E’ per me un motivo di vero dolore
non potere essere con voi in questa giornata. Perdo l’occasione di incontrare
amici e compagni assai cari, di rivedere i luoghi dove ho trascorso la fase
breve, ma più importante della mia vita, dove sono tornato, finché ho potuto,
tutti gli anni, ospite a Grosotto, di un compagno di allora, Maurizio Scarì e della
sua famiglia.
Perdo l’occasione per dire, a viva
voce, ai figli e ai nipoti dei miei antichi compagni perché nel mio cuore la
Valtellina è rimasta la mia piccola patria, quella che ha dato 1’ impronta,
rimasta incancellata, alla mia vita morale, politica, e anche professionale: il
mio modo di concepire la storia e di praticare il mestiere di storico ha la sua
lontana radice tra queste valli.
Ero a Sondrio nella tarda primavera
del ‘43, arrivato da Napoli dove la questura mi aveva messo gli occhi addosso,
e ebbi presto tanti amici che l’andamento della guerra aveva destati all’
interesse politico e nei nostri quotidiani incontri, davanti al caffè di piazza
Garibaldi, nonostante i cartelli affissi nei locali pubblici - “qui non si
discute di politica o di alta strategia” - discutevamo accanitamente,
appassionatamente di quello che stava accadendo. Gli antifascisti dichiarati
erano pochi e pochi anche i fascisti autentici, divenuti i più di essi “ragazzi
di Salò”.
Di uno di loro - si chiamava Franco
Roncucci - divenni amico, nonostante la diversità delle nostre convinzioni.
Dopo 1’ 8 settembre mi annunciò che era giunto alla conclusione che la causa
della patria coincideva con quella del fascismo e si era arruolato in un
reggimento di bersaglieri della divisione Monterosa. Morì nel corso di un
rastrellamento sull’ Appennino Ligure. Suo padre, che sapeva della nostra
amicizia, trovò modo di farmi avere, in Val Grosina, il “santino” dove era
scritto “Caduto nel sogno di un’Italia rinata all’onore e alla gloria”.
Altri due, dei quali ricordo i nomi ma non li scrivo, furono fucilati per
l’efferatezza dei crimini consumati
contro i partigiani. Il mio giudizio sui “ragazzi dì Salò “ l’ho formulato allora e l’ho ripetuto e
ribadito mezzo secolo, dopo quando qualcuno, avvolgendosi, forse suo malgrado,
nell’ambiguità, strumentalmente ne ha scoperto l’esistenza: buoni o cattivi che
fossero essi combattevano per la Germania nazista, avevano a modelli di eroismo
le SS, i guerrieri senza paura e senza pietà, se avessero vinto,
quali fossero i loro sentimenti, sarebbero stati i tutori dell’ “ordine” della
svastica hitleriana nel nostro paese. Il rispetto umano per i morti non può
offuscare questa verità.
A Sondrio imparai per tempo che la
nostra lotta non era in odio al fascismo, che il nostro fine era quello di
restituire la libertà anche a coloro contro i quali ci battevamo. A dirmelo per
primo fu il dottor Piero Foianini, bravissimo medico e patriarca dell’antifascismo
valtellinese, che associo nella mia mente per la sua umanità, per il suo rigore
morale, per il suo coraggio, e anche per la sua figura fisica, a Ferruccio Parri. Lo aveva colpito la
furbizia sciocca e vile del proclama di Badoglio, nominato successore di
Mussolini dal re il 25 luglio, e ne aveva dedotto che saremmo arrivati alla
fine della guerra nelle condizioni peggiori e che lo scontro armato tra
italiani era tra le ipotesi prevedibili. Volontari ci adunammo, scrisse qualche
anno dopo Piero Calamandrei “per dignità e non per odio”. Foianini lo
pensò e lo disse prima ancora che l’evento si verificasse.
