L’impostazione del lavoro
3. Il linguaggio specifico
Potrei
limitarmi ad osservare che siamo di fronte ad un aggettivo tutto sommato
chiaro, che si accompagna al sostantivo linguaggio per precisarne o delimitarne
il campo di applicazione. In questo senso, tecnico, peculiare, o qualcosa di simile
potrebbero fornire una definizione esauriente e chiudere il discorso.
Tuttavia, dietro questa meccanica sostituzione di parole, si avverte una
banalità che degrada la semplicità ai livelli di un semplicismo assolutamente
inadatto a cogliere la complessità del problema che ci poniamo. Molto meglio,
quindi, ancorarsi alla concretezza dell’esperienza per ricavare il concetto da
un esempio pratico. Scelte perciò, apparentemente a caso, una serie di parole
- guardia, elsa, assalto, fioretto, parata – proviamo ad esaminarne il
significato senza porre in relazione l’uno con l’altro. Nel linguaggio comune,
del resto, ognuna ha un significato che non la collega automaticamente alle
altre: guardia, ad esempio, può voler dire sorveglianza o turno (medico di
guardia), indicare una sentinella, un agente, o avere valore collettivo e
riferirsi ad un insieme di uomini armati con compiti di vigilanza, protezione,
difesa, può acquistare il colore dei termini sportivi per descrivere un gesto o
un’azione d’un pugile o d’uno schermidore), può indicare infine l’altezza del
punto critico d’un argine ed avere ancora probabilmente una gamma di sfumature
e significati particolari che non serve analizzare. Non è così per elsa, che
indica solo la parte d’impugnatura della spada utile a proteggere la mano. Con
la parola assalto la possibilità di scegliere esiste, ma è davvero limitata: o
mi riferisco ad un'impetuosa manovra militare, o al comando dato al fine di eseguire
tale manovra – all’assalto! – o alla fase di un combattimento tra schermidori
o pugili. I possibili significati di fioretto e parata – come potrete verificare
consultando un dizionario - non aggiungono molto a quanto proposto da
guardia, elsa ed assalto e, ciò che più conta, non ci aiutano a definire
un’area diversa da quella del linguaggio comunemente inteso. Un ambito dal
quale si esce, immediatamente, appena si prova a considerare ognuna delle
parole esaminate come parte di un “insieme” e se ne cerca l’elemento
unificante. In questo senso, infatti, appare immediatamente chiaro che esse
rientrano tutte nell’ambito di un linguaggio riferito esclusivamente ad
un’attività sportiva: la scherma. Un linguaggio che c' impone di scegliere, tra
quelli possibili, un significato obbligato, che esiste ed ha senso perché esiste ed ha senso l’argomento di cui
ci occupiamo. In quest'intima correlazione riposa, in ultima analisi, il
senso profondo dell’aggettivo “specifico” quando si accompagna al sostantivo
“linguaggio”.
Individuata
tale correlazione, appare del tutto inutile chiedersi se sia o meno possibile
individuare un linguaggio specifico della storia. Si tratta piuttosto, e
questo va detto, di un linguaggio più ricco e complesso di quanto comunemente
si creda. Analizziamo, tenendo d’occhio i confini labili e spesso indefinibili
tra lo specifico politico e quello storico, la parola opposizione. Solitamente
usata per indicare “contraddizione” o “contrasto”, in termini giuridici essa
sta per “ricorso contro un provvedimento” ed in senso astronomico descrive la
situazione di due corpi celesti situati in posizione diametralmente opposta
rispetto ad un terzo (ad esempio la luna nel plenilunio rispetto alla terra).
