Una questione di
prospettiva.
Storia dal basso o storia dall’alto? Storia politica o storia sociale?
In un saggio che, a
distanza di qualche anno, conserva intatto il suo interesse [P. Macry, La
società contemporanea. Una introduzione storica, Il Mulino, Bologna 1995,
pp. 9-10], Paolo Macry afferma che “il tipo di storiografia” su cui intende
riflettere “concerne per lo più i fenomeni e i processi sociali”. Importa poco,
egli aggiunge che sia “storia della società, o storia economica e sociale o
altro ancora”: ciò che conta è che non si tratta della “vecchia storia
politica, che pretendeva di essere l’unica possibile e che esauriva lo studio
del passato nella ricostruzione degli avvenimenti politici”. Discutendo di
storia contemporanea, quindi, egli si occupa soprattutto “di ambiente e di
manifatture, di matrimoni e di morti, di contadini e di borghesi”. Verrebbero
in mente i “titoli” abituali dei capitoli di un manuale – rivoluzione industriale,
uomo e ambiente, sviluppo demografico, scoperte scientifiche, classi sociali –
se non fosse evidente la scelta di campo dello “storico sociale”, temperata da
una consapevolezza: quale che sia l’angolo visuale da cui si ponga, nessuno
studioso può limitarsi alla sola “storia dell’economia o della sociologia,
separandole dalla storia della politica, degli apparati statali, della cultura
scritta, delle ideologie”. C’è, per intenderci, la sintesi d’un percorso
difficile e faticoso, che parte da un rifiuto – la storia tutta “politica” –
pone l’accento sulla molteplicità degli aspetti della vicenda umana e afferma
due negazioni: a) non si può “fare” una storia solo politica; b) non si può
“fare” una storia solo sociale e societaria.
E’ un’affermazione che
appare banale e, tuttavia, collocata così, entro confini di segno “negativo” e
limiti da non superare, la storia diventa di colpo qualcosa di assolutamente
indefinito: è chiaro ciò che non deve essere, non si capisce cosa sia o
dovrebbe essere. La verità è che domandarsi cosa sia la storia è, come ebbe a
scrivere Carr, davvero “imbarazzante” [E. H. Carr, Sei lezioni sulla
storia, Einaudi, Torino, 1966, p. 35], perché una risposta che metta
d’accordo gli storici non esiste e ogni definizione risulta alla fine
strettamente legata alle inclinazioni personali, alla diversa sensibilità ed
al clima culturale in cui sono cresciuti gli studiosi che provano a formulare
una teoria della storia.
In questo quadro
d’incertezza teorica, il dato comune che caratterizza progressivamente la storiografia
del Novecento è a ben vedere la forte reazione antipositivista che, a dar retta
alla maggior parte degli studiosi, affonderebbe le sue radici nelle grandi
trasformazioni della società del Novecento e nella crisi cui va incontro la
“fiducia ottocentesca in un progressivo ed equilibrato sviluppo sociale ed
economico” [P. Macry, cit., p. 24]. Un ottimismo che in verità non ha
bisogno di scontrarsi con gli “imprevedibili” cambiamenti prodotti dal
Novecento per mostrare la sua connotazione ideologica e di classe e la sua
assoluta estraneità alla realtà dei fatti. Per una storiografia che solleva
la bandiera del documento e rifugge dall’interpretazione, esso è anzi davvero
un non senso e sembra giustificare l’opinione estrema di chi, senza ricorrere a
mezze misure, afferma che “la storia è l’esperienza dello storico” sicché
“scrivere storia è l’unico modo di farla” [M. Oaekeshott, Experiences and
Its Modes, 1933 in Carr, cit. p.27]. In realtà, i motivi della forzatura
sono comprensibili. Non si tratta solo, come pure giustamente sostiene Carr,
