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Autore Topic: UGUAGLIANZA E DIFFERENZA - II^ parte  (Letto 4629 volte)
aemme
Sr. Member
****
Posts: 299


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« il: 21 Agosto 2008 - 08:14:10 »

Ciononostante, secondo una maestra:

No, non mi sembra che ci siano da parte dei bambini italiani pregiudizi verso i bambini nomadi. Sono bambini inseriti. Certo, se c'é una festa di compleanno non li invitano, questo è sicuro, però a livello di gioco in classe non ci sono problemi. Ma fuori dalla scuola non ci sono rapporti. Anche perché è atavica la storia dei pregiudizi nei confronti dei nomadi che rubano, che sono cattivi… Per cui a casa non li vogliono! Magari dipenderà anche dal fatto che qualche famiglia non vuole metterli in imbarazzo perché questi qui, poverini, abitano in un campo, non hanno una vera e propria casa...

Nei confronti dei bambini stranieri no, ma nei confronti dei bambini zingari ci sono molti pregiudizi da parte delle famiglie. Soprattutto quelle che abitano nei pressi del campo nomade manifestano un'insofferenza molto accentuata: dipende molto dal tipo di rapporti che hanno avuto con loro. Capita che giocando i bambini si diano spintoni o che abbiano comportamenti troppo vivaci. Ma quello che si perdona ad un bambino italiano, non si perdona al bambino nomade. Basta una piccola cosa che le famiglie protestano e spetta a noi maestre o alla direttrice ridimensionare le cose.
Questo mi sembra un sintomo piuttosto significativo del pregiudizio: il bambino nomade deve essere il più controllato di tutti perché da lui non vengono accettati certi comportamenti. Al bambino nomade non viene perdonato proprio niente. Occorre quindi una sorveglianza particolare per prevenire episodi che possano essere il pretesto per creare tensione. A me questo dispiace anche se, purtroppo, a volte i bambini zingari sono tra i più vivaci: spintonano o reagiscono in modo eccessivo alle provocazioni dei compagni. Loro come gli altri comunque. Solo che io mi accorgo di avere una vigilanza maggiore nei confronti di questi bambini, ma non perché ho paura che i genitori italiani possano venire a scuola a protestare, ma perché mi  spiace che all'uscita qualche adulto possa rimproverarli. Nei loro confronti sono meno disponibili a capire…

La diversità di cui sono portatori questi bambini li espone dunque a sguardi poco indulgenti, a discriminazioni di tipo razzista. E non è facile intervenire, parlare di razzismo in presenza di colui che ne è bersaglio. Occorrono tatto, parole giuste, interventi equilibrati perchè qualcuno che ha ricevuto una tale offesa possa sentirsi risarcito.
Paradossalmente dire: “Siamo tutti uguali, anche lui che è nero”, vuol dire contraddirsi, ammettere una diversità, sottolineare una differenza.

E' capitato che qualche bambino, chiamato con disprezzo zingaro dagli altri bambini della scuola, lo sia andato a riferire alla maestra. Io in questo caso mi limito a dire:“Lui è un bambino nomade e merita rispetto perchè è un bambino. A quello che mi risulta non ha nessuna caratteristica migliore o peggiore del bambino che lo ha insultato. Ognuno vale per quello che è non per dove nasce. Il fatto che lui sia nato in un campo non lo rende né migliore nè peggiore di voi.”
Questi discorsi si fanno sempre in presenza del bambino nomade perché lui ha bisogno di verificare che tu sei intervenuta davvero, che di te si può fidare. E' lui che ti ha chiesto di intervenire e quindi se intervieni devi intervenire con lui presente, altrimenti non ha senso. Noi abbiamo l'abitudine di fare delle assemblee di classe: ogni tanto se c'è qualche problema ci riuniamo proprio perché l'assemblea toglie quel senso di...io sono la maestra e tu il bambino. Parliamo insieme per risolvere i problemi e sono presenti tutti i bambini, quindi i nomadi conoscono perfettamente questo discorso.

Quando a scuola abbiamo affrontato il problema del razzismo abbiamo capito che i bambini nomadi questo problema lo sentivano più di altri. Abbiamo portato il discorso sul fatto che i primi a subire il razzismo sono i nomadi. Che i bambini sapessero che i nomadi non sono soltanto quelli che chiedono l'elemosina ma che sotto il nazismo hanno pagato più degli altri. Che i bambini sapessero che gli zingari hanno una lunga tradizione alle spalle, che sono i figli del vento.


