Capitolo 1°

 

L’impostazione del lavoro

 

 

  

2. Il  linguaggio

 

Con questa parola siamo soliti  indicare sia la capacità di usare, che l’uso con­creto di un sistema di simboli adatti a comunicare. Nell’uomo il linguaggio è la fa­coltà conge­nita di comunicare con i propri simili mediante le parole di una lingua. Attraverso processi complessi, scanditi da tempi diversi per i differenti gruppi umani - per alcuni il processo è ancora in corso - questa capacità si trasforma in linguaggio scritto, che consente di raccontare a quelli che non possono ascoltare. E’ per questo che siamo so­liti dire che il confine tra storia e preistoria è il linguaggio scritto.

Considerato in senso scientifico – con riferimento, cioè, alle moderne disci­pline logiche, matematiche, informatiche e linguistiche – il linguaggio è un sistema di sim­boli che possiede una grammatica ed un vocabolario. Scienza umanistica, la storia ha una grammatica corrispondente alla lingua utilizzata per scriverla, ma ha simboli e numeri che la riguardano peculiarmente e la caratterizzano. In termini aritmetici, l’insieme di cifre che costituiscono il 1492 rappresenta un numero che ha una sua uni­cità ed è soggetto a regole che lo accomunano ad altri numeri (scomposizione, sempli­ficazione ecc.). Considerato dal punto di vista della storia, quel gruppo di cifre ha un significato profondamente diverso: è una data e si lega ad uno o più eventi. Nel 1492, per ricordarne uno, muore Lorenzo il Magnifico, s’incrina il sistema della “po­litica dell’equilibrio” e si apre una pagina tra le più buie della storia politica del no­stro Pa­ese, che, per dirla con Machiavelli sarà presto conquistato da Francesi e Spa­gnoli “col gesso e le meluzze”. Ma questi avvenimenti non ne avrebbero fatto una “cifra chiave” nella storia dell’umanità, se esso non si fosse legato inscindibilmente ad un evento di rilievo straordinario quale fu la scoperta dell’America. In questo senso, l’anno, che pure continua formalmente ad appartenere ad un secolo - il quindi­cesimo dopo la na­scita di Cristo - apre in realtà un’epoca e ne chiude un’altra, pone l’Europa di fronte ad una prospettiva planetaria rivoluzionaria, segna la comparsa sulla scena degli avve­nimenti umani di un continente ignoto. C’è peraltro, nell’avvenimento, la sconfitta ir­rimediabile d’un simbolo negativo, d’un mito che da decine di secoli impone all’uomo di non osare, di non superare la soglia vietata delle colonne d’Ercole e fa del Capo di Finis Terrae non l’estremo avamposto del conti­nente sull’oceano, ma il confine tra possibile e impossibile, umano e sovrumano, luce e te­nebra . Certo, il mitologico Ulisse dantesco non è in fondo molto diverso dal ca­pitano genovese che ne segue la rotta. Ma là dove Ulisse affonda, Colombo prende il largo, eroe moderno che vede dapprima annaspare e quindi colare a picco nella scia delle sue caravelle tutto intero un mondo vecchio di secoli, con le sue carte nautiche costellate di mostri, le sue paure, i suoi tabù, i suoi dogmi levati come alte muraglie ad impri­gionare il pensiero dell’uomo. Dietro quelle muraglie che crollano, si intra­vede per un attimo - e lo scorge chi ha gli occhi acuti - il volto di Ulisse col suo trionfante sorriso di sfida. Certo, in tanto intrecciarsi d’eventi, Colombo ed Ulisse vanno ciascuno per la propria strada. Eppure tra loro non sembrano correre secoli. Hanno entrambi osato, sia pure con diversa fortuna. Ed i secoli non separano tra loro in modo netto gli uomini delle diverse ge­nerazioni, se quelle generazioni hanno cu­stodito nel loro seno valori degni di essere tramandati,  valori per i quali  hanno vis­suto e nel cui nome hanno fatto le loro scelte di campo. E’ questa una “costante”  della nostra scienza? Sarete voi a darmi i vostri pareri al termine di questa nostra di­scussione.

Un ragazzo m’interrompe:

- Ma non siamo partiti da avvenimenti troppo lontani dalla sto­ria contempora­nea?