dell’influsso che la società in cui nasce ha sullo storico e su ciò che egli
scrive [Carr, cit., p. 48], ma di un’azione culturale consapevole messa in atto
dalle classi dominanti le quali, come osserva Marx, sanno bene che “gli
educatori vanno educati”. L’ottimismo cui accenna Macry, quindi, esiste, ma ha
un senso solo per una minoranza che racconta se stessa: è l’ottimismo delle
classi dirigenti borghesi delle potenze imperialiste, di cui gli storici sono
espressione. Sembrerà un gioco di parole, ma non lo è: figli della loro epoca e
della cultura che in essa predomina, figli soprattutto di un mondo che ha una
storia, e perciò frutto essi stessi della storia, buona parte degli studiosi
dell’Ottocento scrivono la storia che quel mondo consente. In questo senso non
fa meraviglia se il resto del mondo – gli altri mondi se preferite - non ci
siano ed i soli fatti che interessino questi sacerdoti della obiettività siano
quelli che giustificano la fiducia. Sorprende, invece, questo sì, che ancora
oggi ci sia chi, riprendendo – ma sarei per dire ripetendo - acriticamente lo
stereotipo, metta insieme in un ordine cronologico tutto da verificare i
mutati orientamenti della storiografia ed i traumi di un tempo che, “partito
dalla fiducia ottocentesca in una equilibrata evoluzione sociale ed economica”,
culmina “nelle stragi staliniane e nell’Olocausto dell’ebraismo europeo, nelle
atomiche di Hiroshima e Nagasaki, nella spaccatura europea del secondo
dopoguerra”, e giunge ineluttabilmente allo scetticismo. E’ uno schema
accettato persino da uno studioso come Barraclough, il quale, prudente sino ad
avvertire che “la storia che leggiamo, per quanto basata su fatti non è, a
parlar propriamente, composta di giudizi di fatto, bensì di una serie di
giudizi tradizionalmente accettati”, giunge poi a scrivere che alla fine del
XIX secolo, quando “il nuovo industrialismo dell’Europa si sparse sui quattro
quarti del globo, […] per la maggior parte degli europei l’espansione irresistibile
della propria civiltà a spese delle civiltà ‘stagnanti’ dell’Est era fuori
discussione: essi non avevano dubbi sul fatto che l’espansione imperialista
avrebbe prodotto una rapida diffusione della civiltà europea nel resto del
mondo” [G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, Bari,
Laterza, 1971, p. 65]. Di fatto, la “civiltà europea” di cui parla Barraclough
riferendosi all’Europa imperialista e colonialista di inizio Novecento non
esiste. Ci sono, al contrario, all’interno delle grandi nazioni industriali,
ceti capitalisti che hanno la medesima cultura di classe e sono protagonisti di
due conflitti: quello interno con le classi proletarie, e quello esterno dovuto
ad una concorrenza così aspra che il rischio di un conflitto armato tra gli
stati che li rappresentano si fa ogni giorno più evidente. In realtà il nodo
della discussione non sta nel riconoscere una tendenza generale allo sviluppo
dei paesi europei e le modificazioni anche strutturali che ne derivano. Il
punto vero è che queste modificazioni hanno tempi ed effetti così diversi nel
tempo e nello spazio che alla prova dei fatti l’immagine dell’Europa e degli europei
uniti da sviluppo e ottimismo non è solo un’imperdonabile astrazione, ma una
inaccettabile generalizzazione che fa coincidere lo stato d’animo di alcuni
strati delle classi dirigenti con quello delle popolazioni dell’Europa
all’inizio del Novecento. La formula magica che sintetizza in maniera quasi
propagandistica la filosofia del capitalismo - lo sviluppo produrrà benessere
e felicità - è utilizzata ancora oggi e se ne vede quotidianamente la miseria.
