Il colpo di Costituzione del cavaliere


Il governo vara il maxi progetto di revisione della Carta: premierato forte, poteri alle regioni senza clausola di salvaguardia dell'interesse nazionale e con vaghe concessioni per Roma capitale. Berlusconi gongola: «Primo voto entro il 2003»




Silvio Berlusconi sfodera il sorriso d'ordinanza, Umberto Bossi gongola, Francesco Storace esulta. Per un giorno, come dirà con involontaria gaffe il premier, «la maggioranza ha mostrato una compattezza notevole». In meno di un'ora infatti il consiglio dei ministri ha fatto ciò che fino a ieri pareva impossibile, ha varato un progetto di riforma costituzionale che dà il via a una revisione pressoché totale della seconda parte della Costituzione. Disegnando, al posto dell'Italia del 1948, un paese in cui lo stato nazionale spartirà i suoi poteri con le Regioni, e in cui il premier, anche se non eletto direttamente, potrà fare il buono e cattivo tempo, nominando e revocando ministri ma, soprattutto, sciogliendo le camere a suo piacimento, anche contro la sua maggioranza. Certo, per ora è solo un disegno di legge che deve passare al vaglio delle Regioni prima e di ben quattro letture del parlamento poi. Ma l'annuncio di Berlusconi, che sentenzia «sarà varato entro il 2004», potrebbe non essere una delle solite sbruffonate. Perché mentre il premier, a denti stretti, recita «la maggioranza è sempre aperta ai contributi positivi e costruttivi dell'opposizione», Gianfranco Fini dice chiaro e tondo: «Sia chiaro che se si rifiuta il dialogo, andremo avanti da soli». Il meno loquace, almeno nella conferenza stampa, è Umberto Bossi. Ma non perché sia insoddisfatto, anzi. Nella stretta finale infatti la Lega pare essere riuscita a non pagare pegno. Soprattutto sull'annosa vicenda della salvaguardia dell'interesse nazionale, di cui nel disegno di legge non ci sarebbe ora più traccia (l'ipotesi che il garante fosse il capo dello stato è scomparsa). Ma anche su «Roma capitale», nonostante le grida di gioia di Francesco Storace, c'è ben poco. E' vero, la città eterna sarà tale anche nella nuova Costituzione (Bossi non voleva nemmeno questo), ma sui suoi futuri poteri si è scelta, ammette sincero il «saggio» D'Onofrio, «una formula volutamente ambigua». Le «condizioni particolari di autonomia» della città, si limita a dire il testo «possono essere attribuite nei limiti stabiliti dallo statuto della Regione Lazio». «Un rinvio», come protesta il presidente della provincia Gasbarra, «una via tortuosa e minimale» come lamenta il sindaco Veltroni.

Forse il conto, a Umberto Bossi, verrà presentato in settimana, quando la Casa delle libertà si riunirà per sciogliere i nodi della finanziaria (condono compreso) e delle pensioni. Ma chi invece già si ribella al testo presentato in pompa magna a palazzo Chigi, sono le Regioni. «Questa storia è cominciata male, rischia di essere un passo indietro per l'intero paese» commenta, invelenito, il presidente emiliano Errani. Ce l'ha con il metodo, visto che Berlusconi si è rifiutato di trattare con i destinari primi della riforma. Ma il problema, e non solo per lui, è anche di merito. Il futuro senato federale infatti (200 membri) dovrà occuparsi delle nuove competenze esclusive regionali (la devolution di Bossi è rimasta così come era) e delle materie di competenza «concorrente» (ovvero in parte dello stato e in parte delle Regioni). Ma nonostante le ripetute richieste dei governatori, non ne faranno parte presidenti o consiglieri regionali, non sarà nemmeno eletto lo stesso giorno delle elezioni regionali. Così anche il lombardo Formigoni dichiara seccato che «non tutto è positivo», e annuncia un duro confronto con le Regioni che esamineranno il testo nei prossimi giorni.

Nessuna protesta invece, almeno per ora, per l'introduzione di un premierato che è poco definire forte. Formalmente s'intende il potere di mandare gli italiani alle urne rimane al Quirinale. Ma quando si scrive che «Il presidente della repubblica, su richiesta del premier, può sciogliere le camere» ci vuol poco a capire chi avrà il coltello dalla parte del manico. «E' il punto più difficile per l'opposizione, anche per quelli di loro che vorrebbero dialogare - ammette D'Onofrio (che avrebbe preferito una formula meno decisa) - Ma questo è un punto che riteniamo non trattabile».

Nemmeno sui tempi del resto, a sentire i felici riformatori, c'è tanto da discutere. Il disegno di legge, dopo l'esame della conferenza stato-Regioni, andrà direttamente al senato. «Entro il 2003 ci sarà un primo voto del parlamento», proclama Berlusconi. E gli altri tre dovrebbero esserci nel 2004. Poi, nel 2005, si passerà alla riformulazione delle leggi elettorali in modo da essere pronti per le politiche del 2006. Una corsa contro il tempo in cui però si baderà a salvare sia la poltrona di Carlo Azeglio Ciampi che quella dei deputati. Il nuovo capo dello stato verrà eletto infatti solo nella prossima legislatura, il senato federale addirittura in quella del 2011. Sempre che, s'intende, la «compatta» maggioranza di Silvio Berlusconi riesca a sopravvivere ancora due anni.

 

GIOVANNA PAJETTA

http://www.ilmanifesto.it/

17/09/2003