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Autore Topic: UGUAGLIANZA E DIFFERENZA - indagine sull'inserimento scolastico di bambini rom  (Letto 8060 volte)
aemme
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« il: 21 Agosto 2008 - 08:12:45 »

UGUAGLIANZA E DIFFERENZA:
il caso dell'inserimento in una scuola elementare di bambini zingari e stranieri•

Anna Rita Calabrò
http://www-silsis.unipv.it/iscr/programmi_dispense_05_06/area_1/cavalli/testo%20calabr%C3%B2.doc

Quando Pietro, un bambino nomade, non riesce a fare qualche cosa come tutti gli altri, ha delle vere e proprie crisi di ira e di rabbia. Può capitare perché per lui è molto più difficile fare le cose che fanno in classe i suoi compagni; perché non si sente uguale agli altri; perché in quel momento ha pensato o vissuto qualcosa. Una volta, dopo un episodio di questo tipo, mi ha spiegato che era perché la sua mamma non era venuta a parlare con noi e a ritirare la pagella. Alle volte non vuole portare a casa il quaderno perché ha paura, quando porta a casa qualcosa, che non torni indietro. Lui non ha il materiale che gli serve per la scuola: glielo diamo noi. E' molto gratificato quando gli viene dato qualcosa e lo tiene anche con sufficiente cura. Secondo me si crea una situazione particolare: si sente in un certo senso privilegiato perchè gli vengono fatti questi regali ma, nello stesso tempo, sente di non essere come gli altri che hanno queste cose da casa. Non ho mai capito se lui vive questa situazione come un privilegio o come una sottolineatura della sua diversità. Probabilmente tutte due queste cose. Io cerco sempre di dirgli: “Non ti preoccupare: adesso ce l'hai la tua matita, non importa chi te l'ha data”. . E anche se noi gli diamo ciò di cui ha bisogno, lui sa che non è la sua famiglia a darglielo. Adesso avremo la foto di gruppo e lui non avrà i soldi per pagarsela. Dovremo trovare un modo per fargliela avere senza che si senta diverso, però non vorrei che a lungo andare vivesse questo come una forma di privilegio, come una cosa dovuta. Perché non è neppure giusto: noi ti diamo quello che ti manca, ma tu non lo devi dare per scontato, come doveroso da parte di noi tutti”.
Ogni volta che si deve fare un avviso, lui diventa ansioso: “La mia mamma non sa leggere, non sa cosa c'è scritto”. Io gli rispondo: “Non ti preoccupare, qualcuno glielo dirà a voce”.  Mi ricordo all'inizio dell'anno, la rabbia con cui diceva: “Perché ci sono le altre mamme e la mia non c'è?” Ecco, sono queste situazioni che creano problemi a questi bambini ed è molto difficile gestirle. Io non vorrei che Pietro si sentisse diverso. Vorrei che Pietro si sentisse uguale agli altri bambini. Ma non è così


Questo articolo è il resoconto di un'indagine(1) che ho condotto lo scorso anno in una scuola elementare di un quartiere periferico milanese dove sono inseriti, insieme agli italiani, bambini cinesi, nord africani e zingari (2). Una scuola che si distingue per l'impegno e l'attenzione dedicati all'inserimento dei bambini stranieri. La Direttrice, che è Presidente per la Lombardia dell'Opera Nomadi, è infatti una tenace e coerente sostenitrice di un principio apparentemente ovvio e scontato, il fatto cioè che tutti i bambini, indipendentemente dalla propria nazionalità ed etnia abbiano diritto all'istruzione e ad un trattamento che non li discrimini all'interno della scuola. In realtà sostenere questo principio significa, come cercherò di argomentare nelle pagine che seguono, un impegno molto gravoso, in molti sensi e per molte ragioni, sia per gli adulti, direttrice, insegnanti e genitori, che per i bambini, stranieri ed italiani, che interagiscono all'interno della scuola. Di fatto la scuola, una scuola intendo dire dove con grande impegno e attenzione, ma pur sempre nei limiti di una legislazione scolastica ancora carente e metodologie poco codificate (3), sono inseriti bambini stranieri, diventa un laboratorio di straordinario interesse per sperimentare quotidianamente strategie e modalità di interazione che necessariamente devono fare i conti con due principi contrapposti e interdipendenti: uguaglianza e differenza, universalismo e particolarismo. Ne deriva un percorso accidentato, segnato da continue regressioni e fughe in avanti, errori anche gravi ed intuizioni straordinarie, ma dove sostanzialmente ciascuno sa, più o meno consapevolmente, che nella pratica e al di là dei luoghi comuni, del pregiudizio e della demagogia, l'incontro con lo straniero, sia pure esso un bambino, e l'essere uno straniero, anche a sei anni, vuole dire sopportare ed agire accettazione e rifiuto, ambivalenza e contraddizioni. In realtà è solo a queste condizioni, accettare cioè le contraddizioni di una sintesi impossibile, quella tra identità e alterità, che l'incontro e il cambiamento si realizzano.


