Grandi opere col trucco
Il ponte sullo Stretto. E poi autostrade, ferrovie, metropolitane...
Le infrastrutture promesse
da Berlusconi restano una chimera: i soldi sono
pochi. Ma se alla fine si faranno, sarà con un metodo
che occulta i debiti dello Stato. E lascia poi un buco
all’Europa
di Gianni Barbacetto
La sera del
18 dicembre 2000 un Silvio Berlusconi in gran forma,
ospite del salotto televisivo di Bruno Vespa, traccia su alcune cartine d’Italia le mappe delle grandi opere da realizzare. Strade,
autostrade, ferrovie, ponti, metropolitane... Porta a
porta, quella sera, diventa la più grande televendita della storia. «Guardi
qua, il ponte sullo Stretto. Una grande opera, no?
Ecco: si può fare. Servono 9 mila miliardi: i privati possono mettercene 4.500,
l’Europa ne ha già stanziati altri mille, bastano solo
altri 3.500 miliardi». Come rinunciare all’idea? Il passante di Mestre:
«Costerebbe solo 1.500 miliardi». E poi via, un lungo elenco
di mirabolanti offerte speciali, assolutamente imperdibili.
Il paese di Bengodi raccontato con incrollabile entusiasmo.
Risultato: ottimo successo di audience (oltre 2 milioni e mezzo di telespettatori). E gran seguito di polemiche: per il trattamento di favore riservato
da Vespa all’allora leader dell’opposizione, per lo spottone
elettorale regalato al leader del centrodestra. In più, il radicale
Daniele Capezzone invoca l’intervento di Striscia la
notizia: «Questa puntata di Porta a porta costituisce una pagina televisiva che
merita di essere a lungo conservata e studiata. In particolare la scenetta di
un Berlusconi che sembra snocciolare a memoria nomi e
numeri, ma in realtà ripassa i testi già scritti a matita sui cartelloni». Il
ministro dei Lavori pubblici del governo ulivista in
carica, Nerio Nesi, grida invece al plagio: «Per caso
ho visto il capo dell’opposizione che disegnava il mio piano, e da un certo
punto di vista sono stato anche molto contento. C’è una sola differenza: lui dà
per scontato il ponte sullo Stretto, mentre io no».
Da quella puntata di Porta a
porta sono passati quasi due anni e i nodi sono venuti finalmente al pettine.
Le mirabolanti promesse della televendita elettorale non sono state mantenute.
Anzi: «È meglio fermarci un minuto», ha dichiarato Berlusconi
il 27 settembre, mentre era in corso il braccio di ferro sotterraneo per varare
la nuova legge finanziaria e già la parola fatidica («sacrifici») era stata
pronunciata. «È meglio fare magari anche un passo indietro nelle infrastrutture
del traffico, strade e ferrovie, per poter poi fare un salto nel futuro e avere
un Paese moderno. Ho infatti trovato nel cassetto dei
progetti su strade, autostrade, ferrovie e alta velocità assolutamente tutti
superati rispetto alle attuali esigenze e alle nuove tecnologie». La volpe dice
che l’uva promessa è poco matura.
Che cosa succederà ora? Si faranno le grandi opere, prima fra
tutte quel ponte sullo Stretto di Messina che delle promesse di Berlusconi è diventato il simbolo?
ATTO PRIMO. QUANTE?
La commedia delle grandi opere
si sviluppa in tre atti. Atto primo: ma quali sono le «grandi» opere? quante sono? e in che cosa si
differenziano dalle opere «normali»? Atto secondo: ma
ci sono i soldi per farle? Atto terzo, e gran finale: se si facessero, con il
sistema finanziario e d’appalti che è stato
appositamente messo a punto, che cosa succederebbe del bilancio dello Stato?
Già sul numero delle «grandi
opere» comincia il balletto delle cifre. Berlusconi,
nella televendita da Vespa, ne indicava una manciata.