I fatti, però, sono ben diversi. Senza contare le colonie, in cui
l’imperialismo produce disastri e la forza delle armi impone le regole del
gioco, nel cuore stesso dell’Europa il divario di sviluppo e di prospettive è
attestato dalla crescente esportazione di capitali inglesi, francesi e
tedeschi in paesi che Abendroth definisce senza mezzi termini “relativamente
sottosviluppati sul piano industriale” [W. Abendroth, Storia sociale del
movimento operaio, Einaudi, Torino, 1971, p. 68]. Si dirà che in genere
i salari crescono, e migliora di conseguenza il tenore di vita dei lavoratori,
ed è vero. Presto però l’altalena delle vicende congiunturali, il diffuso
protezionismo e l’impennata del costo della vita causato dalla corsa agli
armamenti rendono progressivamente più difficile compensare la diminuzione del
potere d’acquisto dei salari, sicché persino in Germania, dove più elevato è
l’indice di sviluppo, tipografi, minatori, metallurgici, tessili e braccianti
agricoli vedono nuovamente peggiorare le loro condizioni di vita. Lo stesso
obiettivo delle otto ore, fissato al congresso costitutivo della II Internazionale
rimane praticamente irraggiungibile in tutti i paesi europei. Come non
bastasse, i pochi e modesti miglioramenti ottenuti non sono la conseguenza
automatica dello sviluppo industriale, ma il risultato delle lotte ingaggiate
delle organizzazioni economiche e politiche di lavoratori che non sono
felici, non hanno particolari motivi di essere ottimisti e affidano le loro
speranze di emancipazione sociale alla lotta di classe piuttosto che alle cieche
leggi del mercato e dello sviluppo del capitale. Si tratta, si badi bene, della
stragrande maggioranza dei cittadini che popolano l’Europa delle minoranze
“ottimiste”. Certo, pochi sono costretti a confrontarsi con la disperazione
che strema le popolazioni colonizzate, verso le quali i vincoli di solidarietà sono peraltro simbolici , ma sono in
tanti ad avere più di un motivo per condividerne l’odio.
Entro e fuori
l’Internazionale socialista, poi, nelle organizzazioni di classe, un ulteriore
e non meno significativo elemento di divisione offusca il bel quadro borghese
della indiscussa fiducia degli europei nell’espansione della propria civiltà
europea. Ovunque in Europa il socialismo legalitario ed il gradualismo
sindacale hanno il loro daffare per tenere unito un movimento dalle mille
anime. Accade in Italia, dove rivoluzionari ed anarco-sindacalisti tentano a
più riprese, di sperimentare sul terreno della teoria e della prassi soluzioni
rivoluzionarie alla questione sociale. Accade in Germania, dove
socialdemocrazia e burocrazia sindacali, sempre meno disposte alla lotta,
attendono il tramonto del capitalismo senza far nulla per accelerarlo e tengono
il movimento operaio nei limiti della legalità per difendere soprattutto se
stesse; quando poi sono scavalcate dai lavoratori - nel 1905, i minatori
scioperano ignorando il sindacato – si affiancano alla conservazione dichiarando
che “lo sciopero generale è una follia generale”, ma non riescono a piegare del
tutto la resistenza di una qualificata minoranza di sinistra che, guidata da
Clara Zetkin, Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e Franz Mehring, rifiuta le
posizione scioviniste e social-imperialiste della maggioranza. Non meno serie
le divisioni nel movimento operaio russo - in cui, tuttavia, gli scioperi
generali dei lavoratori avviano il tentativo di rivoluzione del 1905 - in
quello austriaco, che lotta con lo sciopero per ottenere il suffragio
universale, ma registra le divisioni tra l’ala tedesca e quella ceka del
movimento, in quello francese, diviso dalla polemica sul ministerialismo,
dall’esistenza di due partiti socialisti e dal seguito trovato dal sindacalismo
rivoluzionario teorizzato da Sorel. Storia di contrasti con la borghesia e di
contrasti interni tra correnti di destra e di sinistra presentano i movimenti
operai in Svezia, Norvegia e Danimarca, per non dire dell’Olanda dove i lavoratori si dividono in marxisti e
socialdemocratici.
E’ in questo quadro che
si inserisce la rottura della storiografica del novecento da quella ottocentesca.
Un cambiamento che in verità non ha nulla a che vedere con lo stalinismo,
l’olocausto e le atomiche come vorrebbe Macry – anche qui pesa l’ideologia del
neoliberismo – ma procede di pari passo con la crisi della tradizionale
storiografia ottocentesca i cui schemi non sono in grado di descrivere la
massificazione dei fenomeni sociali, un sistema politico in cui le elite
liberali sono rapidamente sostituite dai partiti di massa e dai totalitarismi.