4. Dalla parte dei bambini: uguali o diversi?


Erano i primi tempi della guerra in Yugoslavia e lui mi diceva che veniva da una città dove in quel momento si stava combattendo. Allora gli altri bambini incuriositi chiedono: “Si combatte?” e lui “Si” “E chi vince?” “Non è mica una partita di calcio!”

Le pagine precedenti hanno mostrato come l'inserimento dei bambini stranieri all'interno della scuola costringa a fare i conti con l'esigenza di rispettare due principi contrapposti ma interdipendenti   il principio dell'uguaglianza e quello del rispetto della diversità   e che questa esigenza prefigura azioni ed atteggiamenti che oscillano verso l'uno o l'altro dei due principi in una sorta di strategia d'alternanza che l'istituzione stessa richiede e riproduce.
Ma cosa trapela dai comportamenti dei bambini? Vince il desiderio di sentirsi uguali agli altri o prevale il vissuto della propria diversità culturale?
In realtà, a conferma dell'analisi fin qui fatta, sentimento di uguaglianza (inteso letteralmente come sentirsi e voler essere uguali a) e percezione della differenza, convivono nei comportamenti dei bambini stranieri segnando in tal senso i loro atteggiamenti e il modo di agire l'interazione. Né potrebbe essere altrimenti. Da una parte la scuola invia loro messaggi contraddittori: chiede loro di comportarsi come tutti gli altri bambini, rispettando le stesse regole ma, nel contempo, li tratta in maniera oggettivamente diversa, se pure con l'intenzione di creare per loro pari opportunità; dichiara di attribuire a tutte le culture la stessa dignità e lo stesso valore, ma di fatto di tali culture non parla sperperando così quello che potrebbe diventare un patrimonio collettivo; compie sforzi notevoli per metterli alla pari con gli altri bambini, ma non ha abbastanza risorse per valorizzarne differenza e abilità. D'altro canto i bambini percepiscono la propria differenza: soprattutto i piccoli Rom sono, rispetto agli altri, più poveri, a volte malvestiti, meno bravi, ma sentono anche, nei giochi, nei rapporti quotidiani di amicizia e solidarietà con i loro compagni e le maestre, di essere e di voler essere, bambini uguali a tutti gli altri bambini.

 
Quando ho sollevato il problema con le maestre intervistate   i bambini stranieri si sentono uguali o diversi?   le risposte che ho ricevuto suggeriscono da parte dei bambini una commistione di sentimenti e atteggiamenti che derivano da un vissuto in cui si altemano esperienze di inclusione e di esclusione.

Quando la differenza diventa sia sentimento di inferiorità che orgoglio di appartenenza.

Per la verità, come prima risposta, tutte le maestre concordavano nell'affermare che i bambini vogliono, in maniera a volte perfino ostinata e caparbia, sentirsi uguali agli altri bambini.

Ho avuto l'esperienza di una bambina cinese che voleva essere uguale agli altri, tant'é che aveva voluto fare la comunione come gli altri, nonostante la famiglia non fosse di religione cattolica. Ma lei voleva proprio essere come gli altri. Una cosa strana. Tra l'altro molto in gamba come ragazza perché era riuscita in breve tempo a leggere, a scrivere, a far tutto e cercava proprio di essere come gli altri compagni.


Ma appare evidente come in un contesto come quello della scuola(15), dove i programmi ministeriali e i libri scolastici non contemplano la conoscenza e la valorizzazione delle culture straniere, dove non è tenuto in alcuna considerazione il fatto che un alunno straniero possa parlare due o più lingue, gli stranieri, soprattutto se bambini, tendono a svalorizzare la propria cultura e cercano in ogni modo di mimetizzare la loro diversità imitando i propri compagni.
Come era giusto che fosse, Cheng ha imparato dai suoi compagni ad usare le posate, ma non gli è stata data l'occasione di insegnare a sua volta l'uso dei bastoncini. Il risultato, per altro del tutto involontario e inconsapevole, è stato quello di cancellare tale gesto e frustrare negli altri bambini la curiosità verso tutto ciò che è diverso.