Dopo la vittoria elettorale, nelle prime intenzioni del suo governo erano una
decina, al massimo una dozzina di interventi
strategici. Nella delibera Cipe del dicembre 2001
diventavano 220: un lunghissimo elenco di opere e
operette messo insieme dopo il confronto tra il ministro incaricato della
partita, il titolare delle Infrastrutture Pietro Lunardi,
e i rappresentati delle Regioni che spingevano per allargare a dismisura la
lista. Il Dpef (il documento di programmazione
economica e finanziaria del governo) cercava poi di reintrodurre qualche
criterio di priorità, indicando 21 opere «di serie A», che diventavano al
massimo 36 considerando qualche intervento complesso. Le 21 (o 36) meraviglie
d’Italia comprendevano l’Alta velocità ferroviaria, una serie di strade e
autostrade (tra cui la Salerno-Reggio Calabria,
l’asse viario Marche-Umbria, i nodi integrati di
Roma, Genova, Napoli, Bari, Catania), il passante di Mestre, i valichi
ferroviari del Frejus, del Sempione
e del Brennero, il sistema Mose contro l’acqua alta a Venezia, interventi
idrici al Sud e, naturalmente, il ponte sullo Stretto.
Poche, in verità, le novità:
l’elenco sembra ripreso più o meno dal Libro bianco sulle opere pubbliche di
Lamberto Dini, stilato nel 1995. E
anzi, l’ideazione del sistema finanziario dell’Alta velocità, piatto forte del
banchetto delle grandi opere, è perfino precedente, risale ai bei tempi di ’O
Ministro, ovvero il democristiano napoletano Paolo Cirino Pomicino. Già i
governi dell’Ulivo si erano comunque impegnati (ma
senza propaganda televisiva) a realizzare più o meno le stesse opere, con la
vistosa eccezione del ponte sullo Stretto, e il «comunista» Nerio Nesi, ultimo ministro dei Lavori pubblici prima dell’era Berlusconi, si era già dato da fare per rassicurare
costruttori e impresari che ci sarebbe stato lavoro per tutti.
Ma perché «grandi opere»? Lo
spiega, riservatamente, un costruttore piemontese: «Perché
disciplinate da leggi speciali. Per aggirare le leggi ordinarie». Ma quanto siano «speciali» le opere e le leggi che le regolano lo
capiremo soltanto arrivati al terzo atto della commedia.
ATTO SECONDO. E I SOLDI?
Non ci sono, i soldi per fare
le opere, grandi o piccole che siano. Il Dpef prevede investimenti per grandi infrastrutture
strategiche per oltre 125 miliardi di euro (poco meno
di 244 mila miliardi di vecchie lire), con una spesa nel triennio 2002-2004 di
24 miliardi di euro (47 mila miliardi di lire). Il ministero delle
Infrastrutture aveva assicurato che sul tavolo, per il prossimo triennio,
c’erano 12 miliardi di euro, già destinati da leggi
precedenti a specifiche grandi opere, mentre altri 8 miliardi sarebbero
arrivati dal collegato alla legge finanziaria. Totale, circa 20 miliardi di euro: meno dei 24 necessari secondo il Dpef.
Poco male, tanto già la legge
collegata alla Finanziaria 2002 aveva preso a colpi di scure le previsioni,
ridimensionato le cifre e ridotto a 4,7 miliardi
(invece di 8) le risorse destinate alle grandi opere. Mancano all’appello più
di 6 miliardi di euro, da trovare chissà dove. Nel
2002 c’era già stato un calo degli stanziamenti pubblici per le opere (un 1 per
cento in meno rispetto all’anno precedente). Ora è
arrivata la Finanziaria dei «sacrifici» per il 2003: i particolari per le
infrastrutture sono rimandati a una legge collegata,
prevista per il prossimo novembre; ma già ora appare che, se non ci saranno
ulteriori cali, non ci saranno neppure incrementi. E
le opere straordinarie ruberanno risorse alle opere ordinarie.
In più, lamentano i
costruttori, il decreto legge 194 del settembre 2002 ha reso più difficile
spendere anche i soldi che lo Stato ha già stanziato.
Fino a ora, le cifre che non si riuscivano a spendere
(i cosiddetti residui passivi) restavano a bilancio per i successivi tre anni,
e c’era la speranza di recuperarle. Adesso non più: i residui passivi stanno
nel bilancio dello Stato solo un anno, poi via. Poiché i tempi per completare
una grande opera (ma anche una piccola) sono molto
lunghi, è ipotizzabile la cancellazione di quasi tutte le risorse stanziate di
anno in anno per la realizzazione di infrastrutture. I soldi – si lamentano i
costruttori associati nell’Ance – spariranno via via che saranno bandite le gare, anzi anche prima.
