Dietro
lo show di Cancun
Le mille questioni irrisolte che il Wto vorrebbe chiudere in
pubblico dopo non esser riuscito a chiudere in privato. Ma l'unica cosa che
davvero conta è che ci sia comunque «un successo», cioè che si eviti una
rottura clamorosa tra i protagonisti, e che si possa fingere che tutto va bene
BERNARD CASSEN
Più di un governo deve essersi pentito di avere adottato gli
statuti dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), in occasione della
sua prima conferenza ministeriale a Marrakech nel 1994. Ci si aspettava che la
nuova organizzazione avrebbe costituito un forum permanente per le discussioni
multilaterali sul commercio, interrompendo la tradizione dei «cicli» di
negoziati del Gatt, il suo predecessore: invece, alla prova dei fatti la logica
operativa è sempre la stessa. Infatti i cinque giorni,generalmente ogni due
anni, della conferenza ministeriale, organismo supremo del Wto, monopolizzano
l'attenzione generale, mentre le varie trattative in corso - sull'accesso ai
medicinali, l'agricoltura, i servizi, il trattamento speciale e differenziato
dei paesi in via di sviluppo, l'accesso al mercato dei prodotti non agricoli,
ecc. - hanno un loro calendario e un programma di lavoro a se stante, senza
passerelle o legami istituzionali fra loro. Soprattutto, si svolgono lontano
dagli sguardi dei manifestanti...
La conferenza ministeriale di
Cancun - che segue quella di Doha del novembre 2001 - non coincide con nessuna
scadenza particolare, è semplicemente un incontro statutario. E tuttavia, in
una dinamica non dissimile da quella delle trattative europee - in cui le
scadenze vengono fortemente drammatizzate, sebbene non vi sia mai un'urgenza
reale - suscita supposizioni di ogni sorta e darà luogo, a posteriori, ad una
serie di valutazioni in termini di «successo» o di «fallimento». Da che cosa si
identificherà un eventuale «successo»? Semplicemente, dalla continuazione e
dalla intensificazione delle misure di «liberalizzazione» in tutti i settori
attualmente in fase di negoziato e, se possibile, in altri ancora.
Ma queste liberalizzazioni
rappresentano un successo per le popolazioni interessate? Per i liberali il
problema non si pone: è un articolo di fede. Purtroppo per loro, le cifre non
tornano a loro favore. Il ricercatore coreano Ha Joon-chang, riprendendo, fra i
vari lavori, quelli dell'economista svizzero Paul Bairoch (ex esponente del
Gatt!), ha dimostrato che la crescita dell'economia mondiale era stata meno
elevata nei decenni 1980-2000 - l'età d'oro del libero scambio e della deregulation - che non nei decenni 1960-1980,
offesi e vilipesi per i loro «arcaismi» protezionisti e interventisti.
Ci sarebbe un mezzo semplicissimo
per mettersi la coscienza a posto. Come chiede a Parigi il Consiglio economico
e sociale (Ces) in un parere ben documentato, basterebbe procedere ad un
bilancio pubblico e con contraddittorio «delle conseguenze, di altra natura
oltre che commerciali, degli accordi di Marrakech e del loro impatto sulla
crescita economica, la riduzione delle disuguaglianze tra i paesi in funzione
del loro livello di sviluppo, l'occupazione, la ripartizione delle attività
produttive fra i territori, l'ambiente, e l'applicazione delle norme sociali».
Il Ces propone che sia l'Ue ad assumere l'iniziativa di chiedere al Consiglio
economico e sociale delle Nazioni unite di procedere a tale valutazione.
Desta stupore il fatto che il
commissario europeo Pascal Lamy, onnipresente sui grandi media dove è sempre
circondato da folle di amici, non abbia ancora dato seguito alla proposta che
gli è stata diretta, proprio lui che è così sicuro del fatto suo quando esalta
incessantemente i benefici della liberalizzazione degli scambi. Potremmo dire a
Lamy: scommettiamo! Per corroborare le sue tesi, potrebbe far intervenire tre
illustri personalità che di recente hanno firmato a sei mani un articolo che è
un vero e proprio peana sul commercio globalizzato inteso come strumento al
servizio dei poveri, di cui - lo sappiamo fin troppo bene - sono stati i più
ferventi paladini nelle loro cariche presenti e passate. Si tratta di Robert Rubin,
ex segretario al tesoro degli Stati uniti e presidente del comitato esecutivo
di Citygroup; di Shoichiro Toyoda, presidente onorario della confindustria
giapponese; e di Dominique Strauss-Kahn, ex ministro (socialista) francese
delle finanze.
Al momento, non ci vuole molto a
rendersi conto che il commissario è troppo occupato per dar seguito alla nostra
proposta: una volta preparata la messa in scena a Cancun, bisogna evitare che
lo spettacolo faccia fiasco. Perché lo spettacolo della liberazione continui (The show must go on!), si pone l'accento sulle trattative
interne: io cedo su questo punto se tu mi fai delle concessioni su altri punti,
e facciamo tutti e due fronte comune contro un terzo ladrone.
Da questo punto di vista,
l'ipotesi di accordo minimo sull'agricoltura tra gli Stati uniti e l'Unione
europea, anche se palesemente non risolve nessun problema di fondo, dimostra
quanto meno la solidarietà transatlantica di fronte ai governi di numerosi
paesi del Sud, da cui ci si attende molto in cambio di questa «apertura»:
mettere sul tappeto verde le famose «questioni di Singapore», vale a dire gli
investimenti, la concorrenza, la trasparenza dei mercati pubblici e la
«facilitazione» degli scambi (miglioramento delle procedure di sdoganamento,
ecc.). Sono questi problemi a motivare Lamy e il suo collega e amico americano
Robert Zoellick, rappresentante speciale americano per gli affari commerciali,
in quanto possono riattaccare fortemente le protezioni che ancora esistono nel
Sud contro l'offensiva delle transnazionali europee e americane.
Sugli investimenti, si progetta
di far rientrare dalla finestra del Wto, con qualche minima modifica, l'Accordo
multilaterale sugli investimenti (Ami) che era uscito senza gloria dalla porta
dell'Ocse (Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico) nel 1998. Nulla
garantisce che i governi del Sud, India in testa, accetteranno di aprire questo
dossier.
Sono questi i problemi di fondo
attualmente sul proscenio. Tuttavia ne occultano altri, non meno importanti, ma
considerati tabù: la stimolazione del dumping sociale e ambientale per effetto degli scambi
globalizzati di beni e servizi; il fatto che Washington sfrutta le fluttuazioni
del dollaro come arma d'urto commerciale, ed infine il problema del debito
pubblico dei paesi in via di sviluppo. Perché è unicamente il pagamento di
questo debito sacrosanto a costringere i paesi in via di sviluppo a esportare i
prodotti agricoli, quando gran parte della loro popolazione non ha cibo a
sufficienza, come avviene in Brasile. Una situazione che sfida il semplice buon
senso, ma che riempie i forzieri dei creditori e mantiene in uno stato di
dipendenza alcune economie nazionali spinte dall'asfissia. Allora si capisce
meglio perché il Wto, le istituzioni finanziarie internazionali, la Commissione
europea e i governi del Nord rifiutino di redigere un bilancio circostanziato
di otto anni di liberalizzazione col Wto sempre in prima linea - bilancio che
reclamano a gran voce centinaia di associazioni e di sindacati del mondo intero.
Non è urgente liberalizzare, urge piuttosto procedere ad un'operazione-verità
sulla liberalizzazione.
©Le Monde Diplomatique-il
manifesto
10 settembre 2003