Una lezione
“classica”
2. Il Congresso
di Vienna: un paradosso della storia
Quando si apre il
Congresso di Vienna, il mondo in cui sono nati e si sono formati i diplomatici
che vi prendono parte non esiste più. Le spartizioni della Polonia, la
dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, la rivoluzione americana e
quella francese, Napoleone e le sue armate hanno sepolto l’Ancien Regime. Se si
fa eccezione per i rappresentanti del Regno Unito, concentrati su di un
progetto politico che viaggia nella stessa direzione della storia, nessuno, tra
gli uomini riuniti a Vienna, possiede la virtù, in verità molto rara, di
guardare lontano. Diplomatici esperti e uomini di potere, i nobili presenti al
congresso hanno un senso del reale decisamente scarso e non avvertono
minimamente la loro forte estraneità agli sviluppi della vicenda umana. Esperti
nella schermaglia diplomatica, spesso fine a se stessa e utile soprattutto
quando si tratta di cambiar padrone, sottili nell’arte di tendere ed evitare
trappole, preparati a perseguire obiettivi immediati, mettono con vana perizia
la loro esperienza al servizio dell’irrimediabile precarietà del presente, ma
non un’oncia delle loro risorse culturali e politiche è spesa per intendere il
nuovo. Manca loro ad un tempo la percezione del futuro che incombe e la
coscienza di rappresentare un passato ch’è morto. Patetici, o addirittura ridicoli
nella loro tronfia sicumera – Napoleone e la rivoluzione sono solo un’anomalia
della storia cui essi porranno rimedio – giungono ad un accordo sulla tesi
dell’ineffabile Talleyrand e scrivono: nessun titolo e diritto di sovranità ha
realtà per gli altri Stati se non quando essi l’abbiano riconosciuto. I popoli,
quindi non esistono, nemmeno dopo che hanno conquistato con le armi il loro
diritto alla sovranità. Ci sono solo gli Stati e, quindi, solo i sovrani per
diritto divino. E’ un esempio classico di un’aberrazione che si ripete assai
spesso nella vicenda umana: il sogno perverso di sbarrare il passo al futuro,
affidandosi alla forza. Certo, come scrive Lefebre, sopravvissuti ai loro
errori, i fantasmi che animano Vienna non tarderanno “ad accorgersi che lo
spirito della rivoluzione, che era avanzato con le truppe dell’imperatore,
sopravviveva alla loro sconfitta”. Ma la loro esperienza ed il loro tragico
fallimento non contribuiranno a far “crescere” l’eterno bambino che si cela nel
diplomatico e non eviteranno il ripetersi di simili errori. Riuniti a
Versailles un secolo dopo, per garantire al mondo una pace duratura dopo i
milioni di morti della “Grande Guerra”, i rappresentanti di mezzo mondo non
faranno di meglio e, ciechi come talpe, metteranno insieme una ad una tutte le
cause del secondo conflitto mondiale e, padrini ignari, invece della pace
promessa, terranno a battesimo il fascismo e il nazismo.
A Vienna, per
tornare al nostro tema, l’Inghilterra che prende posto al tavolo della pace non
è quella vittoriosa di Wellington, che ha piegato a Waterloo le armi francesi,
ma quella sconfitta e privata del suo impero in nordamerica. Gli inglesi non
anno dubbi: hanno perso definitivamente l’impero americano nei campi
insanguinati di Yorktown, ma la vittoria dei ribelli affonda le sue radici
anche in Europa, dove essi hanno trovato amici in Spagna, Francia e Prussia,
spesso abbandonate alla loro sorte dai britannici che avevano conseguito gli
scopi per cui erano sorte effimere alleanze. Battuto Napoleone, ed impedita la
nascita di una monarchia universale europea che l’avrebbe costretta ad
accettare la supremazia francese, l’Inghilterra che giunge a Vienna pensa
soprattutto a ricostruire l’impero distrutto dalla rivoluzione americana. Ma sa
che per ottenere il suo scopo, deve anzitutto imporre una svolta decisa alla
sua politica europea. La lezione appresa nei campi nordamericani ha prodotto i
suoi effetti e la superiorità che a Vienna la diplomazia inglese dimostra nei
confronti di quella delle altre potenze si spiega agevolmente. Londra ha un
progetto che guarda al futuro e nasce da una dolorosa consapevolezza: la forza
d’un impero coloniale non si misura dalle sue dimensioni territoriali, ma dalla
sua la capacità di fornire materie prime e di acquistare prodotti finiti. In
