Capitolo 5°

 

Storia e linguaggio

 

 

 Tra scienza e morale

 

 

Anni fa, discutendo di scienza e storia, Edward Carr si soffermò sulla singolare analogia tra la definizione di verità scientifica, che il fisico Ziman riduceva ad “un’affermazione accettata pubblicamente dai competenti in materia (1) e alcune riflessioni di Barraclough sulla storia che non sarebbe “in alcun modo composta da giudizi di fatto, bensì da una serie di giudizi tradizionalmente accettati” (2). Com’è ovvio, ciò che colpiva Carr non era il valore delle osservazioni, che anzi trovava insufficienti, bensì il fatto “sorprendente” che “uno storico ed un fisico formulassero indipendentemente lo stesso problema quasi con le stesse parole” (3).

Lucido come sempre, tuttavia, Carr diffidava delle analogie - sono una “trappola”, scriveva - e avvertiva: le comparazioni devono fare i conti con i rischi di astrazione, la tentazione del “tecnicismo” e l’inestricabile intreccio tra individuale e generale, particolare e universale. D’altro canto, se “l’oceano dei fatti” sgomenta” (4)  la ricerca di fenomeni generali che consentano di ricavare “interpretazioni” dalle comparazioni rischia di produrre “una sorta di tassonomia storico-sociologica, in cui si finisce per occuparsi del solo aspetto esteriore di fenomeni storici che, con tutte le loro somiglianze, continuano pur sempre a restare unici” (5) . Più chiaramente, invitando a diffidare dei grandi schemi stroriografici in cui raggruppare i singoli eventi, Marx, a torto “accusato di essere uno di coloro che costruiscono tali schemi, o credono nella loro utilità”, osserva come “eventi sorprendentemente analoghi, che tuttavia si verificano in contesti storici differenti, hanno effetti completamente diversi”, sicché, “confrontandoli, troviamo facilmente la chiave per comprendere il fenomeno in questione; ma in nessun caso è possibile arrivare a tale comprensione servendosi come di un passe-partout di certe teorie storico-filosofiche che hanno la gran virtù di porsi al di sopra della storia (6) . Carr, tuttavia, che dello storico conosce mestiere e fatica, avverte la necessità di non separare rigidamente l’individuale dal generale e sa essere più prudente: “la frontiera […] – scrive – deve rimanere aperta a un traffico in entrambi i sensi” (7) . Egli sa bene infatti che la questione è molto più complessa e che indagare sui rapporti tra storia e scienza equivale spesso a riflettere sulle relazioni tra storia e morale e sui limiti di un linguaggio specifico che non di rado giunge all’omologazione attraverso la comparazione.

In effetti, sebbene due uomini identici non esistano e i fatti non siano mai uguali tra loro, non c’è studioso che possegga un linguaggio in grado di tenere insieme l’infinita pluralità degli eventi e la loro estrema singolarità non esiste e, d’altro canto, “insistere sull’unicità degli eventi storici” e sulle regole dell’analisi del linguaggio per le quali “ogni cosa è ciò che è e non un’altra cosa”, conduce ad “una specie di nirvana filosofico, in cui non si può dire nulla di importante su niente (8) . Per uscire da una simile paralisi, la storia, come ogni altra scienza, procede per generalizzazioni, utilizzando un linguaggio che non sempre dà nome alle peculiarità e cade spesso nella tentazione di schematizzare. Non meraviglia, quindi, che Gibbon possa definire “rivoluzioni” tanto l’affermarsi del cristianesimo che la nascita dell’Islam e che gli storici moderni usino la stessa definizione per gli avvenimenti francesi del 1789, quelli russi del 1917 e quelli cubani del 1953: eventi irripetibili posti sotto il segno di un’unica generalizzazione colgono, per dirla con Carr, ciò che nell’irripetibile ha un carattere generale (9) .