In senso storico il concetto di opposizione perde naturalmente ognuno dei
significati considerati ed assume un valore solo tenendo conto del contesto in
cui si colloca e della sua evoluzione. Si tratta, in primo luogo, di un fenomeno
storico concreto e dinamico, che è intimamente connesso agli interessi morali
e materiali minacciati o colpiti dal programma politico delle classi
dominanti. Come vedete, abbiamo appena provato a collocare nel “linguaggio
specifico” della storia una parola solitamente utilizzata nel linguaggio
corrente, e ci siamo trovati davanti ad un’altra e ben più complessa parola
del “linguaggio specifico” della storia: la parola “classe” alla cui
comprensione non basterebbe dedicare nemmeno molti dei nostri incontri. Ci
capiterà ancora di dare per scontata la comprensione di altri eventuali termini
del “linguaggio specifico” della storia che ci accadrà di incontrare, ed è
naturale: il nostro tentativo di definire in senso storico il concetto di
opposizione ha in questo momento un valore squisitamente metodologico e chiaramente
esemplificativo. Ora, per tornare al nostro discorso, vi sarete resi conto che
il senso sin qui dato alla parola opposizione, ha valore solo se pensiamo ad un
governo che consente il dibattito e concede una qualche forma di rappresentanza
politica ai governati. Siamo, in pratica, in un contesto politico di tipo
parlamentare e costituzionale, in cui l’opposizione, legalmente riconosciuta,
rappresenta ceti sociali governati che hanno un progetto, e quindi un
programma, politico alternativo a quello delle classi dominanti. Si tratta – è
inutile dirlo - ad una definizione generale e generica del significato di
opposizione. La parola, infatti, modifica le sue caratteristiche, ne acquista
alcune, altre ne perde – quando non smarrisce del tutto il suo significato – a
seconda che la poniamo in relazione con una diversa espressione istituzionale
dello Stato (monarchia costituzionale, democrazia diretta, democrazia
parlamentare, ecc.). In ultima analisi, il suo significato è intimamente legato
al grado di libertà garantito dal sistema politico. Bastano queste
considerazioni a chiudere il nostro discorso? Non esiste un diverso angolo
visuale da cui considerare la parola che stiamo esaminando? E’ necessario che
qui voi proviate a dare un vostro contributo. Non è una richiesta strumentale,
non ve lo chiedo per dare al nostro incontro il carattere di un dibattito, che
non ha valore se non è spontaneo, ma perché sento il bisogno di capire se
questo vostro silenzio è attenzione o sconcerto.
Il discorso, interrotto a questo punto, a me pare
incompleto e attento solo all’aspetto istituzionale. Io so che esiste almeno
una via da esplorare. Prima di avventurarmi, però, vorrei la vostra impressione;
mi serve che la esprimiate, per valutare la sintonia si è creata tra il mio
parlare ed il vostro ascoltare. Non so se mi faccio capire…
Un ragazzo alza la mano e chiede di intervenire. Faccio
cenno di sì e dichiara, con la timidezza che è tipica di chi non è abituato a
parlare in pubblico:
- Io, per essere sincero, ho trovato finora il discorso
molto interessante. Quest’ultima parte forse è un po’ complicata, ma non saprei
che aggiungere…
- Qualcosa da dire io ce l’avrei, replica un ragazzo che è
stato ad ascoltare con molta attenzione. Credo che se uno non si sente
rappresentato in Parlamento si sceglie un modo diverso di fare opposizione.
Io, per esempio, ho avuto poco tempo fa la mia prima scheda elettorale e non mi
sono presentato. Chi dovevo votare? A me pareva che dicessero più o meno tutti
le stesse cose. Molti di quelli che non vanno a votare lo fanno per protesta.
Anche questa secondo me è opposizione.
- Io - interrompe una ragazza – mentre ascoltavo ho
pensato che non è vero che l’opposizione è solo quella che si fa in Parlamento.
Non so spiegarmi con chiarezza, ma posso fare un esempio: quando io e i miei
compagni abbiamo occupato il liceo perché il governo voleva dare soldi alla
scuole private, noi ci opponevamo ad una scelta politica che non avevamo altro
modo per contestare.
- Io, aggiunge a sua volta un ragazzo, avevo pensato
proprio a quello che dice la mia compagna. Ora però mi è venuta un’altra idea.
La nostra occupazione ha un collegamento con le cose che lei ci ha detto sul
’68. Voi allora vi opponeste al mondo che vi circondava che era quello dei
vostri genitori, e vi era imposto, non vi apparteneva. E poiché non avevate una
sede riconosciuta dove farlo, allora sceglieste prima le università e poi le
piazze. E le piazze diventarono il vostro Parlamento. Oggi quel Parlamento
alternativo non esiste più e tutto si decide nelle stanze del potere. Certo, il
terrorismo è battuto, ma la democrazia è veramente cresciuta?