1.   Diritto all'uguaglianza e riconoscimento della diversità.

L'obiettivo di questo lavoro era quello di verificare come all'interno di una micro realtà, come può essere quella di una scuola elementare di una città dove la presenza di minoranze etniche è ormai un dato di fatto, si gioca la partita cruciale che investe le società postindustriali che, di fronte al multiculturalismo, devono conciliare l'uguaglianza del diritto con il riconoscimento della differenza, o, per dirla con le parole di Touraine, interpretare il principio dell’eguaglianza alla luce del riconoscimento della differenza. (4).
   La posta in gioco è l’idea stessa di democrazia. L’universalismo, principio a cui si sono ispirate tutte le moderne democrazie, afferma uguali diritti e uguali doveri per tutti i cittadini, il particolarismo richiede di riconoscere la diversità e coltivarla. In altre parole la politica dell’uguale dignità impone di trattare gli esseri umani nello stesso modo sulla base di ciò che è uguale per tutti, la politica della differenza vuole che sia concesso un riconoscimento e uno status a qualcosa che non è condiviso universalmente ma è legato alla specificità di ogni singola cultura. Paradossalmente un identico principio, quello moderno dell’identità intesa come riconoscimento, ispira entrambe le posizioni. Al contrario di quanto accadeva nelle società premoderne, nelle quali l’identità era ascritta nella propria posizione di nascita, nelle società moderne l’identità si costruisce interiormente attraverso un processo dialogico in cui le modalità di riconoscimento da parte di coloro con i quali, sin dall’inizio della nostra esistenza, continuamente interagiamo, risulta determinante nel definire i caratteri di ciò che siamo e ciò che vogliamo essere.
Ma riconoscere l’altro, significa riconoscere in lui ciò che lo rende uguale , uguale a tutti gli altri esseri umani e lo accomuna sulla base di una serie di diritti universalistici: la dignità, la libertà personale, l’uguaglianza; o piuttosto riconoscerne la specificità, l’originalità, ciò che, insomma, ne costituisce l’individualità? Non è semplice dare una risposta a questa domanda perché, a seconda che si persegua l’uno o l’altro dei due principi, ne derivano interventi contrapposti che specularmente definiscono i limiti della scelta fatta e le contraddizioni che ne conseguono.
Tant’è che i liberals, i quali sostengono una politica universalistica che impone di trattare gli esseri umani nello stesso modo sulla base di ciò che è uguale per tutti, ricevono dai communitaries, che affermano una politica di tipo particolaristico, una triplice accusa. In primo luogo, di negare e addirittura sopprimere l’identità che è riconoscimento da parte dell’altro di tutto ciò che di unico e di irripetibile rappresenta l’individualità. In secondo luogo di contraddire paradossalmente il proprio stesso fondamento etico: il presunto insieme neutrale dei principi ciechi alle differenze della politica dell’uguale dignità in realtà rispecchia i principi e i valori della cultura egemone che, in tal modo, finisce per imporsi in maniera prepotente e omogeneizzante discriminando chiunque sia portatore di alterità culturale. Infine, postulare una serie di diritti universalistici significa non tener conto che l’applicazione di un qualsiasi insieme di diritti può avere significati e conseguenze sostanzialmente diverse a seconda del contesto sociale in cui si agisce.  
Coloro che, al contrario, sostengono la politica della differenza, che impone di riconoscere la diversità e coltivarla, vengono accusati dai liberals di violare il principio della non discriminazione.(4)
In realtà hanno entrambi ragione poiché l’interazione con lo straniero disegna i caratteri di una configurazione ambivalente che, come tale, condiziona le modalità dell’azione di tutti coloro che agiscono al suo interno.
Mi riferisco, quando parlo di configurazione ambivalente, a qualsiasi situazione si crea ogni qualvolta individui, gruppi o classi, subiscono l’influenza di due diverse istanze che possono avere a che fare con le credenza , le motivazioni individuali, gli statuti normativi, i modelli di conoscenza (per esemplificare possiamo indicarle come A e B). Esse sono in relazione tale da essere contrapposte, irriducibili l’un l’altra, ineliminabili a vicenda perché interdipendenti, non possono essere risolte in una sintesi e creano un campo di tensione all’interno del quale agisce l’attore sociale per il quale entrambi i comandi hanno la stessa forza coercitiva. Questi dovrà circoscrivere il suo agire in uno spazio metaforico, un continuum i cui estremi sono dati da A e B: in tal senso l’azione potrà di volta in volta spingersi in direzione di uno dei due poli dell’ambivalenza senza però mai eliminare del tutto l’effetto dell’altro che, nel corso dell’azione, potrebbe mutare, o addirittura invertire, il rapporto precedentemente stabilitosi. In tale situazione l’attore non può trovare soluzione al conflitto eliminando la contraddizione. In altre parole egli non è in grado di operare di fronte al doppio comando – fai questo/fai il contrario di questo – la  scelta  per lui più conveniente in quanto le scelte, pur essendo contrapposte, sono interdipendenti e coercitive; può semmai orientare la sua azione verso l’uno o l’altro dei due poli in una sorta di strategia dell’alternanza stando bene attento a non spostarsi troppo in una o l’altra direzione. Solo a tale condizione egli potrà raggiungere i suoi scopi, il sistema,all’interno del quale tutti gli attori diventano ambivalenti, mantenere il suo equilibrio e l’ambivalenza rivelarsi una risorsa.(5)
Leggere la relazione con lo straniero all’interno di tale configurazione è una lettura che si pone in sintonia con l’analisi e le indicazioni di due autori classici della sociologia, Georg Simmel e Norbert Elias i quali sottolineano il carattere ambivalente dell’incontro con lo straniero. Incontro che è caratterizzato, e non può non esserlo, dall’accettazione e insieme dal rifiuto, dalla lontananza e insieme dalla vicinanza, dall’identificazione e dalla differenziazione e che comunque costringe ciascuna delle due parti, chi accoglie e chi è accolto, a modificare reciprocamente i caratteri della propria identità, una relazione che, se pure assimmetrica in temini di potere, non si configura mai nella forma di un completo rifiuto o di una completa accettazione, ma rimane sempre all’interno di una configurazione ambivalente che si definisce nella dicotomia identità/alterità.


2.   Le strategie d'azione di fronte all'ambivalenza.

Dal documento di Rinnovamento dei programmi della scuola elementare, 1985:

“ll fanciullo saré portato a rendersi conto che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”

"E’ dovere della scuola elementare evitare, per quanto possibile, che le diversità si trasformino in difficoltà di apprendimento e in problemi di comportamento, poiché ciò quasi sempre prelude a fenomeni di insuccesso e di mortalità scolastica e conseguentemente a disuguaglianze sul piano sociale e civile''

“La programmazione dovrà articolarsi e svilupparsi in modo da prevedere la costruzione e la realizzazione di percorsi individuali di apprendimento scolastico che, considerando con particolare accuratezza i livelli di partenza, ponga una progressione di traguardi orientati, da verificare in itinere"

“ln ogni caso, I'obiettivo dell’apprendimento non può mai essere disatteso e tanto meno sostituito da una semplice socializzazione in presenza”


Riportando la questione, cosi definita nelle sue linee teoriche, all'interno del caso specifico da me analizzato, una scuola elementare dove sono inseriti bambini zingari e stranieri, il problema può essere posto in questi termini: da un punto di vista universalistico tutti i bambini sono uguali e hanno diritto allo stesso trattamento ma le differenze culturali, ad esempio, segnano disuguaglianze significative in termini di risorse: livello di conoscenza della lingua italiana, capacità di apprendimento, abitudine alle norme generali che regolano l'istituzione scolastica e via dicendo. E' possibile, e in tal caso come, tener conto di queste differenze senza per ciò contravvenire il principio dell'uguaglianza di trattamento per tutti i bambini?
Quando ho posto questa domanda alla direttrice della scuola e alle insegnanti, il problema, seppure non sottovalutato nella sua difficoltà, sembrava trovare nella prassi una soluzione dettata dal principio delle pari opportunità. Detto in parole povere tutti erano d’accordo nel sostenere che il compito della scuola deve essere quello di fornire ai bambini 'svantaggiati' tutto il sostegno possibile per poter 'raggiungere' gli altri. Insegnanti di sostegno, mediatrici culturali, un laboratorio linguistico per l'apprendimento della lingua italiana, attività ludiche finalizzate a favorire l'inserimento dei nuovi arrivati sono i mezzi che la scuola usa a tale scopo con un dispiego di risorse e di energie decisamente superiore alla media delle altre scuole cittadine (6)
   Ma già questa risposta contravviene al principio dell'uguaglianza di trattamento poiché di fatto i bambini stranieri sono trattati in maniera diversa anche se appare ovvio che solo garantendo loro un accesso protetto alla scuola è possibile metterli alla pari degli altri bambini. Di fatto, la questione è ben più complessa di quello che potrebbe apparire perché investe immediatamente la sfera etica. Come tutelarsi dal pericolo che la socializzazione alle norme culturali del nostro paese non colluda con quelle della cultura di appartenenza? Come proteggere i bambini stranieri dall'esperienza dell'inadeguatezza e dell'estraneità? Come salvaguardare la loro identità di uguali e diversi? Come abituare i bambini, sia italiani che stranieri, ad accettare la differenza di trattamento senza subirla come un’ingiustizia o come una discriminazione? E come trattare il pregiudizio dei genitori italiani verso il "diverso" soprattutto quando si tratta di un bambino zingaro e rassicurare i genitori dei bambini stranieri rispetto ai valori che il bambino apprenderà a scuola?
Nel corso di queste pagine cercherò di mettere a fuoco questi problemi, attraverso le contraddizioni che ne derivano, cosi come emergono dalle interviste. Ciò che vorrei dimostrare è che non solo queste contraddizioni sono, almeno al momento attuale, inevitabili e in una certa misura senza soluzione, ma che, se le si assumono come tali, la consapevolezza della dicotomia che le sottende e della parzialità delle scelte che ne discendono, può rappresentare una garanzia perché l'interazione possa svolgersi su un terreno di rispetto reciproco.
La verità è che siamo all’interno di una configurazione ambivalente di cui universalismo e particolarismo rappresentano i poli della contrapposizione. Coloro che ne sono all’interno – insegnati e bambini – a loro volta e in maniera ambivalente, si muovono avendo come riferimento tali principi e sperimentando, nella quotidianità dei rapporti, come sia impossibile agire nell’uno o nell’altro modo senza contraddirne il senso.
Quelle che seguono sono le sintesi di alcuni nodi problematici che evidenziano come la scelta univoca si mostra impraticabile e confutata dai fatti: la realtà costringe ad un’azione che, pur con tutti i limiti e le contraddizioni che ne conseguono, comprende sia principi universalistici che principi particolaristici, alla ricerca di un equilibrio instabile in continua ridefinizione.