All'inizio Cheng non voleva mangiare niente, riso, solo riso. Poi un giorno mi ricordo che i compagni - perché come riescono a convincere i bambini difficilmente l'insegnante ci riesce, perché da parte dell'insegnante può sembrare un imposizione, ma quando si stabilisce un rapporto con i compagni... Cheng aveva stretto un’amicizia particolare con due bambine e lui, che non parlava ancora l'italiano, diceva solo continuamente: “Giulia, Anna” e se una delle due non c'era lui continuava a guardarsi intorno e a chiamalia…-Insomma, un giorno Giulia è riuscita a convincerlo a mangiare. Anche per l'uso delle posate è stata la stessa cosa. All'inizio non capiva, non sapeva come...allora ci siamo avvicinati e abbiamo detto: "Guarda Giulia" e lui l’ha imitata. Aveva una grande voglia di imitare, di fare. Abbiamo fatto per Pasqua un bigliettino molto particoiare, con la tempera e mi ricordo che li stavo chiamando uno per volta perché era un lavoro che dovevano fare vicino a me. Cheng aveva paura che a lui non lo facessi fare e continuava a venire da me per farmi capire che lui non voleva essere escluso e quando è stato il suo turno era così contento che rideva e ha continuato a ridere durante tutto il lavoro, a ridere di gusto: si vedeva che provava gioia a farlo!

Certo, se facciamo un discorso utilitaristico in termini di priorità, è più urgente che Cheng impari a mangiare con le posate piuttosto che gli altri con i bastoncini, ma il discorso cambia se ragioniamo in termini di valorizzazione della differenza culturale. E in ogni caso non si tratta soltanto di imparare ad usare le posate in un gioco amico di complicità tra bambini: l'apprendimento scolastico richiede un notevole impegno concettuale e logico, specie se si parte da una situazione iniziale di grosso svantaggio, e la difficoltà del compito può creare nei bambini un forte senso di frustrazione.

Vedono i compagni scrivere, vorrebbero scrivere anche loro: c'è una continua richiesta di aiuto che non sempre possiamo soddisfare adeguatamente perché in questa scuola ci sono altri bambini che hanno problemi, non solo i bambini nomadi. Il desiderio di essere come gli altri ce l'hanno, ma poi si scontrano con le difficoltà.

Il problema vero è che se gli sforzi che fanno questi bambini per apprendere nuovi linguaggi non è sostenuto da uno sforzo altrettanto forte da parte della scuola nel sostenere la loro identità culturale: il rischio, da ambedue le parti, è che tale identità venga svalorizzata. A questo punto i bambini potrebbero provare sentimenti di inferiorità, vergognarsi della loro differenza. Cercare addirittura di nasconderla.

Stavamo parlando della Bosnia e organizzando la raccolta di viveri. Mirko si è avvicinato e mi ha detto sottovoce:
“Lo sai che anche noi siamo poveri? Ma non dirlo a nessuno neanche alle altre maestre, lo dico solo a te”

“Sono stato assente perché sono andato ad un matrimonio”
“Come era?”
Sorride, ma non ne parla, sembra quasi meravigliato che qualcuno possa chiedergli queste cose.

“Ma tu prima dove vivevi ?”
“In Yugoslavia”
“Dove ti piace di più?”
“Qui”
“Perché?”
“Perché in Yugoslavia ci sono i banditi”
Solo questo ha raccontato.

Non raccontano mai gli usi e i costumi del loro paese di provenienza, si ha quasi l'impressione che si sentano più italiani che filippini, senegalesi o altro. Mi sembra che ci sia quasi una scissione tra quello che vivono a casa e quello che sono a scuola. Tendono ad integrarsi molto, a sentirsi quanto più possibili uguali. Né gli italiani mostrano curiosità in questo senso quasi non si rendessero conto della differenza.

Omar è egiziano, fa la quinta. Suo padre ha cominciato a fargli frequentare la moschea, ma lui non ci ha detto niente, ce ne siamo accorti dal fatto che un bel giorno, alla mensa, ha smesso di mangiare came di maiale: forse l'ha vissuto come un castigo perché il salame gli piaceva. In classe abbiamo accennato al fatto che la sua religione gli impediva di mangiare carne di maiale, ma nessuno ci ha fatto caso.

