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301  Lingua e cultura ROM / Proposte ed iniziative / Archivio speciale per i cittadini rom: interrogazione alla Commissione europea il: 22 Giugno 2008 - 03:00:08
In prefettura un archivio etnico dei rom
Di Fabrizio (del 16/06/2008 @ 09:37:46, in Italia, visitato 27 volte)
http://www.redattoresociale.it/

18.09 - 12/06/2008 I dati raccolti dalle Forze dell'ordine durante le operazioni di schedatura nei campi andranno a finire in un archivio speciale. E' quanto emerso dall'incontro tra Michele Tortora, rappresentante del Prefetto, e alcune associazioni

MILANO – I dati raccolti dalle Forze dell'ordine durante le operazioni di schedatura nei campi rom andranno a finire in un archivio speciale, custodito presso la Prefettura. È quanto emerso oggi dall'incontro tra Michele Tortora, rappresentante del Prefetto, e alcune associazioni tra cui Opera nomadi, OsservAzione, Federazione Rom e Sinti insieme, Romanodrom (vedi lancio nel notiziario di ieri).
 
“È una decisione che conferma le nostre preoccupazioni -commenta Maurizio Pagani, presidente dell'Opera nomadi-. La creazione di un archivio a carattere etnico è un provvedimento di cui non possiamo conoscere il passo successivo”. Amareggiato anche Giorgio Bezzecchi, rom e vice-presidente dell'Opera Nomadi: “Sia io che mio padre Goffredo (ex deportato nel campo di Lipari durante il fascismo, ndr) siamo stati profondamente umiliati -dice-. La mia battaglia continua, anche con l'appoggio di varie associazioni tra cui l'Anpi, l'Unione delle comunità ebraiche italiane e gli ex deportati”.
 
I promotori dell'incontro hanno fatto due richieste al rappresentate del Prefetto: rivedere le modalità con cui viene fatto il censimento nei campi e coinvolgere preventivamente le associazioni che operano nei campi e i rom. La risposta è attesa entro due o tre giorni. Alla discussione hanno partecipato anche alcuni esponenti politici tra cui l'eurodeputato Vittorio Agnoletto e il consigliere regionale di Rifondazione Comunista Luciano Muhlbauer. “Lunedì presenterò un'interrogazione alla Commissione europea -ha detto Vittorio Agnoletto- per sapere se la creazione di un archivio speciale per i cittadini rom è compatibile con la Carta dei diritti dell'Unione”.
 
Al presidio che ha preceduto il confronto in Prefettura ha partecipato anche Giorgio Vallery, ex presidente di Opera Nomadi che negli anni Sessanta e Settanta ha lavorato a Palazzo Marino per la gestione della questione rom. “Il Comune si è fatto sfuggire di mano il problema -commenta-: non lo ha seguito con lo stesso impegno che aveva messo all'inizio quando aveva iniziato un percorso d'integrazione vero”. (Ilaria Sesana)
© Copyright Redattore Sociale

http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=2155
302  Lingua e cultura ROM / Rassegna stampa / Rebecca Covaciu - Iintervista TG7 il: 21 Giugno 2008 - 11:07:13
Intolleranza a Milano
Una bambina rom residente a Milano, premiata di recente dall'Unicef per i suoi disegni ad acquarello, è stata aggredita insieme a suo fratello senza alcun motivo.

interventi in voce:

http://news.centrodiascolto.it/video/id=270972/d=2008-06-20/n=COVACIU+REBECCA
303  Lingua e cultura ROM / Documenti e riferimenti normativi / In Italia emergenza umanitaria per il prossimo inverno per 70mila persone il: 21 Giugno 2008 - 10:30:45
In Italia emergenza umanitaria per il prossimo inverno per 70mila persone

Rom e sicurezza, appello del gruppo everyone, dei medici e dei sopravvissuti all’olocausto: “in italia emergenza umanitaria per il prossimo inverno per 70mila persone”

All’allarme degli attivisti fanno eco, fra gli altri, Nedo Fiano e Goffredo Bezzecchi, un ebreo e un rom sopravvissuti all’Olocausto.

In arrivo una task force internazionale di medici e infettivologi per stilare un rapporto europeo

“Per il prossimo inverno esiste in Italia un’emergenza umanitaria che riguarda oltre 70mila Rom attualmente senza tetto, sgomberati a un ritmo quotidiano da case abbandonate, rifugi sotto i ponti, parchi e discariche”. A lanciare l’allarme di un rischio genocidio è il Gruppo EveryOne, a fianco dei testimoni del’Olocausto Nedo Fiano - sopravvissuto ad Auschwitz - e Goffredo Bezzecchi, superstite del “Samudaripen”, lo sterminio nazista di un milione di Rom. Anche Amnesty International manifesta la più viva preoccupazione, nel suo Rapporto 2008 sulla situazione dei Diritti Umani nel mondo, sottolineando il clima di discriminazione, segregazione e persecuzione anti Rom che si respira in nel nostro Paese.