 
Quando, sebbene si parta da una dichiarazione di eguaglianza di tutti i bambini, si afferma che in realtà non solo i bambini non sono tutti uguali, ma che ci sono i diversi tra i diversi: di fronte all'alterità dello zingaro, gli stranieri diventano "uguali”. (Detto in altre parole lo zingaro fa saltare il gioco identità/alterità)


Con i bambini stranieri non abbiamo nessun problema: lo dimostra il fatto che ci sono delle differenze molto visibili e molto grandi tra bambini stranieri e bambini nomadi perché i bambini stranieri bene o male sono tutelati, sono generalmente già scolarizzati e i genitori sono inseriti e lavorano. Bambini dunque che hanno famiglie alle spalle con i quali non abbiamo grossi problemi. L'unico problema potrebbe essere quello della lingua, ma generalmente sono bambini intelligentissimi con grosse capacità di apprendimento: tempo due o tre mesi di laboratorio linguistico che già parlano benissimo l'italiano.


Sebbene in ciascuna classe siano presenti, insieme agli italiani bambini zingari, nord africani e cinesi, è solo dei primi che, nel corso dell'intervista, tutte le insegnanti, senza alcuna eccezione, finiscono per parlare. Ogni domanda circa le problematiche e le iniziative inerenti alla presenza, nella scuola, di bambini di una cultura diversa, conduce ad un discorso sui bambini nomadi: solo loro sembrano essere gli stranieri, i diversi, coloro che costringono al confronto con l'altro. La lontananza culturale di cui è portatore un piccolo cinese, magari appena arrivato in Italia, o un bambino di colore, magari mussulmano, sembra annullarsi di fronte all'estraneità e all'imbarazzo che suscita la presenza di un bambino nomade.
Non starò qui a discutere le ragioni di ciò   del resto nel corso dell'articolo tali ragioni saranno in parte esplicitate   e accenno solo al fatto che un atteggiamento di questo tipo potrebbe condurre a penalizzare, non valorizzandola, la diversità degli altri bambini stranieri (7) e a sottovalutare le difficoltà che questi potrebbero incontrare nell' essere una minoranza in un ambiente in cui le regole sono comunque dettate da una cultura diversa dalla loro. Quello che invece mi interessa sottolineare è un altro aspetto della questione: il fatto, cioè, che la presenza dello straniero all'interno di una comunità sposta continuamente i confini che separano coloro che si definiscono insider da coloro che sono ritenuti outsider, ridelimita il senso di appartenenza e quello di estraneità, modifica le ragioni dell'accettazione e quelle del rifiuto, ridisegna le espressioni di solidarietà e pregiudizio. Supposto che ogni gruppo, micro o macro che sia, abbia bisogno dell'altro da sé per definire la propria identità, in una società come la nostra, in cui i processi di migrazione si sono accelerati, i meccanismi di inclusione/esclusione vengono continuamente ridefiniti.
L'arrivo di un nuovo straniero, ancora più estraneo del precedente, facilita il percorso di integrazione dei primi arrivati, nuove esclusioni obbligano a nuove inclusioni. Per quanto riguarda il nostro paese, negli anni del boom economico, gli stranieri erano coloro che dal Sud Italia arrivavano nelle città industrializzate del Nord. Successivamente nord africani, slavi o albanesi si sono succeduti nel ruolo di ospiti indesiderati. Si potrebbe obbiettare che ogni ondata migratoria successiva trovava quella precedente già parzialmente integrata e che (cosa da tutta da verificare) non si possono mettere a confronto i nostri immigrati meridionali con coloro che oggi arrivano dai paesi extracomunitari, ma al di là di qualsiasi altra considerazione resta il bisogno che ciascuno ha di definire le proprie appartenenze, di tracciare confini, di escludere per includere. Bisogno che, a fronte di una realtà in continua trasformazione, conduce a modificare altrettanto rapidamente i propri giudizi di valore.
Anche i bambini, all'interno di un contesto che li costringe al confronto con lo straniero, non sembrano potersi sottrarre all'obbligo di operare delle distinzioni, di agire delle esclusioni.

Con i bambini stranieri non ci sono difficotà, salvo i primi tempi quando ancora non conoscono la lingua, mentre abbiamo qualche problema con gli zingari. All'inizio l'impressione che si ha di loro è di una certa timidezza. Un sentirsi un pò diversi dagli altri, per cui c'è qualche difficoltà a legare con gli altri bambini. Soprattutto quelli che frequentano irregolarmente hanno anche dei problemi igienici, quindi, anche nell'aspetto, si evidenzia la loro diversità. Per cui gli altri bambini, soprattutto in prima, poco abituati ad essere in contatto con bambini diversi, hanno qualche perplessità. Certe volte non vogliono prendergli la mano perché non è pulita anche se poi noi maestre provvediamo mandandoli a lavare. Ma si vede che non c'è quella disponibiltà immediata che si ha verso un altro bambino che si presenta con un aspetto più gradevole.

Mentre i bambini stranieri vengono accolti abbastanza bene dai nostri bambini, anzi vengono aiutati ad inserirsi forse perché sono ancora piccoli e quindi più spontanei, c'è un atteggiamento un pochino diverso per i nomadi, perché il nomade porta sempre un pò le sue caratteristiche di comportamento, di stile, di abbigliamento...Certo, questa è una scuola particolare perché c'è tutta un'educazione ad accettare il diverso, però mentre nei confronti dei bambini cinesi o dei bambini arabi gli altri ne diventano quasi dei paladini, con i bambini nomadi le cose sono un pò più difficili forse perché l'essere nomade porta anche altri problemi oltre quello di essere diverso, di un altra etnia. Per esempio, è molto più semplice per un bambino straniero stare seduto in classe come tutti gli altri bambini, mentre per un nomade, abituato a vivere all'aperto, tante ore di scuola sono senzaltro più pesanti.

Tant’è che anche tra i diversi dei diversi scatta la ricerca dello straniero: stabilire una differenza, consente di affermare un'eguaglianza.

I nomadi bisogna stare molto attenti a metterli insieme perché tra gruppi diversi c'è proprio uno scontro, un rapporto di amore odio. Nella nostra scuola abbiamo gli Havati, i Khorakhané, i Kalderasa e i Kanjaria. I Khorakhané sono i più malconci, provengono dalla Bosnia, non hanno fissa dimora. Uno dei miei bambini, un Kalderasa, mi ha detto: “Teresa, io non ho più voglia di venire da te perché tu curi piu i Khorakhané che me!”. Oppure: “No, tu non ti devi assolutamente occupare dei Khorakhané”. “No” rispondo io “Per me i bambini sono tutti uguali sia che siano Havati, Khorakhané, Kalderasa o Kanjarja”. Insomma, bisogna risolvere la questione cercando di farli ragionare.

Quando per raggiungere un'eguaglianza di opportunità si mettono in atto delle misure di discriminazione con l'intenzione di compensare lo svantaggio di partenza.

Con l'intento di realizzare una politica delle pari opportunità la scuola si è dotata di una serie di servizi da offrire agli alunni stranieri che, giustamente, vengono inseriti nelle classi in base all'età senza tener conto del livello di istruzione effettivamente raggiunto. Per renderli in grado di mettersi alla pari con i loro compagni, i bambini hanno a disposizione un laboratorio linguistico per l'apprendimento della lingua italiana e, laddove lo si ritenesse necessario, insegnanti di sostegno in classe. Queste misure risultano pienamente soddisfacenti per quanto riguarda gli stranieri, ma risultano inadeguate nei confronti dei piccoli zingari.

I bambini stranieri arrivano generalmente già scolarizzati. Magari non parlano una parola di italiano ma hanno già l'abitudine alla disciplina, all'apprendimento, allo studio e in poco tempo, con il sussidio del laboratorio linguistico, sono in grado di seguire le lezioni. Per i bambini nomadi questo non avviene, non hanno punti di riferimento, sono molto disorientati. Con loro c'è da fare tutto un lavoro di pregrafismo, di prelettura, di prescrittura...Loro arrivano con tutto un bagaglio di problemi che vanno risolti a monte per poi poter dire: “Mbè, adesso possiamo fare un lavoro che sarà veramente utile” perché se facciamo un lavoro senza le fondamenta, costruiamo, costruiamo, e poi si sgretola tutto.