Alcune maestre ritengono che questi atteggiamenti da parte dei bambini stranieri, i loro silenzi, le loro omissioni, non debbano essere interpretati come espressione della percezione di una differenza vissuta come sentimento di inferiorità, ma come il segnale di una vittoria, di un'integrazione riuscita. Come se, in un contesto scolastico che ne favorisce l'integrazione, il loro essere bambini uguali a tutti gli altri bambini sia un vissuto così forte da far loro dimenticare la propria specificità culturale o comunque da far sì che tale diversità venga messa in secondo piano. Rimanga, per così dire, fuori della porta.
Può darsi che questo sia vero, può darsi che sia un'esigenza autentica e legittima. A me pare, piuttosto, che il prevalere nei comportamenti dei bambini stranieri della loro identità di uguali a discapito della loro identità di diversi, sia solo un aspetto di una dinamica interattiva molto più complessa, all'intemo della quale è sempre presente una minaccia di omologazione culturale, di estraniazione da sé. In tal senso non credo possa essere del tutto condivisibile l'opinione di chi sostiene che, poiché suo compito istituzionale è proprio quello di trattare tutti gli alunni da uguali, sia dovere della scuola giocare esclusivamente su questo fronte. La verità è che, in nome di un principio universalistico sia etico sia giuridico, si finisce per giustificare il fatto che la scuola non valorizza in alcun modo la diversità.

A scuola i bambini stranieri vogliono sentirsi uguali, chiedono di essere uguali e non è giusto farli sentire diversi. Il discorso che fa lei sul valorizzare la loro cultura dovrebbe essere fatto in un lavoro interclasse dove ogni singola classe viene smembrata all'interno di vari gruppi. La classe non va bene perché loro in classe hanno bisogno di sentirsi insieme ed uguali. Parlare della loro cultura significherebbe farli sentire diversi e questo non va bene, almeno in una scuola elementare. Il problema è che questo lavoro all'interno dei gruppi non si fa e così va a finire che, poiché solo della nostra cultura si parla, questa finisce per essere la migliore di tutte.

Le conseguenze di ciò rischiano allora di essere gravi: nella realtà il confine tra i due atteggiamenti - il legittimo desiderio di sentirsi uguali agli altri bambini e la vergogna per una diversità che non viene in alcun modo valorizzata e che per tale ragione va nascosta - è davvero sottile.

Quasi tutti i bambini cinesi lavorano, però lo nascondono. Non so se hanno paura di denunce da parte nostra nei confronti dei genitori, visto che lavorano anche di notte facendo le borse e aiutando gli adulti, oppure tacciono perché si vergognano di dover lavorare fin da piccoli mentre i loro compagni non lo fanno.
Tra loro parlano cinese tranquillamente ma con noi o con gli altri bambini parlano l'italiano, magari senza proposizioni, magari senza le doppie, ma parlano l'italiano. Nemmeno se io chiedo una cosa me la dicono, nemmeno insistendo:
“Come si dice in cinese albero?”
“Non me lo ricordo”
“Impossibile che non te lo ricordi, a casa la parlerai la tua lingua!”
Ma loro si rifiutano di rispondere.

Ma c'è anche un altro pericolo: che a fronte di un vissuto della propria differenza in termini di inferiorità, i bambini stranieri cerchino di soddisfare il legittimo bisogno di appartenenza proprio a ciascun individuo, isolandosi da coloro che percepiscono come diversi e cercando la solidarietà dei loro simili. Così facendo non solo corrono il rischio di aumentare un divario che all'esterno di un ambiente protetto come quello della scuola, si amplifica e rafforza, ma anche il rischio, altrettanto grave, che tale comportamento possa essere frainteso.

 
Spesso Senjia mi chiede il permesso di andare nell'altra classe per cercare sua cugina e anche quando giocano in cortile tendono a stare con i bambini del campo piuttosto che con i compagni di classe. E secondo me non è perché vivano l'esclusione, sono loro che non si aprono agli altri forse per timore, forse per paura di non essere accettati. Magari ci sarà anche questa componente ma io noto che sono loro che non accettano.
E' Senjia a dire: “Non mi voglio sedere con quella là” e non viceversa, e io non credo che sia per timidezza. Magari ci sarà anche quella, ma questa è una classe dove i bambini italiani sono abituati a stare con i bambini stranieri e nessuno discrimina, io credo che sia proprio una loro chiusura nei confronti degli altri: forse già da piccoli sono diversi.