In via Caimi, nel carcere di
Sondrio dove fui ospite per qualche settimana, sotto l’accusa di aver concorso
a organizzare fughe in Svizzera di ebrei e renitenti di leva, arrestato, su
denuncia di un delatore e, per mia fortuna, non dalle brigate nere ma dalla
questura già dedita al “doppio gioco”, incontrai un comunista di Chiavenna,
Giulio Chiarelli, un “rivoluzionario
professionale”, come allora si chiamavano, esule in Francia, rientrato
clandestinamente in Italia e presto catturato. Aveva fatto sei anni di galera,
ne era uscito per amnistia, era andato a combattere in Spagna contro i fascisti
del generale Franco e vi era stato due volte ferito, per finire poi nel campo
di concentramento francese del Vernet -
poco meno di un lager nazista - e fui tradotto in
carcere a Sondrio. Da lui
imparai che il
nostro nemico mortale non era il popolo tedesco, ma il nazismo e
che esso a sua volta era il frutto della pace imperialistica di Versailles, di
sopraffazione e di vendetta sulla Germania vinta, che aveva dato l’esca
necessaria e inestinguibile al divampare di un nazionalismo esasperato del
quale Hitler si era fatto il capo. Fu la prima interpretazione che ebbi della
guerra e delle sue cause lontane e profonde. Chiarelli si muoveva nel carcere
come un pesce nell’acqua. Mi fece coraggio, mi dette preziosi consigli, mi
rattoppò una scarpa e mi rammendò la giacca, e la stessa umanità portava nei
rapporti con tutti i detenuti. Conobbi altri comunisti, operanti nella zona di
Morbegno, riparati temporaneamente nella VaI Grosina dopo un rastrellamento,
giovani e non giovani, e di tutti potei apprezzare le qualità umane, la
preparazione politica, le qualità di combattenti. Quando mi sono trovato a
formulare un giudizio storico sul comunismo italiano e su quel fenomeno
mostruosamente contraddittorio che fu lo stalìnismo, e anche a regolare i miei
rapporti politici coi comunisti, mi ha molto giovato l’avere sperimentato di
persona che dalle scuole del Komintern erano usciti fucilatori e seviziatori,
ma anche uomini come Chiarelli, disposti a tutto soffrire e a tutto offrire per
la causa cui si erano votati, e combattenti capaci di conquistarsi e di tenere
posizioni di avanguardia nella lotta della Resistenza. Il nazismo aveva
generato solo mostri.
Nella cella di via Caimi mi
tornarono in mente le lettere indirizzate al fratello da un patriota napoletano
del 1848, Silvio Spaventa, che era stato condannato a morte dal regime
borbonico, aveva avuto la pena commutata nell’ergastolo e aveva continuato a
coltivare nel truce penitenziario di Santo Stefano il suo sogno di una Italia
unita nella libertà. Mi nacque allora l’idea, elevata poi a canone di
interpretazione storica, della Resistenza come secondo Risorgimento.
Complice delle nostre attività di
organizzatori di evasioni fu un salesiano, don Mario Erba, che aveva tra i suoi
fedeli esperti e audaci contrabbandieri che conoscevano ogni sasso della Vai
Malenco. Quando andai a salutarlo per raggiungere stabilmente la montagna, mi
abbracciò, mi benedisse, mi regalò una medaglia con la Madonna degli alpini.
A Grosotto conobbi Giovanni Scarì,
il padre del mio compagno Maurizio, che era stato operaio a Torino negli anni
tra la guerra e il dopoguerra e che lavorava alla Centrale elettrica di Grosio.
Egli mi raccontò delle lotte operaie della sua giovinezza, della occupazione
delle fabbriche, dei crimini atroci dello squadrismo torinese. Da lui sentii
per la prima volta il nome di Gramsci.
Nel febbraio del 1945 arrivò in Vai
Grosina un disertore tedesco di Amburgo. La sua famiglia era stata distrutta da
un bombardamento, suo padre era morto nella prima guerra mondiale. Era
straziato dal dolore ma alla disperazione reagiva con lucida forza, ponendosi
il problema di come fare per impedire che ogni vent’anni un pugno di pazzo
criminali mandasse i popoli a scannarsi tra loro. E un modo lo aveva trovato:
abbattere le frontiere, sciogliere gli eserciti, fare degli europei un popolo solo.
Qualche giorno dopo arrivò il commissario politico della nostra Divisione,
Plinio Corti, ne parlammo con lui ed egli ci disse che già due anni prima,
nell’ isola di deportazione di Ventotene tre giovani antifascisti - ne ho
conosciuto dopo i nomi: Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni -
avevano redatto e diffuso clandestinamente un manifesto “per l’Europa libera
e unita” e che nel settembre del ‘43, alla vigilia dell’armistizio, si era
costituito a Milano, con un proprio giornale clandestino, un movimento
federalista europeo col programma di costruire sulle rovine della guerra una
federazione europea, sul modello degli Stati Uniti.
Nei giorni che precedettero la
nostra calata su Tirano un vecchio, riparato in montagna poi che i pétainisti
francesi avevano appiccato il fuoco ad alcune case in fondo valle, avverti la
moglie del nostro passaggio dicendo “arrivano i nostri soldati” e
offrendoci la polenta. Non glielo aveva suggerito nessuno, aveva capito da sé
che noi eravamo i soldati d’Italia, della patria che si levava contro
l’invasore e i suoi complici, che non morì, come si è scritto, ma risorse l’8
settembre del 1943.