- Anche allora tutto si decideva probabilmente altrove, commento
quasi tra me. Comunque ora so che il silenzio era attenzione, non sconcerto e
che tra noi c’è già la sintonia che cercavo. In quanto all’ultima domanda, non
risponderò, perché non mi sembra giusto: sarei evidentemente di parte. Devo
dire, però, che non so quanto fossero distanti tra loro le stanze del potere e
certi covi brigatisti. In ogni caso, ognuno cerchi da sé la risposta, perché
dentro forse ce l’ha. Chissà, magari basta guardarci. Avete detto cose
interessanti e fatto riflessioni acute che non mi attendevo. Mi ha colpito
particolarmente questo accostamento finale tra Parlamento e piazze, cui da non
solo non sarei giunto, anche se, in certo senso, la via cui pensavo quando mi
sono interrotto era quella che esso individua. Io pensavo proprio ad
un'opposizione sociale, a quella che si esprime con lo sciopero e, soprattutto,
a quella che prende corpo d’un tratto materializzandosi negli interminabili
cortei, nelle grandi manifestazioni di piazza che negli ultimi anni hanno
scosso dalle fondamenta alcuni regimi nell’America latina e nell’Est europeo. I Paesi che di democrazia
avevano bisogno. Evidentemente, quando la si possiede non si sa quanto valga, è
più facile nasconderla nelle stanze del potere. Allora le piazze si svuotano. E
bisogna sospettare delle piazze vuote, così come sono indubbiamente sospette le
piazze costantemente stracolme di consenso. Mi pare, comunque, che anche questo
tipo di opposizione, per tornare al nostro discorso, si colleghi, in fondo, al
quadro istituzionale in cui si inserisce. In genere, più forte e oppressiva è
la struttura del potere politico, più “illegale” e represso è ogni tipo di
opposizione. Dico in genere, perché penso che su questo terreno sia necessario
muoversi con la massima cautela. Ritenere che l’equazione opposizione “fuorilegge”
= crisi istituzionale o, più precisamente, dittatura sia sempre verificata potrebbe condurci anche
ad errori di valutazione. Nella storia recente del nostro paese, ad esempio, la
scelta di passare da un’opposizione radicale al sistema, espressa dal
movimento studentesco nel Sessantotto, all’opposizione clandestina ed armata,
operata pochi anni dopo da alcuni dei protagonisti di quella esperienza, non
deriva né da provvedimenti legislativi adottati dal potere politico contro le
opposizioni, né da un'involuzione autoritaria delle istituzioni. Al contrario,
è l’attacco al cuore dello Stato portato da bande armate a produrre leggi e
carceri speciali. Certo, a favorire quella scelta sono soprattutto le bombe e
gli attentati che, a partire dal 12 dicembre 1969, insanguinano il Paese ad
opera di gruppi neofascisti coperti da apparati deviati dello Stato, che
intendono così di impedire la forte crescita democratica prodotta dalla
contestazione giovanile e dal protagonismo della base operaia, che ha spinto
CGIL, CISL ed UIL ad aprire la stagione delle grandi lotte unitarie. Tuttavia,
la nebulosa del terrorismo, da cui emergono le “Brigate Rosse”, è figlia anche,
e forse soprattutto, di due tragici errori di valutazione: la convinzione di
vivere tempi rivoluzionari e quella di poter fare una rivoluzione senza
l’appoggio dei lavoratori. Il dramma non sta nell’aver pensato che lo Stato
borghese si abbatte e non si cambia, che non è una convinzione priva di
fondamento – la borghesia, in effetti, non ha cambiato, ma rovesciato con la
rivoluzione lo Stato creato dall’aristocrazia. Il vero dramma è che manca un
modello sociale ed istituzionale alternativo che trasformi la protesta in
rivolta armata. La presunta rivoluzione si riduce così ad un tragico stillicidio
di esecuzioni sommarie, che si confondono con la violenza dei gruppi
neofascisti, con le bombe e le stragi che non hanno un colpevole. La gente,
soprattutto le masse popolari, confuse ed intimidite, fa quadrato attorno alle
Istituzioni, sebbene queste siano ben lontane dal modello ideale disegnato