Crisi e rottura che, tuttavia, nulla hanno a che vedere con il pessimismo che
intanto sostituisce rapidamente l’ottimismo, in seguito alla guerra mondiale,
alla rivoluzione russa e alla grande crisi economica, e pone una ineludibile
domanda: l’ondata di presunto scetticismo ha più ragioni d’essere di quante non
ne avesse l’inspiegabile ottimismo, o la misteriosa alternanza di stati d’animo
contrapposti nasconde nuovamente una diagnosi astratta, un’analisi parziale dei
fatti fortemente legata alla crisi d’un modello sociale e d’una classe
dirigente? Una domanda che ne propone immediatamente altre. C’è, ad esempio,
nella storiografia della società massificata che va assumendo connotati sempre
più precisi, la voce delle masse “protagoniste della storia” in un’epoca che
s’avvia ad essere quello della postmodernità e, di lì a poco, della globalizzazione?
Trent’anni fa, di fronte all’ennesima “ondata di pessimismo” che attraversava
l’Occidente come un lungo brivido, Carr osservava: “che la diagnosi che parla
di un futuro disperato resta una costruzione teorica astratta, nonostante la
pretesa di basarsi su fatti incontrovertibili”, elaborata – ieri come oggi,
viene voglia di aggiungere – dagli intellettuali, ai quali, proseguiva lo
studioso inglese “spetta il compito di elaborare l’ideologia dei gruppi
dominanti (l’ideologia dominante è l’ideologia della classe dominante). Né ha
minima rilevanza che alcuni di questi intellettuali provengano da altri strati
sociali: diventando degli intellettuali essi sono entrati automaticamente a far
parte dell’élite intellettuale: […] sono per definizione un gruppo di élite”,
che prevede come dato strutturale l’esistenza dei dissidenti, che non accettano
i principi di fondo dell’ordinamento sociale e che nelle democrazie
occidentali “nella misura in cui nella misura in cui si riducono ad un nugolo
di oppositori, sono tollerati [..] e possono trovare lettori e seguito”.
Osservazioni equilibrate
e condivisibili, che riducono alla giusta e marginale dimensione, umana, prima
ancora che culturale e storiografica, “l’altalena degli ottimismi e dei
pessimismi”. Si dirà che una dimensione monopolare qual è quella attuale, con
evidenti tentazioni imperiali più che imperialistiche e l’elaborazione di un
ancora embrionale disegno di egemonia planetaria, modifica il quadro di
riferimento che si presentava a Carr e accentua i segnali negativi. Può darsi.
Grandi imperi e padroni del mondo, disgregazioni miserevoli e presunte “età di
mezzo” fanno la storia: potrò sbagliare, ma la dialettica progresso-regresso è
probabilmente l’ennesima astrazione. Ciò che alla fine davvero interessa allo
storico, non sono, prese in sé, né le strutture politiche, né quelle sociali
ed economiche, né le asettiche conquiste della scienza: ciò che voglio conoscere,
in quanto studioso, è l’uomo, senza del quale tutto il resto non c’è.
In realtà, una “storia con aggettivi” non esiste: ci sono
documenti che attestano fatti e studiosi che cercano, leggono e ricostruiscono
la storia, scegliendo tra quelli di cui dispongono i documenti che possono
dare risposte appropriate alle loro domande. Ogni ricostruzione, quindi, parte
anzitutto dal bisogno di porre domande e ricevere risposte. Sembrerà strano, ma
due antitesi apparentemente paradossali danno la più esatta misura dei confini
in cui si muove il lavoro di uno studioso. Il primo lo identifica Carr, quando
scrive che “se il filosofo che ci disse che non possiamo entrare due volte
nello stesso fiume, diceva il vero, è forse altrettanto vero che lo stesso
storico non può scrivere due libri uguali” [Carr, cit., p. 48]. Il
secondo lo segna Febvre osservando che “quando non si sa cosa si cerca, non si
sa cosa si trova” [L. Febvre, Studi su Riforma e Rinascimento e altri
scritti su problemi di metodo e di geografia storica, Einaudi, Torino,
1966, p. 560]. Di fatto, ragionando intorno agli stessi eventi e documenti
da angoli visuali differenti, gli studiosi partono dal presente, dal vastissimo
e complesso intreccio tra i diversi modi di essere uomini che esso presenta, e
da tutto ciò che quell’intreccio determina: modi di produzione, condizioni di