La domanda è stimolante,  dimostra attenzione e – ciò che non guasta - mi chiama ad una  riflessione inattesa.

Sì - dico quasi a me stesso – in senso cronologico, siamo partiti da eventi lontani, ma dal punto di vista logico essi sono molto attuali. In verità, per quanto mi riguarda, fac­cio fatica a collocare Ulisse in una dimensione temporale. A quale Ulisse far riferi­mento? All’eroe omerico? Al personaggio dantesco? A quell’ansia di sapere e capire che meno mi resta da vivere e più mi urge dentro? Non è forse quell’ansia l’Ulisse che ho in me, uomo di un tempo che fu nuovo e che invecchia, e che da anni ogni sera si lascia alle spalle le sue colonne d’Ercole, ed all’alba ne vede altre spun­tare beffarde nella luce aurorale d’un irraggiungibile orizzonte? Ciò vuol forse dire che la storia contemporanea non ha confini? Tutt’altro. Per quel che riguarda l’ambito temporale, si è oggi abbastanza concordi nel ritenere che la storia contem­poranea debba occuparsi dell’insieme di avvenimenti che non siano estranei alla no­stra sensibilità , o – se si vuole - che non siano troppo lontani dalla realtà in cui si consuma la nostra esperienza di vita. Si tratta di una definizione generica, sulla quale torneremo, e che, per ora, possiamo anche accettare, a patto di non dimenticare l’inestricabile intreccio di istinto e ragione che abbiamo in comune con l’uomo di ogni tempo e che talvolta ci fa contemporanei non dico del passato, come sentiamo ogni giorno, ma del futuro, come talvolta ci pare di avvertire, quando, stando con dei ragazzi, ne incontriamo uno che ci riconduce alla nostra giovinezza e riconosciamo in lui quello che eravamo. In ogni caso, noi siamo partiti dal ’68, non  da Colombo. Certo, volendo definire storicamente il senso della datazione, avrei potuto far riferi­mento allo sbarco sulla luna, che è probabilmente più vicino alla vostra realtà di quanto non appaia l’impresa di Colombo. Devo confessare, tuttavia, che personal­mente trovo più facile sentire il “pathos” di personaggi come Ulisse o Colombo che non quello degli astronauti scesi sulla luna. Armstrong non è l’eroe che ti scuote dentro. Porta sulle spalle troppa tecnologia, è un protagonista soprattutto televisivo, figlio dei media più che della sua impresa. Con lui, sulla luna, scendemmo in contem­poranea un po’ tutti noi, giovani di allora. Fu come stare al cinema: la vicenda magari ti prende, poi in sala torna la luce e l’incanto svanisce. I cambiamenti che il viaggio di Armstrong ha prodotto nella nostra vita - ed ancor più in quella delle generazione che verranno - risulteranno magari anche più profondi di quelli che Colombo pro­dusse nella vita delle generazioni che nacquero dopo la sua, ma hanno per ora un non so che di “virtuale”, che li colloca in una dimen­sione opaca, anticipa l’era del com­puter e li “sbilancia” verso un futuro ancora così ignoto che quasi non ci appartiene. Per l’impresa di Colombo fu tutto diverso. Gli uomini che si misero sulla sua rotta furono immediatamente tanti. Armstrong ha piantato in cielo una bandiera, ma dietro di lui non s’è mosso nessuno, e niente e nessuno ha incontrato alla fine del suo viag­gio: né uccelli esotici, né vegetazione tropicale, né indigeni stupefatti. Ora la luna è là, violata in­vano, senza pionieri, senza indios, senza vita. Al contrario, dietro Co­lombo è subito un via vai di galeoni, un esodo interminabile, il risvegliarsi della cupi­digia, la guerra, il genocidio, un’interminata rapina. Pochi anni, e il centro di gravità dell’economia d’un pianeta cresciuto d’un tratto a dismisura si sposta dai mari interni dell’Europa – Mare del Nord, Mar Baltico, Mediterraneo - all’immensità dell’Oceano su cui navigano insieme delinquenti incalliti, spiriti inquieti, predicatori asserviti al potere che reci­tano la commedia della conversione e della “civilizzazione” ed una fetta d’umanità de­siderosa di sfuggire alla miseria, alla persecuzione religiosa, allo strapotere delle classi dominanti. Nessuno ne è consapevole e - com’è naturale - pas­serà molto tempo prima che se ne acquisti piena coscienza. Tuttavia, fino al 1492 c’è un mondo. Dopo del 1492 ce n’è un altro. E’ un mondo in cui l’orizzonte culturale – particolarmente quello scientifico – risulta subito fortemente ampliato e i mutamenti si susseguono veloci. Città “atlantiche” come Lisbona, Siviglia, Rotterdam, prendono in breve il po­sto di Lubecca, Genova, Venezia, le grandi città di mare che avevano fino a quel mo­mento svolto un ruolo preminente nel commercio mondiale. La pre­senza dei nuovi prodotti coloniali – patate, mais, tabacco – dà una forte spinta all’incremento dei traf­fici commerciali sulle rotte oceaniche ed alla grande industria, che vive di rapina, sottraendo alle colonie le materie prime e trasformando progressi­vamente un immenso continente in un vasto mercato che as­sorbe prodotti lavorati. Mentre l’enorme afflusso d’oro produce un rialzo dei prezzi e la svalutazione dei beni immobili, Spagna, Portogallo, Olanda, Francia, Inghilterra, i paesi dell’ovest europeo, salgono prepotentemente alla ribalta e spingono verso il fa­tale declino quelli chiusi nel bacino del Mediterraneo. Il pianeta, cresciuto d’un tratto a dismisura, è testimone di biblici spostamenti di masse popolari, di mescolanze di genti, di nascite di nuove razze, di atroci colonizzazioni. Il cre­scente bisogno di denaro per capitale d’esercizio e creazione di monopoli crea il clima favo­revole per grandi imprese capitalistiche, con fortissime ripercussioni politiche. Si consuma intanto una delle più immani tragedie della storia: masse sterminate di indigeni che hanno salutato Colombo come un Dio, appena assurte agli onori della “storia”, sono subito schiavizzate ed usate come animali da lavoro. Paradossalmente, i “nuovi” ed impotenti protagonisti della storia, escono di scena in un amen, così come vi sono entrati: soli ed inermi, prendono a morire di stenti. Quando non reggeranno più ai ritmi di lavoro bestiali imposti dagli in­vincibili invasori, quando non basteranno a rifornire l’altra sponda dell’Atlantico  dei prodotti delle loro terre ridotte in servitù, allora il cannone prenderà a tuonare per assicurare l’Asiento a que­sta o quella potenza.