Fare un’opera, infatti, è
un’impresa. Dal momento in cui questa è immaginata, occorrono 511 giorni (cioè 1 anno e 5 mesi) perché venga consegnato il progetto. Altri 74 giorni (2 mesi e mezzo) perché il progetto sia approvato.
Poi 161 giorni (oltre 5 mesi) per la pubblicazione del bando. Se le opere sono
«grandi» (valore: più di 15 milioni di euro) per la
progettazione occorrono 1.206 giorni (3 anni e 5 mesi) e altri 111 (4 mesi
circa) per la sua approvazione. Non è finita. Ci vogliono 48 giorni per la
presentazione delle offerte da parte dei concorrenti alla procedura
d’aggiudicazione, 45 giorni per lo svolgimento della gara, 65 per la stipula del contratto, 42 per la consegna dei lavori.
Insomma: per poter cominciare a spendere i soldi dello Stato, occorrono in
media 904 giorni (circa 2 anni e mezzo).
Poi si arriva finalmente ai cantieri. Ma per aprire un
cantiere ci vogliono in media 2 anni e 7 mesi, che diventano anche 4 anni e 9
mesi per le opere di grandi dimensioni. A questo punto, e solo a questo punto,
possono cominciare i lavori veri e propri. Secondo i dati dell’Ance,
questi durano in media 223 giorni. In definitiva: per realizzare un’opera
pubblica occorrono 3 anni e 2 mesi, che diventano 5 anni e 4 mesi nel caso di grande opera. E questo se tutto va liscio.
Cosa che, in Italia, è rara.
ATTO TERZO. L’AZZARDO
Il bello di tutto il castello
di carte delle grandi opere pazientemente messo in piedi
da Silvio Berlusconi, Pietro Lunardi
e Giulio Tremonti (il ministro dell’Economia) è che,
come tutti i castelli di carte, finirà per cadere. E
rivelarsi, addirittura, una truffa ai danni dell’Unione europea. Potrà
trascinare l’Italia nel pozzo senza fondo della bancarotta e perfino mettere in
pericolo la stabilità dell’euro. Per verificare questa ipotesi
nera, anzi nerissima, occorre farsi guidare da un ricercatore bolognese, Ivan Cicconi, già capo della segreteria tecnica del ministro Nesi e direttore del Quasco, un
centro studi specializzato nel campo delle costruzioni.
Qual è il modello finanziario e
contrattuale inventato per le grandi opere? È quello codificato da tre leggi.
La prima è quella voluta da Berlusconi per le
cosiddette opere strategiche, cioè la legge Obiettivo
(numero 443 del 2001, con conseguente decreto legislativo numero 190 del 2002),
che dà vita al deus ex machina del nuovo sistema, un dinosauro economico
chiamato general contractor:
cioè una mega-impresa a cui sarà affidato dallo Stato il compito di decidere
tutto, progettazione, affidamenti, appalti, direzione lavori, esecuzione,
collaudo... La seconda è quella definita da Tremonti,
cioè la legge salva-deficit (numero 112 del 2002),
che fa nascere dal nulla due società, due centauri un po’ pubblici e un po’
privati (di capitale pubblico ma di diritto privato): la Patrimonio dello Stato
spa e la Infrastrutture spa.
La terza nasce dalla testa di Lunardi ed è la legge
delega sulle infrastrutture (numero 166 del 2002), che stravolge la precedente
legge Merloni sui lavori pubblici e introduce la quadratura del cerchio, il
miracolo per fare ciò per cui non si hanno i soldi: il
project financing.
La trinità Berlusconi-Tremonti-Lunardi ha così inventato un
modello nuovo, anzi nuovissimo, per far sorgere le grandi opere. In verità, i
tre dovrebbero ringraziare un genio della Prima Repubblica, Cirino Pomicino, inventore nel lontano 1991 dell’architettura
contrattuale e finanziaria della Tav, l’Alta velocità
ferroviaria. Un po’ lo hanno ringraziato, citando la Tav
quando è stato presentato il decreto attuativo della legge Obiettivo: «L’affidamento a general
contractor ha consentito alle Ferrovie dello Stato di
dimezzare i tempi di realizzazione delle tratte Alta
velocità avviate, con una spesa finale non dissimile». L’affermazione,
naturalmente, non trova riscontri in natura: per esempio la tratta Tav Bologna-Firenze (che Lunardi conosce bene, perché con la sua società Rocksoil è tuttora consulente dei lavori) è partita nel
settembre 1991 con una previsione di spesa di 2.100 miliardi di
vecchie lire.