altri termini, dalla sua dimensione di mercato. Di qui rivendicazioni
territoriali che non danno nell’occhio, ma costituiscono tutte la conquista di
posizioni strategiche utili alla sicurezza delle vie commerciali. In quanto al
tema di fondo del Congresso – la Restaurazione – l’Inghilterra, protagonista
nel bene e nel male di due rivoluzioni, quella industriale e quella americana,
è perfettamente conscia che le forze nuove e vitali della storia non possono
essere ignorate o represse: così facendo, infatti, esse tornano nell’area della
rivoluzione che si infiamma. Occorre invece – ecco l’esperienza - dar loro
spazio lo spazio consentito da “sistema” per moderarle ed isolarle dalle frange
estreme. Il pericolo non è il nuovo, ma l’incapacità di neutralizzarlo
riconoscendone almeno le ragioni più evidenti. Perché un tale progetto sia
realizzabile, occorre evidentemente modificare le linee di fondo della politica
estera: perse senza rimedio le risorse americane, l’Inghilterra guarda con
disperato bisogno a quelle indiane, che tuttavia si raggiungono solo
circumnavigando l’Africa. Per assurdo che possa apparire, occorre ripercorre
all’inverso l’esperienza di Colombo: la nuova America inglese si chiama India e
– come aveva intuito il genio di Napoleone, contendendo al Regno Unito l’Egitto
e Suez – in India si giunge per il Mar Rosso, dove prima o poi poggeranno le
nuove colonne d’Ercole. Un’intera regione del mondo – il Medio Oriente - assume
così un nuovo, elevato valore strategico. L’Inghilterra, che per anni ha
favorito i russi nelle loro imprese europee, ora è costretta ad ostacolarli.
Per la Russia che siede a Vienna tra le grandi potenze mondiali, il disegno
politico inglese non prevede spazi né in Medio Oriente né nel Mediterraneo. D’altro canto, a
sostegno di questo disegno, che è tutt’altro che velleitario, l’Inghilterra
pone l’indiscussa superiorità della sua marina militare, che se non può esser
fatta valere ad ovest, sull’Atlantico, si impone senza alcuna difficoltà in
Oriente.
Certo, Canning
si sbaglia completamente, e si rivela particolarmente miope, allorché dichiara
che il Regno Unito conta sugli USA per il ripristino dell’equilibrio in Europa
– gli Stati Uniti non si interessano affatto all’Europa, da cui, peraltro, poco
o nulla hanno da attendersi di buono – né intendono seguire una linea politica
in qualche misura subordinata a quella degli inglesi appena battuti. E’
tuttavia un fatto: chiudendo l’America all’Europa, gli USA non solo si
garantiscono tutto il tempo che vogliono per puntare al “West” ed al Sud del
continente colombiano, ma producono una spinta determinante verso profondi
mutamenti negli equilibri tra le altre potenze. Per l’Inghilterra, orfana del
suo impero, si apre così la via dell’Est. E non è, oggettivamente, una strada
impraticabile. La Francia, inferiore sui mari, in ritardo nel processo di
industrializzazione e alle prese con il legittimismo prima, con la rivoluzione
liberale poi, non è in condizione di opporre serie resistenze; l’Austria
multietnica, arretrata sul piano economico e del tutto chiusa alle ragioni
storiche delle forze liberate dalla rivoluzione industriale e da quella
francese, non ha avvenire Un gran futuro attende, al contrario, la Prussia, che
bada a costruire il suo sviluppo interno e medita sulla grande lezione di
Stein, Harderberg, Humboldt, Schornost e Geisennan; in attesa di assumere il
ruolo di “stato polo” dell’unificazione nazionale germanica, tuttavia, essa
deve fare i conti con l’ottusa miopia della nobiltà terriera e con i
giustificati sospetti delle altre potenze, sicché, per il momento, il solo
obiettivo praticabile è quello dell’unificazione doganale coi maggiori stati
tedeschi. In quanto alla Russia, europea solo in piccola parte - e in termini
soprattutto geografici – essa ha tutto l’interesse a produrre il massimo sforzo
di espansione sia ad est che ad ovest dei suoi confini, alla ricerca di sbocchi
marittimi praticabili in tutte le stagioni. Puntare al Mediterraneo, tuttavia,
significa per lo zar entrare in rotta di collisione non solo con gli interessi
inglesi e francesi, ma soprattutto con quelli dell’Austria, sua naturale
