Capitolo 1°

 

L’impostazione del lavoro.

 

 

 1. Sia lode al dubbio

 

 

Giungono dal corridoio, preceduti dal suono delle loro risate, ed entrano nell’aula grigia alla spicciolata, titubanti e d’improvviso seri.

Il rito della prima lezione è quello di sempre: l’occhiata interrogativa al com­pagno appena entrato, per capire se l’aula è quella giusta, i posti della prima fila ac­curatamente evitati, i quaderni ancora immacolati aperti uno dietro l’altro con gesto automatico. Sono più numerosi di quanto pensassi e le ragazze prevalgono netta­mente. La prima volta in genere è così; poi, poco a poco, la frequenza diventa saltua­ria. Molti si rifanno vivi solo agli esami e qualcuno, infine, ti lascia per sempre.

- Sarà così anche quest’anno? Dipende soprattutto da me, mi dico, mentre chiudo la porta e mi avvio alla cattedra.

- Di là non si sente - comincio, rivolto ai ragazzi delle ultime file - coraggio, venite più avanti. 

Qualcuno si alza e riempie di malavoglia i vuoti nella prima fila, assumendo un’aria decisamente seria.      

- Avremo tempo per conoscerci - riprendo - ma vorrei che provassimo sin da oggi a costruire un rapporto in cui la mia funzione non si svilisca sino a diventare il punto di partenza d’uno sterile processo di trasmissione di nozioni che vi sono già note e che troverete comunque nei vostri libri, o – peggio ancora – non acquisti una centralità del tutto ingiustificata, prodotta esclusivamente dal modo accattivante in cui saprò gestire il ruolo che rivesto e dalla disparità qualitativa delle nostre espe­rienze, che gioca a mio evidente favore e può trarvi in inganno, facendovi scambiare per verità della storia la mia verità. Quella che io vi propongo è, molto più sempli­cemente, una lettura critica  - e pertanto soggettiva e opinabile  - di alcuni fatti della sto­ria. In questo senso, è necessario che voi mi ascoltiate con forte senso critico e con quel tanto di lealtà che vi con­senta di dire fino in fondo ciò che pensate, senza timori riverenziali, e con la consa­pevolezza che questa vostra partecipazione critica costituisce la principale garanzia dell’esito positivo del nostro lavoro. Forse vi sembrerà strano che un corso di storia si apra con una poesia, ma vorrei che sui vostri quaderni,  ad inizio del nostro in­contro, voi scriveste alcuni versi della “Lode del dubbio” di Bertolt Brecht. Sono la bus­sola che da quasi trent’anni orienta il mio viaggio tra generazioni di studenti. Quali che siano le motivazioni che vi hanno condotti qui stamattina, se, dopo averla letta attentamente, voi ne condividerete la tensione etica e riconoscerete il valore politico del suo messaggio, che demolisce ogni armamentario ideologico, ogni verità data per fede, per esaltare la libertà e l’autonomia del pensiero umano, allora spero che ne facciate la vostra bussola. Se ciò non dovesse accadere, bene, sarà molto meglio che prendiate in considerazione l’idea di non tornare in quest’aula, perché io non so usare una bussola diversa e sprechereste invano il vostro tempo. Io sono qui per se­minare dubbi intorno ad eventi reali, non per raccontarvi la realtà seguendo il mo­dello che in questo momento incontra la maggior fortuna..

 

I ragazzi si accingono a scrivere, senza fare alcuna osservazione, ma hanno un’aria incuriosita e sconcertata  quando comincio a dettare lentamente le parole di Brecht che riaffiorano una dietro l’altra da non so quale piega nascosta della mia memoria:

 

“Sia lode al dubbio. Vi consiglio salutare

serenamente e con rispetto chi

come moneta infida pesa la vostra parola!

Leggete la storia e guardate

in fuga furiosa invincibili eserciti.

In ogni luogo

fortezze indistruttibili rovinano e

anche se innumerabile era l’Armada salpando,

le navi che tornarono

le si poté contare.

[…] Oh bello lo scuoter del capo

su verità incontestabili

[…] Tu, tu che sei una guida, non dimenticare

che tale sei perché hai dubitato

delle guide! E dunque a chi è guidato

permetti il dubbio!"

 

[Bertolt Brecht, Poesie e canzoni, Antologia dell’opera poetica di Bertolt Brecht, con una scelta di poesie postume. Versione di Ruth Leiser, e Franco Fortini. Prefa­zione di Franco Fortini, Torino 1961, pp.57-59].