“Il Governo Italiano e le istituzioni comunali, provinciali e regionali devono interrompere immediatamente gli sgomberi di persone e famiglie Rom dai loro rifugi di fortuna e provvedere a garantire loro assistenza socio-sanitaria. Gli sgomberi dei micro-insediamenti, attuati con una frequenza che è divenuta quotidiana da parte forze dell’ordine, mettono in mezzo alla strada e in pericolo di vita migliaia di esseri umani innocenti, la maggior parte dei quali sono bambini”
affermano i leader del Gruppo EveryOne Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau. Il presidente dell’organizzazione Romano Drom, Giorgio Bezzecchi, sottolinea la gravità della contingenza in cui si trova il popolo Rom: “Gli sgomberi dei micro-insediamenti sono decuplicati, rispetto allo scorso anno, e non vedo come potranno sopravvivere decine di migliaia di bambini, donne e uomini Rom senza cibo né  medicine, quando arriveranno temperature al di sotto dello zero”. “Mentre i campi Rom di grandi e dimensioni sono monitorati da associazioni e comitati per i Diritti Umani,” proseguono i leader del Gruppo EveryOne, “gli sgomberi degli insediamenti composti da singole famiglie o gruppi esigui causano una diaspora di decine di migliaia di Rom di cui, in seguito alle operazioni di allontanamento e spesso di deportazione oltre i confini di comuni e regioni, si perdono le tracce”.

Nel complesso, il Gruppo EveryOne stima che vi siano attualmente più di 70 mila Rom - fra cui 40 mila bambini, molte donne incinte e persone affette da patologie cardiache e infezioni gravi - esposte a gravissimi pericoli causati dall’indigenza, dalla situazione sanitaria e dall’attività dei gruppi razzisti”. E’ di ieri la conferma del ministro degli Esteri Franco Frattini che il Governo Italiano ha chiesto all’UE i fondi comunitari per l’integrazione dei Rom messi a disposizione da Bruxelles, che ammontano a decine di milioni di euro. “A maggior ragione,” continuano i rappresentanti del Gruppo “è ora che i politici che governano questo Paese interrompano immediatamente la campagna persecutoria nei confronti del popolo Rom, che in queste ore sta vivendo momenti drammatici per la sua sopravvivenza. Si deve rilevare inoltre che alla richiesta dei fondi non ha fatto seguito alcuna dichiarazione relativa a progetti di accoglienza e integrazione, ma solo proclami di nuove operazioni di sgombero ed espulsione dei Rom che vivono in Italia. 

Ricordiamo che le espulsioni dei Rom romeni, i cui capifamiglia sono in Italia in cerca di lavoro, sono vietate dagli articoli 16 e 27 della Direttiva 2004/38/CE e che sgomberi e deportazioni ‘al confino’ sono proibite - in quanto atti di discriminazione e violazione dei diritti umani - dalla Direttiva 2000/43/CE e dalla Risoluzione del Parlamento europeo per una strategia europea riguardante i Rom. L’Unione europea ha manifestato un giudizio estremamente positivo verso progetti di integrazione come quello denominato ‘Romanesia’, elaborato dagli esperti del Gruppo EveryOne, che ha fra i propri membri personalità di chiara fama della società e della cultura Rom, a livello internazionale, da Marcel Courthiade a Saimir Mile, da Jeanne Gamonet a Jean (Pipo) Sarguera.

‘Romanesia’ si basa sulla concessione alle comunità Rom locali di terreni, che devono assere destinati all’edificazione da parte di imprese e manodopera Rom, sotto l’egida dell’Unione Europea e delle associazioni per i Diritti Umani, con assistenza sociale e sanitaria e attuazione di programmi d’integrazione lavorativa per gli adulti e scolastica per i minori”. EveryOne fa sapere inoltre che è al lavoro una task force internazionale di medici e infettivologi che presto presenterà, di concerto con gli esponenti del Gruppo, un rapporto alla Commissione e al Consiglio Europeo, dove si annuncia il rischio sempre più incombente in Italia di una morìa incalcolabile e tragica di esseri umani.