lavoro, manifestazioni della religiosità, usi, costumi, abitudini popolari,
comportamenti individuali e collettivi, istituzioni politiche. In questo senso,
pur semplificando eccessivamente, Bloch ha ragione quando scrive che “il buono
storico somiglia all’orco delle fiabe: là dove fiuta carne umana, là sa che è
la sua preda” [M. Bloch, Apologia, della storia, Einaudi, Torino,
1969, p. 41] e non c’è dubbio che l’esperienza degli “Annales” che fonda
con Ferve nel 1929, rappresenti,
proprio per l’esigenza di cogliere in tutte le possibili dimensioni “la
presenza dell’uomo, apre la via alla moderna storiografia. “L’oggetto della
storia è per sua natura l’uomo – scrive Bloch – anzi gli uomini” ed è una
dichiarazione di guerra alla storia tradizionale. Ma anche qui, meglio
rifuggire da slogan e formule astrattissime. E’ vero, senza conoscere la
vicenda collettiva di gruppi umani e i “fatti comuni” che essi producono, è
impossibile capire e valutare la personalità ed il peso degli individui che si
legano ai fatti straordinari e ai momenti di svolta, è altrettanto vero che la
storia dei fatti e degli uomini ordinari ci dice ben poco. Le masse organizzate
lottano, è vero, ma nel fuoco della lotta si forgia la personalità dei leader e
le lotte stesse e la vita quotidiana delle masse sono in rapporto molto stretto
con l’ambiente nel quale esse vivono. In ultima analisi, se la storia dei fatti
straordinari non rivela l’animo di un popolo, l’osservazione dei fatti comuni
ha senso solo se tende a dar conto del ruolo che essi svolgono nel preparare
gli eventi che segnano un’epoca.
Bloch e
Febvre hanno un grande merito: mandano in soffitta la storia delle guerre,
delle battaglie e dei trattati di pace e conducono il lavoro dello storico su
sentieri percorsi e non più battuti, ponendo l’accento sulla centralità
dell’uomo e sull’esigenza di una storia interdisciplinare. Venti secolo prima,
però, Giulio Cesare, ha già fatto ampio ricorso alla geografia per descrivere
le difficoltà dei suoi uomini di fronte all’inverno che giunge precoce oltre le
Alpi, alle coste alte che rendono difficoltoso lo sbarco in Britannia ed ha inserito
la descrizione della Gallia in un mondo
“costituito come una cipolla”: Roma al centro, e via via “i popoli civilizzati,
i popoli barbari, i mitici selvaggi e, infine, il confine del mondo, l’Oceano
che porta al cielo e al regno dei morti”. In quanto ai popoli conosciuti, i
suoi “Commentari”offrono un disegno etnografico di due nazioni paragonate tra
loro e consegnano all’umanità un efficace documento – l’unico che possediamo -
su usi e costumi dei Galli e dei Germani del primo secolo avanti Cristo. In quanto
alla psicologia di massa, un piccolo capolavoro è il breve discorso del
militare che reggendo l’aquila della legione, dà voce ai combattenti e sa come
suscitarne la passione: forza compagni, egli grida con lo stendardo in pugno –
balzate se non volete vedere l’aquila in mano al nemico! Io lotterò fino alla
fine per il mio capitano a per la repubblica. Moderno, postmoderno addirittura
per certi versi è Tacito, lo storico della civiltà di Roma che tentando di
spezzare le barriere della tradizione, esprime inquietudini e pregiudizi
dell’umanità di ogni tempo singolarmente attuale il disprezzo totale per i
Giudei, “divisi dal resto del mondo”, che è disprezzo per una inaccettabile
“alterità totale” che “non consente assimilazione” [Cfr. M. R. Cornacchia, La
prospettiva dei vinti nell’imperialismo romano, in e Tacito, Historiae
5, 2-10] – e fa della storiografia uno strumento di conoscenza della natura
dell’uomo che è davvero il centro dei suoi interessi. Certo, stato,
istituzioni, rapporti tra le classi – la storia politica, insomma – occupano il
cuore della sua ricostruzione. Ma ciò accade nella misura in cui lo aiutano a
penetrare il mistero dell’animo umano. E’ vero, Tacito non mette in discussione
– e non avrebbe potuto – il concetto storico della coincidenza tra limiti della
razionalità e limiti del mondo romano. Nei confini dell’impero sono custodite
conoscenza e logica. Ma l’uomo stenta a chiudersi nei confini della razionalità
