Colonialismo, il mito del buon
italiano
Deportazioni di massa, bombardamenti con
bombe di ipirite, campi di concentramento, rappresaglie indiscriminate, stragi
di civili, confisca di beni e terreni. Le pagine nere dei crimini commessi
dalle truppe italiane in Eritrea, Somalia e Libia. Una politica coloniale
all'insegna del mito sugli «italiani, brava gente». L'Italia repubblicana non
ha ancora fatto i conti con l'«avventura coloniale» del fascismo, favorendo una
storiografia moderata o revanscista
di ANGELO DEL BOCA
I paesi europei che hanno partecipato alla
spartizione dell'Africa, si sono macchiati, tutti, indistintamente, dei
peggiori crimini. E' un dato suffragato da episodi sui quali esiste, nella
memoria e negli archivi, una documentazione imponente. Cominciarono i boeri,
due secoli fa, massacrando le popolazioni indigene del Sudafrica, in modo
particolare gli Ottentotti, gli Zulù e gli Ama Xosa. Gli inglesi non furono da
meno, nel Sudan, quando si trattò di annientare la resistenza mahdista. Negli stessi
anni i francesi demolivano, l'uno dopo l'altro, i regni Bambara, Mossi, Fulbe,
Mande, Yoruba, dalla Mauritania al Ciad, dal Senegal al Gabon. Poi intervennero
i tedeschi, i quali fecero scempio degli Herero e dei Nama, nell'attuale
Namibia, mentre i belgi colonizzavano il Congo con metodi spietati. Le stragi
di popolazioni africane continuarono anche dopo la seconda guerra mondiale,
quando il periodo coloniale sembrava ormai concluso. Come dimenticare le
repressioni del maggio 1945, nella regione di Costantina, a causa delle quali
persero la vita dai 20 ai 50mila algerini? E la caccia al malgascio, dopo
l'insurrezione del 1947, che fece, secondo le stime dello stesso Alto
Commissario in Madagascar, Pierre de Chevigné, «più di centomila morti»? E che
dire della campagna contro i Mau Mau del Kenya, fra il 1952 e il 1956, con un
bilancio di 10.527 uccisi e 77mila incarcerati? Ma un autentico genocidio di un
popolo si sarebbe verificato in Algeria, fra il 1954 e il 1961, quando i
francesi, nel folle, antistorico tentativo di conservare alla Francia la sua
più antica colonia, scatenavano una guerra che avrebbe causato un milione di
morti.
Tanto nel periodo della liberaldemocrazia che
durante i vent'anni del regime fascista, il comportamento dell'Italia nelle sue
colonie di dominio diretto non fu dissimile da quello delle altre potenze
coloniali. Impiegò i metodi più brutali sia nelle campagne di conquista che nel
periodo successivo, stroncando ogni tentativo di ribellione. Con l'avvento del
fascismo, poi, le condizioni dei sudditi coloniali si fecero ancora più
precarie, soprattutto perché fu messa a tacere in Italia l'opposizione, tanto
in Parlamento che negli organi di informazione. Grazie infine alle più
capillari pratiche censorie, furono tenuti nascosti agli italiani episodi di
inaudita gravità, come, ad esempio, la deportazione di intere popolazioni del
Gebel cirenaico, la creazione nella Sirtica di quindici letali campi di
concentramento, l'uso dei gas durante il conflitto italo-etiopico, le tremende
rappresaglie in Etiopia dopo il fallito attentato al viceré Graziani.
Quando Mussolini arrivò al potere, la
riconquista della Libia era appena iniziata, mentre sulle regioni centrali e
settentrionali della Somalia il dominio italiano era soltanto virtuale. A Mussolini,
più che ai suoi generali, va dunque la responsabilità di aver adottato i metodi
più crudeli per riconquistare le colonie pre-fasciste e per dare, con
l'Etiopia, un impero agli italiani.
a) L'impiego degli aggressivi chimici. Usati
sporadicamente in Libia, nel 1928, contro la tribù dei Mogàrba er Raedàt, e nel
1930, contro l'oasi di Taizerbo, i gas vennero invece impiegati in maniera
massiccia e sistematica durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36 e nelle
successive operazioni di «grande polizia coloniale» e di controguerriglia.
L'Italia fascista aveva firmato a Ginevra, il 17 giugno 1925, con altri
venticinque paesi, un trattato internazionale che proibiva l'utilizzazione
delle armi chimiche e batteriologiche, ma, come abbiamo visto, neppure tre anni
dopo violava il solenne impegno usando fosgene ed iprite contro le popolazioni
libiche.