In realtà, si tenti di fare storia affrontando consapevolmente i rischi della teoresi, nella convinzione che essa si imponga come “compito, significato e fine immanente della storia” (10) , o ci si proponga di dare risposte positive alla necessità di “salvare la specificità della storia come scienza e nello stesso tempo arricchire il bagaglio e gli interessi dello storico con altri apporti disciplinari” (11) , ha ragione Macry: dietro il ricorso “ad una grande quantità di categorie d’analisi sta la convinzione che soltanto attraverso l’identificazione di modelli e sistemi sia possibile […] tentare una comparazione fra contesti diversi” (12) .

Sia come sia, il problema che si pone a questo punto è quello di evitare una interpretazione che, pur senza disegnare una storia che abbia di per sé senso e direzione, affidi a giudizi di valore l’alterità e l’estraneità allo schema. Sembrerà paradossale, ma una eccessiva ricerca di scientificità accresce i rischi di distorsioni storiografiche: se, com’è ormai comunemente accettato, le scoperte scientifiche nascono da ventagli di ipotesi verificate che, senza cristallizzarsi in “leggi”, creano le condizioni per nuove ricerche, non sarà certo la storia, che è scienza umana, a fondarsi su “leggi” [Carr, cit. p. 65]. Gli eventi del resto non possono rappresentare se stessi e le parole che usiamo per descriverli sono tanto più soggettive, quanto più vincolate a uno schema: nonostante la sua presunta “oggettività”, lo schema non disegna infatti certezze, ma coordina ipotesi. Costruire uno modello in cui la sconfitta del socialismo reale prefiguri una superiorità del capitalismo su ogni socialismo può costituire senz’altro un’ipotesi. La verifica, tuttavia, passa anche per la valutazione delle trasformazioni che la pratica politica ha prodotto sulla dottrina. Il New Deal, per esempio, dimostra, come sostiene Carr, che il socialismo condizionò le scelte del capitalismo fino al punto che “se ora siamo tutti dei pianificatori, dipende […] dall’influenza esercitata dai metodi e dai successi sovietici” o rimane nel solco della tradizione, presentando solo – come ritiene Graziosi - elementi di affinità con i nuovi regimi europei? [Graziosi, cit. p. ; E. H. Carr, The Soviet Impact in the Western World, London 1946, p. 44, Talmon, Political Messianism, p. 514 e Irene Collins, Liberalism in Ninenteenth-century Europe, in From Metternich to Hitler, a cura di Medlicott, London, 1963, p. 34].  Certo, si può evitare di dare risposte a queste domande, o sostenere che la nuova politica economica si sarebbe verificata anche senza l’impulso sovietico, fermandosi sulla sconfitta dei bolscevichi per attribuire ai marxisti un’assoluta incapacità di comprendere la sostanza del capitalismo e, di conseguenza, la volontà di sostituire “rapporti formali di proprietà […], grande industria e forza lavoro salariata” al mercato ed ai rapporti di mercato [Graziosi pp. 40-42]. Il punto è che alla fine ne nasce un capitalismo tutto dottrina ed olio di lucerna, astratto e decontestualizzato, che negli anni venti del Novecento prescinde dai rapporti di proprietà e non lega in alcun modo i suoi destini alla produzione industriale. E’, probabilmente, tutto quanto consente lo schema prodotto dalle comparazioni.