e Tacito stesso – deciso a spezzare il cerchio di oscurità che stringe d’assedio
il suo cuore, rifiuta l’equazione per cui il mondo della ragione è anche quello
della felicità. C’è un altro mondo – vi regnano la barbarie e l’inciviltà –
geograficamente e spiritualmente fuori dai confini dell’impero, e perciò fuori
dalla logica, “un altro mare, pigro e quasi senza movimento, che cinge e chiude
tutte le altre terre” un mondo nel quale “l’ultimo raggio di sole che tramonta
resta acceso sino all’alba successiva e conserva tanta forza da superare la
luce delle stelle”: è il “limite del mondo, scrive, e questo si sa con
certezza”. L’odierna Lituania affascina Tacito più che ogni altra terra. E non
è solo curiosità geografica, che pure conosce bene. No. E’ che quella terra
ospita i Finni, dei quali “eccezionale è la barbarie, incredibile la miseria”,
i Finni, “inermi, senza cavalli e numi”, che non conoscono il ferro e non hanno
case, ma “capanne di rami intrecciati” eppure “giudicano la loro vita più
felice che non penare nei lavori dei campi, faticare a costruire case,
soppesare con fatica, con speranza e timore i beni propri e altrui; non hanno
preoccupazioni nei riguardi degli dei e così hanno conseguito la meta più difficile
a raggiungere, perché non hanno più bisogno di esprimere desideri [Tacito,
De origine et situ Germanorum, XLV, 1-9 e XLVI].
E’ vero. I Finni non ci
hanno raccontato la loro versione dei fatti e la visione che ce ne offre
l’antico storico è certamente romantica “ante litteram”. E tuttavia come negare
l’attualità del suo interesse per i diversi modi dell’essere uomo che Bloch e
gli studiosi delle “Annales” riscoprono nella prima metà del Novecento”. I suoi
Finni sono forse il suo bisogno di conoscere, di superare le convenzioni del
mondo romano, di spezzare il cerchio dell’angoscia che attanaglia la sazia società
romana – e Tacito ne è figlio – alla fine del 1° secolo dopo Cristo. Io non
credo che oggi importi molto capire se ed in che misura i Finni di Tacito
furono come egli li descrive. Ciò che interessa nella sua ricostruzione è
l’infinita ricchezza del passato che giunge fino a noi e ci offre chiavi
preziose per leggere il mondo che ci circonda, perché la sua ansia di superare
i confini dell’apparenza, è la nostra ansia. Tacito intreccia un filo alle cui
estremità contrappone vita primitiva e felicità, civiltà e corruzione. Un
mito, certo. Ma seguite quel filo e giungerete a Rousseau. Seguitelo ancora e
troverete il senso d’una antica utopia, la stessa che oggi induce a interrogarsi
su chi siano davvero i barbari, chi gli aggrediti e chi gli aggressori, chi
libera e chi è liberato. Un’antica utopia, quella per la quale la nostra
gioventù ha imparato a gridare che un altro mondo è possibile. Un altro mondo,
entro o fuori dei confini dell’impero importa davvero poco, perché
probabilmente esso vive nel pensiero degli uomini di oggi come in quello di
intellettuali lontani da noi venti secoli. E’ un filo rosso, vivissimo, che
corre nella storia e ne fa storie, sicché senza conoscerci, ci riconosciamo.
Prendete Calnago, capo dei Calcedoni, che guida la ribellione a Roma nell’83
dopo Cristo. Togliete dalla sua bocca le parole che dice ai compagni minacciati
dai Romani e valutate se non si adattino all’arroganza ed al prepotere
dell’imperialismo di ogni tempo. Val la pena di leggerlo per intero, perché è
più istruttivo di un lungo discorso metodologico sulla natura e la funzione
della storia: “Vi batterete, uomini, contro i Romani, rapinatori dell’Orbe,
alla cui arroganza si cercherebbe invano di sottrarsi con l’ossequio e la
sottomissione. I Romani, che tutto mettono a ferro e fuoco e se il nemico è
ricco, rivelano la loro avidità, se è povero, aprono il campo alla loro brama
di dominare; non l’Oriente, non l’Occidente li ha potuti saziare: soli fra
tutti bramano con uguale avidità mettere le mani sulle ricchezze e sulla
povertà. Rubare, trucidare, strappar via: ecco ciò che essi con nome
ingannatore chiamano impero; dove fanno il deserto gli danno nome di pace [Tacito,
De vita et moribus Julii Agricolae, XXX, 3, XXXI].
