FONTE: Il Messaggero 12 Settembre 2002

L’11 settembre cileno dimenticato dietro le Ande 

di ANTONIO SKARMETA*

Non era certo la tremenda sorpresa seguita allo schianto di due aerei contro le Twin Towers, ma la conferma che la nostra rivoluzione pacifica era arrivata a un crocevia dove l’attendeva la violenza. 
Poco più di un’ora dopo, aerei militari bombardavano il palazzo presidenziale con precisione meticolosa e qualche minuto più tardi i sostenitori del presidente spodestato venivano arrestati, messi in carcere, torturati, perseguitati, fatti sparire. In poche ore, come è successo a New York, l’11 settembre cileno apriva una crepa in un terreno fino ad allora sicuro, e introduceva una divisione insolita, inedita nella nostra società, fra oppressi e oppressori. La divisione tradizionale fra conservatori e progressisti, fra gente di destra e gente di sinistra, doveva considerarsi superata dal momento in cui le bombe e le pallottole si erano sostituite alla discussione e al dialogo. 
Possiamo ritenere la destituzione di Allende uno in più fra cento episodi fatidici che attraversano la storia contemporanea. Lasciamo stare la passione, diciamo solo che Allende aveva sperimentato la via cilena al socialismo, cioè il percorso di una rivoluzione originale capeggiata da un presidente marxista. Il quale, nella legalità delle istituzioni, si proponeva di rendere più consistente la democrazia. 
Questo progetto, nuovo e pacifico, suscitava l’attenzione della Spagna, dell’Italia, della Francia, Paesi in cui, ancora, i gruppi più progressisti della società non avevano accesso ai rispettivi organici di governo. 
In quel mattino dell’11 settembre 1973, in Cile, si praticarono senza limiti la violenza e la brutalità. Furono giorni di sofferenza, settimane che inaugurarono un lungo terrore incapace di affievolirsi per anni ed anni. Nonostante i rischi, i partiti democratici si sono lentamente ricostituiti e forze nuove li hanno ingrossati, fino a trovare la strada per sconfiggere, alle elezioni del 1988, la dittatura di Pinochet. 
Migliaia di persone in tutto il mondo sono rimaste esterrefatte per l’incredibile coincidenza: il disastro dell’11 settembre a New York è avvenuto un martedì e alla stessa ora dell’Apocalisse cilena del 1973. 
Quelli che allora ebbero compassione per i cileni democratici e quelli che hanno costruito la loro formazione politica spinti dalla brutalità con la quale fu infranto un sogno di giustizia, sentono che l’11 cosmopolita degli Stati Uniti, l’11 che si è trasformato in un festival delle comunicazioni di massa, l’11 che ha reso “democratico" il terrore nel mondo, ha steso un manto di dimenticanza su quell’11 cileno, umile, nascosto dietro le Ande. 
Certo, qua e là qualche giornalista ha menzionato la coincidenza e l’ha analizzata con dolore, ironia o distacco. Eppure il ricordo del Cile non ha bisogno di una data precisa per essere attuale in ognuna delle persone che ha partecipato, molto o poco, alla resistenza che ci ha condotti alla democrazia. Può essere che la spettacolarità tragica del “nuovo" 11 ci abbia rubato parte del simbolo che il mio Paese è stato nel mondo. Ma il fatto sostanziale, il linguaggio della solitudine, la tenerezza, la fraternità nei confronti delle decine di migliaia di emigranti che hanno raggiunto l’Europa, rimane una chiara e rotonda vittoria che ha contribuito a formare, politicamente e umanamente, generazioni intere. 
Con queste virtù nei nostri cuori non vedo perché contendere alle Twin Towers, e al terrorismo fanatico, la spettacolarizzazione del suo protagonismo. 


(traduzione di Rita Sala) 

*Scrittore, autore de “Il postino di Neruda", ambasciatore del Cile a Berlino