Interruzione attesa:

- Cos’è l’ “Asiento? - mi fa una ragazza incuriosita.

- A causa dello spietato sfruttamento della forza-lavoro indigena, rispondo, già pochi anni dopo il viaggio di Colombo esisteva un monopolio della tratta dei negri: l’Asiento dei negri. Il primo accordo risale al 1528 ed è sottoscritto dal go­verno spagnolo con i tedeschi Enrico Eynger e Gerolamo Sayller, che ottengono l’appalto esclusivo di un numero predefinito di schiavi negri da vendere nelle colo­nie transoce­aniche, in cambio del versamento di una somma di danaro e del soddi­sfacimento di alcuni obblighi. L’Asiento divenne poi uno dei cardini dell’economia spagnola che lo inserì tra i beni commerciabili, oggetto di trattative con privati, agenzie nazionali ga­rantite dai governi e con gli stesso Stati. L’Asiento, insomma, era il monopolio legale della tratta degli schiavi. Una parola che non s’usa più, ma che potrebbe tornare di moda. Se vi fermate a riflettere, vi accorgerete che siamo già all’ipocrita posizione ufficiale di governi che fissano un “tetto” di immigrati da far entrare nel Paese “le­galmente”, per soddisfare la richiesta di mano d’opera a basso costo per lavori umili e pesanti per cui i “bianchi” chiedono paghe e garanzie sindacali; siamo, e vale la pena di riflettere, alle lamentele della Confindustria che chiede mano libera nei licen­ziamenti e – naturalmente - protesta col Governo che non aumenta il numero dei di­sgraziati da “occupare” al posto dei “bianchi” licenziabili e licenziati. Provate a mettere per un attimo a fuoco il quoti­diano spettacolo degli extracomunitari affamati che sbarcano sulle nostre coste, ven­duti più o meno come schiavi a questo o quel pa­drone, per essere poi usati come forza lavoro a costo molto vicino allo zero nella mi­riade di fabbriche fuorilegge che pullu­lano nella città e nella provincia, pensate ai tanti disperati che qui in Campania, a pochi passi da casa nostra, nelle campagne di Villa Literno si spezzano la schiena sotto il sole rovente, chini sulle cassette da riem­pire di pomodori per ricevere a sera un compenso da fame, alle ragazze dell’Est che sperano di fuggire alla miseria e cadono in mano alla delin­quenza organizzata, che ne ricava lauti guadagni, costringendole a prostituirsi. Provate a chiedervi cosa ci fanno per davvero i nostri soldati, assieme a tanti militari della NATO, ora in Africa, ora nel Golfo Persico, ora nei Balcani. Provate a domandarvi quali interessi difendono e ve­drete che in fondo le cose di cui ci stiamo occupando sono molto più attuali di quanto non sembri a prima vista. Probabilmente nessuno ha la per­cezione chiara di ciò che sta avvenendo, noi non siamo ancora in grado di capirlo e valutarne appieno la portata. Tuttavia se ne avvertono segnali: a partire dal crollo del “muro di Ber­lino” e dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. 

