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Autore Topic: Vite sconvolte - Così imparai a indignarmi, come oggi per i bambini rom  (Letto 2089 volte)
aemme
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« il: 07 Luglio 2008 - 07:53:52 »

Le memorie delle vite sconvolte
 
dal nostro inviato Michele Concina
FERRARA (5 luglio) - L'incubo che ti avviluppa d’improvviso, la bestia che irrompe in casa tua. Tutti gli italiani ebrei, in quell’anno orribile, si sentirono crollare il cielo in testa. Ma nessuna famiglia fu sconvolta quanto i Ravenna, a Ferrara:  Renzo, la moglie Lucia, i quattro figli. Nessuno quanto loro dava per scontate sicurezza e posizione sociale. Perché Renzo non era solo un avvocato benestante e perfettamente integrato; era anche l’ebreo più fascista d’Italia, il più in alto nelle gerarchie del regime. Amico d’infanzia di Italo Balbo, podestà di Ferrara da dodici anni. Un intoccabile, pareva.

Eppure furono proprio le dimissioni forzate di Renzo nel marzo del ’38 a segnalare la tempesta in arrivo. «Ma per qualche mese la nostra vita continuò come sempre. I nostri genitori erano attentissimi a controllare le emozioni, a filtrare le notizie», racconta Paolo Ravenna, tredicenne a quel tempo. «Quell’estate andammo al mare come al solito, a Igea Marina. E un giorno, nei giornali, leggemmo “Gli allievi ebrei allontanati dalle scuole”; poi “Gli ebrei non fanno parte della razza italiana”. Le sensazioni? Sbalordimento, soprattutto. Parevano frasi prive di senso. Nei mesi successivi, padri di amici che perdevano il lavoro, altri trasferiti chissà dove, famiglie senza un soldo. La situazione precipitava». E non smise più. Tre dei fratelli di Renzo morirono ad Auschwitz; l’ex podestà riuscì a salvarsi per miracolo, riparando con la famiglia in Svizzera.

C’era voluta la catastrofe, per troncare davvero il legame con i suoi persecutori. Ancora l’11 giugno del 1940, all’entrata in guerra dell’Italia, Renzo Ravenna scriveva al prefetto: «Chiedo di poter servire il mio Paese dove, come e quando sarà ritenuto opportuno». Quello stesso giorno, del resto, il presidente della Comunità israelitica della città annunciava: «I correligionari di Ferrara faranno anche in questo momento il loro dovere di italiani con spontaneità, disciplina, abnegazione».

La famiglia di Tullia Zevi in Svizzera c’era già, in vacanza, nell’estate del ’38; non tornò più a Milano, dove il padre Giuseppe Calabi era un avvocato di fama, membro di una piccola fronda antifascista che si riuniva in una libreria. Tullia, che molto tempo dopo sarebbe stata l’unica donna presidente dell’Unione delle comunità israelitiche, aveva 19 anni. «L’infanzia volò via in un attimo, nella brutalità di quella partenza senza addii, senza salutare gli amici. Alla fine dell’estate eravamo a Parigi, l’anno dopo c’imbarcavamo sull’ultima nave per gli Stati Uniti. Ricordo la grande solitudine, ma anche la grande solidarietà. Le amiche di allora non mi abbandonarono: alcune le sento ancora oggi tutti i giorni. Però quando tornammo, dopo la guerra, nessuno sentì il bisogno di scusarsi».

Lia Levi, in seguito scrittrice per l’infanzia di grande successo, aveva appena finito la prima elementare alla scuola Coppino, a Torino. «Mio padre perse immediatamente il suo impiego in una società di assicurazioni. Si mise disperatamente a cercarne un altro, spostandosi a Milano, poi a Roma dove infine trovò un posticino. Sia lui che mia madre mi spiegarono le leggi con estrema prudenza, senza mai nominare Mussolini o il fascismo, per evitare che la mia lingua sciolta di bambina aggravasse i nostri guai. Io avevo nostalgia dei sabati fascisti, mi piaceva vestirmi in divisa. Ma le angosce vere arrivarono anni dopo, con i tedeschi. La persecuzione, se ci cresci dentro, ti sembra addirittura normale».

Quell’estate, Emma Castelnuovo aveva già 25 anni. «Si fa di tutto per dimenticare. Forse è un bene, forse no». Un giorno d’agosto, alla futura leggenda della didattica matematica arrivò un telegramma del ministero; aveva vinto il concorso per una cattedra nelle scuole di Roma, la sua città. Ma il giorno dopo l’aveva già perso: i giornali annunciavano la cacciata degli ebrei dalle scuole pubbliche. Una sorte tanto più beffarda quanto più inattesa. «In famiglia non ci eravamo mai sentiti ebrei, mai sentiti come tali. Quando studiavo, al Tasso, a nessuno importava che fossi ebrea o cinese. E anche dopo, al tempo delle deportazioni, fu la solidarietà dei non ebrei a salvarci. La mia famiglia si sparse nelle case degli amici. E fu un commissario di polizia ad avvertirci della retata del 16 ottobre».

Aveva allora 19 anni un’altra futura leggenda: Sergio Lepri, partigiano azionista e liberale, direttore per quasi tre decenni dell'agenzia Ansa. Nel suo liceo fiorentino aveva diviso il banco con un ragazzo di nome Artom, aveva sommerso invano di violette una Sara Di Gioacchino. «Quando seppi delle leggi razziali provai sorpresa, fastidio, ma non ancora indignazione. Perché? Forse perché in uno stato dittatoriale si è abituati ad accettare quel che viene deciso. Considero una fortuna aver capito nei mesi seguenti che quelle norme non erano solo ridicole, ma tragiche. All’università c’era una bellissima ragazza dalle lunghe trecce, una Modigliani. Sparita. C’era uno straordinario docente di filosofia morale, un Limentani. Sparito. Fu così che imparai a indignarmi. Come mi indigno oggi, a novant’anni, per le svastiche sui muri e le impronte digitali dei bambini rom».

http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=8139&sez=HOME_INITALIA&npl=N&desc_sez=
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