Le ragioni della differenza, al di là del pregiudizio, sono molte: sono bambini che vivono all'interno dei campi nomadi, in condizioni igieniche spesso molto critiche; appartengono ad una cultura nella quale quasi non esistono senso dell'ordine e della disciplina; spesso i genitori sono analfabeti; a causa degli sgomberi dei campi da parte della polizia e di ciò che rimane delle loro abitudini al nomadismo, frequentano saltuariamente la scuola; in alcuni casi praticano fin da piccoli l'accattonaggio e il furto; sono abituati da sempre a sentirsi degli estranei, guardati con diffidenza, accolti dal pregiudizio. Queste ragioni sono ben note a quanti operano nella scuola e sono stati fatti indubbiamente degli sforzi notevoli per favorire l'inserimento degli alunni zingari. Ma affrontare la differenza senza lasciar agire pregiudizio o demagogia è un compito tutt'altro che facile e, se è vero che il riconoscimento della differenza e l'affermazione dell'uguaglianza rappresentano i termini di una configurazione ambivalente, le strategie d'azione che ne derivano, al di là delle buone intenzioni, finiscono per sollevare contraddizioni di non lieve entità.
 
Primo esempio: l'igiene. All'intemo della scuola esiste tutta un'organizzazione, chiamata accoglienza, che si preoccupa di lavare e, qualora fosse necessario, mettere abiti puliti ai bambini Rom prima che entrino in classe.

Venire a scuola significa anche imparare l'igiene che loro al campo, vuoi per problemi di acqua, vuoi perché fa freddo, non hanno. A scuola però bisogna esser puliti e un bambino nomade non é diverso, deve essere pulito come tutti gli altri: abituarlo ad essere uguale agli altri vuol dire anche essere pulito come gli altri. Gli diciamo: “Venite a scuola prima, c'è l'acqua calda, ci sono le docce, vi lavate, vi pulite, entrate in classe”. Questo è un modo per far sì che siano accettati dagli altri bambini e dai genitori.

Ognuno ha la propria cultura, anzi culture diverse arricchiscono, ma l'igiene non fa parte della cultura, dobbiamo livellarci tutti. L'igiene è una cosa molto importante per evitare epidemie e situazioni molto più spiacevoli. Il problema dell'igiene potrebbe essere un motivo di rifiuto verso chi è diverso in quel senso. E' un discorso molto difficile e molto importante da fare perché non è bene il discorso: “Mbè, capiamolo”...No, perché allora resta diverso. Per questo che c'è tutta questa organizzazione di lavanderia, guardaroba, docce e disinfettante per il bambino zingaro, per far sì che anche lui vada tutto profumato, uguale agli altri, perché se c'è tutta questa accoglienza lui non si sente diverso...

Riesce difficile commentare un'iniziativa di questo genere: da una parte occorre ammettere che il problema esiste e riconoscere le buone intenzioni di chi ha trovato una tale soluzione (che del resto implica un impegno non da poco da parte della scuola), d'altro canto è giocoforza chiedersi quale sia il vissuto di questi bambini (soprattutto i più grandicelli) sottoposti ogni mattina ad un controllo circa il decoro della propria persona e ad un rituale estraneo alle proprie abitudini. Non è escluso che provino vergogna, che si sentano trascurati dalle loro famiglie, che avvertano brutalmente il peso della propria diversità.

Ogni martedi Semso fa la doccia a scuola perché il giorno dopo li portiamo in piscina. Abbiamo detto a tutti i bambini che il martedì devono fare la doccia a casa e poi abbiamo spiegato a Semso, davanti agli altri: “Tu la fai qua perché magari a casa non hai l'acqua calda”. Lui all'inizio non voleva, perché pensava che qualcuno entrasse con lui, invece poi ha visto che gli davamo la biancheria e gli spiegavamo come fare e poi lo lasciavamo solo e si è tranquillizzato. A un certo punto ci siamo accorte che faceva la doccia con le mutandine e gli abbiamo detto: “No, adesso nessuno ti sta vedendo, hai la porta chiusa, non ti devi vergognare”. Ormai non ci sono più problemi.

La contraddizione tra un proposito di uguaglianza e un'azione che sottolinea una differenza esiste e solleva una domanda che nel caso specifico può essere posta in questi termini: nei bambini zingari, prevale la gratificazione del sentirsi accuditi o la frustrazione e l'imbarazzo dovuti al sentirsi diversi dai loro compagni, costretti, per essere accettati, a modificare il proprio aspetto? O sono entrambi i sentimenti ad accompagnare questi bambini nel loro percorso d'integrazione? L'iniziativa finisce così per assumere il carattere ambiguo di una oggettiva discriminazione  resta da vedere se positiva o negativa  di cui sono fatti oggetto i piccoli nomadi. E ci si chiede: attraverso una discriminazione, può iniziare un percorso di uguaglianza?
Secondo esempio: il rispetto delle regole. Come non riconoscere il compito gravoso che gli alunni Rom, il cui processo di socializzazione all'interno delle famiglie ha seguito vie molto diverse da quelli degli altri bambini, devono affrontare per adeguarsi a regole a loro estranee? Tanto più quando queste regole implicano capacità di autocontrollo, disciplina, tenuta del compito, impegno intellettuale…caratteri in gran parte estranei all'ambito culturale in cui questi bambini sono cresciuti e in cui vivono fuori dalla scuola. Questa consapevoleza è ben presente nelle parole delle insegnanti intervistate e altrettanto chiari sono i dilemmi che la questione solleva: tenuto conto che il diritto di cittadinanza implica l'osservanza delle regole comuni, giuste o sbagliate che siano, un atteggiamento troppo permissivo rischia di non produrre cambiamento consegnandoli al loro destino di outsider; inoltre una cura particolare può essere vista dal bambino che ne è fatto oggetto come una sottolineatura del suo bisogno e dagli altri come un privilegio a loro non concesso. Ma d'altra parte sarebbe una grave omissione da parte della scuola non riconoscere che la diversità dei bambini Rom esige un'attenzione e un impegno specifici.

    Con questi bambini il rischio che corriamo è forse quello di volerli proteggere troppo, di dare una giustificazione ad ogni loro mancanza. Già le elementari sono un tipo di scuola in cui si tende a proteggere questi piccolini, tanto più nel caso dei bambini nomadi. Ma poi quando escono di qui cominciano a prendere delle legnate e agevolandoli in maniera eccessiva tu rischi di non farli crescere, di non abituarli a quelle regole che poi troveranno fuori. Ci sono delle regole che non possono essere messe in discussione e a cui anche loro debbono adeguarsi. Un occhio di riguardo va bene: non è questione di voler più bene a loro che agli altri è che, di fronte alle loro situazioni di vita, che non sono quelle degli altri, dobbiamo essere un pochino più malleabili, un pochino più aperti. Ma all'inizio tendevamo troppo a lasciar correre...Adesso siamo più rigidi per esempio rispetto alle vaccinazioni o ai certificati medici che i bimbi devono esibire se stanno assenti più di quindici giomi. La scuola si deve rendere conto che queste persone devono crescere, che non possono dipendere sempre da te, che non possono dipendere sempre dalla scuola. Se non vuoi che questi bambini vivano da grandi come vivono adesso i loro genitori, e cioè rubando, devi insegnare loro fin da piccoli che determinate  cose vanno rispettate e basta. E' fondamentale che imparino a rispettare gli altri, perchè rispettare le regole significa rispettare gli altri. Certo, i bambini ti fanno tenerezza, perché capisci che dietro ci sono gli adulti...ma dobbiamo sforzarci a non assumere atteggiamenti troppo protettivi. L'accoglienza, per esempio, l'accoglienza deve essere fatta all'inizio e con tutti i criteri, ma poi questi bambini devono imparare a camminare con le loro gambe, devono cominciare a rispettare le regole, se no si prendono le punizioni che si prendono tutti gli altri. Cert,o ci vuole buon senso perché comunque gli errori che possono fare questi bambini sono meno gravi di quelli che possono fare gli altri, perché non sono bambini tutelati, non hanno alle spalle famiglie integrate.