Oggi sono passati 11 anni, i
cantieri non sono ancora chiusi e i costi sono lievitati a 8.150 miliardi:
raddoppiati i tempi, quadruplicati i costi. Ma queste
sono quisquilie. L’importante è che il «nuovo» modello – in realtà il vecchio
modello Tav con in più un
tocco di cosmetici, un po’ di rossetto qua, un filo di rimmel là – abbia
realizzato una sorta di sanatoria nei confronti dei profili di illegittimità
del sistema Tav, già descritti e denunciati dall’Antitrust
e dalla Procura di Perugia. E
abbia introdotto il general contractor
come soggetto economico incaricato della progettazione e della realizzazione,
senza alcuna responsabilità sulla gestione finale dell’opera. E il project financing come sistema
per attingere soldi privati, ma del tutto garantiti dallo Stato.
CENTAURI E DINOSAURI
Un bel sistema. Il general contractor progetta e
costruisce l’opera, ma senza rischi: sa che non la gestirà, che non dovrà
ricavarci i soldi spesi, perché questi sono interamente pagati e garantiti
dallo Stato. Non ci si potrà stupire, dunque, se il general
contractor spingerà a far
durare il più possibile i lavori e a far lievitare al massimo i costi
(esattamente quello che è già successo con le tratte dell’Alta velocità:
dovevano costare 18.400 miliardi di lire nel 1991, nell’agosto 2001 costavano
già 34.880 miliardi, alla fine lieviteranno, secondo una stima del Quasco, verso i 76.100 miliardi). Inoltre il general contractor, a differenza
del concessionario tradizionale, di lavori o di servizi pubblici, potrà agire
in regime privatistico, potrà affidare i lavori a chi
vorrà, anche a trattativa privata, e qualunque cosa faccia non sarà mai
perseguibile per corruzione: è un privato, eventuali tangenti saranno soltanto
«provvigioni».
Altra idea geniale, quella del
project financing: i soldi arriveranno in parte
direttamente dallo Stato, e per il resto dai privati (le banche), ma garantiti
totalmente dallo Stato, attraverso Infrastrutture spa
o Stretto di Messina spa (società interamente
pubbliche, ma di diritto privato). Così per anni lo Stato avrà un debito, ma
occulto, che non sarà iscritto nel bilancio dello Stato e non inciderà nel
calcolo dei parametri del Patto europeo di stabilità.
Alla fine, però, al tavolo di poker delle grandi opere le fiches
dovranno essere trasformate in soldi. Al termine dei lavori, dopo – chissà –
una decina d’anni, la Tav spa,
la Infrastrutture spa, la
Stretto di Messina spa (e, in ultima analisi, il
ministero dell’Economia) dovranno restituire i prestiti delle banche. E di colpo si aprirà una voragine. Capace
di affondare l’Italia e di trascinare nel disastro l’euro.
Perfino l’Ance
(l’associazione dei costruttori italiani) è arrivata a fischiare il numero due
di Lunardi, il viceministro
Ugo Martinat, durante una manifestazione organizzata
il 26 settembre alla Luiss di Roma. Ormai solo l’Agi (l’associazione che riunisce le trenta imprese grandi
e grandissime) plaude alla linea Lunardi e lo
appoggia con trasporto, aiutandolo anche all’interno del ministero. Dicono i
sostenitori del modello grandi opere: le opere garantiranno utili sufficienti a
pagare i debiti. Veramente improbabile: per la sola Tav la quota annua da
restituire sarà prevedibilmente intorno ai 5 mila miliardi di vecchie lire; la
quota annua di utili disponibili grazie ai biglietti ferroviari potrà arrivare
al massimo attorno ai 500 miliardi di lire.
Per uscire da questa
situazione, dunque, dovremmo sostenere per una quindicina d’anni una manovra
finanziaria pari a 4.500 miliardi di lire. Povera Italia, povera Europa. Ma intanto, che importa. Il ponte sullo Stretto avrà la posa
della prima pietra, si taglieranno nastri e si stapperanno champagne. Politici
sorridenti cominceranno a far «girare soldi», a dare appalti e subappalti, ad accontentare
amici e amici degli amici, a raccogliere applausi e voti. Domani, si vedrà.