In Etiopia le violazioni furono così numerose e
palesi da sollevare l'indignazione dell'opinione pubblica mondiale. Le prime
bombe all'iprite furono lanciate sul finire del 1935 per bloccare l'avanzata
dell'armata di ras Immirù Haile Sellase, che puntava decisamente all'Eritrea, e
quella di ras Destà Damtèu, che aveva come obiettivo Dolo, in Somalia. In
tutto, durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36, furono sganciate su
obiettivi militari e civili 1.597 bombe a gas, in prevalenza del tipo C.500-T,
per un totale di 317 tonnellate. Altre 524 bombe a gas furono lanciate, tra il
1936 e il 1939, durante le operazioni contro i patrioti etiopici. Se si aggiunge,
infine, che durante la battaglia dell'Endertà furono sparati dalle batterie di
cannoni di Badoglio 1.367 proiettili caricati ad arsine, non si è lontani dal
ritenere che in Etiopia siano stati impiegati non meno di 500 tonnellate di
aggressivi chimici.
b) I campi di sterminio. Con il fascismo le
vessazioni nei confronti degli indigeni raggiunsero livelli mai prima
segnalati. Dall'esproprio dei terreni, dalla confisca dei beni dei «ribelli»,
dal diffuso esercizio del lavoro forzato, si passò alla deportazione di intere
popolazioni e alla loro segregazione in campi di concentramento, che soltanto
la cinica prosa dei documenti ufficiali aveva il coraggio di definire
«accampamenti». Il più noto e drammatico di questi trasferimenti coatti avvenne
in Cirenaica nel 1930, dopo che Graziani aveva fallito il tentativo di domare
la ribellione capeggiata da Omar el-Mukhtàr. Su ordine del governatore generale
Badoglio, il quale era convinto che la rivolta si sarebbe potuta infrangere
soltanto spezzando i legami tra gli insorti e le popolazioni del Gebel
cirenaico, Graziani predisponeva il trasferimento di 100mila civili dalla
Marmarica e dal Gebel el-Ackdar ai campi di concentramento che aveva fatto
costruire nella Sirtica, una delle regioni più inospitali dall'Africa del Nord.
Quando i lager vennero definitivamente sciolti nel 1933, i sopravvissuti erano
appena 60mila. Gli altri 40mila erano morti durante le marce di trasferimento,
per le pessime condizioni sanitarie dei campi (per i 33mila reclusi nei lager
di Soluch e di Sidi Ahmed el-Magrun c'era un solo medico), per il vitto
insufficiente e spesso avariato, per le inevitabili epidemie di tifo
petecchiale, dissenteria bacillare, elmintiasi, per le violenze compiute dai
guardiani e per le esecuzioni sommarie per chi tentava la fuga.
I campi di sterminio nella Sirtica non furono i
soli. Memore della loro macabra efficacia, Graziani ne istituì uno anche in
Somalia, a Danane, a sud di Mogadiscio. Secondo Micael Tesemma, un alto
funzionario del ministero degli Esteri etiopico, che fu recluso a Danane per
tre anni e mezzo, dei 6.500 etiopici e somali che si avvicendarono nel campo,
tra il 1936 e il 1941, 3.171 vi persero la vita.
Un secondo campo fu istituito nell'isola di
Nocra, in Eritrea. Qui le condizioni di vita erano anche più intollerabili,
perché i detenuti erano costretti al lavoro forzato nelle cave di pietra, con
temperature che a volte raggiungevano i 50 gradi. L'alto tasso di mortalità a
Nocra era causato principalmente dalla malaria e dalla dissenteria, poi dal cattivo
nutrimento e dalle insolazioni.
c) Le stragi. L'intera storia delle conquiste
coloniali italiane è punteggiata da stragi e da esecuzioni sommarie. Ma vi sono
episodi che emergono per la loro spiccata gravità. Nella notte del 26 ottobre
1926, ad esempio, avendo saputo che lo scek Ali Mohamed Nur, un capo religioso
ostile all'Italia, era sfuggito all'arresto e si era barricato con i suoi
seguaci nella moschea di El Hagi, a Merca, una cinquantina di coloni italiani
di Genale, ex squadristi, armati di moschetti e di fucili da caccia, puntò su
Merca, circondò la moschea e trucidò tutti i suoi occupanti, un centinaio di
somali. Il massacro sarebbe stato anche più ingente se, al mattino, a
sostituire gli squadristi, che intendevano liquidare tutta la popolazione
indigena della zona, non fossero intervenuti i reparti dell'esercito.
Dalla Somalia passiamo alla Libia. Nel febbraio
del 1930, alla fine delle operazioni per la riconquista del Fezzan, Graziani
spinse un migliaio di mugiahidin, con le loro famiglie, verso il confine con
l'Algeria e poiché non fece in tempo ad intrappolarli, per due giorni
consecutivi lanciò tutti gli aerei a sua disposizione sulle mehalla in fuga. Fu
una carneficina, come testimonia lo stesso inviato de Il Regime Fascista,
Sandro Sandri, il quale assistette ai bombardamenti e mitragliamenti del
«gregge umano composti, oltreché degli armati, da una moltitudine di donne e
bambini».