La barbarie vince sulla
civiltà. Ragionando dei Germani a Tacito appare evidente: uomini, mezzi,
vittorie, ma essi non sono assoggettati. Nuvole scure si affacciano
all’orizzonte di altri imperi, giù fino a noi, occidentali opulenti in guerra
coi fantasmi che noi stessi suscitiamo, mentre Tacito stenta a distinguere –
sarebbe chiedergli troppo – tra politica e morale e ci lascia però, moderno
anch’essa per l’insuperata capacità di analisi psicologica, il quadro d’una
ineluttabile decadenza, la storia della stanchezza mortale dell’aristocrazia
romana, e ad un tempo la storia di una resa, di classi ed istituzioni che si
dissolvono. Davanti a chi legge scorre il fiume del tempo sul quale è vano
davvero cercare gli eventi: l’avvenimento è l’uomo, sicché la storia non si
spezza, è un divenire che ha al suo interno una tensione “verso una realtà che
in passato è stata diversa e che proprio nella sua diversità può fornire gli
elementi […] per ripensare la società” [P. Prodi, Lo storico tra ricerca e
insegnamento, in S. Spreafico (a cura di), Quale storia insegnare, Cappelli,
Bologna, 1984, p. 33].
Osservati come elementi a
se stanti, il legionario di Cesare o il capo barbaro di Tacito, il contadino
di Bronte o il garibaldino che gli sta di fronte sono l’individuale e
l’ordinario, non hanno lampi, non producono grandi eventi. L’invito del romano
a far quadrato attorno alla bandiera, quello del barbaro a non sperare clemenza
dal romano, sono reazioni automatiche e contingenti, così come automatico è
l’impulso del contadino che occupa le terre del padrone e del garibaldino
disciplinato che glielo impedisce. Uomini, ciascuno con la sua mentalità, essi
sono però parte di un mondo che li accomuna e li separa, che ha idee, ideali e
cultura. Il barbaro ed il romano lottano per la sopravivenza personale come
tutti i combattenti, ma l’uno rappresenta la ferrea organizzazione militare
dell’impero che ha regole, ruoli e gerarchi, l’altro la tribù che si muove coi
combattenti, seguiti dalle donne che li riforniscono. L’antica fame di terra da
un lato, l’unità di classe prima ancora di quella nazionale presiedono ai fatti
di Bronte. La mentalità si fa così comportamento, questione sociale, problema
economico e la storia delle mentalità diventa storia politica: sulla scena
coloni e colonizzati, borghesi e proletari che l’unità non unisce. La storia
infine è questo.
A Pompei, sepolta da
pochi giorni sotto ceneri e lapilli, c’è chi torna e scava per recuperare ciò
che può. Sui bruciati lascia graffiti, pietosa testimonianza del dramma, e
documento prezioso. Compaiono così la croce di Cristo e il terrore per la
“punizione divina”. La presenza cristiana lascia il segno d’una reazione
sostenuta da una cultura, da un mondo ideale. L’equazione malattia-peccato, o
per dir meglio catastrofe-peccato, “ha ascendenze lontane, bibliche”, e sarà
presto “rielaborata e sistemata dai dottori della Chiesa, […] nutrita dalla
lezione secolare e incosciente dei pensatori cristiani, da Sant’Agostino a San
Tommaso” ed opererà anche “nella mentalità moderna, con il sostegno dei
sermoni della predicazione missionaria”. La ritroveremo ai giorni nostri, fino
al terremoto del Sud del 1980, quando “il popolo calcolava la durata dei
terremoti con la lunghezza della recitazione di un Gloria” [G. De Rosa, Insegnamento
della storia e nuovi soggetti storici, in F. Spreafico, cit., p.
35-42].
Società immobili e storia
dell’immobilismo? Storia che alla prova del lungo periodo “non ha storia”?
Tutt’altro. E’ ciò che resta ferma nella trasformazione sociale, economica e
politica. La religiosità stupefatta e terrorizzata che speso convive con la
fede illuminata della ragione.
Anche in questo caso,
modi di essere dell’uomo.