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Autore Topic: I RAPPORTI FRA LA SCUOLA E I CAMPI NOMADI - relazione di un'insegnante  (Letto 8841 volte)
Luisa
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« il: 13 Agosto 2008 - 07:50:20 »

I RAPPORTI FRA LA SCUOLA E I CAMPI NOMADI
Vincenza Meola

Sono una docente facilitatrice, distaccata da dodici anni su progetto stranieri, del Circolo Didattico “Console Marcello” situato in una zona periferica di Milano in cui sono presenti molti edifici popolari che accolgono famiglie straniere provenienti principalmente dai paesi dell’Est, dall’Asia, dall’Africa e dall’America. Il mio interevento di facilitatrice non ha riguardato solamente gli alunni stranieri ma anche i numerosi alunni nomadi, di diverse etnie, provenienti dai campi di via Negrotto, di via Barzaghi e di via Triboniano.

La nostra scuola elementare che accoglie un cospicuo numero di scolari rom, circa 75 soprattutto romeni, ha sperimentato varie forme d’organizzazioni e servizi che permettono di svolgere attività di insegnamento alternativo a quello tradizionale, da quest’anno ci avvaliamo di una mediatrice culturale rom che collabora sia all’interno delle classi sia nel raccordo con il campo nomade di via Triboniano. Nonostante questi spazi di accoglienza, sono ancora molti i bambini che non frequentano la scuola dell’obbligo, soprattutto tra le popolazioni rom straniere di più recente immigrazione, che spesso si trovano in condizioni di clandestinità e in situazioni abitative estremamente precarie e degradate.

Per poter mettere a fuoco alcuni degli aspetti che costituiscono in genere motivo di difficoltà e talvolta di crisi nell’inserimento scolastico dei bambini rom mi sono accorta che bisogna prima esplorare la funzione genitoriale e il ruolo educativo all’interno della famiglia nomade. Frequentando da anni i campi nomadi dell’area milanese, prima Barzaghi poi Triboniano, ho subito colto la dinamicità, il caos, l’imprevedibilità, ma anche l’immediatezza e generosità delle famiglie verso le insegnanti che sono molto rispettate. Il campo nomade in cui negli ultimi anni ho realizzato l’intervento è quello di via Triboniano, posto dopo il cimitero Maggiore, molto distante da altre zone abitate. Le famiglie rom vivono in vecchie roulotte e in baracche costruite con materiale di recupero, prive di requisiti minimi di vivibilità: dal punto di vista igienico-sanitario il comune di Milano ha provveduto alla fornitura di servizi chimici il cui numero è però largamente insufficiente, l’area in cui sono insediati è cosparsa di rifiuti che nel corso del tempo si sono accumulati rappresentando un grave pericolo per la salute e l’incolumità soprattutto dei minori. Questa situazione è ulteriormente aggravata dall’incostante presenza d’acqua: le condizioni di vita estremamente precarie nelle quali si trovano a vivere i rom si ripercuotono in modo particolarmente negativo sui minori. La frequenza dei bambini rom alla scuola dell’obbligo è varia: per alcuni alunni la frequenza è costante, mentre per altri è discontinua a seconda delle motivazioni della famiglia. Le condizioni abitative e igieniche, il nomadismo spesso dovuto agli sgombri. Non frequentare la scuola comporta il non poter fruire da parte dei bambini di un’occasione di socializzazione, di familiarizzazione con una cultura diversa della propria, il non conseguire un titolo di studio, rendendo così molto difficoltosa la possibilità di una successiva occupazione lavorativa.

Frequentare il campo di via Triboniano mi ha permesso di avvicinarmi ad una realtà a me quasi sconosciuta, di mettere alla prova un certo timore che avevo nei confronti dei rom. Il desiderio dei bambini di vivere l’esperienza scolastica con una serie di ostacoli legati soprattutto alla mancanza di comunicazione tra il mondo rom e l’istituzione scolastica e l’inserimento scolastico è in molti casi fonte di disagio. Spesso la mancanza di comunicazione nasce dalla non conoscenza che spinge a vedere il nomade come portatore di una cultura troppo diversa, incomprensibile e quindi inaccettabile. Scoprire che spesso ci si trova di fronte ad una cultura per molti aspetti diversa può aiutare nell’approccio educativo-didattico. Questo non significa pensare al bambino rom come un “diverso'' ma trovare attraverso la conoscenza della sua realtà, gli strumenti più adatti ad accompagnarlo nel suo cammino di crescita e nel suo processo di apprendimento, avere la consapevolezza di dover elaborare strategie che sappiano costruire una relazione con questi bambini spesso pieni di difese e di paure. Ciò significa dare spazio ad un ascolto privo di pregiudizi negativi o positivi, ma anche lasciarsi guidare da un’osservazione attenta al modo in cui i bambini entrano in rapporto tra loro e con gli altri. La realtà in cui vivono deve essere scoperta e capita, ciò richiede tempo, pazienza e capacità di “ridefinirsi”. In questa prospettiva diventa fondamentale non solo possedere delle precise competenze professionali, ma saper creare un clima affettivo che aiuti il bambino a sentirsi accolto, valorizzato in ciò che fa e spronato nell’andare avanti. Da parte dell’insegnante c’è la ricerca di comportamenti che aiutino a stare insieme, che abituino al rispetto degli spazi e dei tempi.

