«Quelli che insegnano
pedagogia all’università i ragazzi non hanno bisogno
di guardarli in faccia. Li sanno a mente, come noi si sa
le tabelline»: così scrivevano i ragazzi di Barbiana. Sono passati più di
trent’anni ma la definizione è sempre attuale. Così, nel passaggio dall’era
Berlinguer all’era Moratti sono cambiati i nomi dei pedagogisti di fiducia dei ministri, ma la caratteristica segnalata dagli scolari
di don Milani è rimasta invariata. Tra i progetti di riforma sfornati dai
governi di centro-sinistra e di centro-destra ci sono, infatti, elementi di
continuità (i cedimenti sulla laicità dell’educazione, i finanziamenti alle
scuole private, la netta separazione tra istruzione e formazione
professionale), e di discontinuità (il taglio apertamente classista del
progetto Moratti); ma il denominatore comune più tenace è l’assoluta noncuranza
per il carattere mutevole, imprevedibile, avventuroso delle relazioni che le e
gli insegnanti instaurano ogni giorno nelle classi con le ragazze ed i ragazzi
in carne ed ossa. La scuola viene vista come un “sistema” da far funzionare col massimo
di efficacia e di efficienza, un oliato meccanismo di trasmissione di
conoscenze/competenze/capacità e di controllo della loro acquisizione, e non
come una moltitudine di comunità viventi, ciascuna con
la sua storia, le sue abitudini, i suoi conflitti, dove si incontrano esseri
umani diversi per età, sesso, carattere, visioni del mondo, provenienze
geografiche e culturali. Nulla in contrario, naturalmente, sull’idea che una buona scuola
debba essere ben organizzata. Ma un modello
organizzativo e didattico che non tiene conto del carattere corporeo, sessuato,
soggettivo dell’insegnamento e dell’apprendimento ha molte probabilità di
produrre effetti controproducenti.
Un campo in
cui la noncuranza per l’esperienza reale di insegnanti
e studenti è particolarmente evidente è costituito dai progetti valutativi
sfornati dai pedagogisti ministeriali. Eccone un esempio, tratto
dal progetto elaborato dalla commissione presieduta da Giuseppe Bertagna per la
ministra Moratti. Nel nefasto computo di “crediti” e “debiti” già
introdotto dalla riforma precedente viene ora inserita
una disinvolta equiparazione di giudizi tecnici e giudizi morali attraverso
l’istituzione del “debito formativo” relativo al “comportamento”, considerato
di «pari peso» rispetto a quelli di profitto, «in nome del principio
dell’inseparabilità tra logica ed etica».
Bastano due debiti, di cui uno può riguardare, appunto, il
comportamento, perché al termine di ogni biennio
(dalla seconda elementare in su!) un bambino o una bambina ripetano
l’anno. A parte il fatto che non si vede
come l’introduzione della ripetenza fin dai primi anni delle elementari
possa favorire quella scuola «lunga, non concitata, senza la nevrosi dei
risultati intermedi», di cui favoleggia il documento, bisogna domandarsi quale
significato possa assumere questo provvedimento nelle menti di chi valuta e di
chi è valutato. La ripetizione di un anno scolastico può, in certi casi, essere
utile, se vissuta dallo studente come una possibilità di recuperare esperienze
e conoscenze non pienamente metabolizzate. Ma acquista un significato diverso,
e decisamente controproducente, se la valutazione morale
si sovrappone a quella cognitiva, e la ripetenza si configura come una
punizione: non sai la matematica, e in più sei un bambino cattivo; quindi meriti di essere bocciato!