    Si vuole renderli uguali, ma ci si rende conto che hanno dei bisogni diversi. Questa loro ricerca di affetto, questo vederli un pochino isolati. Magari tornano dopo una lunga assenza e si mettono in fondo, nell'ultimo banco. Magari per farli lavorare occorre separarli dagli altri e mettersi con loro in disparte. Magari si rendono conto di non essere in grado di fare quello che stanno facendo gli altri e mi vengono a chiedere: “Io che faccio?” A volte mi viene voglia di dare loro di più...Per esempio si stancano molto prima degli altri bambini ma non puoi concedere a uno il riposo senza concederlo agli altri ...è sottile la cosa perché entrano in gioco dinamiche complesse e così cerchiamo di variare molto le attività alternando attività impegnative con altre più piacevoli: la stessa strutturazione del tempo pieno modulare favorisce questa varietà. A volte mi ritrovo ad avere qualcosa che il bambino nomade non ha, vorrei dargliela ma mi astengo da dargliela davanti alla classe per evitare che gli altri bambini possano dire: “A lui sì, a me no”.

Terzo esempio: è giusto pretendere dai bambini Rom, oggettivamente svantaggiati, le stesse prestazioni che si richiedono agli altri o vanno comunque premiati i loro sforzi e la loro fatica? Certo, insegnanti di sostegno e mediatrici culturali operano per colmare lo svantaggio iniziale ma alla fine dell'anno può essere molto difficile misurare con criteri oggettivi il rapporto impegno rendimento. E allora: devono essere considerati bambini uguali a tutti gli altri, con gli stessi diritti e gli stessi doveri, e dunque applicare le stesse misure di valutazione, o deve essere riconosciuta la loro diversità e, per far sì che questa non si trasformi in disuguaglianza, premiare risultati che in altri bambini sarebbero giudicati modesti?

   Giorgio, un bambino nomade, é arrivato nella nostra scuola che parlava un italiano molto povero di vocaboli e con nessun tipo di nozione matematica. Piano piano sta recuperando, ma il suo probiema è la capacità di mantenere l'attenzione: la mattina riusciamo a farlo lavorare ma nel pomeriggio non ce la fa più a seguire e dimostra la sua insofferenza per il fatto di essere là, battendo le mano sul banco, muovendosi, facendo magari qualche verso in più....E poi fa fatica ad accettare le regole anche se poi, un pò alzando la voce, un pò con la dolcezza...Certo, questi comportamenti sono comprensibili se si tiene conto del suo retroterra culturale ma sin dall'inizio abbiamo pensato che se il bambino doveva essere inserito nella classe doveva essere visto come un compagno e basta e non accettato come un diverso in quanto zingaro. Abbiamo detto ai bambini che ha un diverso modo di vivere, abbiamo detto che vive in un campo, e l'anno scorso siamo andati al campo, abbiamo visto come vive, ma a scuola è solo un compagno, un bambino come tutti gli altri. E allora in classe deve accettare le regole della classe, deve comportarsi come tutti gli altri bambini, lo riteniamo più giusto, e allora, anche se comprendiamo alcuni suoi comportamenti - comprendiamo per esempio perché i suoi tempi di attenzione sono più brevi - poco alla volta chiediamo sempre di più, un pò di più. Però, ad esempio, non siamo ancora riusciti a fargli fare i compiti a casa. Noi lo rimproveriamo per questo, ci sembra giusto farlo...proprio perché vogliamo inserirlo...non so se riesco a spiegarmi. Questa è una scuola a tempo pieno e quindi i compiti li devono fare durante il fine settimana e se il lunedì il bambino non li porta, viene rimproverato. “Ma insomma, perché non li hai fatti? Va bene, vorra dire che tu oggi farai meno intervallo e andrai a giocare solo quando ii avrai finiti”. Facciamo cosl con tutti, anche con Giorgio. Ci sediamo vicino a lui, lo aiutiamo, ma dobbiamo farlo, perché se no domani qualsiasi altro bambino può dirci: “Non li faccio nemmeno io” e questo non va bene, perché significa metterli l'uno contro l'altro.

Dalle parole delle insegnanti sembrerebbe che la linea di condotta scelta dalla scuola, per quanto possa essere impegnativa, risulti scevra da ogni ambiguità: un percorso di eguaglianza non può prescindere alla fine da una regola: per tutti stesso peso, stessa misura. Un principio che dovrebbe rassicurare i genitori degli alunni italiani che temono il cattivo esempio che i bambini zingari potrebbero offrire e sospettano che la scuola possa spendere per gli alunni stranieri, e a discapito degli italiani, troppe risorse ed energie.

      All'inizio i genitori italiani fanno qualche storia soprattutto nei riguardi dei bambini nomadi:
  “ll bambino nomade ha un modo di vita diverso, i nostri bambini sono piccoli...”
  “Ma qui ci sono gli insegnanti non è che i bambini siano lasciati a loro stessi: a scuola ci sono delle regole che tutti devono rispettare”.
   Questa risposta li ha un pò fermati. Oppure può capitare che dicano che in questa scuola per curare i bambini zingari si trascurano gli altri e che con gli zingari siamo più tolleranti e indulgenti. Ma poi, con il tempo, si rendono conto che sono bambini come tutti gli altri e che la scuola funziona per tutti.

Ma il compito che la scuola si è data, offrire pari opportunità senza rinunciare ad una neutralità di giudizio, è arduo se si considera l'entità della differenza tra bambini nomadi, stranieri e italiani, in termini di risorse e capacità.

   Quando arrivano a scuola i bambini zingari non sanno neanche tenere la matita in mano perché non hanno frequentato la scuola materna. Bisogna seguirli uno per uno, prendere la loro mano e aiutarli a superare lo spazio della grafia stessa. Qualsiasi rappresentazione grafica è per loro una difficoltà enorme, dare loro l'idea che si possa attraverso un segno rappresentare un oggetto. Nella prima parte dell'anno si fa molto questo lavoro e nel frattempo sono in classe e devono seguire anche il programma della classe per non farli completamente staccare dai resto dei bambini. Per le cose più difficili vengono esonerati, molti non parlano neanche l'italiano ed è impossibile per loro esprimere un concetto, un idea: è più facile partire da un'immagine collegata ad una parolina. Non si può neanche forzarli perché poi più di tanto non rendono. Per loro é molto arduo mettere insieme le frasi: capiscono il significato di un disegno o di una situazione ma anche se tecnicamente scrivono la parolina, non hanno cognizione della logica dell'insieme delle parole. Ma in prima abbiamo tempo: non c'è ragione di forzare le cose.