Spero di essere stato chiaro – concludo rivolto alla studentessa che mi aveva posto il quesito.

- E’ stato chiarissimo – risponde la ragazza con prontezza – e voglio sottoli­neare che sono sincera. Ora capisco perfettamente cosa intende quando sottolinea il valore di un discorso logico che non si lasci frenare dalla distanza stabilita dall’ordine cronologico.

- Bene – asserisco con intimo compiacimento – Ora però conviene tornare al nostro discorso sulla valenza dei numeri nel linguaggio storico. E’ appena il caso di notare che il numero, in questa circostanza, come di solito in un discorso storico, si lega ad uno o più eventi e ad uno o più nomi che appartengono al linguaggio di un’altra scienza: quella geografica. Se penso al 1963 come momento sto­rico, ricordo un colpo di Stato nel Vietnam del Sud, con gli americani sempre più coinvolti nel conflitto di questo paese col Vietnam del Nord, la firma, a Mosca, del trattato per la fine degli esperimenti nucleari nell’atmosfera e nelle profondità degli Oceani, mi ri­torna vivida alla mente l’immagine dell’assassinio del presidente Ken­nedy a Dallas, negli Usa, La dimensione del tempo e quella dello spazio sono di fatto intimamente connessi alla vicenda umana. Senza di esse l’uomo e la sua storia non esistono e so­pravvivono tutt’al più nel mito o nella favola, Per quel che riguarda il 1492 il legame è così stretto che, espresso in termini matematici, si può agevolmente sintetizzare nell’equazione 1492 = America. Ma non è un caso eccezionale. Accade così per il 1848, che richiama alla mente il “Manifesto” di  Marx ed Engels, la prima guerra d’Indipendenza, ma soprat­tutto la lunga serie d’insurrezioni e sollevazioni che scuo­tono l’Europa dalle fonda­menta, allorché a gennaio insorgono Palermo e Napoli, a febbraio Parigi, a marzo Budapest, Vienna, Berlino, Venezia, Milano, a novembre Roma. L’equazione 1848 = rivoluzione non è certo azzardata. Mutati gli elementi numerici e alfabetici, nello scorrere degli eventi storici una data ed un luogo, spesso una data e più luoghi, costituiscono un’equazione che si verifica  costantemente, sia per ciascuno di noi, consi­derato come individuo, che per il gruppo sociale di cui siamo parte, sia, infine, per i gruppi so­ciali che sono esistiti e che esisteranno. 

E qui chiuderei l’analisi della prima parola del titolo scelto per il nostro la­voro. Un’analisi che, tuttavia, per essere completa, ci impone di occuparci della se­conda delle sue parole chiave: mi riferisco, com’è facile intendere, all’aggettivo “specifico”, che accompagna il tema del linguaggio.