Ad esempio per il bambino rom lo spazio è visto come espansione del proprio “io”, come luogo di libertà; le strutture architettoniche scolastiche, la permanenza in un ambiente chiuso, la cattedra non incentivano l’abitudine alla comunicazione. Il bisogno di movimento che l’alunno rom vive come libero per effetto della sua educazione si scontra con la realtà organizzata della vita scolastica, questo influisce sulle capacità attentive. Se si vuole che l’inserimento sia positivo e non si esaurisca in un approccio della durata di pochi mesi, è necessario facilitare agli alunni rom la coscienza dell’ambiente scolastico e non; familiarizzare con le regole completamente diverse è stato significativo per facilitare l’impatto e la frequenza.

Per questo è stato utile poter mangiare con gli alunni, spiegare l’uso dei bagni e soprattutto intrattenersi con il personale docente e non.

E’ importante trasmettere l’idea che l’istituzione scolastica non si pone in antagonismo con i valori educativi della famiglia rom. La scuola propone un’educazione formale, mentre essi apprendono attraverso un modello di educazione informale integrata nella vita di ogni giorno. I parenti, i nonni sono gli insegnanti più idonei, s’insegna mediante l’esempio pratico, l’imitazione del comportamento, il racconto, il discorso. Solo se siamo consapevoli delle loro difficoltà e delle loro risorse allora possiamo cominciare a cercare dei dispositivi pedagogici e didattici orientali in modo flessibile; è importante che l’insegnante sia pronto a realizzare una lettura attenta dei propri comportamenti, a cogliere nello sguardo dei bambini più che delle parole cosa stia succedendo.

Occorre partire dal vissuto degli alunni, per fare questo occorre conoscere tale vissuto. L’alunno rom porta nella classe la propria realtà, esperienza di gioco e di attività di ampio registro, a contatto con la natura. Non conosce l’esigenza di parlare sottovoce (nel campo non serve), di aver sempre le mani pulite (nel campo è impossibile), di stare seduto composto (nel campo ci si siede dove capita), di avere degli orari per mangiare, giocare, andare in bagno, parlare…Particolarmente importante quindi risulta essere la relazione tra scuola e famiglia che va costruita attraverso momenti di negoziazione e confronto durante i quali si trova il modo per chiarire, esplicitare, risolvere le aspettative, fraintendimenti, paure, diffidenze che la famiglia e la scuola sviluppano reciprocamente. E’ necessaria una flessibilità tattica che permette lo sviluppo di relazioni e rapporti basati sulla fiducia. Dare e darsi tempo per conoscere, capire e capirsi.

Contestualmente è stato fatto un intervento continuo e costante di sensibilizzazione e coinvolgimento della comunità. I genitori sono stati stimolati ad uscire da una condizione di isolamento per diventare partner attivi. Il rapporto di fiducia costituito poco alla volta e la conoscenza diretta dei bisogni tra la scuola e le famiglie ha consentito il raggiungimento di più obiettivi: maggior scolarizzazione, frequenza continua e costante, partecipazione alla vita scolastica ed extra (gite, piscina, “Scuola Natura”), scambio di informazioni e di comunicazioni pratiche, maggior cura del materiale scolastico, superamento delle difficoltà legate al bilinguismo.
Da quest’anno la mediazione culturale viene effettuata anche da una persona appartenente al paese di provenienza degli immigrati (Romania). Questa figura ha favorito la comunicazione tra scuola e il campo, ha costituito un punto di riferimento per i bambini rom e ha rassicurato le loro famiglie che hanno deciso di affidare i propri figli ad una istituzione vissuta a volte come minacciosa.

L’affiancamento del mediatore culturale all’insegnante è stato positivo perché ha contribuito a creare un rapporto di continuità e stabilità affettiva con l’alunno stesso e con i più piccoli ha contribuito con un lavoro di traduzione anche alla comprensione reciproca. La figura del mediatore è molto importante possedendo oltre alla competenza linguistica anche la conoscenza degli aspetti culturali, che può trasmettere agli insegnanti. Il contatto costante e l’incontro periodico al campo con la facilitatrice e la mediatrice culturale è stato finalizzato al confronto sugli aspetti problematici emergenti dei singoli casi, per valutare l’evoluzione e costruire delle strategie di intervento e per sensibilizzare le famiglie rispetto al ruolo della scuola inteso come ambito di socializzazione, crescita personale ed apprendimento.

http://www.milano.istruzione.lombardia.it/intercultura/ProgrRelazioni_250506/Scuola%20e%20campi%20nomadi_Meola.doc
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francesca
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« Risposta #1 il: 17 Marzo 2009 - 07:08:37 »

salve,
le scrivo per sapere di più sulla professione del mediatore culturale, dato che sono laureata in questo ambito...
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