Considerate allora le risorse culturali di partenza si finisce forse per chiedere agli alunni zingari qualcosa di meno, o forse semplicemente qualcosa di diverso, da quello che si chiede agli altri e alla fine dell'anno, nel valutare i risultati, si tiene conto dello svantaggio iniziale. Una parzialità di giudizio che può essere dettata dai migliori propositi e che forse può essere anche giusta, ma che viene giudicata severamente da chi guarda le cose da un altro punto di vista.
Parla una ragazza Romni che da bambina ha frequentato le elementari in questa stessa scuola e, dopo le medie e un adeguato corso di fommazione, vi lavora come mediatrice culturale:

   Durante le lezioni le insegnanti dovrebbero occuparsi più dei bambini nomadi e non contare solo sulle maestre di sostegno. Magari la maestra ha due bambini Rom e quindici gadjè (Figo e mentre gli altri vanno avanti con la lezione, ai due bambini Rom fa fare un disegno perché non sono in grado di seguire la lezione. E poi non è giusto promuoverli se non sanno niente: io preferirei che li bocciassero, almeno l'anno dopo saprebbero più cose, invece nelle scuole non vedono l'ora di mandarli fuori.
  Tu dici: “Ma questi bambini nomadi non sanno niente...non frequentano”. Ti rispondono: “Ma non è colpa loro se non frequentano regolarmente la scuola”. Però è inutile promuoverli se non sanno né leggere, né scrivere. Loro dicono che hanno 13/14 anni e che devono andare alle medie, ma cosa vanno a fare alle medie dove troveranno problemi piu grossi? Io alle medie ho imparato a leggere perché alle elementari non sapevo neanche leggere.
   Alle medie mi sono così vergognata...cosa sapevo fare? Due o tre cosettine: non sapevo neanche cosa fossero storia e geografia. Il guaio è che i nostri bambini non frequentano regolarmente, restano assenti anche due o tre mesi, rimangono indietro e quando tornano non vanno più alla pari con gli altri. Quando tornano a scuola li mettono a fare i disegni, poi arriva l'insegnante di sostegno e gli fa fare due o tre cosette, non riescono mai a raggiungere gli altri. Arriva la fine dell'anno, gli dici di scrivere una parola e loro non la sanno scrivere.
   Hanno promosso mio fratello in quinta, mia madre è andata a scuola: “Ma cosa: avete preso mio figlio per un handicappato? Lo promuovete e non sa scrivere neanche il nome e il cognome?”
  Forse pensano che i bambini Rom siano stupidi, oppure che debbano rimanere sempre quello che sono, buoni solo per andare a rubare. E' che ti passa la voglia di mandarli a scuola perché vedi i loro quaderni e ti accorgi che non sanno fare niente. Mia madre guardava i quaderni di mio fratello e sempre disegni, disegni…in quinta ancora scrive in stampatello!

Quando il principio del rispetto della diversità culturale si rivela difficile da sostenere

  Qui in questa scuola non ci sono solo bambini nomadi, ci sono anche gli africani, i cinesi...Di diversi ce ne sono tanti…non è la stessa cosa che essere nomadi? L'unica cosa che può rendere diversi i bambini zingari è l'aspetto: sarebbero uguali agli altri se avessero una vita più agiata. Infatt,i quando gli facciamo la doccia, gli mettiamo un bel vestito, li profumiamo come gli altri e forse anche di più, come si fa a rifiutarli?
     Ma come si fa a intervenire su queste cose con le loro famiglie? Nessuno pretende che diventino uguali a noi, la differenza culturale nessuno la tocca, ma per il resto bisognerebbe cercare di eliminare questo senso di disagio che potrebbe nascere dal non essere puliti come tutti gli altri, non avere il quademo, la matita…

Dichiarare che la differenza culturale non si tocca è davvero un principio difficile da sostenere quando le abitudini culturali dello straniero non corrispondono all'idea di decoro e dignità personale che la società ospitante possiede o, a maggior ragione, con i principi etici che la guidano o le regole che si è data circa ciò che è lecito o illecito. Naturalmente occorre distinguere   e non sempre è facile   tra quei comportamenti determinati dalle difficili condizioni di vita in cui spesso si trova ad essere chi abita un paese straniero, quelli chiaramente illegali e quelli dettati, invece, da abitudini culturali diverse(9). In quest'ultimo caso risulta evidente che coloro che rappresentano la cultura maggioritaria, attribuiscono carattere universalistico ai propri principi morali per cui il giudizio di valore circa il comportamento altrui si basa su principi e credenze etnocentriche. Ma, d'altra parte, risulta oggettivamente difficile ammettere carattere di relatività a valori profondamente introiettati quali quelli etici e ci sono regole di cittadinanza che non ammettono alcun tipo di negoziazione. La questione, come ho accennato nelle pagine precedenti, è al cuore di un dibattito che la realtà del multiculturalismo ha reso pressante e appassionato.
Nel vissuto concreto dei rapporti quotidiani si può rispondere a questa contraddizione con il pregiudizio, la demagogia, l'imbarazzo. Si può prendere posizione o sospendere il giudizio, essere disponibili ad un confronto o ad una trattativa. Nel caso specifico che qui stiamo analizzando, all'interno di un rapporto tra un adulto autorevole e un bambino, quando l'adulto è tenuto ad intervenire e non può sottrarsi al proprio ruolo di educatore, ci si augura abbiano voce intuito e sensibilità.

     Alcuni bambini hanno un rapporto molto affettivo con le insegnanti, per loro siamo delle amiche, non la maestra. Con noi parlano della loro cultura. A me raccontano delle loro feste: “Sai, ho bevuto molto vino, ci siamo ubriacati”. Al che io rispondo: “Ma non sarebbe giusto ubriacarsi, bambini così piccolini. Sì, bere un goccino di vino perché la vostra tradizione ve lo consente, però ubriacarsi e andare addirittura a letto con la sbornia no, non va bene!”

  Una volta ero con Davide e gli stavo insegnando come si scrive la parola treno e lui mi dice: “lo qui ci vado a rubare”. Io mi sono messa a ridere e ho detto: “Ah sì, mi racconti come fai?”. Immediatamente la tentazione è stata quella di dire: “Non si fa!”. Ma in quel momento mi sembrava che quelle parole venissero dall'alto della mia posizione. Solo in un secondo momento abbiamo cercato di andare sul concreto e dire che il materiale degli altri appartiene agli altri e non si deve prendere; ma questo detto a tutta la classe e non riferito in particolare a lui. I bambini nomadi raccontano della vita del campo solo alla maestra: è molto difficile che ne parlino con gli altri bambini perché hanno molto pudore di ciò che succede nei campi. Tieni conto che alcuni bambini vengono dal campo di via xx dove sono accaduti episodi molto brutti. E i bambini prima di raccontarti quello che succede ci pensano due volte: hanno paura della polizia, degli interventi che possono fare. Abbiamo avuto bambini che avevano paura a dirti anche il nome. Ci vuole un pò di tempo perché abbiano fiducia.


3. Differenza e disuguaglianza

   Nonostante i termini differenza e disuguaglianza vengano spesso usati come sinonimi i due concetti hanno significati opposti. La confusione nasce dal fatto che, nella maggior parte dei casi, la differenza culturale viene ridotta allo stereotipo, fagocita il pregiudizio e si traduce in misure e atteggiamenti discriminatori nei confronti di coloro che ne sono portatori. In realtà, quando con linguaggio scientificamente più corretto si parla di diversità e quando i soggetti rivendicano la loro diversità, ci si riferisce a questa come ad un carattere positivo che ha a che fare con l'identità collettiva di una minoranza. Un patrimonio che, come tale, deve essere valorizzato e difeso.
ll concetto di disuguaglianza, al contrario, richiama non solo una disparità nella distribuzione e nel controllo delle risorse tra i vari gruppi sociali, ma anche la strutturazione di rapporti di dominio e subordinazione per conservare tale disparità. Ora, mentre l'affermazione di una differenza da parte di chi ne è portatore, non mette in discussione la libertà e la dignità dell'altro, molte disuguaglianze trovano pretesto in quei caratteri che costituiscono la differenza altrui.(10)
Il caso che stiamo analizzando mostra come nella realtà le cose si confondono e come la differenza, la differenza culturale di cui, in questo caso, sono portatori bambini zingari e stranieri che frequentano una scuola elementare, possa, a seconda delle circostanze, assumere un valore positivo ed essere valorizzata o, al contrario, essere banalizzata in uno stereotipo e generare pregiudizio.

Quando la differenza assume significati molteplici e ambivalenza: disuguaglianza, valore, stereotipo

La differenza, per il semplice fatto di essere colta come tale, implica un confronto, sollecita un giudizio. Sentimenti di accettazione o rifiuto, attrazione o repulsione implicano atteggiamenti e determinano risposte diverse. Accade così che la differenza possa diventare un valore e rappresentare una risorsa, o, al contrario, degenerare in disuguaglianza e, per chi ne è portatore, assumere l'onere di un vincolo.