A Sondrio presi la mia prima
tessera socialista.
Ho voluto dirvi queste poche semplici cose, ricordando nomi e fatti, per dimostrarvi che il mio passaggio per la Valtellina non è stato quello di un giovane turista avventuroso. Tra le vostre valli ho conosciuto le cose vere in cui credere, e ogni volta che mi sono trovato di fronte a scelte impegnative mi sono domandato se esse erano tali da conservarmi l’amicizia e la stima degli uomini che avevo avuto a maestri. Accanto ad essi mi piace ricordare anche una donna, Ideale Canella, che fu la coraggiosa compagna di un combattente eroico della Resistenza, il dottor Caspani di Grosio, e che ci ha lasciato pagine di commovente poesia.
Ora questo mondo è scomparso. Il
ciclo storico aperto dalla insurrezione del 25 aprile è concluso per effetto
del trascorrere del tempo, ma più ancora delle trasformazioni profonde,
avvenute a ritmo sempre più accelerato e in larga misura incontrollato, nelle
strutture portanti della economia, nella società, nel costume, nelle ideologie,
nella pratica della politica e nella concezione stessa della funzione della
politica. Indietro non si torna e versare lacrime nostalgiche sul passato
sarebbe inutile esercizio retorico che interesserebbe solo gli ormai pochi
superstiti
Però il 25 aprile fu anche affermazione di principii e di valori non soggetti all’usura del tempo e, come la rivoluzione francese non si esaurì con l’avvento di Napoleone e il Risorgimento italiano non si esaurì con la proclamazione di Roma capitale. la Resistenza non si è esaurita col passaggio. per usare una formula discutibile ma ormai di moda, dalla prima alla seconda repubblica. Quei principi e quei valori ispirano la nostra costituzione, intorno ad essi sì e costruita l’unità della coscienza nazionale, democratica e unitaria dell’Italia repubblicana e contro di essi in coincidenza con la crisi della “repubblica dei partiti” si è scatenata una offensiva ideologica che dura ormai, senza tregua da molti anni e che ha per obiettivo l’affossamento della costituzione nata, come sì dice e come è vero, dalla Resistenza, e redatta da uomini e donne che avevano idee religiose e politiche diverse, ma comune l’esperienza della guerra e comune la sincera volontà di porre le basi di un ordinamento fondato sulla libertà e sulla giustizia. Il luogo ideale di convergenza fu l’antifascismo, inteso non come avversione settaria e punitiva nei confronti del fascismo, ma come affermazione, garantita dalla suprema legge dello Stato, dei principii e dei valori che il fascismo aveva violati o negati: le libertà civili e politiche, il ripudio della guerra come metodo per risolvere le vertenze tra i popoli, il riconoscimento del lavoro quale fondamento della società, il rifiuto delle discriminazioni di razza e di sesso, l’indipendenza della magistratura, la limitazione della sovranità nazionale in vista di superiori forme istituzionali di solidarietà tra i popoli, l’ordinamento regionale, l’attribuzione ai partiti di una loro specifica funzione nella direzione politica del paese.
L’offensiva ha preso le mosse dalla
storia. Dietro la legittima esigenza di decantare, slargare, approfondire la
problematica storiografica sul fascismo si è gradualmente proceduto alla
costruzione di una ideologia strumentalmente rivolta a porre sullo stesso piano
il fascismo e l’antifascismo, la Resistenza e la repubblica di Mussolini.
L’ampliamento che il cosiddetto
revisionismo ha dato alla nostra migliore conoscenza del fenomeno fascista è
reale e va apprezzato. Però nessuna revisione storica può ignorare che il
fascismo predicò e praticò la violenza fin dalle sue origini e la esercitò fino
alla sua caduta. Esso arrivò al potere a coronamento di una guerriglia civile
dove le sue squadre, aiutate e protette da organi dello stato, assalirono col
ferro e col fuoco il movimento operaio, distruggendone fisicamente le
istituzioni - i circoli, le leghe, le cooperative - sciogliendo le
amministrazioni rosse. manganellando e uccidendo lavoratori che avevano la
colpa di essere fedeli alle loro idee. Fu responsabile dell’assassinio del
socialista riformista Giacomo Matteotti e di quella del capo, monarchico, della
opposizione liberale, Giovanni Amendola, massacrato a colpi di manganello a
Montecatini e morto in Francia. Gli squadristi di Italo Balbo fracassarono il
cranio del cappellano delle trincee, don Giovanni Minzoni. Gramsci morì di
galera e i fratelli Rosselli di pugnale in terra d’esilio. Il fascismo,
soppresse la libertà di parola, di stampa, di organizzazione, con le leggi
giustamente dette fascistissime, instaurò il Tribunale speciale e il confino di
polizia, aggredì l’Etiopia facendo uso di gas asfissianti e seminandola di
stragi, mandò un suo corpo di cosiddetti volontari a combattere contro la
repubblica spagnola nata da libere elezioni, disonorò l’Italia con l’infamia
delle leggi razziali contro gli ebrei, precipitò il nostro paese, militarmente
impreparato, nella catastrofe scendendo in guerra a fianco di Hitler. E
complice necessario, fino al 25 luglio del 1943, gli fu Vittorio Emanuele III,
re d’Italia e traditore professionale, prima del popolo italiano, poi di
Mussolini, infine dell’alleato tedesco.
