Giudizi dei parlamentari FONTE: La strage di Stato: controinchiesta – Savelli Editore - 1970 Sulle assurdità, le incongruenze, le contraddizioni, le
nullità processuali con cui l’istruttoria sugli attentati di Milano e Roma
del dicembre 1969 è stata condotta, molto già è stato scritto: merito del
testo qui presentato è quello di aver riordinato gli elementi già disponibili
e di averne aggiunto moltissimi inediti, sì da fornire un quadro
impressionante delle responsabilità ai vari livelli in questa vicenda.
Qualche considerazione è invece opportuno fare sul quadro politico nel quale
sono accaduti gli avvenimenti. Non c’è
dubbio che gli attentati si inquadrano in uno dei
periodici disegni di ripresa autoritaria che tenta la classe dirigente
italiana, magari sollecitata da forze esterne. All’origine c’è la svolta a
sinistra data dalle elezioni del 1968, che segnano
una sconfitta del “grande disegno” di chi pensava a una grossa forza
socialdemocratica capace di condizionare la vita italiana. Nascono così una
serie di manovre che vanno dal “disimpegno” prima alla
nuova scissione socialdemocratica dopo, onde provocare una crisi che prepari
al momento opportuno la rivincita elettorale e lo spostamento a destra
dell’asse politico. Invece le lotte operaie e l’unità sindacale annunciano
nuovi spostamenti a sinistra: occorre allora preparare nel paese un clima in
cui possa inserirsi uno scioglimento anticipato delle Camere per ripetere
l’operazione che riuscì a De grulle nel giugno 1968,
a poche settimane dagli scontri di maggio. L’aggressione
della polizia alla pacifica manifestazione di Milano del 19 novembre (1969 –
Nota di gp), in cui trovò la morte lo sfortunato
agente Annarumma, costituisce obiettivamente un
passo in questa direzione, e quella morte sarà sfruttata da più parti proprio
per preparare quel clima: il telegramma del presidente della Repubblica ne è purtroppo un documento. “Nessuno è tanto pazzo da dar
la colpa al presidente Saragat”, ha scritto l’Observer e noi siamo pienamente d’accordo. Ma nemmeno il presidente Gronchi,
quando dette l’incarico a Tambroni, voleva le
giornate sanguinose del luglio ’60, e neppure il presidente Segni quando si
opponeva al centro-sinistra, perché ossessionato soprattutto dalla spesa
pubblica che secondo lui minacciava la stabilità della lira, preparava
coscientemente un colpo di Stato del generale De Lorenzo. Purtroppo tra i
disegni politici dei presidenti e la loro attuazione c’è di mezzo una catena di esecutori e anche di profittatori che hanno spiccate
inclinazioni per certi metodi non del tutto ortodossi. Le
conclusioni che vogliamo trarre da queste note affrettate
sono sostanzialmente due. La prima è che chi cerca di andare contro
l’avanzata democratica di cui la società italiana ha urgente bisogno, e sogna
battute d’arresto o addirittura ritorni all’indietro, rischia dia assumersi le più gravi responsabilità perché mette in
moto una serie di reazioni a catena che sfuggono al suo controllo e in cui
provocatori generali e leggi fasciste, missini e nostalgiche “associazioni
d’arma”, funzionari di polizia e giornalisti reazionari, padroni non
rassegnati e politici delusi, generali dei carabinieri e servizi segreti, CIA
e Pentagono, insieme concorrono, senza previe intese e magari senza
conoscersi, non volendo neppure le stesse cose precise, ma tutti proclamando
di agire in nome della legge e dell’ordine, a portare l’Italia sull’orlo
dell’abisso. La
seconda riguarda noi. Quel poco di democrazia che abbiamo conquistato con la Resistenza è stato in gran aprte
logorato nel corso di questi 25 anni. Oggi c’è in Italia una
forte ripresa democratica: badiamo a non commettere un’altra volta gli
stessi errori. Non è appagandoci di parole, e tanto meno cedendo ai ricatti e
alle minacce, ma accrescendo la nostra forza e andando avnti,
che possiamo consolidare le conquiste dell’autunno e prepararne di nuove. (Marzo 1970)
Lelio
Basso |
Autorevoli opinioni Formulate
nei mesi immediatamente successivi alla strage di piazza
Fontana e pubblicate – nelle edizioni successive alla prima edizione andata
subito "a ruba" ed esaurita nel giro di poche ore: il 13 maggio
1970 – a margine della contro-inchiesta edita da Giulio Savelli:
La strage di Stato. (gp) *** Questa
inchiesta compare mentre è annunciata l’archiviazione dell’istruttoria sulla