Quando Chang è arrivato non parlava una parola di italiano ed era molto difficile capire se era o no scolarizzato. Per matematica avevo iniziato con un programma a parte, come si fa con i bambini di prima, preparando delle schede molto semplici. Un giorno ho scritto alla lavagna delle operazioni che i bambini dovevano risolvere mettendole in colonna. Ho visto che lui aveva un foglio sul banco, guarda il foglio del compagno e scrive sul suo direttamente il risultato: Chang aveva risolto mentalmente un'operazione che gli altri, per risolverla, avevano bisogno di mettere in colonna. Beh, a quel punto mi sono detta: “Devo andare fino in fondo, devo vedere fino a che punto...” Ho scritto delle operazioni su quel foglio e gliele ho messe davanti. Mah, saranno passati due secondi, questo bambino mi ha mostrato una capacità che forse solo, che forse solo...non so, ma in due secondi...io non sarei stata capace in così poco tempo, lui mi ha presentato il foglio con le operazioni risolte, tutte fatte; poi quando interrogavo gli altri bambini, a Chang scrivevo le operazioni alla lavagna e lui metteva ii risultato accanto. Lo interrogavo così e lui era contento perché io cercavo di gratificarlo con un sorriso, cercando di fargli capire che aveva fatto bene. Gli dicevo: “Bravo, bravissimo, sei stato bravissimo!” e lui rideva.
Mi sono accorta che prima, giustamente, si annoiava con quelle schede troppo semplici che io gli sottoponevo pensando di dover ricominciare tutto da zero. Certo, per i problemi non era altrettanto facile perché io non conoscevo il cinese e lui non parlava l'italiano ed era molto complicato fargli capire quale era il problema da risolvere. Questo rallentava un pò i tempi anche per gli altri...ma qualunque inserimento nuovo rappresenta un lavoro doppio per noi perché questi bambini hanno bisogno di una programmazione diversa, di un modo di intervenire diverso perché diversa è la lingua e magari diverso è il livello raggiunto dall'alunno. Anche nel caso di Chang, che era diverso dagli altri bambini perché decisamente più avanti, dovevo fargli fare altre cose altrimenti si sarebbe annoiato: non è certo un problema, anzi, ma significa comunque organizzare il lavoro in maniera diversa.

Ma la differenza sembra essere una ben povera risorsa per un bambino nomade, perché quando in senso positivo viene sottolineata una loro diversità, che dunque diventa abilità, si fa generalmente riferimento ad aspetti che notoriamente non sono ritenuti importanti all'interno della scuola.

Il fatto che vivono all'aperto è una risorsa in più che hanno perché, rispetto ai nostri, possono avere più spazio, più libertà di agire, di muoversi. E infatti in questo sono molto più svegli, non sono imbranati nel movimento, perchè nel movimento sono molto sciolti, molto vivaci. Tutte le volte che noi insegnanti parliamo di una gita, di un certo percorso che si fa all'esterno della scuola, il bambino nomade risulta più bravo, perché conosce già perfino i nomi delle strade. In queste occasioni si sentono più bravi degli altri...Certo quando si tratta di cose teoriche, non riescono...

In ogni caso valorizzare la differenza è indubbiamente un buon modo per iniziare un percorso di integrazione.

Le difficoltà iniziali penso che si risolvano col pretendere rispetto e dare loro rispetto. Il discorso è che ciò che chiedo agli altri bambini, lo chiedo anche a loro. Certamente a loro non puoi chiedere l'impegno che chiedi agli altri, in quanto non hanno né l’abitudine, né la resistenza che hanno gli altri bambini su un lavoro che non li coinvolge molto. Quindi, io lo so perfettamente, che loro dopo un pò hanno bisogno di muoversi, hanno bisogno anche di lavorare molto manualmente, perché sono molto abili. Questo è un modo per dimostrare agli altri che cosa valgono e, secondo me, ogni individuo deve dimostrare ciò che vale per essere accettato.
Davide, per esempio, era abilissimo con il traforo, quindi se lui, quando era il momento di leggere e scrivere, non era all'altezza, nessuno poteva dire: “Tu non sei capace”, perché lui era abilissimo a fare altre cose. La cosa molto diffcile all'inizio è stata appunto di convincerlo che questo valeva come valevano gli altri lavori, perché in ogni modo lui percepiva la superiorità culturale degli altri. Ne subiva il fascino perché gli altri sapevano leggere e scrivere. Solo non si voleva impegnare anche perché i bambini nomadi lavorano solo dentro la scuola.  L'ambiente culturale in cui vivono è molto diverso dal nostro per cui non si può far troppo conto sulla famiglia: tutto quello che fanno, lo fanno a scuola. Gli altri bambini, anche quelli stranieri, possono avere un ambiente familiare più o meno stimolante, però, dal punto di vista scolastico, hanno i libri e i genitori si interessano a quello che fanno a scuola: questo accade raramente per il bambino nomade.

Non valorizzare la differenza, può significare, al contrario, trasformarla in disuguaglianza:

l bambini zingari sono molto lenti nell'apprendere. Hanno bisogno di ripetizioni continue. Non bisogna mai dare niente per scontato perché le cose prima o poi se le dimenticano.

I bambini nomadi si affaticano più degli altri. Diciamo che hanno più difficoltà ad accettare la struttura, la classe, il fatto di rimanere chiusi. Si vede che hanno alle spalle un’esperienza decisamente diversa.

Inoltre è molto facile che la diversità venga banalizzata nello stereotipo e lo stereotipo, si sa, è l'anticamera del pregiudizio (11) (positivo o negativo esso sia) perché offre un'immagine generalizzata, superficiale ed eccessivamente semplificata della realtà, attribuendo in maniera indifferenziata e indiscriminata determinati caratteri e comportamenti a tutti gli appartenenti ad un certo gruppo sociale riconosciuto come tale. In tal modo la differenza viene appiattita e banalizata in modelli rigidi di giudizio che condizionano la percezione dell'altro e i caratteri dell'interazione.

I bambini cinesi hanno caratteristiche proprie di com¬portamento e di carattere. Sono schivi, timidi e riservati. Rispetto ai nostri bambini italiani, più vivaci, estroversi e rumorosi, avere a che fare con un bambino cinese è molto piacevole, diventa una specie di relax. Sono sempre molto sorridenti e disponibili ad accettare tutto quello che gli viene richiesto dagli adulti. Sono bambini che non dicono mai di no, che non si ribellano mai. Sono sempre disposti a lavorare e deve essere  l’insegnante che deve capire quando è il momento di smettere perché hanno un tale rispetto per la figura dell’insegnante che non ammetterebbero mai di essere stanchi e finirebbero per subire. Sono bambini molto graditi all’interno della classe, per questo loro comportamento così corretto. I bambini nord africani sono molto simili ai nostri: si sente che sono più vicini...sono mediterranei. I bambini nomadi arrivano invece con molte carenze di apprendimento, memorizzano con molta diffcoltà, hanno una capacità di attenzione molto inferiore a quella degli altri bambini. Si riesce a recuperarli solo con un lavoro molto costante e questo é molto difficile per le loro continue assenze, per i loro continui spostamenti: quando rientrano bisogna ricominciare tutto da capo.