O forse, già da piccoli hanno così introiettato un vissuto di esclusione da sviluppare a loro volta una forma di pregiudizio di risposta. E' possibile che bambini di sei anni non abbiano ancora imparato dagli adulti a guardare con difffidenza o ostilità un coetaneo straniero, magari con la pelle di un altro colore, ma è certo che un bambino zingaro, anche a sei anni, ha già sperimentato in prima persona cosa significhi essere oggetto del pregiudizio altrui e finisca per attribuire a chiunque sia diverso da lui propositi di esclusione nei suoi confronti.
Le testimonianze che ho raccolto non lasciano dubbi sul fatto che l'incontro con lo straniero si svolge davvero su un terreno aspro e pieno di trabocchetti. Ciò che accade nell'interazione può essere letto da punti di vista diversi e considerazioni apparentemente contraddittorie possono essere altrettanto vere.
Può aver ragione allora questa maestra quando dichiara: “I bambini nomadi non si offendono se la maestra molto tranquillamente gli dice: “lo voglio che tutti i bambini siano puliti e anche tu devi esserlo. Si offendono se invece con disprezzo viengono chiamati zingaro. Il desiderio di questi bambini è di essere considerati come tutti gli altri”. Ma altrettanto autentica, da parte degli stessi bambini, è la percezione evidente della propria diversità. Ne deriva un vissuto che può essere di vergogna e insieme anche di orgoglio. E fiducia e diffidenza nei confronti dell'altro da sé, possono convivere in un unico sentimento.

Quando Davide mi ha detto che lui sapeva benissimo come era fatto un treno perché lui sui treni ci andava a rubare, me lo ha detto ridendo. Me lo rivedo ancora: come una sorta di orgoglio o di liberazione come per dire: lo so fare questo...tu mi fai vedere il treno e pensi che io non lo conosca, forse io non so come si scrive ma ti assicuro che io so fare altro.
Ma l'ha detto a me, solo a me, perché si fidava. E' difficile che raccontino qualcosa: questo misto di vergogna e orgoglio scatta verso gli 11 anni: io ti mostro ciò che voglio che tu conosca di me però non ti dico altro anche se sarei orgoglioso di dirti ciò che so fare. Un'altra volta stava raccontandomi di una partita di calcio che avevano fatto al campo. Gli dico: “Ma pensa che bello, dillo anche agli altri!” ma lui si è rifiutato di dirlo. Il messaggio è questo: io quando sono qui gioco, mi comporto come gli altri ma qual'è la mia vita fuori di qui quella non te la racconto.
Secondo me sono i genitori stessi a dire ai bambini di non raccontare a scuola quello che succede al campo. Lei capisce, con i bambini che hanno diffcoltà, non è giusto insistere...devo limitarmi molto nel chiedere quali esperienze loro fanno perché so che entrerei nel loro mondo nel quale loro non vogliono che io entri e questo va rispettato. Soprattutto se ci sono problemi si chiudono: è una sorta di autodifesa.

All'interno di un rapporto sbilanciato in termini di potere, come può essere quello tra bambino e maestra, tanto più quando, come nel caso che stiamo analizzando, vi si somma un rapporto di potere altrettanto asimmetrico come quello tra straniero e autoctono, spetta allora al più forte la responsabilità di trovare il modo per gestirne la complessità. In questo caso l'intuito, la solidarietà e la sensibilità, possono essere di grande aiuto.