Per ulteriori informazioni:

Gruppo EveryOne               
Tel: (+ 39) 334-8429527
www.everyonegroup.com :: info@everyonegroup.com

http://www.everyonegroup.com/it/EveryOne/MainPage/Entries/2008/5/29_In_Italia_emergenza_umanitaria_per_il_prossimo_inverno_per_70mila_persone.html
304  Lingua e cultura ROM / Rassegna stampa / Milano: nuovamente aggredito Stelian Covaciu, il padre di Rebecca il: 21 Giugno 2008 - 08:08:29
Milano, Stelian Covaciu, Rom e missionario cristiano evangelico,
subisce un violentissimo pestaggio, con insulti razzisti e minacce,
da parte di due poliziotti in divisa. E' ricoverato in ospedale, in
prognosi riservata. Gruppo EveryOne: "L'odio razziale ha ormai
contagiato Istituzioni e autorità. E' necessario che le componenti
antirazziste e antifasciste italiane e dell'Unione europea si
impegnino insieme per fermare l'imbarbarimento della nostra società".

Milano, 20 giugno 2008. La città di Milano è ancora teatro di una
vile, brutale spedizione punitiva nei confronti di un cittadino
romeno di etnia Rom, effettuata questa volta da agenti di polizia in
divisa. Dopo l'aggressione avvenuta la mattina del 17 giugno nei
confronti di Rebecca Covaciu - la bambina che si è aggiudicata il
Premio Unicef 2008 per le sue doti artistiche - e dei suoi familiari,
ieri sera, 19 giugno 2008, un altro pestaggio, ancora più violento e
inquietante, ha colpito il papà di lei, Stelian Covaciu, missionario
della Chiesa Cristiana Evangelica Pentecostale. In seguito al primo,
drammatico episodio di matrice razzista il Gruppo EveryOne aveva
lanciato un allarme internazionale, coinvolgendo i media nonché
numerose personalità della cultura e della politica.
Contemporaneamente i deputati radicali - Pd depositavano
un'interrogazione urgente al Ministro degli Interni. Immediatamente
dopo la nuova aggressione, Gina Covaciu, moglie di Stelian, chiamava
ancora Roberto Malini del Gruppo EveryOne che, insieme a una
responsabile dell'associazione milanese Naga, allertava un'ambulanza
e le forze della polizia di stato, che accorrevano sul luogo
dell'agguato e conducevano l'uomo, pieno di contusioni e traumi
interni, sofferente e in stato confusionale, presso l'ospedale San
Paolo, dove veniva sottoposto ad esami e ricoverato. E' tuttora in
prognosi riservata. Dopo aver allertato il Partito Radicale, che
raccoglieva i particolari dell'avvenimento per agire a tutela delle
vittime sul piano politico, il Gruppo EveryOne contattava la questura
centrale per assicurarsi che le autorità formalizzassero la denuncia
di aggressione ed effettuassero indagini scrupolose. "Quando Gina ci
ha chiamato," riferiscono i leader del Gruppo EveryOne Roberto
Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, "era talmente agitata e
disperata che faticava ad articolare discorsi comprensibili. Vicino a
lei, Stelian si lamentava, pronunciando parole sconnesse. Quando la
donna si è calmata, ci ha raccontato i particolari dell'agguato. Gli
stessi energumeni che avevano picchiato, insultato e minacciato i
Covaciu si trovavano ancora davanti a loro. Stavolta però erano scesi
da un'auto della polizia, in divisa e armati di manganelli. Dopo la
prima aggressione, la piccola Rebecca, che è una ragazzina molto
intelligente e intuitiva, ci aveva già detto che gli aguzzini della
sua famiglia indossavano guanti simili a quelli che indossano i
poliziotti. Sospettavamo che avesse ragione, anche perché un numero
crescente di Rom ci segnala di questi tempi un comportamento violento
o intimidatorio da parte delle forze dell'ordine, ma speravamo di
sbagliarci. L'ipotesi più grave, invece, è stata confermata dai fatti
e gli agenti razzisti hanno colpito ancora". Questa volta, però, la
violenza degli uomini in divisa si è concentrata su Stelian. La loro
azione brutale si svolgeva in piazza Tirana, nei pressi della
Stazione San Cristoforo, dove la famiglia vive all'interno di un
riparo di emergenza, fatto di teli e cartone. "Gli agenti si sono
avvicinati all'uomo," proseguono i leader EveryOne, "e l'hanno
apostrofato con un tono minaccioso: 'Ci riconosci? Hai fatto un
errore a parlare con i giornalisti, un errore che non devi ripetere'.