 

- Spesso -  commento mentre i più lenti copiano dai compagni e molti mi guar­dano perplessi - le citazioni sono la risorsa di chi non ha argomenti, ma stavolta non è così. Questi versi rappresentano la sintesi lapidaria del decalogo di un docente che voglia essere onesto con i suoi studenti. Tra noi, inutile dirlo, la guida cui accenna Brecht sono evidentemente io. Occorre quindi che, lungo il percorso che compiremo assieme, voi ve ne stiate in guardia. Com’è ovvio, affermerò che, per abito mentale, ho dubitato e dubito delle guide, sicché trovo il dubbio fecondo e non solo lo per­metto, ma talvolta inconsciamente tendo a provocarlo. Potrebbe essere vero, ma po­trei anche mentire. Voi non mi conoscete e potrei ingannarvi. In ogni caso, fosse an­che la verità, non basta. Per tutelarvi, occorre che voi facciate del dubbio una delle vostre regole metodologiche e, allo stesso tempo, un diritto inalienabile, da eserci­tare e da rivendicare ogni volta che avete buoni motivi per farlo. Si tratta di un aspetto fondamentale del nostro rapporto e pertanto sarò di una chiarezza brutale. In realtà, fatta salva l’onestà intellettuale – ma talvolta manca anche quella – ciò che in­segna lo storico va appreso con la massima circospezione. Non mi riferisco ai fatti della storia, sui quali, bene o male, è possibile esercitare un qual­che controllo. Penso piuttosto alla loro “lettura”, che solo di rado si dichiara apertamente per­sonale e, in quanto tale, soggettiva e parziale. E’ rispetto ad essa che il livello della vostra vigi­lanza deve essere così elevato, da consentirvi l’uso più ampio della le­gittima difesa della vostra autonomia di giudizio. Ciò non significa che ogni “let­tura” debba essere inevitabilmente errata o falsa. Intendo dire anzi il contrario: ogni ricostruzione, ogni spiegazione, ogni rapporto di causa - effetto, tutto insomma po­trete accettare se vi apparirà provato e convincente, così come tutto rifiuterete che non vi sembri pro­vato, che non vi convinca. La verità muta col mutare dei tempi: antiche certezze sca­dono spesso al rango di vecchi errori così come antiche eresie sono oggi nobili ve­rità. Visto in questa luce, l’esercizio di un'accurata valu­tazione personale, quale che sia il risultato prodotto, è spesso singolarmente utile, come tutto ciò che c’induce a riflettere.

Nella logica del “dubbio” porrei anche il problema della comprensione. Mi ac­cade spesso di non capire chi ascolto, e non sempre dipende dalle mie capacità. Spesso è chi parla a non essere chiaro, è quindi giusto chiedere spiegazioni, fare tutte le os­servazioni che si ritengono utili, esprimere opinioni senza avere alcun ti­more. Per fare bene il suo lavoro, un docente deve mettere in discussione il suo punto di vista e guardare i fatti da angoli visuali che non siano esclusivamente per­so­nali: io non ho verità da affermare, posseggo, se mai, strumenti utili a costruire chiavi di lettura e so come utilizzarli. Il mio compito è soprattutto quello di fornirvi di questi stru­menti e di fare in modo che voi impariate ad usarli.  

 

Mi fermo. Mi hanno ascoltato con crescente attenzione. L’iniziale tensione è dissolta.

-      Ho parlato troppo, riprendo, e voi siete stati lì ad ascoltare. Vediamo che impressione vi ho fatto. Condividete le cose che ho detto? Avete proposte da fare?

 

Proposte non ne vengono, ma le risposte che ottengo non sono deludenti. Il ghiaccio si rompe subito ed emerge una condivisione convinta del metodo. Tutti di­chiarano di aver capito quello che intendo dire e tutti appaiono evidentemente sin­ceri. Si tratta della conferma di una ipotesi, anzi, di una forte necessità che  av­verto e che mi appare sempre più interessante a mano a mano che, col passare degli anni, cresce e si arricchisce la mia esperienza didattica: gli studenti hanno più  bisogno di strumenti interpretativi e metodologici che di una sia pure illuminante spiegazione dei testi d’esame.