Con i bambini stranieri non ci sono problemi: si comportano esattamente come gli altri bambini e vengono accettati come tali....ll primo disegno che Mirna ha fatto ha evidenziato questo suo essere diversa: “Io uso il marrone per colorare la mia faccia poiché la mia faccia é più scura”. Questa è stata l'unica manifestazione di diversità, per il resto non ha mai dato l'impressione di sentirsi particolarmente diversa, di soffrire. E' una bambina tranquilla. Anche quella frase l'aveva detta tranquillamente quasi a giustificare il fatto di aver preso un pastello diverso dai compagni.
Ma era una bambina molto chiusa che manifestava poco i suoi sentimenti. Ci ha detto che tornava nelle Filippine solo quando le abbiamo chiesto se ne era contenta e poi ha aggiunto solo questa frase: “Mi dispiace lasciare i miei compagni”
C'è stato poi un altro bimbo di colore molto vivace ed esuberante ma ben accettato dai compagni. Anzi la sua diversità lo portava ad esibirsi, a voler emergere. Ma era un discorso di carattere. Voleva essere al centro dell'attenzione. Faceva della sua diversità un punto di forza. Ma questo non accade mai con i bambini nomadi. I bambini nomadi o diventano aggressivi o si ritirano, si isolano un pò dal gruppo. Alla fine giocano con gli altri, ma all'inizio c'è questa difficoltà a giocare tutti insieme. Può darsi che ci sia qualche accenno di rifiuto da parte dei compagni, ma anche un loro sentirsi un pò diversi e tenersi in disparte. Secondo me hanno un vissuto di rifiuto e ne soffrono. Infatti, quando l'adulto si mostra disponibile e affettuoso nei loro confronti tendono più a riferirsi all'adulto che ai compagni. Quando ricevono un gesto dall'adulto che dimostra che loro sono ben accettati gli brillano gli occhi.
Quando Luca è tornato dopo una lunga assenza, ogni volta che i bambini si mettevano in fila mi trovavo la sua mano nella mia. Cercava sempre di stare vicino a me o alla mia collega. È fondamentale la socializzazione e la socializzazione di un bambino nomade avviene particolarmente sul piano affettivo. La prima volta che ho avuto a che fare con un bambino nomade non sapevo da che parte prenderlo...tutto è cominciato quando ho capito che lui aveva bisogno che io lo toccassi, per cui quando gli parlavo gli prendevo le mani, me lo tenevo vicino ed era come se lui, a quel punto, avvertisse che potevamo parlare. Erano frequenti le volte che durante le ore di recupero, molte ore venivano dedicate a lui che aveva più bisogno sul piano scolastico, lui mi si buttasse addosso, cercasse il contatto fisico...piano piano ha capito che a lui si chiedeva lo stesso rispetto per le regole scolastiche che si chiedeva agli altri. E’ stato una specie di contratto: “lo adesso lavoro con te, però quando lavoro con gli altri, tu non disturbi così come io esigo che gli altri non disturbino quando lavoro con te”.

Con Filippo, un altro bambino nomade di 11 anni, il rapporto iniziale è nato dal fatto che entrambi suonavamo la fisarmonica: abbiamo cominciato così a comunicare tra noi. Lui inzialmente ha avuto difficoltà ad accettare gli altri: non erano gli altri ad avere questo problema nei suoi confronti, ma lui. Forse perché era più grande dei suoi compagni e anche molto orgoglioso e sensibile. Bastava un nulla ad offenderlo. Se un compagno gli si rivolgeva in modo magari meno dolce lui si offendeva subito e si chiudeva.

Quando l'estraneità diventa estraneamento

Ma ci sono anche i casi in cui per il bambino straniero il compito di conciliare uguaglianza e differenza è davvero troppo gravoso. Il confronto con la cultura maggioritaria diventa lacerante e intollerabile, il divario aumenta e allora, per ritrovare un equilibrio, per ristabilire un'appartenenza, si compie una scelta, si opera una censura.
L'estraneità diventa estraneamento.
Estraneamento nel senso letterale della parola: rendersi estranea una parte di sé, rinunciare all’interezza della propria identità.
Nel caso di Sun Zu, alla propria identità di diversa.

A livello di socializzazione Sun Zu è molto contenta e si nota da tante piccole cose. Prima non era così. Le mancava la Cina. Ne parlava sempre. Parlava di questa nonna che é rimasta là. Adesso ne parla sempre con meno nostalgia. Io le dico:
 'Mi raccomando, adesso che hai imparato bene l'italiano non dimenticare il cinese perché più avanti ti potrebbe essere utile per un lavoro"
“Sai lo parlo solo con la mamma”
 Qualche giomo fa le ho chiesto come si scriveva casa in cinese ma lei mi ha detto che non se lo ricordava piu.

Nel caso di Mirko, alla propria identità di bambino uguale a tutti gli altri bambini della sua età.

Si avvertiva veramente la sua sofferenza. Dormivano in cinque dentro una macchina e quando arrivava a scuola dopo un pò si addormentava perché era stanco e aveva freddo. Ha frequentato quasi un intero anno poi non è più venuto. So che adesso lui suona in mezzo alla strada. E' troppo orgoglioso per chiedere l'elemosina: in cambio suona, offre una sua prestazione. Abbiamo chiesto tante di volte di farlo tomare ma la madre dice che si vergogna a venire. Non viene perché sente di non far più parte del mondo dei bambini che, in fondo, era un mondo piuttosto spensierato.
Adesso sente la responsabilità della famiglia e non vuole più tornare. Mirko ha insegnato a tutti gli altri che avere una casa, un luogo dove risiedere, un pasto e tutto il resto, se pure in una periferia difficile come questa, vuol dire poter crescere bene. I bambini hanno capito che Mirko ha lasciato la scuola perché non aveva un posto dove dormire, un posto fisso dove abitare e che quindi doveva, pur essendo un bambino, cercare un modo per guadagnarsi da vivere.