morte tanto tragica quanto "misteriosa" dell’anarchico Pinelli: mentre, sei mesi dopo, si rivelano nuovi nomi di
spie pagate dalla polizia, quali supertestimoni nel "tenebroso
affare" delle bombe di Milano e Roma. E’ proprio grazie a questa
coincidenza che essa vede esaltato – anche se non c’era bisogno – il suo
carattere di accusa diretta e pesante, di denuncia
coraggiosa delle responsabilità non solo politiche ma anche materiali che
stanno dietro quei fatti. Qui non è
solo ricostruito il clima in cui essi hanno potuto maturare, ma sono indicati
con precisa documentazione gli ambienti in cui le provocazioni sono state
ordite, i settori dell’apparato dello Stato che le hanno reso
possibili e tuttora le sostengono. Le forze politiche che le hanno coperte e
continuano a coprirle. Gran parte
dell’inchiesta è dedicata alle organizzazioni neofasciste, alle loro imprese
terroristiche, alle loro attività provocatorie. Ma
non può e non deve sfuggire che l’esistenza stessa di questa
immonda fungaia a 25 anni dalla guerra di liberazione antifascista
denuncia non un limite ma una sostanziale anomalia di questo regime
democratico. Il teppismo, lo squadrismo, il terrorismo fascista prosperano immuni all’interno di un sistema statale e di
governo di cui costituiscono una componente organica. E’ lo stato di classe
che li secerne come prodotti della propria decomposizione. Proliferano ai
vari livelli degli apparati repressivi di cui costituiscono propaggini
simbiotiche, più o meno parassitarie. Ne
consegue la totale illusorietà di una linea
antifascista la quale si proponga di ripulire
l’albero della democrazia dai frutti marci e dai rami secchi per renderlo
illibato e presentabile in nome di un inattuato e
ormai inattuabile (e anacronistico) modello costituzionale. Ne consegue la
contraddittorietà e l’impotenza di una strategia di forma democratica dello
Stato, per esempio attraverso l’istituzione dell’istituto regionale, che
mantiene fuori campo i centri del potere di classe e infaticabilmente si
sforza di tessere e di ricomporre alleanze interclassiste all’interno di quel
sistema di alleanze che servono solo a prolungare
equivoci e precari equilibri. Alla
"strategia della tensione", che non è necessariamente una strategia
del colpo di Stato a breve scadenza, non vale
rispondere con una linea difensiva e di contenimento (unità antifascista +
riforme democratiche), occorre un’alternativa di classe e di potere capace di
unificare il movimento di lotta e di stimolare il più alto grado di coscienza
politica di massa. Le lotte
degli anni 1968/69 avevano creato, per la prima volta dopo il 1945, la base
reale su cui costruire un’alternativa. E’ mancata la
forza politica capace di indicarla e costruirla. Questa è la lezione dei sei
mesi trascorsi dal dicembre 1969 (attentati di Milano e Roma, chiusura delle
grandi lotte operaie [1]) al giugno 1970 (derisorio "sbocco
politico" nelle elezioni regionali). Questa è anche la lezione che si
ricava da questa inchiesta sui retroscena del processo di
"normalizzazione" ormai in corso pure nel nostro Paese; ma una
lezione non accademica, un coraggioso richiamo alla continuazione della
lotta, una lucida indicazione degli obiettivi strategici che il movimento
deve porsi per fondare un’alternativa. In questo
senso l’inchiesta, che è frutto del lavoro dei militanti di
alcuni gruppi della sinistra extraparlamentare, potrà costituire un
momento ed uno strumento di quel processo di unificazione al quale con la mia
adesione intendo dare un modesto contributo, sia come militante
rivoluzionario, sia come membro di quelle istituzioni parlamentari delle
quali è più che matura una radicale demistificazione in senso leninista. Aldo Natoli [1] in
un’inchiesta pubblicata dalle edizioni Stasino – nella primavera del ’70 – a
cura di L. Borgomeo e A.
Forbice si documenta che – nel corso delle lotte verificatesi nel corso
dell’autunno caldo – sono state ben 13.903 le denunce - a carico di
lavoratori e studenti – per reati politici (oggi diremmo "di opinione") e sindacali. Le denunce riguardarono,
nel dettaglio, circa 8.000 studenti, 4.000 lavoratori e braccianti agricoli e
circa 2.000 operai metalmeccanici. Molti di essi – a
causa del protrarsi del periodo di, illecita, detenzione – furono licenziati.