Ma è in Etiopia, nel cristiano e millenario
impero del Prete Gianni, che furono consumati i più orrendi eccidi, alcuni dei
quali non ancora studiati a fondo per cui il numero delle vittime potrebbe
ancora aumentare. Cominciamo con le stragi compiute ad Addis Abeba dopo
l'attentato del 19 febbraio 1937 al viceré Graziani. Per tre giorni, su ordine
del segretario federale della capitale, Guido Cortese, fu impartita agli
etiopici, che erano assolutamente estranei all'attentato, una «lezione
indimenticabile». Alla selvaggia repressione presero soprattutto parte camicie
nere, civili italiani ed ascari libici e fu condotta, come riferisce un
testimone degno di fede, il giornalista Ciro Poggiali, «fulmineamente, coi
sistemi del più autentico squadrismo fascista». Quando, il 21 febbraio,
Graziani diramò, dall'ospedale in cui era stato ricoverato per le ferite
subite, l'ordine di cessare la rappresaglia, la capitale era disseminata di
cadaveri. Mille morti, secondo Graziani; da 1.400 a 6.000, secondo le stime dei
testimoni stranieri; 30mila, a sentire gli etiopici.
Cessata la strage in Addis Abeba, la repressione
continuò in tutte le altre regioni dell'impero. Si dava soprattutto la caccia
agli indovini e ai cantastorie, ritenuti responsabili di aver annunciato nelle
città e nei villaggi la fine prossima del dominio italiano in Etiopia. Secondo
una relazione del colonnello Azolino Hazon, la sola arma dei carabinieri passò
per le armi, in meno di quattro mesi, 2.509 indigeni. Alle operazioni
repressive partecipò anche l'esercito. Al generale Pietro Maletti venne infatti
affidato l'incarico di punire i religiosi della città conventuale di Debrà
Libanòs, ingiustamente sospettati di aver favorito l'attentato a Graziani
ospitando i due esecutori materiali, gli eritrei Abraham Debotch e Mogus
Asghedom. Tra il 18 e il 27 maggio 1937 Maletti portò a termine la sua missione
fucilando 449 monaci e diaconi.
Queste cifre le abbiamo desunte dai dispacci che
Graziani inviava quotidianamente a Mussolini, e fino a qualche tempo fa le
ritenevamo attendibili poiché Graziani ha sempre avuto la tendenza a non
celebrare, e soprattutto a non ridurre, le cifre della sua macabra contabilità.
Il viceré, infatti, commentando la strage di Debrà Libanòs non aveva mostrato
alcuna reticenza nel sottolineare l'estremo rigore della punizione: «E' titolo
di giusto orgoglio per me aver avuto la forza d'animo di applicare un
provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall'Abuna
all'ultimo prete o monaco».
Ma dovevo sbagliarmi sulle cifre della strage.
Due miei collaboratori, Ian L. Campbell, dell'Università di Nairobi, e Degife
Gabre-Tsadik, dell'Università di Addis Abeba, compivano fra il 1991 e il 1994
alcuni accurati sopralluoghi nelle località in cui Maletti decimò il clero
copto e giunsero alla conclusione, dopo aver intervistato alcuni superstiti
della strage e alcuni testimoni delle operazioni di Maletti, che le cifre
riferite da Graziani erano del tutto inattendibili. In realtà, le
mitragliatrici di Maletti hanno abbattuto a Debrà Libanòs, Laga Wolde e a
Guassa, non 449 tra preti, monaci, diaconi e debteras, ma un numero di
religiosi che si aggira tra i 1.423 e i 2.033. Data la serietà dei due
ricercatori e il numero delle testimonianze raccolte, nel 1997 pubblicavo il
loro lungo rapporto sul numero 21 di «Studi Piacentini».
Questa non è che una sintesi molto lacunosa dei
torti che l'Italia fascista ha fatto alle popolazioni africane da essa
amministrate. Dovremmo infatti anche parlare delle leggi razziali, che
confinavano gli indigeni nei loro ghetti, anticipando di vent'anni i rigori e
gli abusi dell'apartheid sudafricana. Dovremmo ricordare i limiti imposti
all'istruzione, tanto che in settant'anni di presenza italiana in Africa nessun
indigeno ebbe la facoltà e i mezzi per ottenere un diploma o una laurea.
Dovremmo infine ricordare che ai sudditi africani erano riservati soltanto
ruoli subalterni, i più modesti ed umilianti. Un fatto del genere non accadeva
nelle colonie africane della Francia e della Gran Bretagna.