1  La ricerca, che si è svolta durante l'anno scolastico 1993/94 ha coinvolto con colloqui e interviste in profondità, la direttrice della scuola, le insegnanti e stranieri e le due mediatrici culturali che svolgevano alI'interno il compito di assistere i bambini zingari nell'inserimento scolastico, non tanto dal punto di vista didattico, poiché le insegnanti di sostegno e quelle del laboratorio linguistico avevano tale compito, quanto, piuttosto, per facilitare la loro integrazione in un contesto culturale a loro estraneo. Erano due giovani ragazze Rom che, dopo aver conseguito la terza media, avevano frequentato un corso di formazione a cura dell'Opera Nomadi con la collaborazione dell'Università degli Studi di Milano. Si è trattata della prima iniziativa italiana di questo tipo.

2  Nel corso dell'articolo userò come sinonimi i termini zingaro, nomade, Rom (Romni, nella declinazione femminile). Quest'ultima parola nella lingua Romanes significa uomo.

3  Le prime iniziative finalizzate alla scolarizzazione dei bambini zingari risalgono alla fine degli anni '50 ad opera di volontari che si recavano nei luoghi dove erano accampati i nomadi. Data l'instabilità e la precarietà dei campi nacquero le classi Lacio Drom che in un primo tempo trovarono ospitalità presso le Parrocchie e solo successivamente, a seguito di una convenzione tra Ministero della Pubblica Istruzione e Opera Nomadi, all'intemo della scuola pubblica. Erano classi speciali, separate dalle altre (se i bambini partecipavano alla refezione, lo facevano in locali a parte e con stoviglie riservate a loro), condotte da insegnanti che si offrivano volontariamente senza alcuna remunerazione.
Bisogna aspettare gli anni '70 perchè i bambini Rom siano ammessi nelle classi comuni con l'affiancamento degli insegnanti Lacio Drom. Questi, con ruolo ad esaurimento, furono poi sostituiti da insegnanti di sostegno, a loro volta sostituiti, nell'86, a seguito della C.M. 207, da insegnanti della Dotazione Organica Aggiuntiva. La circolare sanciva inequivocabilmente il diritto dei bambini zingari ad entrare nella scuola di Stato, anche se stranieri e non residenti. Il Ministero, revocando ogni precedente delega, si assumeva tutte le responsabilità per fornire il miglior servizio possibile nel rispetto della diversità culturale. Nel frattempo gli interventi di rinnovamento dei programmi della scuola elementare, risalienti al 1985, avevano affrontato direttamente il problema dell'integrazione nella scuola dei gruppi socialmente e culturalmente minoritari attraverso la valorizzazione delle risorse individuali e l'istituzione di percorsi individualizzati di apprendimento scolastico.
Tali programmi sono stati codificati dalla legge 148/90, che ha riformato la scuola elementare e introdotto l'organizzazione modulare nelle classi (ore di compresenza, attività di recupero in particolare per bambini stranieri, introduzione dell'insegnamento della seconda lingua, progetti speciali...). In realtà la contrazione in questi anni della spesa pubblica non ha consentito, almeno per il momento, il pieno decollo della riforma e i propositi dichiarati nella C.M. 207, sono stati in gran parte disattesi.
Nel frattempo, a fronte dell'aumento progressivo di alunni extracomunitari, il Ministero della Pubblica Istruzione, con circolare n.301 dell'8/9/89, annunciava una serie di interventi intesi a garantire agli immigrati l'esercizio del diritto allo studio e la valorizzazione dell'apporto multiculturale indicando a tale proposito una serie di risorse già disponibili alle scuole sia in termini di programmazione che in termini di disponibliità del personale (Comma 6 dell'art. 14 della legge n.270/82 e artt. 2 e 3 del D.P.R. 419/74). Una successiva C.M. (n.205 del 26/7/90) precisava l'uso delle risorse possibili e introduceva, all'interno delle scuole, I'istituzione di un laboratorio linguistico per gli alunni stranieri con l'impiego di personale aggiuntivo attribuito alla scuola, il personale Doa, appunto, che però, successivamente, fu destinato ad altro impiego. Ulteriori tagli di risorse si sono avuti con il cosiddetto "decreto mangiaclassi" dell'agosto 1993. Nessuna applicazione ha inoltre avuto l'art.10 del D.l. 13/7/79 in cui si prevedeva un compenso incentivante per "I'attività di insegnamento prestata dal personale in eccedenza agli obblighi d'insegnamento in corsi di recupero e di sostegno o in altre attivita di insegnamento extracurriculare". Attualmente i buoni propositi dell'amministrazione si esprimono nella costituzione, presso il Ministero della Pubblica Istruzione, di una Commissione per gli alunni nomadi e stranieri. Da questa commissione parte l'indicazione di introdurre all'intemo della scuola dei mediatori di madre lingua che facciano da tramite tra gli alunni stranieri e l'istituzione.

