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« il: 21 Agosto 2008 - 07:30:46 » |
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La lingua dei rom giulio soravia
La lingua costituisce un elemento chiave nell’identificazione di un popolo e ciò sembra particolarmente valido nel caso dei Rom. Questo popolo disperso in tutto il mondo da una diaspora plurisecolare è unito, infatti, solo da una comune origine, di cui la lingua è una testimonianza determinante. Suddivisa, in numerosissimi dialetti, tanti quante sono le famiglie rom sparse nei cinque continenti, essa chiaramente è una traccia delle loro peregrinazioni nei secoli e allo stesso tempo un' àncora che li riallaccia alla terra di origine: l'India. Ciò che colpisce - e colpì di fatto i primi studiosi che se ne occuparono, quali Grellmann, Rudiger, Adelung e poi Miklosich e Pott - è infatti il tenace persistere di una grammatica per molti versi simile a quella delle moderne lingue indoeuropee dell'India e di un lessico di base in cui si ritrovano senza difficoltà, non fosse per qualche cambiamento fonetico, voci comuni alla Hindi, alla Panjabi, alle lingue dardiche. Né ciò stupisce: quando un migliaio - o forse più - di anni fa i gruppi nomadi che dovevano diventare gli attuali Rom cominciarono il loro lungo viaggio verso occidente, essi si fermarono volta a volta, e spesso a lungo, in terre abitate da genti di diversa lingua e diversi costumi, ed essi stessi cambiarono, assimilando tratti di tali diverse eredità culturali e linguistiche. Tuttavia non si fermarono abbastanza a lungo da essere assimilati - almeno nella maggior parte dei casi - né si integrarono socialmente tanto da perdere la loro originaria identità, un senso di diversità e, in qualche modo, di unicità. Ve ne furono tuttavia che si fermarono lungo il cammino, restando nomadi ma su una base locale. Nel Medio Oriente troviamo gruppi che, variamente chiamati dai loro vicini (Nawar in Palestina, ad esempio), denominano se stessi Dom. In Armenia tali gruppi mutarono il loro nome in Lom. In Grecia, decenni più tardi, e di lì in tutta Europa e nel mondo, essi divennero i Rom, perdendo la nozione della loro origine.
In India oggi ritroviamo molte altre popolazioni nomadi che ci ricordano ciò che dovevano essere i Rom europei. Tra questi i Banjara o Lamana sono i più noti.. Questi gruppi attualmente parlano una lingua abbastanza diversa da quella dei fratelli europei e più simile alla Hindi: anche in patria la forte pressione delle culture sedentarie ha influito sulle parlate dei nomadi, spiegandoci e giustificandoci il progressivo diversificarsi della lingua dei Rom da quelle indiane, senza che ciò costituisca una contraddizione.
Tratti diversi, ma anche tratti comuni, dunque. Il processo, fu per i Rom europei lento e graduale, ma inesorabile. Se il soggiorno lungo le piste asiatiche non lasciò grandissime tracce nella lingua, data anche la somiglianza tra le lingue indiane e quelle iraniche, tuttavia esistono inequivocabili testimonianze di imprestiti iranici e armeni nella romani chib, la lingua dei Rom.
Fu tuttavia il soggiorno in Grecia a dare una svolta decisiva al gruppo più occidentale. Qui essi si fermarono probabilmente più a lungo che altrove e assorbirono lessemi e forme grammaticali, che ritroveremo un po' ovunque nei dialetti pur diversi dei vari Rom europei.
Nei vari paesi europei "visitati" dai gruppi Rom a partire dal xiv secolo, la lingua si modifica e spesso profondamente. È una lingua già ricca e flessibile, cui declinazioni nominali complesse e coniugazioni verbali ampie danno complete possibilità comunicative. Nel lessico si moltiplicano gli imprestiti delle lingue slave, dall'ungherese, dal rumeno, dal tedesco, dall'italiano e da tutte le altre lingue europee. Così in mancanza di una parola “indiana" per "fiore", troveremo nei vari dialetti lessemi quali lulugi dal greco, blumadal tedesco, fiore dall’italiano, come pure šungel da un verbo. che significa “odorare" o rozica dalla parola per "rosa" con un tipico suffisso diminutivo slavo. La duttilità della lingua si esprime anche nella capacità di creare forme nuove, talvolta con un miracoloso miscuglio di radici etimologicamente diverse. In un dialetto sinto per esempio troviamo švigardaj "suocera", da daj “madre", che è parola di origine indiana, preceduta da un adattamento del tedesco Schwieger - (.Schwiergemutter"suocera"), o in un dialetto xoraxano della Bosnia troviamo per “piatti" talari, che deriva dal tedesco Teller “piatto”, ma con un suffisso tipicamente rom.