-   A me pare – continuo – ma potrei sbagliare, che non sia la comprensione dei fatti in quanto tali ad affaticarvi e ad allontanarvi dalla storia, ma la diffi­coltà di porre quei fatti in relazione con il “vostro” mondo, con l’esperienza concreta con cui vi trovate a fare i vostri conti quotidiani. Ciò che non riusciamo a darvi è la consape­volezza che  modi di pensare, comportamenti e scelte che vi appartengono e determinano il vostro percorso individuale, si sommino, si intreccino o si contrappongano a quelli di milioni e milioni di vostri coetanei, sono comunque fortemente condizionati dall’esperienza, dalle scelte e dai comportamenti della generazione che vi ha messi al mondo e condizio­neranno  le opzioni e i modi di pensare, di agire e di interagire dei giovani della generazione che voi cree­rete. In questa espe­rienza concreta di ogni giorno vive, ma è difficile coglierla, la duplice natura dell’evento storico: “figlio” della storia di ieri (il mondo com'era quando siete nati) e, nello stesso tempo, “genitore” della realtà di domani (il mondo come voi lo lasce­rete ai vostri figli).

Ed è proprio da questa duplice valenza dell’evento storico che, riferendomi ad un in­sieme di avvenimenti collocati cronologicamente sullo spartiacque che fa dei giovani della mia generazione i padri dei ragazzi d'oggi, che vorrei entrare nel vivo di questo nostro primo incontro. Mi riferisco, come avrete capito, al ’68.

 

Intanto un'osservazione. Se per me il ’68 è anzitutto esperienza vissuta e fac­cio fa­tica a coglierne per intero la sua ormai innegabile dimensione  storica, è quan­tomeno natu­rale che a voi ragazzi esso sembri avvolto nella nebbia indistinta del pas­sato e, a prima vista, si ri­duca ad una sovrapposizione incoerente d’immagini appa­rentemente inconciliabili tra loro: dal sit in al terro­rismo, dalla fantasia al potere – che del ’68 fu allo stesso tempo il simbolo e la parola d’ordine - al potere posto sulla canna del fucile. Non chiedetemi quale bisogno di potere possa avere la fantasia per­ché non saprei rispondere. Eppure ancora oggi leggo in quello slogan un'ironia dissa­crante che annichilì quando avevo vent’anni la torpida cultura dominante, costrin­gendo il potere vero, quello che non ha immaginazione, a reagire col massimo della violenza, secondo le regole classiche della peggiore con­servazione.

Una ragazza che ha ascoltato attentamente dichiara con sincerità:

- Io non riesco a se­parare il Sessantotto dagli “anni di piombo”: la violenza è stata il carattere genetico del movimento studentesco.

- Potrei dirti che sbagli – replico d’istinto – perché tra la contestazione giovanile, che fu soprattutto movimento di massa, e la violenza di chi scelse la lotta armata, spezzando i legami entrando in clandestinitàe ogni legame recide senza avere alcun profondo legame con gli studenti e gli operai, esiste una forte differenza. Tuttavia, ciò che più mi colpisce nella tua affermazione è che essa lascia ben pochi margini alla discussione: in sostanza non si può che consentire o dissentire.

– No, non pretendo di aver ragione – risponde convinta la ragazza – ed anzi mi farebbe piacere discuterne.

- Piacerebbe anche a me, soprattutto perché so che la tua opinione è molto diffusa. Io non la condivido, ma sbaglierei a discuterne partendo dal mio punto di vista. Occorre, al contrario, che voi sappiate quali sono gli argomenti utilizzati dagli studiosi a sostegno di questa tesi e quali le posizioni che                                                                                                                                                                                                essi difendono. Per quanto mi riguarda, non proverò nemmeno ad essere neutrale. Sulla tua lunghezza d’onda è sintonizzato, per cominciare, Ioseph La Palombara, scienziato della politica che, analizzando le caratteristiche del sistema politico italiano assegna al ’68 la paternità del terrorismo, e tuttavia non spiega come una “parentela” così stretta si possa conciliare col carattere dominante della movimento studentesco: quel tentativo di costruire un’azione collettiva di massa, che corrisponde ad una profonda ispirazione ideale ed a cui, per ragioni direi quasi “cromosomiche” gli studenti del ’68 non sanno e non vogliono rinunciare [J. La Palombara, Democrazia all’italiana, Milano, 1987, cap. VIII]. A colmare la lacuna presente nel lavoro di La Palamara provvede però Simona Colarizi, che riduce la “dimensione collettiva” ad un aspetto esteriore: gli “slogan, le scritte sui muri, i cartelli e gli striscioni portati in corteo per le strade e le piazze letteralmente invase da una folla di giovani gioiosi, irriverenti, beffardi che vivono la loro battaglia antiautoritaria come un gioco”. Proprio così, un gioco, una sorta di prolungato carnevale, allestito da una generazione di ragazzi viziati che “hanno avuto il privilegio di arrivare alla maturità con molte più sicurezze di quanto non abbiano avuto i genitori: non hanno sofferto guerre, né subito dittature; non hanno patito la fame e la disoccupazione”. E’ dunque per gioco, e qui è la dimensione collettiva del movimento, che tutti insieme, questi giovani cui non piace “la società costruita dai padri, con il suo ordine e le sue regole,” e che non sanno “apprezzare gli sforzi fatti per assicurare loro un’infanzia protetta, istruzione e benessere”, se la prendono con “chi ha tanto sofferto per costruire la ricca società degli anni Sessanta” e attaccano il sapere dominante, criticano a fondo la cultura codificata, esaltano il libertarismo intellettuale ed occupano le università, di cui contestano il ruolo di formazione e selezione di una elite, di fucina privilegiata della classe dirigente. In pochi mesi, però, come spesso accade quando si gioca, i ragazzi viziati si annoiano del loro giocattolo. Nell’autunno del ’68, quando negli atenei ricominciano le lezioni e gli esami “i professori non fanno più paura” perché – la Colarizi ne è sicura – i “temuti baroni si sono rivelati delle tigri di carta e la bufera della contestazione ha spazzato via gran parte dell’odioso autoritarismo accademico: insomma è scomparso il nemico”.