Quindi hanno cominciato a picchiarlo con cieca violenza, sia con i
pugni che con i manganelli, riducendolo in condizioni penose. Quindi,
mentre Stelian era a terra, l'hanno insultato e minacciato: 'Non
raccontarlo a nessuno o per te saranno guai ancora maggiori'. Quando
i due picchiatori si sono allontanati, Gina, i figli e alcuni
concittadini di Stelian l'hanno soccorso. Lui si lamentava ed era in
evidente stato di shock". Intanto un'attivista sopraggiungeva sul
posto e raccoglieva numerose testimonianze da parte dei Rom che
vivono nei dintorni della stazione di San Cristoforo, che
confermavano le parole di Gina Covaciu ovvero che due poliziotti in
divisa, scesi da un'auto della polizia, erano gli autori del violento
pestaggio. "E' necessario che si ponga fine a questa persecuzione,"
concludono gli attivisti, "perché il diffondersi dell'odio razziale,
di cui sono latori politici e numerosi media, ha scatenato una
sequenza impressionante di atti di violenza nei confronti dei
cittadini Rom. Sappiamo che le forze dell'ordine sono formate per la
maggior parte da agenti che operano seguendo il codice etico europeo.

Ci appelliamo anche a loro affinché i razzisti e i violenti siano
isolati e perseguiti, mentre le famiglie Rom, che rappresentano la
parte più vulnerabile della società, siano protette. La violenza
contro i Rom e le intimidazioni nei confronti degli attivisti che si
battono per i diritti dei 'nomadi' crescono, in Italia, ogni giorno
che passa. Famiglie intere vengono braccate fin sotto i ponti, nelle
case abbandonate, nei parchi. Forze dell'ordine, sindaci e assessori-
sceriffi, squadristi e giustizieri hanno scatenato una caccia
all'uomo tanto feroce quanto irrazionale.

I Rom vengono costretti a fuggire da un luogo all'altro, privati di qualsiasi forma di
sostentamento - dall'elemosina ai servizi di strada - ridotti a
fuggiaschi disperati, affamati, malati, senza alcun diritto. Nedo
Fiano, Piero Terracina, Goffredo Bezzechi, Tamara Deuel, Mirjam
Pinkhof, tutti sopravissuti all'Olocausto, avvertono con
preoccupazione i cittadini europei affinché non cedano alle seduzioni
del razzismo e paragonano la persecuzione dei Rom agli anni della
Shoah, gli sgomberi e le spedizioni punitive ai pogrom.

Rebecca, la figlia 12enne, di Stelian, è un grande talento, che l'Unicef ha
premiato proprio nel 2008, ma che l'Italia punisce ogni giorno con il
veleno dell'emarginazione, della povertà, dell'odio e della violenza.

Un Paese che si rende colpevole di una simile ingiustizia, un paese
che accetta tanta violenza, tanta crudeltà verso un intero popolo è
un paese imbarbarito, è un Paese che ha perso la strada dei Diritti
Umani ed è vicino a una crisi dei valori tanto grave da essere
paragonata all'Italia delle leggi razziali, dei manganelli, delle
camicie nere e dei treni per Auschwitz".

Per ulteriori informazioni:

il Gruppo EveryOne e l' Associazione Nazionale Thèm Romano ONLUS, sede nazionale di
Lanciano (CH)
per il COORDINAMENTO NAZIONALE ANTIDISCRIMINAZIONE SA PHRALA - OGNI PERSONA è TUO
FRATELLO
Tel: (+ 39) 334-8429527 - (+ 39) 331-3585406
www.everyonegroup.com :: info@everyonegroup.com
www.associazionethemromano.it :: spithrom@webzone.it
305  Lingua e cultura ROM / Rassegna stampa / El Paìs - Che faranno di noi? Ci metteranno in campi di concentramento moderni! il: 18 Giugno 2008 - 11:00:51
“Finiremo in campi di concentramento” [El Paìs]

Incendiati cinque accampamenti gitani a Napoli in appena 48 ore - La comunità teme che tornino le leggi razziali del fascismo italiano

Roma - “I miei figli sono italiani, non sanno parlare altre lingue, però non hanno la possibilità di lavorare”, dice Hakia Husovic. “Gli zingari sono come le nubi. Non abbiamo diritti, non abbiamo la luce, l’acqua ce l’hanno messa due anni fa. Ci hanno già detto che ci cacceranno di qui, ci porteranno in un campo lontano dalla città. Che faranno di noi? Glielo dico io: ci metteranno in campi di concentramento moderni”.

