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Autore Topic: L’esperienza del laboratorio Progettando…..un libro  (Letto 2741 volte)
Luisa
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« il: 26 Giugno 2008 - 06:18:31 »

L’esperienza del laboratorio Progettando…..un libro

Negli ultimi dieci anni le politiche di scolarizzazione dei bambini e adolescenti Rom sostenute da associazioni di volontariato assieme alle amministrazioni comunali che le hanno promosse, hanno portato nella maggior parte dei casi a graduali e lenti miglioramenti che sono stati tradotti anche in un notevole cambiamento dell’opinione che le comunità cittadine avevano ed hanno dei Rom e viceversa. Gli attori di questo processo, i Rom, le/gli educatori, le/gli insegnanti, direttori didattici e tutte le realtà territoriali hanno preso coscienza del problema della scolarizzazione dei bambini e adolescenti Rom, chi vedendo la scolarizzazione come una semplice pulizia delle strade dall’accattonaggio, dalla devianza, dallo sfruttamento minorile, chi, ponendola al centro di una reale politica di integrazione all’interno di un sistema, quello scolastico, già in crisi anche senza la frequenza dei bambini Rom.

L’handicap maggiore nella soluzione di alcuni problemi è stato e sembra essere ancora il rifiuto, e quindi la paura di conoscere una realtà, quella delle comunità Rom, e quindi dei bambini Rom, nei confronti dei quali i giudizi espressi in materia di igiene, stile cognitivo, usi e consuetudini particolari della loro cultura, abbiano un po troppo fatto da giustificazione alle incapacità di valutazione (sia in termini tecnici che umani) da parte scuola.

L’esperienza del laboratorio Progettando…..un libro, realizzato da e con alcuni ragazzi e adulti della comunità Rom di Vicolo Savini ha messo in luce una realtà abbastanza diversificata del pianeta Rom, dove una innata coscienza autocritica, la facilità di relazioni con gagè (i non Rom) pur mantenendo la propria diversità e rispettando quella degli altri, spiazza coloro che pensano troppo facilmente ai Rom solo come gruppo deviante e chiuso in se stesso.

L’entrare all’interno di una comunità con un piccolo registratore per realizzare delle interviste non è così facile come sembra. Innanzitutto devi conquistare la fiducia delle persone con cui interloquire, e questa fiducia non la ottieni immediatamente ma attraverso gli anni, quegli anni che ti servono e non ti bastano mai per poter parlare e relazionarsi con i Rom anche quando loro non te lo chiedono. Poi c’è tutto un cerimoniale che parte con l’accettazione dell’ospitalità che loro ti offrono a partire da un caffè che si beve insieme alla spiegazione del perché ti sei presentato con quel registratore.
Il registratore è un mezzo tecnico, e per l’esperienza che io ho, tutti i mezzi tecnici che sono entrati all’interno della comunità in questi anni (registratori e telecamere) sono serviti solo ad esasperare gli aspetti folcloristici o di marginalità sociale, dando il più delle volte una visione distorta dei Rom.
Questa volta invece è diverso: spiego a chi mi sta davanti che mi racconti del lavoro che fa, che mentre parla spieghi ai ragazzi Rom che stanno insieme a me delle proprie relazioni con gli italiani, adulti e adolescenti, del rapporto con le scuole, con i maestri e le maestre, con il negoziante vicino, con il barista etc.

Si accende il registratore, e mentre chi parla racconta, i ragazzi raccontano, fanno domande, esprimono giudizi. C’è chi chiede ad un certo punto di spegnere il registratore per non memorizzare cose più intime che vuole non siano riportate, ma in tutto questo c’è sempre lealtà e sincerità.

C’è una donna anziana, insoddisfatta di quello che le maestre insegnano e danno ai loro nipoti, e raccontano di come era la scuola in Bosnia quando loro erano bambini e giovani, di quando lavoravano e abitavano nelle case.

Il libro è attraversato da passaggi emotivi dai quali emergono volontà di uscire da una situazione di degrado abitativo e, a volte, anche familiare, e consapevolezza delle reali difficoltà.
I ragazzi intervistati parlano soprattutto di calcio. Da più di un anno, due giorni a settimana, vanno a fare gli allenamenti, hanno un mister vero, fanno partite contro squadre italiane o di altre comunità della città. Fino a qualche anno fa l’unica opportunità di spazio per giocare a calcio, per questi ragazzi era il piazzale antistante il campo nomadi, davanti ad una strada su cui sfrecciavano le macchine. Ora hanno un campo di calcio e la formalizzazione di questo desiderio sembra renderli più liberi e desiderosi di affrontare altre cose, anche più importanti del calcio (vedi per esempio la frequenza scolastica).