Termina così il tempo felice del gioco, quel “ Sessantotto romantico che lascia nei cinquantenni di oggi un rimpianto struggente per questa straordinaria stagione della loro vita”. Tuttavia - la studiosa non può negarlo, sebbene la constatazione non trovi una sistemazione logica nella sua ricostruzione storica - il gioco ha prodotto una rivoluzione del costume così sensibile che, cito testualmente, “l’impronta […] incancellabile nel cambiamento dei costumi e delle mentalità […] a poco a poco dalla sfera dei giovani si allarga all’intera società”. Sul piano del costume il “Sessantotto romantico” si esaurisce con la resa inspiegata e - a dire il vero assai poco onorevole - della ricca società costruita dai padri con tanta fatica: un risultato che non è agevole porre in relazione con la chiassosa carnevalata dei giovani viziati.

Come che sia, c’è un altro Sessantotto, quello politico - avverte la studiosa -  che sfocia in un tragico insuccesso e si lascia dietro una traccia profonda di sangue e dolore: la società dei padri con l’ordine le regole, così arrendevole sul piano del costume, non cede d’un palmo su quello politico. Protagonisti di questo “secondo Sessantotto” sono una volta ancora i nostalgici cinquantenni di oggi, in quegli anni lontani giovani viziati e romantici, capaci di lasciarsi ipnotizzare dal loro stesso gioco fino a convincersi di “vivere una rivoluzione, la mitica rivoluzione promessa e sempre tradita”. D’altro canto cosa aspettarsi di buono da ragazzi vissuti tra gli agi, che hanno il singolare torto di non aver sofferto guerre e dittature, disoccupazione e fame e che – torto davvero grave - non apprezzano gli sforzi fatti per garantire loro un’infanzia protetta, istruzione e benessere? Nulla più che una “rivolta politica e ideologica […] che si alimenta di sogni, miti, illusioni del passato” che  “insegue il fantasma della rivoluzione russa del ’17” e “gli occhi rivolti all’indietro, pretende di interpretare il presente”. Se nelle letture di quei giovani ci sia Marcuse la Colarizi forse non sa, e comunque non dice, né si domanda quanto sappiano di Gramsci; in compenso, sistemati i giovani immaturi in un limbo situato a mezza via tra il mondo dei giochi infantili e quello adulto del lavoro, eccola abbracciare la tesi di chi vede nel Sessantotto politico un anacronismo, un moto che oscilla tra cultura antiborghese e reazione antimoderna, il rifiuto puerile della civiltà industriale nel suo complesso: consumi, etica della responsabilità e competizione [S. Colarizi, Storia del Novecento Italiano. Cent’anni di entusiasmo, di paure, di speranze, Milano, 2000, p. 399, B. Bongiovanni, Lo specchio dello sviluppo. La cultura politica degli intellettuali italiani di fronte all’industrializzazione, Torino 1971, Idem, Attraverso le interpretazioni del maggio francese, in La cultura e i luoghi del ’68, a cura di A. Agosti, L. Passerini e N. Tranfaglia, Milano, 1991, D. Settembrini, Storia dell’idea antiborghese in Italia. 1860-1989, Bari-Roma, 1991]

