Capitolo 6°

 

La contemporaneità nel tempo e nello spazio

 

 

1. Le strutture e la storia

 

Zeno Cosini, inquieto protagonista del capolavoro di Italo Svevo, affaticato dal tentativo di fissare in una biografia i nessi di causa-effetto entro i quali si struttura la storia della sua misteriosa “malattia” esclama alla fine sconsolato: “chi può arrestare quelle immagini quando si mettono a fuggire traverso quel tempo che giammai somigliò tanto allo spazio?” Potrei sbagliare, ma a me pare che nel suo tentativo di “storicizzare” le proprie nevrosi, Zeno si avveda che l’idea di uno spazio e di un tempo intesi come coordinate in cui si muove e si definisce una vicenda storica ha il fascino sottile e tranquillizzante delle certezze, ma non scioglie i nodi del rapporto tra storia, spazio, tempo e coscienza del tempo e non conduce ad una conoscenza correttamente definita: Zeno narratore non è Zeno narrato, il ricordo di un evento non è mai perfettamente uguale all’evento, l’ordine cronologico non corrisponde a quello logico, i piani temporali - presente e passato - si sovrappongono e i fatti, trasformati in immagini – i documenti dello “storico” Zeno - fuggono in un tempo che ha una somiglianza angosciante con lo spazio.

In realtà, spazio e tempo non hanno una dimensione che li separi nettamente, tant’è che spesso ci riferiamo allo spazio come ad un intervallo di tempo tra due eventi, sicché, da un punto di vista puramente linguistico, il tempo sembra addirittura assorbire lo spazio. Se si considera che il linguaggio, strumento del racconto storico, è figlio della logica, la considerazione non è banale ed apre, anzi, prospettive stimolanti ad una riflessione su una dimensione della storia, nella quale non sono gli avvenimenti a collocarsi nei limiti di un binomio formato da uno spazio e da una continua successione di istanti, ma gli eventi a “comprendere” uno spazio ed un tempo. Quanto basta, insomma, per pensare alla storia come ad una “costruzione del tempo” compreso tra due avvenimenti, o se si vuole, di uno spazio di tempo delimitato da due eventi essenziali ai quali assegniamo valore storico.

Posto in questi confini, il tempo della storia assume una natura singolarmente vaga ed una dimensione inquietante: esso infatti si confonde con lo spazio ed è strettamente legato alla conoscenza che ne hanno individui e gruppi sociali: fuori da coppie di avvenimenti noti, che consentano di identificare spazi di tempo, la storia è ferma o non c’è. E’ quanto accade, ad esempio, coi millenni “dell’uomo che non scrive”, quelli che la “preistoria” esclude dal nostro tempo assieme a spazi e popoli a noi contemporanei: la foresta amazzonica, per citare un caso concreto, e gli indigeni che la abitano, sono la preistoria nel mondo contemporaneo o la preistoria del mondo contemporaneo?

Personalmente non saprei rispondere. Non so dare una definizione del tempo della storia, non so se, nella concretezza del lavoro dello storico, il tempo sia la cornice in cui inserire i fatti, o coincida col susseguirsi degli eventi e non so nemmeno se, come sostiene Althusser, uno degli errori più frequenti degli storici sia quello di “muoversi nel tempo senza tentare di costruirlo” [1].

Per quanto mi riguarda, trovo già prodigioso che lo storico riesca a conciliare l’estremo dinamismo del tempo – una successione di momenti scandita dal cambiamento - con la natura sostanzialmente statica dell’uomo che, di là dai caratteri esteriori, conserva immutato nei secoli il disegno delle sue grandi linee. Mi riferisco, ovviamente, all’uomo inteso come pensiero, sentimento, cultura, psiche e, perché no, istinto; l’uomo che ha mille volti, ma si riduce infine a sintesi e si fa protagonista del cambiamento che dà significato allo scorrere del tempo: quel tempo del quale egli solo conserva memoria, consentendo così che in qualche modo esista. Fuori di questa memoria, infatti, le trasformazioni scompaiono e la storia cessa. Certo, uomo, tempo e storia sono intimamente legati tra loro e, tuttavia, se è possibile immaginare uomini senza storia e senza tempo, non esistono un tempo ed una storia senza l’uomo: è l’uomo, infatti, a percepire il tempo ed a raccontare la storia e non mi sembra strano che Ricoeur, provando a costruire una filosofia del tempo osservi che la “caratteristica propria della storia” è quella “di essere racconto”, che, a ben vedere è “la forma più naturale dello spirito umano per prendere coscienza del tempo”, sicché, ricostruendo la storia, l’uomo non fa che “raccontare il tempo” [2]. Nei fatti, al di là delle contrapposizioni teoriche e delle relazioni reciproche tra gli studiosi, il tempo della storia - o, se si vuole, il tempo che la storia racconta - ha l’uomo al centro del processo, sicché, ricostruisca il passato con la scienza del presente o misuri “fenomeni dalla lunga genesi e dalla lenta trasformazione”, come vuole Braudel, lo storico, che è ad un tempo attore e narratore, non fa che raccontare se stesso.