4- termini della questione sono descritti in modo appassionato in due libri di Charles Taylor: Multiculturalismo (Anabasi,1993) e Il disagio della modernità (Laterza, 1994). Tra le pubblicazioni più recenti segnalo di M.Wieviorka, La differenza culturale,Laterza, 2002

5- Cfr. A.R.Calabrò, L’ambivalenza come risorsa,Laterza, 1997

6  Non mi soffermo nel corso di quest’articolo sul modello organizzativo e pedagogico che la scuola, all'interno della quale ho svolto l'indagine, si è data per favorire l'inserimento degli alunni nomadi ed extracomunitari poiché ciò che mi interessa cogliere sono le contraddizioni in termini di comportamenti e atteggiamenti che si determinano in un contesto il cui compito istituzionale è quello di rispondere a principi contrapposti ed interdipendenti. Per chi invece sia interessato ad approfondire gli aspetti didattici e organizzativi della questione, segnalo di AA.VV., Un omnibus per i Rom, IL VENTAGLIO, Roma, 1994.

7  Per comodità di esposizione distinguo nell'articolo tra bambini stranieri e zingari anche se nella realtà molti dei bambini zingari che frequentano questa scuola non sono cittadini italiani (la maggior parte proviene dalle regioni della ex Jugoslavia).

8  Gadjo, gadjè al plurale, indica, in lingua romanes, coloro che non sono zingari.

9  Gli zingari, ad esempio. Nelle condizioni in cui essi vivono (accampati in luoghi dove acqua e servizi igienici spesso mancano e anche quando ci sono, risultano insufficienti al bisogno) sarebbe davvero molto difficile mantenere decoro e dignità personale, senza comunque tener conto che, all'interno della loro cultura, decoro e dignità assumono significati diversi dai nostri. Anche il giudizio sulle loro attività illegali conduce all'interno di un circolo vizioso se si tiene conto che il pregiudizio di cui sono fatti oggetto preclude loro qualsiasi possibilità di lavoro, che la perdita della propria identità cuturale e l'isolamento dalla società civile li consegna nelle mani della criminalità organizzata...(Per approfondire questi temi, cfr. di A.R.Calabrò, Il vento non soffia più, Marsilio, 1992)

10  Cfr. A.Schizerotto, "Disuguaglianza e diversità di fronte all'istruzione", in F. Crespi (a cura di) Azione sociale e pluralità culturale, Angeli, Milano, 1922, pp.274-287

11  La definizione è di F.Giustinelli (Cfr. F.Giustinelli, Razzismo, scuola e società, La Nuova Italia, Firenze, 1991 )

12  Cfr. O.Klineberg, "Alcuni aspetti del problema del pregiudizio", in Rivista di sociologia, n.9, 1966

13  Cfr. L.Festinger, La teoria della dissonanza cognitiva, Angeli, Milano, 1973

14  Chiunque conosca un poco la cultura Rom, sa benissimo che la questua è consentita solo alle donne e ai bambini. Nessun uomo, per quanto povero e bisognoso, andrebbe mai a mangel.

15- Parlo ovviamente della scuola italiana in generale, non soltanto della scuola dove ho svolto l'indagine

http://www-silsis.unipv.it/iscr/programmi_dispense_05_06/area_1/cavalli/testo%20calabr%C3%B2.doc
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