 

Siamo nell’autunno del ’68, le università riaprono e i giovani contestatori sono stanchi, c’è chi passa al “nemico”, chi fa in tempo a ritrovare la via di casa, chi non cresce e rifiuta di integrarsi. In realtà, la festa è finita e i ragazzi che escono dalle università per portare la loro protesta nello “spazio pubblico” vanno fuori ad affrontare il mondo. “Il mondo grande e terribile” scrive la Colarizi, che annota: “alla violenza si arriva per gradi”, ma “l’insieme dei miti internazionali e nazionali di riferimento ha già introdotto nel movimento studentesco tanti simboli violenti: la guerra in Vietnam, la guerriglia latino-americana, le ‘Pantere nere’, l’IRA irlandese, ma anche la resistenza ai nazifascismi”. La violenza, quindi, non è nei fatti che da cui nascono i “simboli” della contestazione, ma è nei “miti” che quei fatti producono. In altri termini, la violenza non si esprime nel razzismo, ma fa capolino nei cortei di solidarietà per i negri discriminati, non esplode con le bombe al Napalm delle forze armate americane nel Vietnam, ma è tutta lì, nelle manifestazioni anticolonialiste. Così è per Che Guevara ed i fuochi di guerriglia del terzo mondo, così per l’antica lotta degli irlandesi, così persino per la scelta di campo tra Resistenza e nazifascismo, in un paese in cui il fascismo è così tenacemente annidato nei gangli del potere che un leader della Resistenza come Sandro Pertini, giunto a Milano sconvolta dalla bomba di Piazza Fontana, vi è accolto dal suo antico carceriere fascista, che ha trovato modo di far carriera nella polizia della Repubblica.

Vittime dei loro di miti violenti, i ragazzi viziati del Sessantotto non riescono a superare la percezione individuale della realtà: il mondo è là, nella loro esperienza esistenziale. Il contrasto generazionale e la naturale propensione a schierarsi coi più deboli assumono così connotazioni patologiche; non è più questione di famiglia e società: il conflitto padre-adolescente diventa il conflitto senza età tra oppressore ed oppresso. Ormai, nell’io diviso, la realtà universale si riflette in quella individuale. E’ la paranoia, che spiega ad un tempo l’estremismo e la violenza. In questo quadro – conclude la Colarizi – “non provoca particolare stupore la prima azione delle Brigate Rosse che sequestrano per qualche ora Idalgo Maccarini, dirigente della Siemens, e diffondono una fotografia del prigioniero con una pistola puntata alla tempia”. E’ “la violenza per la violenza” che dilaga tra “reduci del Sessantotto incapaci di crescere  e studenti appena usciti dai licei giocano alla disperazione con rabbia e disperazione, senza più nemmeno l’ombra dell’ironia gioiosa degli anni precedenti”. Ancora un gioco, quindi. Sempre e solo un gioco, anche quando si muore. Paradossalmente, però, quando la studiosa prova descriverla questi tragici giovani che giocando che “manifestano un malessere esistenziale profondo” una “fragilità psicologica  […] che madri e padri non riescono assolutamente a capire” e "che si somma alla perdita di ideale e di certezze politiche, insieme […] all’esaltazione del disordine come valore in sè” più che ai ragazzi del ’68 vien fatto di pensare ai loro figli. Insomma a voi che mi ascoltate.     

          

Un’analisi più articolata propone Sidney Tarrow, che addebita  alla “concomitanza tra ascesa della sinistra extraparlamentare e declino del potenziale di mobilitazione la ragione del passaggio alla politica istituzionale di alcuni dei suoi segmenti e del passaggio alla violenza di altri”, [S. Tarrow, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia. 1965-1975, Roma-Bari, 1990, p. 206] e giunge alla conclusione che: “il terrorismo non fu il culmine del movimento nato nel Sessantotto; fu il segno del fallimento della strategia di movimento in un periodo di mobilitazione in declino” [Ivi, p. 249]. Non è un esempio di chiarezza espressiva, ma è indubbio: anche per Tarrow tra Sessantotto e terrorismo corre un filo sottile.