Stereotipo non significa necessariamente falsa rappresentazione se non nella sua accezione di estrema generalizzazione e banalizzazione di un carattere o un aspetto della diversità. Ciò che voglio dire è che quello che dichiarano le maestre probabilmente è vero: di falso, o meglio di falsificante, c'è il rischio che la percezione superficiale di alcuni caratteri legati all'identità culturale di questi bambini possa ostacolare una conoscenza più approfondita, finisca per offuscare la realtà, conduca a sottovalutare, o al contrario sopravvalutare, il significato dei loro comportamenti trascurando così i loro bisogni, travisando le loro richieste. Finendo alla fin fine per alimentare il pregiudizio.
Uso il termine pregiudizio in senso stretto per indicare atteggiamenti, azioni e comportamenti derivati da un giudizio preliminare o preventivo, non sostenuto dall'esperienza o comunque basato su dati inesatti, esperienze limitate o indebitamente generalizzate. Tale pre giudizio comprende un atteggiamento pro o contro da cui deriva l'attribuzione di un valore positivo o negativo. Il pregiudizio è connotato da una componente affettiva, esclude la possibilità di altri giudizi e non prende in considerazione altre prove. Dal pregiudizio discendono azioni e comportamenti che esprimono, a seconda dei casi, accettazione  o rifiuto(12).

Quando il pregiudizio diventa demagogia

In tal senso il pregiudizio non investe necessariamente l'altro di caratteri negativi e non sempre provoca un'azione di allontanamento e di esclusione. A volte una lettura eccessivamente superficiale e demagogica della diversità si traduce in un atteggiamento di accettazione dell'altro, ma tale accettazione si basa comunque su una rappresentazione falsa e fuorviante della realtà.
L'incontro con lo straniero mette sempre in discussione credenze e valori provocando incongruenze tra convinzioni e atteggiamenti (possiamo essere sinceramente convinti che tutti gli uomini siano uguali, ma finiamo per frequentare solo i nostri simili, tenendo a distanza i diversi; possiamo rispettare tutte le religioni, ma non ammettere la poligamia...) Si produce allora una situazione di dissonanza cognitiva(13) che provoca disagio e costringe il soggetto a cercare di ridurre la discordanza. In molti casi il pregiudizio, positivo o negativo che sia, può rappresentare un modo per ristabilire l'ordine: una sorta di autoinganno per nascondere le contraddizione dei propri sentimenti o delle proprie esperienze.
 
Le parole di alcune delle maestre intervistate ne sono un esempio: la diversità di cui sono portatori i bambini nomadi, gli ostacoli che, a causa di tale diversità essi devono affrontare nell'inserimento scolastico e i problemi che la scuola stessa deve risolvere nello sforzo di garantire loro, e a tutti gli altri, un trattamento giusto e imparziale, si smorzano e si celano in una rappresentazione semplificata e alla fin fine cieca della realtà. Probabilmente lo sforzo di rimanere coerenti al principio dell'uguaglianza è sincero, ma il risultato è l'inganno. Inganno verso se stessi e verso l'altro. Del resto, come si suol dire, di buone intenzioni sono lastricate le vie dell'inferno.

I bambini nomadi non si sentono diversi dagli altri bambini, assolutamente, solo che hanno una diversità di impostazione di vita, tutto lì. Perché loro hanno una loro cultura e la rispettano. Noi la rispettiamo, anzi, sensibilizziamo anche gli altri bambini su questo.
Questi bambini hanno un modo di vita diverso però non si vergognano. Se mai possono vergognarsi del vestito che portano perché magari non è bello come quello degli altri bambini, ma questo avviene anche tra i nostri bambini, perché un bambino che è vestito male la vede la differenza con un altro bambino della stessa scuola che è vestito bene, che ha più agiatezza... Ecco, forse queste cose... ma poi ognuno di noi vive la propria cultura, la propria vita, il proprio modo di essere...
Noi qui a scuola lavoriamo per far sentire i bambini tutti uguali perché, nel momento in cui si opera nella scuola, non ci sono diversità: l'uno vale l'altro.

Racconta un’altra insegnante:

Le mamme dei bambini nomadi sono delle mamme normalissime: la mamma è mamma, sempre e in ogni caso. Lo sono anch'io e lo sono loro. Perciò dal lato affettivo non manca niente a questi bambini. Se hanno la mamma stia tranquilla che sulla mamma non si discute perché: “Si passi sul mio corpo ma mia figlia o mio figlio non si toccano”. Io non ci vedo niente di scabroso nel modo di vivere della famiglia nomade.

A questo punto io faccio notare che mandano i bambini a fare la questua. Mi risponde:

Certo mandano i bambini a chiedere ma solo per necessità.

Insisto, sostenendo che, al di là del giudizio che si può dare della cosa, questo crea una diversità:

Questa diversità c'è perché noi ci inteneriamo quando è il bambino a chiedere e allora si dà: invece si può dare anche all'adulto, no? Se noi cambiassimo il nostro atteggiamento e fossimo disposti a dare anche all'adulto non ci sarebbe bisogno del bambino nomade che va a chiedere. Per esempio, sotto Natale, i bambini fanno molte assenze perché le persone vengono toccate da questa mano tesa.

Le chiedo se a suo giudizio i bambini si vergognano di questo. Mi risponde:

Certe volte sono obbligati e si vergognano, specialmente i bambini di quarta. I bambini piccoli penso che lo fanno perché così possono avere i soldi: “Vado a comprarmi la merenda, se è carnevale vado a comprarmi il fischione così gioco anch'io”.
Il bambino, via via che cresce, diventa sensibile alla situazione che sta vivendo mentre da piccoli credo che la vita sia come un gioco. Da grandi invece vengono obbligati e se ne vergognano. Ma vengono obbligati per ragioni ovvie, per avere la possibilità di vivere, di comprarsi il pane.
Qualche bambino ne ha parlato con l'insegnante perché queste cose non le racconta agli altri bambini:
“lo vorrei venire a scuola, ma non posso perché devo andare a chiedere”
Ma tu perché non dici al papà che devi venire a scuola e che lo faccia lui? (14)”
“Maestra, io glielo ho detto, ma lui mi ha risposto che da solo non ce la fa e che ha bisogno anche del mio aiuto!”
    “Allora fai bene!” dico io perché tutto ciò che funziona all'interno di una famiglia non si può smantellare o annullare, io rispetto le idee degli altri, rispetto le idee di un genitore. Evidentemente finché si tratta di chiedere i soldi per mangiare non sarà questo grossissimo danno.

E un’altra maestra:

lo cerco di insegnare ai bambini nomadi che non sono solo loro ad essere poveri, che al mondo ci sono tanti bambini poveri e che se un giomo non gli porto le caramella è perché quel giomo posso essere io a non avere i soldi. Il bambino queste cose deve capirle e pensare che non è l'unico a vivere in condizioni di disagio. Se tutti facciamo qualche cosa e se il bambino cresce educato bene, comincia a riflettere sulla propria vita e pensare anche di poterla cambiare. Perché no? Certo, questo discorso non varrà per tutti i nomadi, ma chi è riuscito a pensare di poter cambiare, penso che possa farcela.

Quando il pregiudizio diventa razzismo

Le testimonianze che seguono mi sembra confermino pienamente l'atteggiamento pregiudiziale di chi insiste nel sottovalutare la diversità dei bambini nomadi, minimizzando le difficoltà e i traumi che questi, se pure all'interno di una scuola dove tutti lavorano con il massimo impegno, devono giorno per giorno affrontare confrontandosi con una cultura che è a loro estranea. Sono bambini che vivono sulla propria pelle il pregiudizio di cui sono fatti oggetto, bambini che, se pure protetti dall'istituzione scolastica, subiscono rifiuto e razzismo. Bambini diversi, oggettivamente e soggettivamente diversi.

No, i bambini zingari non vengono mai invitati a casa dei loro compagni. C'e solo una mamma che qualche volta invita a giocare Matteo, un bambino nomade compagno di classe del figlio. Una volta l'ha invitato a dormire a casa sua e lui era al settimo cielo dalla gioia, me l'ha continuato a ripetere tutta la mattina: “Lo sai che stasera vado a dormire a casa di Pietro, lo sai che stasera vado a dormire a casa di Pietro...” e così via, per tutto il giorno. E il giomo dopo non smetteva più di raccontare. Ma pare che
« Ultima modifica: 21 Agosto 2008 - 08:14:58 da aemme » Loggato
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