In realtà, procedendo per comparazioni, è difficile mettere insieme in maniera organica ed equilibrata affinità e differenze e, tuttavia, la scelta di occuparsi delle affinità o delle differenze non è mai ininfluente. Ragionando di Wilson e Lenin in termini di somiglianze, più che di difformità – “avevano in comune il rifiuto del sistema internazionale vigente, […] avversavano la diplomazia segreta, le annessioni, le discriminazioni commerciali, […] si tenevano lontani dalla dottrina dell’equilibrio, […] denunciavano la mano morta del passato” - Lasswell e Van Halstyne  giungono a individuare in uomini così diversi tra loro “i campioni rivoluzionari dell’epoca” e “i profeti di un nuovo ordine internazionale”. [Harold. D. Lasswell, Propaganda techinique in the World War, Londra 1927, p. 216 e R. W. Van Alstyne, Wodrow Wilson and the idea of the Nation State, “International Affaires”, XXVII 1961 p. 307, riportato da Barraclough, cit., p, 121]; Graziosi, a sua volta, partendo da uniformità di natura diversa, coglie nell’esperienza sovietica, “evidenti affinità con gli altri regimi emersi in Europa nella prima parte del XX secolo” e giunge ad associare al nazismo, nel campo generico delle “tirannidi”, lo stalinismo che, da qualunque angolo visuale lo si voglia vedere, fu parte integrante della storia del bolscevismo. Come si vede, due affinità di segno opposto accostano paradossalmente il bolscevismo al nazismo ed al capitalismo. Come non bastasse, mostrando quanto sia sottile il confine tra i punti di contatto e gli elementi di separazione e come una sola disparità possa mettere in discussione l’impianto complessivo di uno schema ricavato dalle affinità, Barraclough osserva acutamente che, nonostante l’involuzione stalinista, la Russia sovietica e gli Stati Uniti ebbero in comune un concetto mondiale della politica ed una capacità di elaborare programmi “che non erano accentrati sull’Europa, ma abbracciavano l’intero mondo: cioè si appellavano a tutti i popoli, senza badare a razza o colore. Entrambi implicavano l’annullamento del precedente sistema europeo” [Barraclough, cit. p. 124]. Certo, ci sarà chi, perdendosi nel gioco dei giudizi di valore e delle considerazioni morali, sosterrà che Unione Sovietica e Stati Uniti, benché divisi da una frattura sostanzialmente ideologica, mirarono entrambe a conservare “il medesimo sistema di stati in una fase nuova del suo sviluppo” [F. H. Hinsley, Power and the persuit of peace, Cambridge 1963, p. 357]. Nei fatti, in quel sistema ed in quella fase nuova, mentre il nazionalsocialismo cercava un posto tra le potenze e si proponeva di ripristinare il ruolo centrale dell’Europa, USA e URSS puntavano alla costruzione di un mondo che relegava l’Europa in secondo piano. Una elemento sostanziale, col quale – al di là di schemi ed affinità - occorre fare i conti. Nazismo e bolscevismo ebbero prospettive diverse e il “peso” che quest’ultimo sugli sviluppi della vicenda storica del Novecento, segna una separazione così forte, da rendere improponibile, un’assimilazione storica, politica e morale.

Sui limiti della comparazione e sulla possibilità di superarli è tornato recentemente Graziosi . Punto di riferimento, il confronto tra nazismo e stalinismo tentato da Kershaw e Lewin  [Ian Kershaw e Moshe Lewin, Stalinism und Nazism. Dictatorship in comparison, Cambridge University Press, Cambridge – New York, 1997] che potrebbe indicare “la direzione giusta”, purché – osserva lo studioso - si prenda atto che l’esistenza “di fenomeni comparabili […] potrebbe naturalmente rivelarsi fondata su presupposti erronei” e ci si proponga “una comparazione genetico-problematica, capace di guardare unitariamente ad un periodo storico caratterizzato da fenomeni unici, ma collegati e avvicinati dai rapporti che si sono instaurati tra loro, nonché dall’aver cercato risposta a problemi comuni e vissuto eventi fondanti simili [Ivi, pp. 17-18].

Avviatosi però personalmente sul terreno della comparazione per spiegare la storia dell’Europa centrale nella prima metà del Novecento alla luce di un “retroterra comune” costituito dal binomio “guerra-rivoluzione”, Graziosi ammette di aver usato, “quel senno di poi che è uno dei grandi privilegi del mio mestiere”, nella convinzione che “la storia umana sia una storia aperta e libera, fatta - checché se ne dica - di se e di ma” [Ivi, p. 19. “Questo tipo di comparazione - osserva lo studioso - è […] vicina a quella che Marc Bloch definiva scientificamente la plus riche nel suo bel Pour une histoire comparée des societés européennes”].