Lo sfondamento dei confini
tra diversi tipi di valutazione – che, come ogni buon insegnante sa,
richiederebbero forme diverse e non standardizzate di giudizio e di approccio relazionale – è aggravato dalla presunzione che
lo strumento del test sia in grado di misurare le più svariate caratteristiche
cognitive, affettive, etiche, di un essere umano. In un’appendice al documento, Giuseppe Bertagna si compiace del
fatto che una scuola media da lui visitata disponga dei
dati relativi alle prove di ingresso di ciascun alunno, riguardanti non solo
«le abilità di base (numeriche, di studio, di ragionamento e di lettura)», ma
anche «le dimensioni etiche, motorie, relazionali, creative, decisionali e
della personalità». Chi frequenta ogni
giorno con rispetto e passione le persone giovani sa
che la pretesa di poter misurare una simile gamma di attitudini e propensioni
tramite una “prova di ingresso”, che poi resterà agli atti come documento-base
sul quale fondare l’azione didattica, è, oltre che insensata, prevaricatrice,
per gli inevitabili effetti di banalizzazione e stereotipizzazione. Si aggiunga
che ogni alunno, «dai 3 ai 18 anni», dovrà essere
«accompagnato» da un «apposito portfolio delle competenze», che comprenderà,
oltre alla scheda di valutazione, relativa ai crediti formativi, una «scheda di
orientamento» contenente «prove scolastiche significative», «osservazioni dei
docenti sui metodi di apprendimento del ragazzo», «commenti su lavori personali
ed elaborati significativi», «indicazioni che emergono da un questionario
attitudinale compilato da ciascun (sic!)
studente», «qualità e attitudini del ragazzo, individuate negli incontri
insegnanti-genitori, anche grazie all’aiuto di appositi questionari»,
«indicazioni che emergono da un progetto personale di vita, elaborato dallo
studente e consegnato al docente». Insomma la traduzione pratica del progetto
Bertagna nella concreta vita scolastica comporterebbe, per gli insegnanti, una
mole di lavoro burocratico e sanzionatorio senza precedenti nella storia della
nostra scuola, che andrebbe inevitabilmente a scapito della relazione con gli studenti;
e per gli studenti il peso di una valutazione onnivora e addirittura
persecutoria, dominata dagli esiti nefasti dell’“effetto Pigmalione”. Indipendentemente dalle eventuali buone
intenzioni, una scuola affetta da delirio di onnipotenza,
animata dalla presunzione di poter misurare e certificare “tutto” di una
creatura umana, finisce per usare la valutazione come un’arma puntata contro la
privacy, la responsabilizzazione e l’autostima delle ragazze e dei ragazzi che
la frequentano.
Nel movimento dell’“autoriforma
gentile” abbiamo molto riflettuto sulla valutazione, in continuità con una
tradizione di pedagogia non accademica, legata alla pratica quotidiana
dell’insegnamento, che nelle scuole italiane è ancora viva e attiva, malgrado le direttive tecnicistiche e riduzionistiche
provenienti dai vertici buro-pedagogici. Una valutazione che riconosce i suoi
limiti e rispetta il mistero di ogni essere umano; che non valorizza solo ciò
che ci fa uguali ma anche ciò che ci rende diverse e diversi; che non si basa
esclusivamente su domande la cui risposta è nota in anticipo ma apre terreni di
ricerca comuni a insegnanti e studenti; che non si sforza semplicemente di
adattare le ragazze e i ragazzi a un sapere precostituito ma esplora i nuovi
significati che le discipline assumono nell’incontro con le inedite domande di
senso delle giovani generazioni. E così via. Una simile idea della valutazione
potrebbe stare dentro un progetto di riforma?
Se per riforma si intende un insieme di direttive che pretendono di far
funzionare la scuola come una macchina governata e controllata in forme
gerarchiche, sulla base del trinomio mercato/tecnica/organizzazione, la
risposta e no. Bisognerebbe invece partire dalla scuola buona che già si fa,
darle respiro, aiutarla a crescere, curare la qualità delle relazioni tra le
persone che la frequentano, aprire spazi liberi di riflessione e di confronto,
promuovere esperienze che si allarghino per contagio. Non l’ha fatto il governo
di centro-sinistra, ed è impensabile che lo faccia il governo di centro-destra.
Ma, come ogni luogo d’incontro tra esseri umani, la scuola è un’occasione di
scoperte impreviste, di avventure e disavventure culturali, di passioni e di
conflitti, che nessuna normazione – burocratica o “manageriale” che sia – può
neutralizzare del tutto. Attraverso i suoi percorsi può passare il peggio o il
meglio della società: la trasmissione supina dei modelli di vita e di pensiero
dominanti o la sperimentazione di forme libere e creative di conoscenza e di
convivenza. Credo che una parte
risolutiva di questa scommessa resti nelle mani delle e degli insegnanti che,
contrariamente ai pedagogisti accademici, “guardano in faccia” ogni giorno i
ragazzi e le ragazze, col desiderio di lasciarsi insegnare qualcosa dalla loro
inesauribile alterità.
Guido
Armellini