La lingua cosi, lungi dall'imbastardirsi, ché tutte le lingue conoscono questi processi, attraverso i quali arricchiscono il proprio lessico a seconda delle nuove necessità, si adegua alle mutate condizioni di vita, ai tempi e all'ambiente. Ma è anche vero che aumentano le difficoltà di comprensione tra i singoli gruppi. I dialetti nel tempo si differenziano sempre più.
Posto che i Rom nel mondo siano non meno di tre milioni, tenendoci sulle stime più modeste, sappiamo che almeno due terzi di essi parla dialetti danubiani in cui è notevole l'apporto lessicale rumeno. Alcuni gruppi, hanno adottato la lingua dei vicini sedentari (i Rudari, ad esempio, il rumeno). E gli altri? Più che una classificazione, una elencazione di tali dialetti può essere la seguente, senza pretesa di esaustività o di indiscutibilità. Ricordiamo anche che le denominazioni "geografiche" oggi sono solo di comodo, poiché i dialetti si sono sparpagliati nel mondo con i loro parlanti.
1) gruppo danubiano (Kalderaša, Lovara, Curara, ecc.); 2) gruppo balcanico occidentale (istriani, sloveni, havati, arlija,ecc.); 3) gruppo sinto (eftavagarja, kranarja, krasarja, slovacchi, ecc); 4) rom dell'Italia centro-meridionale; 5) britannici (Welsh Romani ma oggi resta soprattutto l'anglo-romani, una sorta di gergo misto inglese e rom); 6) finnici; 7) greco-turchi (forse discutibile come gruppo a parte); 8 ) iberici (oggi rappresentati dal Calò, il gergo ispano-rom dei Gitano).
Secondo le teorie del Turner, l'origine dei Rom, attraverso la lingua, va ricercata nell'India centrale. Altri hanno sostenuto o sostengono, come ancora di recente l'indiano Rishi, che piuttosto si debba ricercarla nelle zone nordoccidentali. Sia o no il Panjab la loro terra d'origine, comunque difficile da stabilire con sicurezza, è indiscutibile il fondo di voci indiane che troviamo nel lessico di questo popolo ”europeo” proprio per i concetti di uso più quotidiano.
Dall’origine nelle terre del subcontinente indiano a oggi sono trascorsi mille anni. I Rom, sparsi nel mondo, parlano dialetti non sempre reciprocamente intelligibili. Ma in un'era di comunicazioni sempre più rapide è impensabile che un popolo unito da una qualche autocoscienza possa mantenere queste divisioni linguistiche.
Già da parecchi anni si nota una ricerca di unità tra i Rom di diversi paesi, unità non già di natura politica o territoriale, quanto piuttosto culturale. Tale concetto si nutre sulla comune origine e sull'impegno a ricercare quei valori condivisi dai Rom di tutto il mondo. Anche se questo movimento, per ora, è confinato a una ristretta intellighenzia, molti sono i segni dell'allargarsi di tale interesse.
Il problema della lingua è stato all'ordine del giorno di vari congressi tenutisi a Parigi, Londra, Ginevra, e Göttingen. Si tratta di una aspirazione, giusta ma di difficile soluzione: una lingua unitaria non si pianifica a tavolino, anche se l'aspetto teorico è una premessa indispensabile alla pianificazione.
Ciò che par di notare è la tendenza sempre più diffusa a usare dialetti rom per scrivere, quando finora la lingua era stata essenzialmente orale. Si scrivono non solo raccolte di canti o di favole ma anche lettere "private", anche letteratura che con l'antico folklore poco o niente ha da spartire. Escono riviste, e già in Jugoslavia sono state pubblicate grammatiche della lingua ròmani in lingua ròmani. Gli studi di linguistica ròmani non sono più l’appannaggio esclusivo di studiosi non rom. Una letteratura rom scritta e il diffondersi dell'uso scritto della lingua, sia pure nei vari dialetti per ora, potrà essere il primo importante passo a una lingua unitaria e a una nuova consapevolezza per questo popolo alla ricerca di sé.