La questione del rapporto tra storia e scienza torna così alla linea di “frontiera”  sulla quale l’aveva saggiamente collocata Carr e si ripresenta con le luci e le ombre degli “schizzi per grandi linee […] tratteggiati […] con la coscienza di operare una ricostruzione a posteriori”, dietro la quale si intravede un intreccio complesso tra fatto, interpretazione e linguaggio, che accomuna in una valutazione dichiaratamente etica fenomeni caratterizzati da una forte specificità. Nazismo e stalinismo - ma si potrebbe dire nazismo e bolscevismo, di cui nel bene e nel male lo stalinismo è parte - guerra e rivoluzione, e perché no, teoria e prassi, tesi ed antitesi – si trovano così affiancati in uno schema interpretativo in cui l’innegabile tensione concettuale punta alla formalizzazione di fenomeni e comportamenti, all’elaborazione di schemi e sistematizzazioni, all’interno dei quali “storia morale e storia di personaggi finiscono per essere correlate e coimplicantesi” [S. Guarracino e D. Ragazzini, Storia e insegnamento della storia. Problemi e metodi, Feltrinelli, Milano, 4a ediz. 1985, p. 243] e i fatti e le parole usate per definirli sembrano assumere soprattutto la funzione di verificare modelli. Ciò, senza contare questioni di linguaggio solo apparentemente marginali. Le parole “guerra” e “rivoluzione”, che indicano il “retroterra comune” sono, ad esempio, espressioni linguistiche che “nella immobilità formale del vocabolo […] nascondono immense trasformazioni sociali”, assolutamente diverse da paese a paese: la formula certo concettualizza, ma opera anche un’astrazione in cui i contorni reali dei fatti sfumano sino ad apparire irriconoscibili [Ivi.]. In quanto al resto, la comparazione nazismo – stalinismo, appare evidentemente spuria e il ruolo giocato dall’uso del linguaggio è ancora più evidente e determinante. Se Hitler, infatti, incarna in qualche modo il nazionalsocialismo e se la parola “nazismo” indica in maniera propria ed esaustiva uomini, fatti e idee che “furono” il movimento creato da Hitler, Stalin, che non incarna il bolscevismo, non ne può essere separato, sicché, a rigor di logica, due sole sono, se proprio si vogliono tentare, le comparazioni corrette: quella già faticosa tra hitlerismo e stalinismo, o l’altra, improponibile  tra nazismo e bolscevismo. La terza opzione, - nazismo e stalinismo per intenderci – non solo è impropria e fuorviante perché assimila un fenomeno storico considerato nella sua interezza – il nazismo – ad aspetti parziali di un altro fenomeno storico, il bolscevismo, ma produce un’evidente distorsione.

Grazie a meccanismi psicologici ben noti agli studiosi di scienza della comunicazione, il giudizio morale che se ne ricava, non riguarda Hitler e Stalin, ma i due movimenti che essi rappresentano a vario titolo: nazismo e bolscevismo. E’ ad un tempo la riformulazione in chiave morale di un’associazione difficile da proporre in termini di processo storico, e la dimostrazione che, dal punto di vista storiografico, l’esigenza tipicamente scientifica di ordinare, classificare e comparare è perfettamente funzionale ad interpretazioni “morali” dei fatti storici. Guarracini e Ragazzini hanno individuato addirittura quattro componenti essenziali del “moralismo nel giudizio storico”, due delle quali - le “categorie antropomorfiche di riferimento” e gli “schemi stereotipi dell’ordinamento sociale” - [Nota: Le altre due sono gli “oggetti dominanti, nel senso di grandi personalità e le “entità collettive personalizzate” S. Guarracino e D. Ragazzini, cit. p. 240] rappresentano cardini irrinunciabili di una maniera di ricostruire la storia nella quale “i fatti vengono […] ordinati e classificati partendo da una interpretazione antromorfica della Storia, mentre la complessa realtà storica viene ridotta a schemi stereotipi, per lo più dicotomici, dell’ordinamento sociale” [L. Von Friburg, P. Hubner, Immagini della storia e socializzazione politica, traduz. italiana parziale di M. Barbagli (a cura di), Scuola, potere e ideologia, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 270-284], sicché, In base a schemi del tipo democrazia-dittatura, capitalismo comunismo e così via, “è possibile distinguere facilmente nella storia i buoni dai cattivi e i sistemi sociali giusti da quelli sbagliati” [Ivi].