dalla Carta Costituzionale, e si attesta su posizioni sempre più moderate. Lo
scontro si riduce così a guerra per bande: estremismo di destra, estremismo di
sinistra. Quali legami corrano tra il neofascismo e taluni apparati dello
Stato non è in quei giorni nemmeno possibile immaginare. Certo, qualcuno ha
l’intuizione giusta: la strage è di Stato. Ma è una verità agghiacciante, cui
non si può o non si vuole credere, sicché chi la sostiene è guardato con
sospetto e si vede piovere addosso un diluvio di accuse: provocatore,
anarchico, estremista di sinistra, cattivo maestro, complice dei
brigatisti. Sono tempi in cui non hai
scelta. Se pensi che i manifesti dei terroristi non sono poi così “deliranti” come si sostiene – è
questa la lettura ufficiale, direi quasi la parola d’ordine, che percorre
trasversalmente e segna come un filo rosso i commenti dei mezzi di
comunicazione di massa - se provi a ragionare con la tua testa e ti pare che
i proclami sulle Istituzioni da salvare ad ogni costo – che si dettano ogni
giorno da tutte le forze politiche - siano solo retorica ipocrisia, perché sono
oltre vent’anni che la Costituzione nata dalla Resistenza spera invano
d’essere applicata, perché hai ancora nelle orecchie il coro delle critiche e
la marea montante delle accuse, perché ti senti dentro la rabbia per
l’arroganza padronale, che ha mille volti, e si impone nelle fabbriche, in
famiglia, a scuola, all’università, se ti azzardi a dire che a te non è passata
affatto la nausea che ti provoca il perbenismo e ti brucia la sensazione netta
della Resistenza tradita, ecco, se tutte queste cose le dici, sei in qualche
modo complice dei terroristi. Sicché, proprio come hanno sperato l’ala oltranzista
del padronato e la gran massa di fascisti che è uscita indenne dal crollo del
regime, che non è stato possibile epurare, e non è certo perita col duce a
Piazzale Loreto, ma s’è annidata in ogni piega della nostra giovane
democrazia, insomma, proprio come hanno sperato i peggiori arnesi della
reazione, il terrorismo blocca il processo di rinnovamento avviato dal
Sessantotto e spinge l’opposizione al fianco della maggioranza. Tutto va come
previsto ed agli occhi dell’uomo della strada, sconcertato e impaurito, quelli
che mettono mano alle armi, irretiti dall’illusione rivoluzionaria o abbagliati
dalla retorica neofascista, non hanno alcuna giustificazione morale. Essi non
entrano in clandestinità per scelta obbligata, ma si pongono volontariamente e coscientemente
fuori dalla legge. Inutilmente e ingenuamente – sono per lo più giovani - si
dichiarano prima soldati in guerra – perché tali si ritengono – e poi
prigionieri politici. Chi li ha spinti ad uccidere è inflessibile: delinquenti
comuni. Paragonati alle forze dell’ordine incerte e in cronico ritardo, sembreranno
imprendibili per anni e daranno un’impressione di efficienza estrema sino a
quando sotto i loro colpi non cadrà Aldo Moro e, con lui, la possibilità di
inaugurare una stagione nuova della nostra vita politica. Ucciso Moro, le
forze dell’ordine acquisteranno altri ritmi: non un errore, non un ritardo.
Un acume insospettabile. I terroristi, invece, sciatti e imprudenti dall’oggi
al domani, perderanno l’efficienza e la rapidità. Frastornati e sbandati,
saranno sepolti sotto palmi di terra o secoli di galera.
Su questo argomento – s’intende – torneremo a fermarci.
Per oggi basta. Ce ne siamo occupati per coltivare un dubbio ed evitare errori
di valutazione. Sgombrato il campo, possiamo tornare al nostro discorso
sull’opposizione, per ricordare come, al di là del caso italiano degli anni di
piombo, in generale, nel corso del Novecento, il destino delle opposizioni che
esercitano legalmente il proprio ruolo o entrano in clandestinità perché
dichiarate illegali, ci conduce essenzialmente a due tipi di sistemi politici:
quelli che definiamo genericamente democratici e quelli in cui è ammessa
l’esistenza di un unico partito il cui capo in pratica governa il Paese.