Certo, Braudel ha ragione, la storia è fatta anche di costrizioni ambientali, gerarchie sociali, mentalità collettive e necessità comuni, elementi costitutivi della civiltà, “forze profonde, in generale antiche, di lunga durata”, che, per dirla con Macry, rappresentano le “caratteristiche formali ricorrenti, […] dotate di un senso universale e […] costituiscono i principi generali di strutturazione delle società umane” [3]. Resta tuttavia da chiarire quale coscienza abbiano gli uomini di queste forze e se sia vero che esse producano strutture che “ingombrano la storia” imponendosi “ad intere generazioni, scavalcando la loro volontà” e diventando “elementi incoscienti per la grande massa degli uomini”. E, d’altro canto, ammesso che le strutture siano davvero “prigioni di lunga durata”, come ignorare che è l’uomo a spezzare le sue catene e come non riflettere sulle tracce che una simile, inesausta battaglia lasciano nella sua coscienza?  Il senso della storia, la consapevolezza delle scelte o la cieca prevalenza delle strutture ambientali e culturali, in ultima analisi, la realtà o l’illusione della libertà dell’uomo, dipendono dalle risposte che siamo in grado di dare a queste domande.

Certo, ridurre la storia in un quadro esclusivamente strutturale non è difficile. Basta operare “uno spostamento d’accento sui sistemi (le economie, le società, le civiltà)” e la prospettiva muta immediatamente. E’ accaduto nella seconda metà del Novecento, “con l’introduzione della categoria strategica di civilisation” che ha sensibilmente avvicinato il campo d’azione della storia a quello dell’antropologia [4]. Storia “totale”, si è detto, storia di strutture, che tende a generalizzare, a ricavare dai fatti modelli, medie aritmetiche, successioni obbligate, regole, norme, leggi. Di fatto, nonostante gli sforzi e le forzature, strutture storiche e strutture antropologiche rimangono sensibilmente diverse tra loro. Levi Strauss, ad esempio, che adotta il punto di vista antropologico, tende a fissare nei comportamenti umani posizioni comuni, costanti, che caratterizzano l’agire dell’uomo al di là del tempo e dello spazio: “strutture culturali”, insomma, attraverso le quali definire una “essenza dell’uomo”. Una posizione indubbiamente lucida, nella quale, tuttavia, osserva preoccupato Macry, il tentativo di analizzare fenomeni universali e sincronici – le strutture mentali che non mutano nel tempo e nello spazio - comporta il rischio di negare l’utilità stessa della storia, “attenta tradizionalmente a fenomeni specifici e diacronici, a singoli contesti che sono caratterizzati dal tempo e dallo spazio, a quel che si trasforma e cambia, ai processi” [5]. 

Timori che, d’altro canto, gli antropologi sembrano confermare. Non è un caso, che proprio Levi-Strauss giunga a dichiarare che “l’analisi strutturale si rifiuta di lasciarsi rinchiudere nei perimetri già sperimentati dall’investigazione storica” [6]. Una investigazione che, a sua volta, non sfugge alla tentazione di identificare strutture che, a ben vedere, sono così pesanti da imporsi alla volontà ed alla coscienza di intere generazioni. “Per noi storici – osserva Braudel – una struttura è […] una realtà che il tempo stenta a logorare e che porta con sé molto a lungo” [7]. Le strutture dello storico, tuttavia, chiuse negli intangibili parametri dello spazio e del tempo, fanno i conti con la diversa velocità con cui si muovono l’uomo e l’ambiente e, quindi, con la “relatività del tempo”, e scontano, com’è naturale, il tentativo di mettere assieme gli elementi statici e quelli dinamici della vicenda umana, modificando in qualche misura l’antica concezione d’un tempo storico per il quale l’andamento cronologico e quello logico coincidono: la storia assume così un tempo scomposto su varie e contemporanee dimensioni. Il paesaggio alpino che i soldati di Annibale si trovano davanti mentre calano verso l’Italia romana è diverso da quello che i francesi di Napoleone incontrano portando oltralpe le idee della rivoluzione borghese, tuttavia, il tempo, che sulle Alpi s’è fermato, prende a correre velocemente - e venti secoli si consumano in un momento - quando l’armata napoleonica scende a valle: l’Italia che li accoglie ai piedi dei monti è ben diversa da quella latina. Ne viene fuori – scriverà Braudel - una storia quasi immobile, che considera l’uomo nei suoi rapporti con l’ambiente e con un tempo che scorre quasi separato dai ritmi che segnano lo svolgersi della vicenda umana - il tempo che comunemente definiamo “lungo” – un’altra, diversa e più mossa, che si occupa del quadro sociale, dei gruppi, della collettività - “tempo medio” diciamo di solito - e quella, infine, che, nell’uomo, coglie l’individuo: il “tempo breve”, la storia dei fatti coi suoi protagonisti [8].