Si pensi, per fare un esempio concreto, ad una ricostruzione della rivoluzione bolscevica imperniata su di un personaggio dominante – Stalin - su entità collettive personalizzate che sembrano agire come singole persone – i russi “tradizionalmente” propensi all’assolutismo e i francesi, gli inglesi e gli statunitensi paladini delle libertà civili – e alla contrapposizione secca tra il doppio binomio democrazia e capitalismo – dittatura e comunismo e non sarà difficile valutare le conseguenze di una impostazione nella quale il processo ricostruzione – interpretazione si risolve in “narrazione” e, quindi in linguaggio, che, per sua natura non è neutrale. Il diritto-dovere dello storico di esprimere un giudizio sui personaggi di cui si occupa e di far uso di “termini […] al tempo stesso ricchi di giudizi valutativi e privi di essi” è stato recentemente rivendicato da Graziosi – che ha l’onestà intellettuale di dichiarare apertamente l’ambivalenza del suo linguaggio: ho fatto “uso – scrive infatti lo studioso – dei termini moderno e modernizzazione […] in due sensi diversi”:  cronologico, per cui moderno è quello che, di volta in volta, viene dopo quando è successo prima e non è precisamente definibile”, e contenutistico. E’ più volte accaduto, infatti, che il “moderno cronologico possa essere definito più primitivo del suo passato, tanto dal punto di vista morale, quanto da quello della sua minore complessità e articolazione”. Da questo punto di vista, “moderno e modernizzazione si identificano con la liquidazione della società precedente” ma è giusto ritenere che, “per la sua complessità, e soprattutto per la sua pretesa precisione, il concetto contenutistico di moderno sia più ingannevole e scivoloso del precedente”, perché, al di là dei contenuti comuni – maggiore o minore partecipazione dello stato, contributo dell’iniziativa dal basso, uso più o meno sistematico della violenza da parte dello stato, delle classi, dei gruppi etnici e religiosi dominanti e dominati, di modernizzazioni ce ne sono state più d’una, e sulla nascita della modernità non è possibile fondare “una categoria contenutistica del moderno”. [Graziosi, cit., pp. 23-24]. Manca quindi un termine che spieghi gli “orrori del Novecento” – conclude Graziosi, che, tuttavia, non si pone il problema di trovarne uno che spieghi quelli dell’Ottocento o della storia in generale, benché riconosca che “di popoli o comunità distrutti o perseguitati in quanto popoli o comunità sono pieni la Bibbia, come la storia romana, la storia spagnola come quella francese, quella babilonese come quella mongola o maora” e persino “la persecuzione di massa sulla base di categorie sociali ha i suoi precedenti in tanti stermini di élite e nobiltà” e -“tutti o quasi gli esseri umani sono stati e restano, nelle condizioni adatte, potenzialmente capaci di comportamenti terribili” [Ivi, pp. 25-26]. Il dovere di esprimere un giudizio morale va comunque assolto ed è ovviamente un termine generico, preso in prestito dal linguaggio comune, ma denso di giudizi valutativi, che consente allo studioso di farlo: “credo, egli scrive, che la brutalizzazione, lungi dall’essere un prodotto della modernità, […] sia in realtà sempre in agguato, e che occorra mantenere la capacità di distinguere gli Stalin dai Diderot” [Ivi].