Esemplari, in questo senso, per quanto su opposte sponde, i richiami storici
cui conduce la criminalizzazione dell’opposizione: il fascismo in Italia, il
nazismo in Germania, il franchismo in Spagna, lo stalinismo ed il socialismo
reale in Russia e nei satelliti dell’URSS. Vorrei farvi notare come anche in
questo caso i richiami geografici non sono casuali ed andrebbero esaminati e
spiegati. Classici, per fermarci all’Italia e alla Germania, sono la lettura
della crisi istituzionale legata alla giovane età delle due compagini statali –
rispetto ai grandi Stati nazionali europei Italia e Germania hanno alle spalle
poco più di mezzo secolo di storia unitaria – ma soprattutto i riferimenti
alle questioni territoriali e agli accordi di pace sottoscritti al termine
della prima guerra mondiale. L’Italia vittoriosa non ha avuto ciò che sperava
nell’Istria e nella Dalmazia, la Germania battuta e riconosciuta come unica
responsabile della catastrofe, è stata privata delle colonie e di territori
chiaramente tedeschi. Ma se c’è un punto in cui il linguaggio specifico della
storia si intreccia con un concetto geografico, per dare origine a due
principi basilari della storia in quanto scienza ad iniziare, in particolare,
dalla rivoluzione francese, ebbene, questo è costituito dal concetto di
nazione e dalle due ideologie che da esso derivano:
1) l’ideologia nazionale, che intende stabilire il
criterio di legittimità di uno stato di diritto moderno e indipendente, che si
inserisce in un consesso internazionale di nazioni sovrane (pensate all’Italia
risorgimentale, alla Giovine Italia, e all’europeismo mazziniano);
2) l’ideologia nazionalista o nazionalismo, che si
proclama depositaria unica dei valori di unità e indipendenza della nazione e
si trasforma in movimento che pretende di essere l’unico fedele interprete
del principio nazionale e il difensore esclusivo degli interessi nazionali
(pensate all’Italia del primo conflitto mondiale, che lascia l’alleato
austriaco e gli fa guerra per completare il processo risorgimentale dell’unità
e dell’indipendenza e si propone di portare i confini in terre slave e fino ai
Balcani, sicché l’idea nazionale si confonde col nazionalismo. Pensate a
Mussolini, che sulla vittoria tradita e i compensi mancati costruirà parte
delle fortune del fascismo (l’Italia erede di Roma, il “posto al sole” con le
ambizioni coloniali, le mire sui Balcani).
Come vedete, anche in questo sintetico tentativo di
riassumere le due diverse ideologie nate dal concetto di nazione, il linguaggio
specifico della storia torna ad intrecciarsi con quello geografico. Vi capiterà
mille volte: la questione balcanica, la Russia che punta al Mediterraneo per
la via dei Dardanelli, l’Inghilterra che a Vienna rinuncia a possessi territoriali
in cambio di qualche scoglio nel Mediterraneo e sugli oceani. Costanti delle
linee politiche di alcuni paesi per tutto l’Ottocento e i primi del Novecento.
E c’è un rischio in questo intrecciarsi di linguaggi storico – politici con elementi
geografici: quello di scambiare la storia con la Geopolitica, che è una
presunta scienza che tende a collegare gli eventi della storia alla realtà
geografica in quanto “ambiente”. Un legame che consente di ricavare le linee di
fondo degli avvenimenti della storia e delle scelte politiche da un’indagine geografica
e storica imperniata sull’ambiente fisico. Quale il rischio? Oltre
all’infondatezza complessiva della teoria, quello di sfociare malaccortamente
nel razzismo. Hausofer, studioso di geografia e generale nazista, teorico
della razionalizzazione dell’imperialismo tedesco, partì infatti da questa
tesi per affermare il predominio della razza tedesca e la sua missione
mondiale: un nuovo ordine, una dominazione che conduce alla pace. Il prezzo è
quello di assicurare alla Germania il suo spazio vitale. E’ incredibile, e per
certi aspetti angosciante, pensare che anche Hausofer è figlio di quell’Europa
che a fine ‘700 ha visto Rousseau teorizzare il principio della sovranità
popolare e dell’autodeterminazione dei popoli.
Mi fermo. Guardo
attentamente i ragazzi. Mi ascoltano ancora con attenzione, ma ormai non
intervengono più. Uno sguardo all’orologio mi avverte che abbiamo da tempo
superato le due ore di lezione programmate e non commetto l’errore di strafare.
- Per oggi basta –
concludo. E sento che le mie parole non sono accolte come una liberazione.
Assieme, quest’anno, faremo molta strada, penso, mentre lasciano l’aula
lentamente, salutandomi senza nessuna timidezza. Lo so. Stavolta torneranno.