I tempi di Braudel, ma altrettanto potrebbe dirsi di Bloch e Fabvre, non sono tuttavia compartimenti stagni, separati ed incomunicabili. Gli ambienti non sono mai completamente diversi tra loro e non c’è un fenomeno che non si intrecci con l’altro. Un ghiacciaio che si forma sulle Alpi produce un fiume in una valle e il fiume spinge la pianura sino al mare, sicché nascono e muoiono forme di vita, e l’uomo costruisce villaggi sui fiumi e le imbarcazioni ne seguono la corrente. Certo, gli uomini delle Alpi rimangono per molti aspetti separati e hanno costumi diversi da quelli della pianura, che a loro volta hanno mentalità ed usanze diverse da quelli che vivono in riva al mare, ma il cambiamento passa attraverso l’intreccio dei diversi tempi della storia. Questo vuol dire che la natura dell’uomo è cambiata o che il modificarsi dell’ambiente produce una umanità diversa? A me pare di no e mi chiedo piuttosto quale sia il rapporto tra la storia che, a sentir Le Goff, “va più o meno in fretta” e le forze profonde che agiscono al suo interno e “si lasciano cogliere solo nei tempi lunghi” [9], cosa siano con esattezza le cosiddette forze della storia, chi detti il ritmo del cambiamento, chi nel tempo breve, medio e lungo lo generi, lo percepisca, lo legga e lo racconti.

In realtà, è davvero difficile, comprendere quale sia la dimensione concreta di una “storia immobile” che, stando a strutturalisti e funzionalisti, un qualche luogo avrebbe tenuto legati i contadini alla quantità di cibo posseduta ed ai bisogni da soddisfare, in altri li avrebbe inchiodati alle forme dell’insediamento rurale, altrove alla permanenza del sistema feudale, altrove ancora alla lunga prevalenza delle idee conservatrici [10]. 

Quanto ed in che misura i contadini della Linguadoca descritti da Le Roy Ladurie siano rimasti storicamente simili a se stessi dal Trecento al Settecento nessuno potrà mai dire. E’ un fatto, tuttavia, che in qualunque plaga desolata del mondo contemporaneo, benché uniti dalla medesima condizione di miseria economica, i contadini sono diversi tra loro. Così, nella pretesa immobilità della Sicilia mafiosa, crescono una dietro l’altra generazioni ad un tempo uguali e diverse tra loro, con tutto quanto sopravvive in loro del passato, tutto quanto vive, e non potrebbe non vivere del presente. Se il tempo non è formato da un’interminabile catena d’intervalli minimi praticamente fermi descritta da Zenone, non è nemmeno il suo opposto, ossia una breve successione di intervalli lunghissimi, di enormi sbalzi, per cui dal 1300 al 1700 tutti i contadini della Linguadoca furono uguali tra loro, padri e figli, senza remissione di peccato, perché la proporzione cibo-bocche da sfamare rimase più o meno la stessa.