Diderot e Stalin diventano così davvero una incarnazione del “bene” e del “male” e, a marcare le differenze di fronte ai fatti, sono soprattutto le parole. Quelle con cui uno storico militante riflette sul tempo di cui è stato protagonista, colgono le sfumature, gettano luce sulle zone d’ombra e si curano degli uomini, che sono i protagonisti della storia. Così Gaetano Arfé, dopo aver ricordato le qualità umane, la preparazione politica, le doti di combattenti dei comunisti incontrati in carcere e nella lotta partigiana, può serenamente scrivere: “Quando mi sono trovato a formulare un giudizio storico sul comunismo italiano e su quel fenomeno mostruosamente contraddittorio che fu lo stalinismo […] mi ha molto giovato l’aver sperimentato di persona che dalle scuole del Komintern sono usciti fucilatori e seviziatori, ma anche uomini […] disposti a tutto soffrire e a tutto offrire per la causa cui si erano votati e combattenti capaci di conquistarsi e di tenere posizioni di avanguardia nella lotta della Resistenza. Il nazismo aveva generato solo mostri [G. Arfé, Non abbiamo insegnamenti da darvi]. Di natura ben diversa - separano i fatti a colpi d’ascia,  ma l’intreccio è troppo complesso per  non troncare nodi e radici, e si richiamano a categorie morali più che ad uomini - le parole usate da Graziosi, per chiudere i conti col mondo che Arfé ha vissuto e ricostruisce. L’associazione astratta e perniciosa tra “socialismo e libertà, già affermatasi nei decenni precedenti, ha dominato buona parte della storia intellettuale del XX secolo”, scrive infatti lo studioso, ma “quel che oggi sappiamo di questo secolo, della storia sovietica come di quella cinese […] è più che sufficiente per affermare che si trattava di una soluzione errata” [Ivi, p. 317]. Se alla vigilia della seconda guerra mondiale, l’Europa sembrava trasformarsi, irresistibilmente nel regno di un male senza fine e  “nel 1940 con la presa di Parigi da parte di eserciti nazisti alleati coi sovietici, le previsioni più cupe sembrarono avverarsi”,  proprio “dalla nuova guerra, malgrado i suoi orrori, sarebbero arrivati un mondo diverso e quella progressiva sconfitta del male che avrebbe fatto acquistare alla storia del XX secolo europeo il suo valore di grande parabola morale” [Ivi, p. 258].

Non anni, ma secoli separano queste affermazioni da quelle che nelle sue “lezioni” di storia ebbe a scrivere Carr occupandosi di storia, scienza e morale: “Supponiamo che concetti astratti come bene e male e i loro sviluppi più complessi giacciano al di là dei confini della storia. […] Tali astrazioni hanno nello studio della moralità storica, la stessa funzione delle formule logiche e matematiche della fisica. Sono categorie indispensabile al pensiero: ma finché non le riempiamo di un contenuto specifico, esse sono prive di significato e di realtà”. [Carr. Cit., p. 88-89].

In questo senso, ci si può anche chiedere cosa resti della storia europea del XX secolo e rispondersi che  la “libertà, sola, è l’unico principio che meriti il primato su tutti gli altri, indipendenza nazionale, democrazia e giustizia sociale inclusi […] perché la loro assolutizzazione può aprire le porte al male” [Graziosi, cit., p. 357]. Di fatto, però, questa non è la strada che conduce “al di là della lezione morale” e i rischi delle estremizzazioni non si combattono con una nuova assolutizzazione: quella della libertà.