alleata contro la rivoluzione. Paradossalmente, Russia e Gran Bretagna - per
quanto profondamente ostili l’una all’altra - sono spinte ad agire di concerto
contro l’Austria, allorché si tratta di difendere – è il caso dei Balcani, per
fare un esempio - interessi che non solo avvicinano le corone, ma coinvolgono
sul piano emotivo ed economico vasti strati delle rispettive popolazioni;
l’interesse a reprimere la rivoluzione liberale e nazionale unisce, viceversa,
i Romanov agli Asburgo, ma è estraneo alla maggior parte della popolazione dei
due imperi, sicché non diventa mai tanto forte da creare un’effettiva
“solidarietà” e non basta ad attutire gli attriti prodotti dalla “Questione
d’Oriente”, che divide sempre più i due campioni della reazione. Per quanto la
consapevolezza di un reciproco, insostenibile indebolimento impedisca uno
scontro diretto, il contrasto è tale che in Crimea la Russia si trova ad
affrontare da sola Francia ed Inghilterra appena cinque anni dopo il suo
intervento militare a sostegno degli Asburgo in Ungheria. Né sul piano
economico, né su quello politico
esistono pertanto unità o prospettiva di stabilità. Due “internazionalismi
trasversali”, al contrario, uniscono tra loro, e pongono in campi opposti al di
là dei confini nazionali, vasti strati sociali presenti negli stati schierati
nell’uno e nell’altro campo. Per l’idea di libertà, per la causa nazionale, per
la democrazia borghese si battono, su di un piano internazionale, uniti da un
forte spirito di solidarietà, i campioni – non solo europei – della rivoluzione
borghese e nazionale, ovunque si accenda un focolaio di lotta: nell’immenso
scenario dell’America latina, nella Grecia soggetta al Sultano, nella
tormentata Polonia, in Germania, in Italia. Uniti da una non meno forte
solidarietà, ed anzi in nome della solidarietà, si battono su di una linea che
è subito internazionale, le classi operaie e contadine, gli emarginati e gli
sfruttati, i cui interessi ed i cui bisogni provvede a saldare la trionfale
marcia del capitalismo, contro cui già si leva il “fantasma” evocato nel
“Manifesto” di Marx ed Engels.
Incapaci di intuire la
direzione reale che prende il corso degli eventi di cui sono protagonisti, i
diplomatici riuniti a Vienna lasciano irrisolto il problema della Polonia - e
la questione, se ci pensate, conduce difilato ad Hitler ed al secondo conflitto
mondiale - rifiutandosi sia di ripristinarne l’unità, che di assegnare alla
Russia umiliata il Granducato di Varsavia e consegnando all’Austria vorace e
imprevidente la Bucovina e la Galizia, terre polacche cui si aggiungono i
territori di buona parte dell’ex Repubblica di Venezia, il Lombardo-Veneto,
l’Istria, la Croazia e la Dalmazia. Una penetrazione a fondo nei Balcani, che
conduce ad un insanabile conflitto con la Russia, la quale fa del panslavismo
la chiave di volta della sua politica verso il Mediterraneo. E’ un aspetto non
secondario di quella “questione balcanica” che ci conduce ben oltre le due
guerre mondiali, ai nostri giorni, agli atroci conflitti nella ex Jugoslavia ed
all’ambiguo intervento NATO nella Serbia di Milosevic. Ciò per non dire delle
ferite inferte al corpo nazionale dell’Italia, che produrranno l’insanabile
contrasto con l’Austria, al tributo di sangue versato per l’indipendenza
nazionale e alle decisive scelte di campo del primo conflitto mondiale.
L’intero congresso finisce così col ruotare intorno ad un disegno astratto. A
Talleyrand, che, in nome di Luigi XVIII, riesce a far passare il principio per
cui “la sovranità non può essere acquistata con il semplice fatto della
conquista”, risponde, Metternich che detta la regola: “non c’è diritto se non
quello riconosciuto da altri Stati”. Sono le basi teoriche della restaurazione,
che riporta sui troni traballanti i sovrani ripudiati dai sudditi. Non si
tratta di un passo indietro di poco più di due decenni, come risulta da un
calcolo puramente numerico, ma del ritorno ad un tempo lontano anni luce,
estraneo, ormai, al corso della vicenda storica. Una vicenda che i vecchi
sovrani e i loro eredi non ignorano affatto, tant’è che si mostrano fortemente
solidali nella difesa degli interessi comuni delle corone contro quelli dei
popoli.