Intanto questo movimento contribuisce a rimuovere un'immagine tradizionale e certo non sempre positiva dello Zingaro (Tsigan, Zigeuner, Gypsy, Cygan, ecc.) per farne un Rom, cioè un uomo protagonista della moderna società a pieno titolo, con l'apporto della sua cultura e la capacità di comunicare attraverso la propria lingua.
Che la poesia sia orale, nasca dal canto e viva del suo suono nell'attimo in cui è prodotta è una trasposizione poetica in cui, ricordo, Rasim Sejdic stesso, grande poeta zingaro, credeva. Ma è un momento di ripensamento di una poesia essenzialmente lirica, creativa, d'autore. Diverso è dire che la poesia nasce nell'oralità, perché oralità è una condizione primaria delle lingue, che non presuppone un passaggio alla lingua scritta, né soffre di complessi di inferiorità. La poesia zingara è prima di tutto orale, come ogni poesia primitiva, ed è conoscenza del mondo, intimo contatto prerazionale con la natura e le cose.
Perciò stesso non ha nome, non appartiene a nessuno, come possono invece appartenere, essere tutt'un corpo, i racconti, le favole. La poesia è magia, rapporto simpatico con un mondo di cui si percepiscono le forze oscure e terribili, ma che non si controlla se non ricreandolo nella poesia ed esorcizzandone le potenze malefiche o benefiche.
Cosi la poesia nasce allo stesso modo della formula liturgica, della parola magica, della formula ripetitiva di un discorso di riuso. Ed è per questo, appunto, che il nome del primo - ma esiste un primo? - compositore non ci può pervenire, perché nel momento stesso della sua formulazione (e sottolineo formulazione, in senso etimologico) essa diviene patrimonio comune, di una cultura che la ripete e la canta, che la diffonde nel vento come le canne diffondevano al vento il segreto delle orecchie d'asino del re Mida.
La poesia zingara partecipa di questa magia, è poesia primitiva in questo stesso senso e per questo è prima di tutto orale e anonima. Siamo lontani dalle affermazioni semplicistiche di un'anonimità legata a una condizione d'inferiorità della letteratura orale, dal mancato ricordo del passato e della storia e cosi via... Questo è il punto di vista etnocentrico e riduttivo di chi non capisce che qui è una diversa concezione del mondo, della storia e della poesia.
L’universo dello zingaro è aperto e senza confini, senza concetti di storia che non siano, forse, il viaggio e un viaggio senza meta. Solo quando il Rom si fermerà,la sua poesia diventerà altro, un oggetto e come tale l'etichetta di un nome sarà apposta in calce, differenziando stili e autori. Cosi come una società non è letterata solo perché la sua lingua si può scrivere, ma solo quando la sua lingua scritta veicola idee astratte e a un pubblico selezionato in base a criteri di classe, cosi la poesia orale dello zingaro è e rimane formula magica, conoscenza prescientifica del mondo esterno e rapporto globale di una società indifferenziata con una natura indifferenziata. I canti che narrano fatti lontani sono vere epiche enciclopediche, come un'Iliade o un'Odissea in miniatura, ma degne della stessa considerazione, e ritornelli e stornelli, dediche e scongiuri. Gli "stili" e i generi si fondono in un'unica considerazione funzionale. Ed è la lingua che arricchisce la potenza di tali composizioni, la lingua unico momento di fedeltà filologicamente uguale. Verba manent, potremmo ben dire di questa poesia, che si esaurisce nel vento, ma permane nel rapporto tra uomo e cose, tra l’uomo e le potenze che gli stanno attorno.
Dunque non c’è da stupirsi o dare di spalle. Questa è poesia, questa è la poesia di un’epoca aurea, come Vico intendeva fosse la lingua stessa degli antichi. Si parla per poesia perché nella parola si viene scoprendo il mondo, momento per momento, come scoprì il mondo Adamo, per volontà divina, dando il nome alle cose.
Poesia è metafora, dunque, formula magica e conoscenza. Nulla di strano se in tale concezione non c'è posto per la storia di singoli uomini - che non siano metafore essi stessi - o per singoli autori della poesia stessa. Cosi come l'ombra di Omero è avvolta dal mistero, nome "ricreato" per le necessità di un'epoca posteriore.
Questa è la poesia anonima zingara. Questo ci insegna semmai lo avessimo scordato.
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