Di un collegamento tra gruppi legati all’esperienza del ‘68 e le Brigate Rosse scrive a sua volta Mammarella, per il quale la contestazione giovanile fa da ponte tra la fase iniziale di nascita di una nuova sinistra italiana e quella successiva, fortemente compromessa con la lotta armata ed il terrorismo [G. Mammarella, Storia d’Europa dal 1945 ad oggi, 2a ediz., Roma-Bari, 2000, pp 363]. Per quanto riguarda i rapporti tra potere e società, lo studioso capovolge i termini del problema - non fu la frattura tra “paese legale” e “paese reale” a produrre la contestazione giovanile, bensì quest’ultima ad accentuare la crisi del sistema politico - e giunge alla conclusione che il Sessantotto, rifiutando le proposte riformiste, non solo ne soffocò il potenziale di rinnovamento, ma spianò la via alle deviazione illegale e alla violenza. Senza dare alcun rilievo ai temi che inaspriscono  i rapporti tra le classi sociali, lo studioso applica alle rivendicazioni sindacali lo stesso schema logico utilizzato per descrivere la contestazione giovanile: l’offensiva sindacale è anzitutto “violenta” – più violenta, se possibile delle  agitazioni studentesche - e si manifesta in scioperi continui, manifestazioni e proteste che sfociano in conflitti sempre più cruenti con la polizia. Una esplicita valutazione etica non c’è e non potrebbe esserci – lo studioso è tra quanti predicano la neutralità dello storico – ma i fatti, così come egli li va esponendo, servono soprattutto a provocare una condanna.  Così, se al movimento studentesco tocca la responsabilità del fallimento della politica riformista, la presunta e quotidiana “violenza” dell’offensiva sindacale, che – s’intende - non nasce dal disagio operaio, ma è ideologica e fisica, produce “nelle classi medie e soprattutto nel ceto dirigenziale dell’industria […] un senso di frustrazione e di paura, che si traduce in una risposta conservatrice e reazionaria” [Ivi, pp. 412-413].

Ecco, vi ho esposto – senza tentare di essere neutrale - gli argomenti utilizzati da alcuni degli studiosi che vedono nel Sessantotto l’origine del terrorismo. Non vi chiedo di credermi per fede - avrete tempo e modo di verificare se ho alterato il racconto – e non voglio  sapere se vi sembrano convincenti. Non vi chiedo insomma un’analisi “storica”. So che non avete gli elementi per tentarla. Vorrei solo che accettaste momentaneamente come oggettive le argomentazioni che vi ho esposto e procedeste ad un loro attento esame, per tentare di verificarne la correttezza logica. Volete provarci?

 

- Se ho ben capito – prova a ragionare un ragazzo che ha preso continuamente appunti – dovremmo verificare se nel ragionamento degli storici di cui ci ha parlato esistono contraddizioni, lacune o forzature. Se è questo che ci chiede, io penso di poter rispondere. Mi è venuto in mente subito, mentre prendevo gli ultimi appunti.

- Hai capito perfettamente. Continua.

- Sul giudizio espresso da La Palamara – riprende tranquillo il ragazzo – non saprei che dire, perché lei lo cita solo come esempio ed io non conosco il ragionamento che lo determina. Per quanto riguarda Tarrow, invece, sono d’accordo con lei: il linguaggio che usa è complicato e non lo capisco. Mi pare strano poi che definisca il Sessantotto e gli anni che lo seguono un periodo caratterizzato da una mobilitazione in declino. Dai racconti dei miei genitori e dall’impressione che ne ho ricavato guardando i filmati trasmessi talvolta dalla televisione, a me non pare affatto vero.  Ecco, secondo me Tarrow sbaglia a dire che il terrorismo sia nato in un periodo in cui la mobilitazione era in declino.

- E’ chiaro, rispondo. Se individui nella successione cronologica degli eventi un rapporto di causa – effetto giungi fatalmente a questa conclusione. Tuttavia, il fatto che la violenza chiuda il Sessantotto ed apra gli anni di piombo, non deve con­durre alla conclusione automatica che essa sia stata figlia della contestazione stu­dentesca. A me pare, al contrario, che la violenza del terrorismo abbia prodotto la paralisi del movimento studentesco e delle istanze di rinnovamento espresse dalla contestazione giovanile. Ecco, se guardi al senso lo­gico che lega i fatti tra loro, ti accorgi che è possibile capovolgere il ragionamento e individuare un altro percorso che ti consente di ordinare in modo diverso la catena di cause ed effetti: la violenza è un ponte gettato sul percorso del movimento per spingerlo sulla sponda della lotta ar­mata. Quel ponte non è una conseguenza, ma una causa; è attraverso quel ponte, in­fatti, che il Sessantotto si perde nel cono d’ombra degli anni di piombo. L’argomento è inte­ressante ma rischia purtroppo di condurci fuori tema. La tua af­fermazione mi pare però utilis­sima, perché dimostra che una nebbia assai fitta ricopre sia l’idea che tu ti sei fatta del ”movimento studentesco” del ’68, che la mia “lettura storica” ricavata dagli scarsi do­cumenti e dai pochi libri esistenti, filtrati attraverso la mia esperienza.             