Questi crimini furono accuratamente nascosti
agli italiani con tutti gli strumenti di cui può disporre una dittatura. E se
qualche verità filtrava all'estero, ad esempio sui gas impiegati in Etiopia, il
regime reagiva rabbiosamente sostenendo che un popolo che stava portando la
civiltà in Africa non poteva macchiarsi di tali infamie.
Molti testimoni italiani di stragi o dell'impiego
delle armi chimiche si decideranno a svelare i loro segreti soltanto trenta,
quaranta, cinquanta anni dopo gli avvenimenti e sempre con qualche reticenza.
Altri, invece, e sono i più numerosi, non hanno mai testimoniato sui crimini,
perché non li ritenevano tali, ma li consideravano normali pratiche per tenere
a freno popolazioni che giudicavano barbare. Molti, fra costoro, si sono fatti
fotografare in posa dinanzi alle forche o reggendo per i capelli teste mozze di
patrioti etiopici.
Questa macabra, allucinante documentazione
fotografica è visibile negli Archivi storici di Addis Abeba e proviene dagli
uffici degli organi giudiziari italiani scampati alle distruzioni della guerra,
o dai portafogli degli italiani finiti prigionieri degli etiopici alla caduta
dell'impero.
Il mito degli «italiani brava gente» cominciò ad
affermarsi quando ancora l'Italia era impegnata in Africa a difendere i suoi
territori. Se si sfogliano le riviste coloniali dell'epoca si nota l'insistenza
con la quale il regime fascista cercava di accreditare la tesi dell'italiano
impareggiabile costruttore di strade, ospedali, scuole; dell'italiano che in
colonia è pronto a deporre il fucile per impugnare la vanga; dell'italiano gran
lavoratore, generoso al punto da porre la sua esperienza al servizio degli
indigeni. Si tentava, insomma, di costruire il mito di un italiano diverso
dagli altri colonizzatori, più intraprendente e dinamico, ma anche più buono,
più prodigo, più tollerante. Insomma il prodotto esemplare di una civiltà
millenaria, illuminato dalla fede cattolica, fortificato dalla dottrina
fascista. Questo mito sopravviverà alla sconfitta nella seconda guerra mondiale
e impregnerà tutti i documenti che i primi governi della Repubblica
presenteranno alle Nazioni unite o ad altre assise internazionali nel
tentativo, fallito, di salvare, se non tutte, almeno le colonie prefasciste.
Non soltanto resisteva il mito degli «italiani
brava gente», ma si impediva con ogni mezzo che si svolgesse nel paese un
sereno e costruttivo dibattito sul colonialismo. Gli effetti del mancato
dibattito sono visibili, come sono palesi i danni arrecati. Il primo dato
negativo è la rimozione quasi totale, nella memoria e nella cultura storica
dell'Italia, del fenomeno dell'imperialismo e degli arbitri, soprusi, crimini,
genocidi ad esso connessi. A 117 anni dallo sbarco a Massaua del colonnello
Tancredi Saletta, a 91 dallo sbarco del generale Caneva a Tripoli, a 67
dall'aggressione fascista all'Etiopia, l'Italia repubblicana non ha ancora
saputo sbarazzarsi dei miti, delle leggende, delle contraffazioni che si sono
formate nel periodo coloniale, mentre una minoranza non insignificante di
reduci e di nostalgici li coltiva amorevolmente e li difende con iattanza.
Non soltanto è stato contrastato ogni tentativo
di aprire un dibattito a livello nazionale sul colonialismo, che coinvolgesse
storici, forze politiche ed opinione pubblica, ma si è anche tentato, da parte
di alcune istituzioni dello Stato, di esercitare il monopolio su alcuni archivi
per impedire che affiorasse la verità, mentre una storiografia di segno
moderato o revanscista favoriva palesemente la rimozione delle colpe coloniali.
A quando i processi postumi ai Badoglio, ai
Graziani, ai De Bono, ai Lessona, ai Cortese, ai Maletti e a tutti gli altri
responsabili dei genocidi africani rimasti impuniti? A quando la verità nei
libri di testo scolastici, che ignorano persino l'argomento? A quando la
proiezione sulla Tv di Stato dell'inchiesta televisiva «Fascist Legacy» di Ken
Kirby e Michael Palumbo sui crimini di guerra italiani in Africa e nei Balcani?
Come è noto, la Rai-Tv acquistò questo filmato dalla Bbc molti anni fa ma non
lo ha mai trasmesso. Perché? Per quali veti? Per quale ipocrita riserbo? Per
quale motivo è ancora proibito proiettare nelle sale Il Leone del deserto, il
film di Akkad che narra l'epopea tragica di Omar el-Mukhtàr, impiccato da
Graziani nel lager di Soluch?
Il Manifesto