In quanto alle ricostruzioni a carattere vagamente psicologico, che individuano nuove strutture di “tempo lungo” nella storia delle mentalità o del lento costituirsi e disgregarsi dei sistemi di valore, esse hanno un fascino singolare, ma non sono tout court, come talvolta si potrebbe credere, storia di uomini e popoli. Ariés e Vovelle, per fare un esempio, occupandosi della concezione della morte in Occidente lungo l’arco d’un tempo lunghissimo – dal medio Evo ai nostri giorni – ne hanno colto e descritto le più svariate manifestazioni, per ricavarne le possibili “costanti”; di fatto, la ricerca di una “visione centrale” si trova a fare i conti con almeno due concezioni - quella religiosa e quella laica - così fortemente intrecciate tra loro, che alla fine sembra impossibile isolarle. Nella concezione religiosa, infatti, compaiono frequentemente i caratteri di quella pagana, così come in quella pagana si rinvengono elementi della visione religiosa; come non bastasse, in ognuna delle due è possibile identificare una mentalità “colta” ed una “popolare”, una ufficiale e solenne un’altra privata ed intima. Vovelle, in particolare, giunto ad intrecciare “la rivoluzione e la morte, il tempo breve di un decennio in cui tutto vacilla”, col “tempo molto lungo delle rappresentazioni collettive che si sono venute modellando nel corso dei secoli”, ne ricava “l’apporto essenziale dell’immagine allo studio della mentalità collettiva” [11] e una capacità indubbiamente nuova di cogliere “i fremiti del tempo breve […] in un quadro in cui s’inserisce il peso di una eredità di lunga durata” [12]. Fatto sta che tempo breve e tempo lungo sono così intrecciati tra loro – ed il caso della morte è davvero emblematico - che le numerose, possibili “serie” di dati che si possono ricavare dallo studio dell’iconografia, non consentono di identificare facilmente “costanti” particolarmente significative della vicenda dell’uomo. A ben vedere, quello che ne viene fuori è il tempo dell’uomo in quanto tale, un tempo che riassume nel breve percorso della vita i tempi della storia. Sembrerà strano, ma più Vovelle tenta di identificare “strutture”, più forza acquistano le variabili. Così, quando Vovelle, ricorrendo al Vasari, descrive la mole immensa del carro della morte che Piero dei Medici vuole “tutto nero e dipinto d’ossa di morti e di croci bianche”, sovrastato da “una Morte grandissima in cima con la falce in mano” e seguito dai cavalieri della morte […] e da “una folla di valletti e di scudieri che agitavano le torce accese e le insegne nere”, ciò che ne ricava non è una né una particolare concezione della morte, né una mentalità caratteristica di un sistema di valori, ma la descrizione di una utilizzazione strumentale e rituale della morte. Piero dei Medici vuole ammonire e terrorizzare: il suo carro della morte è teatro che per un attimo impressiona la folla, ma poi fa i conti con le mille reazioni individuali. Vasari non lo dice, ma non ci vuol molto a capirlo: chi si muove attorno al carro non ha paura. Non ne hanno i valletti, ad esempio, né i cavalieri che, parte dello spettacolo, a tutto pensano meno che alla morte. Spettacolo, infatti, teatro, è il carro per la folla che lo vede passare, e non è la società come può essere “ufficialmente rappresentata”, ma la collettività che sbarca il lunario e fa l’amore, trasgredisce e pecca, nella Toscana che è certamente più quella di Boccaccio che di Savonarola.

E, d’altro canto, è il Vasari stesso a lasciar trasparire la laicità che si cela dietro la rappresentazione. Tanta laicità, essa sì stupefacente davvero e in qualche senso “costante”, che va ben oltre la macabra messinscena di Piero. Non a caso - è Vovelle che lo attesta - l’iniziale timore di chi assiste si fa meraviglia, sicché alla fine la sola memoria che rimane “viva in tutti gli animi” è l’ammirazione “per la capacità d’inventare simili feste”. E non è privo di significato, vorrei dire, giacché ci occupiamo di “tempo”, il fatto che una data precisa in cui collocare l’evento lo studioso non sappia trovarla, sicché quel carnevale s’inserisce vagamente, direi indefinitamente, “nella continuità di una serie di tappe che si possono far cominciare verso il 1440 […] ed esaurirsi intorno al 1550 [13], come se “il passaggio dal registro della morte a quello della festa”, ma sarei per dire l’antichissimo sodalizio dell’idea di morte e di festa, che corrisponde perfettamente a quella del “crepuscolo” e del “ritorno alla caccia”, si fosse spenta alla metà del Cinquecento e non rientrasse - questo sì, fenomeno universale, senza spazio e senza tempo - in quello che lo stesso Vovelle definisce “un altro universo, insieme molto colto e molto popolare o, come si dice, primitivo”. Un universo che ritrovo nella dolce fantasia degli indiani d’America, i cui guerrieri immaginano una morte che li conduca alla “grande prateria”, ove i bisonti da cacciare non mancano mai, e nella mia Napoli, dove io stesso bambino celebravo il crepuscolo - la giornata dei defunti - costruendo con le mie mani cassettine di cartone colorato, decorate con motivi funerari. e passavo mascherato, di porta in porta - la festa - a chiedere l’obolo per le anime del purgatorio. La mia Napoli bambina – i luoghi dell’infanzia hanno essi stessi dimensione infantile – nella quale c’è talvolta un tempo storico così dilatato che puoi giungere sino al punto di dire mai e sempre - il tempo dell’Inquisizione, ad esempio, non vi trovò mai un suo spazio - e la solennità del canto salmodiato è sempre ritmata sui tempi dell’ambiguo rapporto col soprannaturale: tragedia e maschera, spesso divertimento: lo stesso che Jouffroi intravede altrove, in altri spazi e tempi. Ed eroe da carnevale è, per molti versi, il venerato San Gennaro, che raccoglie nel duomo il popolo e i notabili, proni davanti al mistero e, tuttavia, pronti al dileggio, all’ira e alla disperazione mortale, se il miracolo tarda o non avviene e all’esultanza, la stessa che si prova per una vita che nasce, un attimo dopo che il sangue misteriosamente si è sciolto.