Probabilmente, per dissipare la nebbia, basterebbe mettere a confronto i nostri “due’68”: quello di uno storico che ne parla senza riuscire ad estraniarlo del tutto dal proprio vissuto e l’altro, quello “storico”, giunto sino a voi attraverso il filtro degli anni, i rac­conti contraddittori degli adulti, qualche libro e rari documentari televisivi. Una di­scussione incentrata su questo confronto, sostenuta magari da un minimo di ri­cerca tentata in emeroteche, biblioteche e, se possibile, archivi, ci condurrebbe ine­vitabilmente a riflettere su temi di indiscutibile attualità quali quelli del rapporto tra crisi della politica e crollo della “partecipazione” (pensa che uno slogan famoso di­ceva che “essere liberi nel 1968 vuol dire partecipare”), tra criminalizzazione delle ideologie e analfabetismo di valori, crisi perma­nente del sistema formativo ed ende­mica inadeguatezza dei tentativi di riformarlo, lotta allo sfruttamento e crisi occupa­zionale. E’ probabile che alla fine di una tale di­scussione io troverei più agevole se­parare l’esperienza diretta del mio ’68 dal suo si­gnificato di passaggio nodale della nostra storia, e tu ed i tuoi compagni individuereste nella mia espe­rienza ancora viva l’attualità di problemi che vi appartengono, un intreccio fortissimo di vecchio e nuovo, un groviglio di nodi irrisolti, di scelte di campo, che condiziona fortemente il vostro presente. Alla fine del nostro percorso, avremmo entrambi acqui­stato la co­scienza che ciò di cui ci siamo occupati è quello che chiamiamo storia: qualcosa che non è mai definitivamente passato, perché i protagonisti, ieri, come oggi o domani, sono e saranno sempre uomini. E non c’è distanza di secoli che renda gli uomini così diversi tra loro che non si possa dire: in fondo siamo noi.

La ragazza di prima  annuisce ed appare convinta.

- Ma noi – mi chiede - lo faremo questo confronto? Per me sarebbe davvero molto interessante. Io ritengo fortunati i miei genitori perché hanno avuto qualcosa in cui credere, e per questo li invidio. Questa invidia però si trasforma assai spesso in incomprensione e delusione: ai vostri figli, in fondo, avete lasciato uno sfascio.

-      Per noi - rispondo senza starci a pensare - era più o meno lo stesso. Senti­vamo nell’aria l’eco ancora viva dello scontro mortale e vittorioso col fascismo, della vittoria della democrazia, a cui non avevamo fatto in tempo a partecipare, e ci impri­gionava un soffocante conformismo. Non c’era dato di partecipare. Il fascismo tal­volta non sembrava lo sconfitto, ma il vincitore. Fu così, credo, che senza nemmeno rendercene conto, pretendemmo di parlare, decidemmo di agire, ci ribellammo e sco­primmo di poter essere, anzi, di essere i protagonisti della storia. La mia generazione ha amato molto la storia. Ricordo come fosse oggi le domande che ci ponevamo nei “corsi autogestiti”, nelle mille discussioni che accendevano le nostre serate: la sto­ria, sia pure in senso lato, può definirsi una scienza? Posto che lo sia, è pensabile ad una scienza che guardi esclusivamente  al passato, oppure occorre pensare che il suo naturale campo d’azione sia soprattutto il pre­sente? Quali sono le scienze con cui essa intesse i legami più stretti? Le risposte, naturalmente, erano le più varie, strane e contrastanti, e vi confesso che ancora oggi io non so quali siano quelle giuste. So, tuttavia, che ancora le cerco e che da questa inappagabile curiosità nasce una delle mie rare “quasi certezze”: il ruolo centrale che a mio avviso riveste la conoscenza della storia in qualsivoglia processo di formazione. Ora, – se voi siete d’accordo – io vorrei che in questi nostri incontri noi provassimo a farcele quelle domande.

 

 -  Sono d’accordo, risponde la ragazza che si è dichiarata lucidamente stretta tra invidia e disinganno, perché penso anch’io che se valutiamo i nostri problemi co­noscendone l’origine, impareremo a  viverli con maggiore coscienza e forse trove­remo anche noi le nostre bandiere.