Sui muri delle nostre scuole
campeggiavano scritte le quali ci dicevano che il duce ha sempre ragione, che
il “verbo” è credere, obbedire e combattere, che libro e moschetto fanno
il fascista perfetto, che Roma doma, che la guerra sta all’uomo come la
maternità sta alla donna. E’ vero che nella macabra graduatoria delle tirannidi
dello scorso secolo - Hitler, Stalin, Franco - anche per effetto della presenza
in Italia del Vaticano e della monarchia, Mussolini occupa l’ultimo posto, ma
non basta questo a legittimare, moralmente, ideologicamente, politicamente non
la pacificazione nazionale, che ci fu e fu promossa da un governo di unità
antifascista con un’ amnistia fin troppo indulgente, ma la parificazione tra
fascismo e antifascismo, presentati come due fazioni in rissa tra loro per
ragioni che appartengono ormai alla storia.
Ora è vero che la storia non emette
condanne, ma il giudizio storico non può ignorare che Mussolini e Matteotti
simboleggiano nella storia e nelle nostre coscienze di cittadini operanti nella
storia, mondi di valori opposti e inconciliabili, che c’è un abisso a dividere
Rodolfo Graziani, il feroce sterminatore di libici e di abissini, il capo
dell’esercito di Salò, e Ferruccio Parri, il puro eroe mazziniano che fu il
capo della Resistenza, e la storia, anche quella dei professori, non può
ignorarlo. Non fu la nostra una guerra civile, come incautamente si è detto, fu
lotta di liberazione, coronata da una insurrezione che vide
duecentocinquantamila volontari in armi e accanto a loro i seicentomila soldati
catturati dai tedeschi dopo 1’ 8 settembre, per la insipienza e la codardia del
re e dei suoi generali, i quali preferirono le sofferenze del lager
all’arruolamento nell’esercito di Mussolini, e dietro a loro le centinaia di
migliaia di famiglie italiane che avevano fatto la stessa scelta.
L’obiettivo del revisionismo, in
realtà, non è scientifico ma politico: frantumare i titoli di legittimazione
storica e ideale della costituzione nata dalla Resistenza, che ne custodisce e
garantisce i principii e i valori. Per questo l’offensiva ideologica ha
travalicato i confini della storiografia, ha investito tutti i campi delle
scienze umane, la filosofia, il diritto, l’economia, la sociologia.
La ideologia che ne nasce è
chiaramente rivolta a sovvertire la concezione dello stato, dei rapporti
sociali, della funzione stessa della politica, in obbedienza alle tendenze e ai
bisogni deteriori operanti nella società del nostro tempo.
Il modello
è quello dell’azienda e da essa vengono mutuati l’etica e le regole. Gli
interessi dell’azienda coincidono con quelli del suo capo e ad essi vengono
spudoratamente piegate anche le leggi. Il mercato prende il posto della divina
provvidenza, il profitto è il fine primo e ultimo dell’operare umano, la
privatizzazione non è più scelta da valutare secondo i criteri della
razionalità ma articolo di fede.
