine.
Nelle scuole elementari la percentuale di alunni respinti è molto vicina fra i
due sessi; nelle scuole medie la percentuale dei respinti di sesso maschile è
molto più elevata rispetto a quella dei respinti di sesso femminile: quasi il
7% di maschi respinti contro il 2,7% di femmine. Nelle scuole superiori il
divario tra i due sessi si accentua ulteriormente: i maschi respinti
rappresentano il 18% del totale degli alunni scrutinati contro il 10,5% delle
femmine. Ultimo fattore rilevante nell’analisi dei fenomeni di dispersione
scolastica è sicuramente quello territoriale. Dall’analisi dei dati relativi
alla percentuale di alunni respinti e ripetenti per tipo di corso di studi ed
area geografica appare subito evidente come in entrambi i casi siano le Isole a
far registrare i tassi più elevati. Sia la percentuale di alunni respinti che
quella di alunni ripetenti nelle Isole è, infatti, superiore alla media
nazionale in tutti e tre i gradi di scuola: elementare, media e superiore. Le
percentuali più basse, sempre inferiori alla media nazionale, si registrano
invece nel Nord-Est. Il particolare contesto socio-economico e culturale
caratterizza la specificità di tale area: le possibilità offerte da un mercato
del lavoro in continua espansione ed il retaggio culturale diffuso, poco
incline alla scolarizzazione in generale in quanto basato sulla cultura del
lavoro, fanno sì che chi sceglie di intraprendere la carriera scolastica
(principalmente nella scuola non dell’obbligo) lo faccia con una forte
motivazione. La ricchezza del tessuto economico e le conseguenti infrastrutture
esistenti permettono una fruizione molto più fluida del sistema scolastico,
anche se, come già detto nell’analizzare le cause della dispersione, anche nel
Nord-Est esistono sacche di “dispersione scolastica”. Nelle Isole, invece, la
minore disponibilità di infrastrutture (si pensi ai problemi degli studenti
“pendolari”, ad esempio) e le minori possibilità di reddito delle famiglie, la
percepita “lontananza” delle istituzioni, favoriscono l’intensificarsi di quei
fenomeni di disaffezione alla scuola da parte di giovani e giovanissimi,
fenomeni che in questi contesti, a differenza di quanto accade nelle aree del
Nord-Est sopra citate, si configurano come “evasione”.