I ragazzi intervistati parlano anche dei soggiorni estivi. Un bambino Rom che ha trascorso l’estate in un campeggio estivo in Umbria ci racconta del dispiacere e il pianto avuti dopo il saluto finale con i bambini italiani conosciuti al campeggio e con i quali si sono condivise due settimane di giochi, pranzi, cene e confronti.

Da tutte le interviste emerge il carattere distintivo di questi ragazzi, che è anche una peculiarità del popolo Rom: l’oralità. Un’oralità contraddistinta si, da un linguaggio confuso, dovuto alla poca conoscenza della lingua italiana, ma dalla volontà di mettere le parole giuste al posto giusto quando si parla di sogni che possono diventare realtà.

Qual è stata la funzione dell’educatore in questi casi? L’accogliere le domande, le esigenze dei ragazzi, relazionandosi con loro condividendone i desideri e anche le incertezze.

C’è anche un intervista realizzata da due bambini Rom ad un maestro di una scuola elementare, la stessa scuola che i due bambini avevano frequentato l’anno prima di arrivare in prima media. I ragazzi raccontano al maestro le loro difficoltà nel frequentare un ambiente, quello della scuola media, completamente differente dal clima della scuola elementare. Fanno dei paragoni, la scuola elementare fatta di giochi, scherzi, recite, tante gite, e la prima media, qualcosa di più serio ed impegnativo che non lascia spazio al divertimento, e dove i due bambini si sentono più discriminati magari perché vengono rimproverati di arrivare tardi a scuola solo perché abitano più lontano degli altri bambini.
Ci sono i ragazzi della prima media che raccontano ad altri ragazzi l’esperienza dell’esame di quinta elementare e delle aspettative del primo anno di medie. E poi quelli che hanno conseguito il diploma di terza media (con un percorso regolare) e che hanno voglia di continuare ma si trovano di fronte alla difficoltà di scelta come gli altri ragazzi italiani, oppure alla mancanza di documenti (passaporto o permesso di soggiorno).

Soprattutto i ragazzi di terza media raccontano di quanto possa essere stata fondamentale l’accoglienza fatta loro nelle scuole medie, scuole dove hanno incontrato insegnanti che hanno capito e rispettato la loro differenza, arrivando così a capire quali erano gli obiettivi individuali e le caratteristiche da valorizzare. Questi ragazzi parlano anche della situazione dei loro coetanei Rom, coetanei che si sono trovati a condividere la stessa esperienza, ma affiancati da persone che, forse non hanno capito, o fatto finta di capire, la loro specificità.

Esistono bravi e cattivi insegnanti, cosi come esistono bravi e cattivi educatori e bravi e cattivi Rom. L’ostacolo maggiore sembra sempre essere la sempre maggiore difficoltà nel creare uno spazio al centro del quale si pone una volta per tutte il bambino, uno spazio nel quale rinunciamo un po tutti alla rigidità dei nostri ruoli autoreferenziali e perdiamo tutto ciò che di tecnico abbiamo appreso del nostro lavoro. Perché è solo prendendo coscienza della nostra ibridicità che possiamo lavorare sul e con il bambino senza cadere nell’errore della delega ad altri.

La scuola media rappresenta ancora il passaggio cruciale, non solo per i Rom, ma anche per i gagè. E’ un passaggio del percorso formativo del bambino i cui si perde quel clima di affetto caratteristico della scuola elementare e si comincia ad entrare di più nel mondo dei contenuti tecnici. I Rom più degli altri accusano la difficoltà di questo passaggio, e questo lo si è visto durante i mesi in cui si è svolto il laboratorio Progettando……un libro, nel quale, mentre alcuni ragazzi esaltavano i loro anni passati nella scuola materna ed elementare, al tempo stesso parlavano sempre con meno entusiasmo del loro primo anno alla scuola media. Credo che sia in questo passaggio che vada costruito più che mai quello spazio di cui si parlava prima, uno spazio eterogeneo, nel quale non si ponga in prima fila il “tecnico” e i suoi programmi scolastici, ma i reali bisogni formativi dei bambini Rom.


Davide Zaccheo
Educatore dell’Arci Solidarietà Lazio
nel progetto di scolarizzazione dei bambini Rom

http://www.minoriarischio.it/archivio/Edeteci/convegno/L'inclusione%20sociale%20dei%20rom).doc
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