Né, per tornare al Vovelle delle strutture mentali e del tempo lungo, le rarissime svolte sono poi così chiare e comprensibili come si potrebbe pensare. E’ vero, sul piano iconografico, dopo secoli di continuità, in Provenza la guerra del 1914 uccide “gli altari delle anime del Purgatorio”, ma pensare ad un fenomeno di “laicizzazione” appare rischioso e contano mille fattori: “la ritrovata nudità della chiesa”, lo scarso valore estetico di opere difficilmente difendibili, una “Chiesa che si interroga in termini nuovi su ciò che del purgatorio può essere salvato” [14]. Di fatto, il purgatorio e le sue anime restano nella cultura della Chiesa e, quindi, della gente. Certo, le “anime dipinte” scompaiono, ma rimangono la cassette delle elemosine ed i ceri, che sembrano non avere limiti di tempo e spazio, tant’è che lo studioso s’interroga sul “problema della delimitazione sia geografica (una devozione provenzale all’italiana?) sia ovviamente sociale” [15], e, di fronte al permanere di “un insieme di credenze legate al purgatorio - “pasto notturno dei morti del villaggio in un luogo deserto, morti erranti sotto forma animale, liberazione di un’anima segnalata ma serializzata da una stella cadente” - giunge la resa: nonostante le radici millenarie dei fenomeni, etnografia e folclore non bastano a “dar loro uno spessore storico”. Resta così irrisolto il problema non trascurabile del rapporto tra cambiamento e condizioni socio-geografiche, ruolo delle confraternite e degli ordini religiosi e forme delle rappresentazioni collettive. Non si può far altro che prenderne atto: dalla trasformazione dell’idea dell’aldilà, dall’affievolirsi dei riti funebri, e dalla contemporanea crisi del luogo dei morti, che ha per contraltare la commercializzazione, la standardizzazione del mercato funebre la concentrazione della produzione, emerge una “massa grigia” che, “dagli anni sessanta ai nostri giorni deve pur significare qualcosa”.

 

 

Note

 

1) Antonio Pieretti (a cura di), Lo strutturalimo e la morte dell’uomo, Roma, 1977, e L. Althusser, Montsquieu, la politica e la storia, Roma 1974.

2) P. Ricoeur, Il tempo e il racconto, Jaka Book, Milano, 1986-1988 e P. Vilar, Le parole della storia, Editori Riuniti, Roma 1992, II ediz., p. 44.

3) F. Braudel, Il mondo attuale, vol. I, Le civiltà extraeuropee, Torino 1966, pp. 46-47 e P. Macry, cit., p. 33.

4) P. Macry, La società contemporanea…, cit. p. 34.

5) Ivi.

6) Levi-Strauss, Il crudo e il cotto, Milano 1966, p. 22.

7) F. Braudel, Storia e scienze sociali. La lunga durata, in Idem, Scritti sulla storia, Milano 1976, p. 65.

8) F. Braudel, Ivi, p. 65.

9) J. Le Goff, La nuova storia, in J. Le Goff (a cura di), La nuova storia, Milano, 1980, p. 32.

10) E. Le Roy Ladurie, I contadini in Linguadoca, Bari 1970, M. Agulhon, La sociabilitè méridionale. Confréries et associations dans la vie collective en Provence orientale à la fin du XVIII siecle Aix-en Provence, 1966, citato da Macry, p. 37 e P. Bois, Contadini dell’Ovest, Torino 1975.

11) P. Ariés, Storia della morte in Occidente, Milano 1978 G. e M. Vovelle, Vision de la morte et de l’au-delà en Provence, d’après les autels ames du Purgatore, Paris 1970, M. Novelle, La mort e l’Occident de 1300 à nos juors, ? e Idem, Immagini e immaginario nella storia, Roma 1989, p. 9

12) P. Vovelle, Immagini e immaginario..., cit., p. 26.

13) Ivi, pp. 31-32.

14) Ivi, p. 73.

15) Ivi.