Raccolgo altri consensi più o meno dello stesso tono e vado avanti.

- Bene, proviamoci. Il titolo che ho usato per definire l’argomento del nostro lavoro sembra rientrare a buon diritto nel campo delle peggiori futilità accademiche: astruso, pretenzioso, quasi scelto ad arte per “far colpo”. In realtà, ma avremo modo di verificarlo, al di là dei comprensibili sospetti che può generare, si tratta soprat­tutto di una formula che, per quanto possibile, tenta di delineare in maniera sintetica il “percorso” lungo il quale si svilupperà il nostro ragionamento; è, per intenderci, la bussola che orienterà l’andamento “anomalo” – logico, invece che cronologico – di questi nostri incontri.

Logico, invece che cronologico, non a caso, ma per scelta meditata.

Partiremo dall’analisi di momenti cruciali della vicenda storica contemporanea, ora volgendo lo sguardo verso il loro passato, alla ricerca delle cause più remote dei fatti analizzati e di dati che li accomunino ad altri eventi, ora spingendoci avanti, verso il nostro tempo, per valutarne le conseguenze sugli sviluppi successivi del pro­cesso sto­rico, e per cogliere, ove esistano, elementi di affinità con altre vicende. Proveremo così, se possibile, ad individuare “variabili” e “costanti”, regole più o meno fisse e ve­rificabili, entro le quali, tuttavia, ed occorre non dimenticarlo, l’uomo si muove con la soggettività che gli è propria, sicché, sia pure nell’ambito di opzioni determinate e determinabili, lo sviluppo della storia, ma soprattutto la sua lettura, propone un’ambiguità che è propria delle scienze che non siamo soliti definire natu­rali. Se em­pirica e mai esatta, del resto, è la medicina, che ad ogni suo sviluppo cor­regge o smentisce presunte “certezze”, si può tranquillamente pensare ad una scienza storica che intorno a certezze legate a fatti e luoghi, proponga alcune fondamentali “costanti” ed una serie di “variabili”, il cui peso specifico e la cui lettura siano legati alla forma­zione culturale, alle posizioni ideologiche e all’onestà intellettuale dello studioso. “Costanti” e “variabili”, da usare soprattutto come chiavi di lettura di più eventi af­fini, alla ricerca di strumenti metodologici affidabili, sperimentati e quanto più possi­bile adatti a ricondurre l’apparente casualità dei fatti, singolarmente consi­derati, ad un insieme organico di avvenimenti percorso da un filo rosso che li tiene uniti e li collega tra loro in virtù di “regole” che rispondono ad una precisa logica interna. Una logica che, senza escluderli, relega il caso e la sorte, in ruoli assoluta­mente mar­ginali e, in ogni caso, decisamente meno determinanti dei fattori ambien­tali, econo­mici, culturali e politici.

Alla fine del nostro lavoro, ognuno di noi, secondo la propria formazione, cultura, in­dole, estrazione sociale, darà un peso preminente a questa o quella se­quenza logica di “variabili” e “costanti” e si darà il caso che, dall’insieme di “regole” collettivamente riconosciute come le uniche chiavi di lettura possibili degli “eventi” particolari e, quindi della vicenda generale, verranno fuori “interpretazioni” diverse e persino anti­tetiche. Ma ciò è assolutamente naturale e sta tutt’al più a dimostrare la strumentale falsità di uno dei più ambigui e abusati stereotipi cui si è soliti ricorrere per descrivere il lavoro dello storico: quell’imparzialità che, non appartenendo per sua natura all’uomo, serve solo a legittimare periodicamente questa o quella “revi­sione”, che si proclama sistematicamente nemica dell’ideologia e leva sugli altari “l’oggettività dello storico”, che è di per sé un’ideologia - e tra le più perniciose - giacché costruisce, anziché ri­co­struire, i fatti della storia senza seguire altra bussola se non quella fornita dall’aspirazione a salire sul carro dell’ideologia del potere eco­nomico e politico mo­mentaneamente dominante. Ma anche questa, lo scoprirete da soli, è una costante della vicenda umana, cui si contrappone a stento, e statistica­mente è molto meno frequente, la variabile della coerenza e della scarsa sensibilità agli allettamenti del potere.

Fissati gli obiettivi di fondo del nostro lavoro, proviamo a cercare il signifi­cato lette­rale della definizione che lo riassume.