E’ probabile che, espressa l’ovvia condanna morale sullo stalinismo, piuttosto che avventurarsi sul terreno minato degli assolutismi ideologici – foss’anche quelli nobilissimi che ruotano attorno alla libertà - lo storico sia chiamato a “leggere” gli eventi che stanno scrivendo la storia del pianeta dalla disgregazione del mondo sovietico. Un campo aperto, sul quale basta affacciarsi per veder vacillare certezze teoriche e avvertire l’inadeguatezza degli strumenti linguistici di cui dispone. In quanto ai fatti, lo stalinismo ha firmato i suoi crimini. A chi intende far ruotare la lettura della storia attorno al tema delle responsabilità morali, tocca chiarire interrogarsi però sulle tante “zone franche” che legalizzano uno sfruttamento della manodopera spinto fino ai livelli della schiavitù, sulla devastazione dell’ambiente che pone inquietanti interrogativi sul futuro del pianeta, sulle devastanti guerre di conquista e sulla produzione, il commercio e l’uso di armi di distruzione di massa, sulla violazione costante delle norme del diritto internazionale, sulla fame e sugli innumerevoli morti che tutto questo comporta: sono anch’essi morti che “fanno storia”, anche se non si addebitano in nessun modo allo stalinismo. E’ un’ecatombe anonima: mancano i nomi delle vittime e quelli dei carnefici. L’elogio della libertà non può ignorarli. Più chiaro si fa il conto che il bolscevismo avrebbe da pagare all’umanità, più il capitalismo appare inadeguato a rispondere alle domande di emancipazione economica e sociale di miliardi di esseri umani che vivono in condizioni subumane. Per dirla con Luard, sono il prodotto della “legge dell’ineguaglianza cumulativa”. Sembrerà immorale, ma è così: chi muore di fame non sa che farsene della libertà. 

Sia o meno un valore assoluto, la parola libertà assume storicamente valenze diverse a seconda del tempo, del luogo e delle condizioni in cui si trova chi è la pronunzia. Di questa estrema relatività il linguaggio storico non rende conto. Esso è in genere parte di un linguaggio più ampio e generico, quello quotidiano e comune, che assume talvolta valore specifico, perché già utilizzato per definire fatti del passato storicamente significativi. Un linguaggio ricevuto in eredità dal passato e deformato dall’uso prolungato. Lo storico lo estende ad avvenimenti successivi scelti per analogia, valore esemplificativo – o per dir meglio esemplare – corrispondenza culturale adesione emotiva, implicazioni psicologiche. Un processo di costruzione faticoso che lo storico realizza per analogia, assimilazione, scambio che lo induce talvolta ad estendere al passato di parole del presentecui attribuisce contenuto storicamente rilevanti. Attualizzare il passato e – si consenta l’orribile espressione – passatizzare il presente è prassi comune dello storico che costruisce e ricostruisce nel suo laboratorio i fatti ed il linguaggio che serve a narrarli. Assimilare, comparare e generalizzare fatti e parole è in fondo fare storia e va bene così, purchè non si giunga ad applicare questo metodo al tema delicatissimo dei valori. Dai molteplici rischi di deformazione che Bloch sintetizzò mirabilmente nella formula del “fraintendimento per anacronismo” [Riportato da S. Guarracino E D. Ragazzini, cit, p. 244 ], si giungerebbe allo stravolgimento. Per esser chiari, “all’anacronismo del fraintendimento”.

 

1) [J. Ziman, in “The Listener”, 18-8-1960, riportata da E. H. Carr, in Sei Lezioni sulla storia, Einaudi, Torino, 1966, p. 68.

2) G. Barraclough, History in a Changing World, 1955, p. 14.

3) Ivi.

4) W. Sombart, The quintessence of the capitalism, 1915, p. 354.

5) A. Graziosi, Guerra e rivoluzione in Europa 1905-1956, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 17.

6) Riportato da Carr, op. cit. p. 72.

7) Ivi, p. 73.

8) Ivi, p. 69.

9) Gibbon, Decline and fallow of the Roman Empire, cap. XX e E. H. Carr, Sei lezioni, cit,. p. 69.

10) G. Penati, Storia e teoremi, Brescia 1966, p. 284.

11) N. Tranfaglia, Introduzione a Il mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca. Questioni di metodo, Firenze 1983, 2, parte 1a, p. 535.

12) P. Macry, cit. p. 281.