Nota di gp **** La fitta
catena di attentati terroristici, che ha segnato
tutto il corso del 1969 e che è culminata nella strage di Milano, resta una
pagina oscura e inquietante nella vita del nostro Paese. A tanti mesi di
distanza da fatti drammatici e gravi, come la morte dell’agente di P.S. Annarumma, le bombe nelle banche di Milano e di Roma, la
morte del "testimone" Pinelli, né le
indagini della polizia né le istruttorie della magistratura hanno indicato
all’opinione pubblica una "verità" precisa e persuasiva. Sono
rimasti e si sono fatti anzi più pesanti gli interrogativi, sugli autori
materiali, gli ispiratori e i mandanti di vicende coinvolgenti non solo per
la loro obiettiva tragicità, ma perché esse sono state occasione e pretesto
di una sfrenata campagna di allarme e di
intimidazione e, più a fondo, di una manovra rivolta a spostare a destra tutta
la situazione politica italiana. Qui è lo
scandalo non tollerabile. E per questo deve essere positivamente apprezzato
ogni contributo che riesca a gettare un po’ di luce
sulla lunga serie di provocazioni e di attentati che in effetti, quale che
sia la loro origine, si sono rivolti contro il movimento dei lavoratori e la
democrazia repubblicana. Per questo io credo che il Parlamento, come ha
proposto il Partito Comunista, debba sentire il dovere a questo punto di
procedere ad una inchiesta che vada a fondo e
consenta di spezzare e dissolvere una trama che ha pesato come per tanti
segni è evidente, e che continua a pesare sulla democrazia italiana, sulle
sue possibilità di sviluppo e di rinnovamento. E’ un
fatto, e di importanza decisiva, che quelle forze politiche
che avevano pensato di beneficiare, a dicembre prima e il 7 giugno poi, anche
della emozione e della preoccupazione della opinione pubblica in seguito alle
bombe e ai morti di Milano per provocare un "tornante"
conservatore, una sterzata a destra, hanno fallito i loro calcoli. L’esito
delle elezioni del 7 giugno è stato in questo senso una vittoria di
democrazia contro il "partito dell’avventura" contro il lungo
tentativo, in cui si sono ostinati i gruppi dirigenti della DC e del PSU, di avere una rivincita sullo spostamento a
sinistra dal maggio 1968, di bloccare le spinte e le conquiste sociali dei
lavoratori, le rivendicazioni di riforma, di partecipazione, di potere che
emergono dalle masse popolari, dalle classi lavoratrici, dai giovani. Il proposito
e il tentativo di un riflusso. Di una sterzata a destra, sono stati battuti. Ma ciò non può far dimenticare né oscurare i fermenti
velenosi, le sollecitazioni reazionarie che ci sono nel nostro Paese, le
macchinazioni antidemocratiche che in Italia e fuori possono essere nascoste,
sotto l’insegna dell’anticomunismo, della difesa dell’ordine o della
sicurezza atlantica, l’attivazione e la disponibilità mercenaria di gruppi e
formazioni di destra, reazionarie e fasciste. Due
conseguenze mi sembra debbano essere tratte: la prima è la coscienza del
vigore e delle possibilità dello schieramento democratico antifascista: la
seconda è l’efficienza, più che mai viva e attuale, dell’unità delle forze
operaie, democratiche, di sinistra su una precisa linea di sviluppo della
democrazia, di trasformazione della società italiana, di salvaguardia
dell’indipendenza nazionale, della autonomia politica del nostro Paese. E un
momento non trascurabile di questa lotta è l’impegno a far luce sui fatti di
provocazione e di sangue del 1969, a individuarne i
responsabili, a colpirli senza esitazione. Alessandro Natta **** l’indignazione popolare sollevata dall’annunciata
chiusura così sbrigativa dell’inchiesta sulla fine drammatica e tanto
sospetta di Pinelli ha dato forza alla convinzione
che occorresse dare alal opinione pubblica garanzie
sicure anche fuori dell’ordinario, sulla condotta assolutamente
disinteressata dell’indagine su un caso così grave che finiva per mettere in
gioco la legalità democratica del nostro regime giuridico. Polizia
politica, polizia giudiziaria e non poche procure hanno seguito nei mesi
caldi un indirizzo repressivo aperto alla speculazione elettorale già in
corso dei cosiddetti partiti dell’ordine. I gruppi parlamentari del Partito
Comunista incaricati di studiare e preparare una proposta d’inchiesta
parlamentare si rifanno al caso del disgraziato agente di polizia Annarumma morto durante una dimostrazione a Milano: morte
probabilmente accidentale che fu utilizzata nel modo più sfacciato contro i comunisti
prima ancora che contro gli estremisti. Ma il
mistero politico che sta dietro gli attentati di Milano è
più grave. Non si sa se potrà essere chiarito, viste le inutili indagini che
si dicono condotte finora. Ma se ne devono
chiaramente riconoscere i connotati. Vi sono alcuni dati di fatto ben
orientativi: la scelta degli obiettivi milanesi (in prima linea la COMIT) e
romani (in prima linea il Vittoriano, la qualità dei mezzi esplosivi
impiegati, la quantità di mezzi finanziari. Un piano politico, non anarchico.
Destinato a produrre profonde reazioni pubbliche,
governative, eventualmente paramilitari. Ed un piano
di cui si potesse facilmente far ricadere la responsabilità sulle spalle
degli anarchici, come infallibilmente è avvenuto. Quale torbido ambiente
può avere ideato questo piano e dati i mezzi, ed a profitto di chi? Questo
libro è utile strumento di conoscenza che propone una risposta a questi
interrogativi. Ferruccio Parri |