I risultati si vedono. L’autonomia
della magistratura è presa d’assalto e ne risulta sconvolta tutta
l’amministrazione della giustizia. Il lavoro deve essere flessibile, precario e
per conseguenza servile: ne resta demolito uno dei fattori maggiori di coesione
della società. L’unità della nazione corre il rischio di andare in frantumi
sotto i colpi di un federalismo becero, reazionario, razzista. I partiti che
organizzarono e diressero la lotta per la libertà, che promossero la
costruzione della democrazia, che furono strumenti di educazione morale e
politica di massa, per loro carenze e colpe, non sanate in tempo, ma grazie
anche una riforma elettorale nefasta, sono stati sostituiti da compagnie di
ventura, da clan tenuti insieme da vincoli clientelari, nei migliori dei casi,
da ristrette e chiuse cerchie di burocrati i quali ignorano che sono le
idealità fermamente professate a rendere vitali le forze politiche. I problemi
centrali e essenziali del nostro tempo - un ordine internazionale che non giri
sui cardini del terrorismo e della guerra infinita, l’ambiente, la fame cui è
condannata larga parte del genere umano, la spaventosa degradazione sociale e
morale delle metropoli, la disoccupazione di massa, l’assistenza sanitaria,
frutto di decenni di lotte, la scuola cui è affidato il compito di formare le
nuove generazioni, la ricerca scientifica, fondamento della civiltà - sono
tutti problemi secondari, degli optionals, si direbbe nel corrente gergo
commerciale, rispetto a quello di assicurare ai ricchi la possibilità di
incrementare le loro ricchezze nella presunzione che il loro traboccare si
tradurrà in benessere per tutti. E intanto si progettano opere faraoniche,
forniti di corruzione quale non si vide nella cosiddetta prima repubblica, si
fa scempio dell’ambiente, si mercifica il patrimonio culturale, si condonano
reati fiscali e ambientali commessi contro la collettività, ci si avvia a
smembrare la nazione.
La libertà di parola e di stampa
non è ancora messa in discussione, ma si estende e si consolida il controllo di
tutti gli strumenti di informazione e di formazione della opinione pubblica, si
profila la minaccia della censura dei libri di storia, si mettono al bando
giornalisti molesti, si comincia a distinguere tra l’uso e l’abuso della
libertà.
Tutto questo si è già composto in
una ideologia, propagata per mille canali, dalle reti televisive ai rotocalchi,
ai giornali, diffusa finanche dai messaggi pubblicitari che puntano
sull’aggressività e sull’ambizione al privilegio. La sua brutale rozzezza, per
l’imponenza dei mezzi di cui dispone non è ostacolo alla sua penetrazione in
strati assai vasti del paese.
E’ una tendenza, va riconosciuto,
che opera su scala mondiale e che ha già travalicato i confini della
pericolosità: mai prima d’ora il sistema economico dominante, nella sua demente
miopia suicida si era avvicinato al punto da insidiare le fonti primarie di
sopravvivenza della umanità, l’acqua e l’aria. E’ una tendenza che da noi si
presenta coi tratti del grottesco e della irresponsabilità con punte che sanno
di caricatura.
Ma la presa di coscienza della
gravità della situazione si diffonde ogni giorno, si articola, si organizza,
scende in piazza. E le giovani generazioni sono nelle prime file.
E’ per questo che il 25 aprile
riconquista quell’attualità che si era offuscata negli anni. Dalle nostre
manifestazioni parte questa volta una indicazione politica precisa: difendere
la nostra costituzione, confermarle la nostra fedeltà. In essa, nonostante le
rughe del tempo, sono affermati i valori delle grandi componenti storiche della
civiltà europea, quella cristiana, quella liberale, quella socialista,
convergenti nel riconoscere la sacralità della persona umana. E’ il patrimonio
etico che dobbiamo recuperare, riaffermare nelle idee e nelle opere: ne va del
nostro futuro, di quello dei nostri figli e dei nostri nipoti.
Io ho oltrepassato la soglia della vecchiaia e
provo una sofferenza costante di fronte a un mondo ben diverso da quello per
cui combattemmo, nel quale stento a riconoscermi. Eppure vi confesso, con tutta
sincerità, che ho conservato la virtù cristiana della speranza. La alimentano
le compagne e i compagni di allora, quelli scomparsi e quelli presenti che sono
rimasti tutti fedeli a se stessi, la alimentano i giovani che prendono
coscienza della drammaticità dei problemi del nostro tempo e sempre più
massicciamente e chiaramente dicono che vogliono prendere in pugno il loro
destino.
Noi non abbiamo insegnamenti da
darvi, troverete da voi la vostra strada.
Vogliamo solo ricordarvi che la
divisione alpina Valtellina aveva sulla sua bandiera un gladio fiammeggiante e
una scritta fatta di due parole, “Giustizia e Libertà”, che ci hanno guidati
nel nostro cammino. Il loro valore non conosce l’usura del tempo, esse valgono
anche per voi.
Io ne ho scoperto il significato
sulle vostre montagne ed è per questo che voglio chiudere con una espressione
devastata dalla retorica ma che io vi ripeto senza enfasi, sommessamente, con
amore: viva la Valtellina, viva nei vostri cuori e nelle vostre coscienze come
luogo di libertà.