Corriere della sera, 27 settembre 2004
I pop-nazi tra le due Germanie
di
CLAUDIO MAGRIS
«A proposito di Hitler
non mi viene in mente nulla da dire» dichiarava Karl Kraus, il grande scrittore satirico austriaco che per
decenni aveva implacabilmente denunciato ogni oppressione, falsificazione e
ingiustizia. Dinanzi alla montante marea nazista egli
si sentiva impotente; la sua critica funzionava nelle società in cui la
violenza aveva ancora necessità di travestirsi, di agire indirettamente e di
nascondersi e poteva quindi essere coraggiosamente smascherata. Di fronte al
nazismo, che si scatenava esplicitamente e senza dissimulare la propria
barbarie, le armi della parola erano del tutto inadeguate.
Egli ricorreva allora al donchisciottesco disprezzo; ignorava l’avversario, per
non dargli importanza e dunque per sminuirlo, per non fargli da cassa di
risonanza, per non accrescere il suo protagonismo. Questa tecnica del silenzio
- ci sono cose che non vanno neanche ignorate, perché già ignorarle significa
dar loro troppo rilievo, ammonisce un colorito detto viennese - funziona nel
dibattito culturale: quando il meccanismo mediatico
conferisce un rilievo spropositato a un libro o a un
film mediocre, imponendo a tutti di parlarne, (anche male, perché tutto fa
brodo), l’unico modo di resistergli è tacere, non occuparsene, non aumentare
l’ingiustificato clamore. Un simile atteggiamento può essere talora efficace
anche sul piano politico; si tratta, ogni volta, di saper valutare l’entità del
pericolo che si vuole combattere e dunque l’opportunità di fargli il vuoto
intorno col silenzio o di denunciarlo e attaccarlo ad alta voce prima che sia
troppo tardi.
In Germania, davanti al successo dei partiti di estrema
destra nelle recenti elezioni in Sassonia e nel Brandeburgo,
l’atteggiamento dei grandi partiti più o meno sconfitti - la Spd e la Cdu - e in genere della
stampa, dell’opinione pubblica e degli intellettuali sembra ispirarsi, salvo
alcune eccezioni, a questa tattica dell’understatement,
al gesto minimizzante. Non si tratta, in questo caso, del consueto fenomeno che
vede pressoché dovunque, dopo quasi ogni elezione, ogni partito dichiararsi
soddisfatto e suffragare tale ottimismo con sofisticate
operazioni numeriche sui dati elettorali, a dimostrazione che, contrariamente
al detto popolare, pure la matematica può essere un’opinione.
Questi toni antiallarmistici, che caratterizzano pure molti scrittori e
intellettuali, hanno un fondamento oggettivo. L’estrema destra ha conseguito il
suo successo in Länder che facevano
parte della Ddr; esso appare dunque attribuibile al
malessere sociale (disoccupazione, insoddisfacente qualità economica e
culturale di vita) ereditato dal defunto regime. Quel preoccupante voto viene visto quale classica forma di protesta regressiva che
ogni disagio sociale produce. Un potenziale quantitativamente analogo di voti di estrema destra rimpolpati dalla protesta, si dice, esiste
in molti Paesi europei, a cominciare dalla Francia. Pure le tensioni con la Polonia - relative alle rivendicazioni dei profughi
tedeschi e alle richieste di risarcimento dei polacchi e attizzate dalla stampa
più irresponsabile di entrambi i Paesi - non sono certo d’aiuto. Altri tedeschi
invece - meno numerosi - sono preoccupati; anche il nazismo, osservano, è
salito al potere grazie a una crisi.
Un’estrema destra che si richiami al nazismo crea tuttavia - anche a
prescindere dal suo peso e dalle sue prospettive - problemi del tutto
particolari in Germania, anche se va riconosciuto che, in tutti i decenni
passati, la politica della Germania occidentale è
stata esemplare ed efficace in questo senso, più di quella di altri Paesi. La Germania è stata ed è un Paese fra i più immuni dal virus
nazionalista. Ma l’eredità del nazismo è talmente
mostruosa da costituire inevitabilmente un caso a sé. Jens
Jessen e Toralf Stud hanno denunciato sulla Zeit
una dilagante diffusione-trasformazione della simbologia nazista (a
cominciare dall’immagine di Hitler) che diviene una
moda giovanile, ad esempio una marca di design per pullover e giacconi (Thor Steinar) che utilizza
distintivi delle speciali unità hitleriane dei «lupi mannari» e altri materiali
del genere. Sta nascendo una vera e propria «pop-cultura
bruna», in cui rune nordiche e antichi dei germanici
della guerra, immagini e simboli nazisti, la figura stessa di Hitler diventano abbigliamento, musica rock, stile di
sbandata protesta e vita giovanile. È come se l’immagine del nazismo si
staccasse dalla sua realtà ormai dimenticata - si osserva - secondo un tipico
procedimento della cultura o dell’arte pop. Dunque nazismo - con tutta la violenza
nazista e xenofoba - in un riciclaggio postmoderno, non troppo dissimile da
quella «cultura degenerata» che esso brutalmente perseguitava.
È difficile dire se ciò renda il fenomeno più fragilmente effimero o più
pericolosamente insinuante e insidioso. Certo rende più difficile la scelta dei
modi con cui affrontarlo, l’indecisione tra la denuncia combattiva per
stroncarlo e la nonchalance per
lasciarlo esaurirsi. Non è un caso che in alcune trasmissioni televisive
dedicate alle recenti elezioni sia emersa questa
incertezza circa l’atteggiamento da assumere nei confronti degli esponenti
dell’estrema destra; il dubbio se attaccarli frontalmente o buttarli nel
cestino, la domanda in che misura dar loro la parola. Questo profondo malessere
nasce soprattutto dal fatto che la riunificazione tedesca non è veramente
avvenuta, che la Germania - quindici anni dopo la
caduta del muro - è ancora divisa. Questa ferita tedesca è una ferita europea,
perché senza una Germania serenamente forte e democratica,
come senza una Francia altrettanto sicura, l’Europa sarebbe una mera
astrazione.