Husovic ha sei figli e 30 parenti a suo carico. La maggior parte sono italiani. Secondo il numero ufficiale del Municipio, scritto in giallo sulla parete posteriore della sua baracca, la sua casa è la numero 23 delle 157 che ci sono nell’accampamento di Casilino. “Qui vivono 650 persone, è il più antico di Roma. Benché sia autorizzato, non soddisfa le condizioni sanitarie”, spiega Paolo Ciani, specialista sulle minoranze dell’organizzazione cattolica della Comunità di San Egidio.

Casilino è uno dei 25 accampamenti gitani che ci sono a Roma. in totale vi alloggiano circa 10.000 persone. Le ONG calcolano che in Italia vivano tra i 130.000 ed i 150.000 zingari e che la metà sono italiani, circa 50.000 sono rumeni ed il resto jugoslavi.

Molti hanno iniziato ad arrivare alla fine degli anni sessanta, quando nelle baracche di Casilino vivevano solo emigranti italiani, siciliani, calabresi e veneti. “Poco a poco, gli italiani si sono comprati casa e hanno lasciato posto a zingari jugoslavi. Montenegrini, bosniaci, kosovari… A loro se ne sono aggiunti molti altri negli anni novanta, fuggendo dalla guerra”, dice Ciani.

Molti zingari di Casilino hanno vissuto più della metà della propria vita nel Paese, però non hanno ancora ottenuto il permesso di soggiorno; altri sono italiani, però non sono ancora stati riconosciuti dallo Stato. Secondo Antonio Ricci, della Caritas , ciò dimostra l’abbandono assoluto che ha caratterizzato la politica dello Stato verso gli zingari.

“Io sono arrivato come rifugiato nel 1991, ero sottoufficiale dell’Esercito”, ricorda Naio Adzovic, montenegrino, giornalista e scrittore, residente a Casilino. “E tutto va avanti così da 15 anni, abbandonati e nelle stesse baracche. Però molti di noi non hanno più un paese in cui tornare, perché non esiste più”.

Qualcosa è cambiato (in peggio) negli ultimi tempi in questo angolo infame e lontano dalla periferia romana pieno di bambini che ieri, dopo il ritorno da scuola, giocavano a calcio tra l’immondizia ed i ratti. Negli ultimi anni, da quando nel 2001 hanno iniziato ad arrivare progressivamente zingari rumeni, si è smesso di ignorare gli zingari che vivono in Italia per trasformarli poi nel nemico pubblico numero uno.

Il Governo di Silvio Berlusconi è tornato al potere e ha già lanciato, con gran rapidità come apparato mediatico, una situazione di emergenza. “Sembra una pazzia, però è così”, spiega Ciani, “nel paese della Mafia, della Camorra e della N’drangheta, il primo nemico della sicurezza non è il crimine organizzato, bensì la gente che vuole scappare dalla povertà”.

Il panorama stava ribollendo da un paio di anni. “I media hanno sempre parlato di una invasione”, ricorda Ciani, “sebbene la verità è che sono arrivati zingari rumeni nella stessa proporzione demografica che c’è in Romania: un 10% del totale”.

Il Giornale, un giornale dell’impero Berlusconi, ha titolato il 2 di gennaio del 2007, un giorno dopo l’ingresso della Romania nell’UE: “Mezzo milione di rumeni vengono verso l’Italia”. Era una bugia. L’emigrazione rumena era massiccia ed era già in Italia da anni. Il primo di gennaio di quell‘anno, secondo la Caritas, c’erano 556.000 rumeni in Italia. Oggi, secondo i calcoli di Antonio Ricci, la cifra dev’essere quasi raddoppiata, ma “perché molti di loro stavano già lavorando illegalmente e semplicemente sono affiorati con l’ingresso del loro paese nell’EU”.

Oltre al numero, si è esacerbata anche la qualità dell’immigrazione. Qualche mese fa, i media hanno pubblicato che un tale Ajmetevic aveva investito, da ubriaco, quattro giovani italiani ammazzandoli sul colpo. “Alcuni giorni dopo si è saputo che Ajmetevic era zingaro, ma non rumeno, bensì italiano, nato a Caserta”, racconta Miruna Cayvaneanu, corrispondente dell’agenzia rumena Hotnews a Roma. “Il giudice ha obbligato i media a correggere l’informazione. Lo fecero, però in pochi giorni tutti se lo dimenticarono e tornarono a dire che era rumeno. La manipolazione è totale”.

Animati forse dall’escalation verbale dispiegata dai soci di Berlusconi, Lega Nord e Alleanza Nazionale, durante e dopo la campagna elettorale, e spaventati da questa campagna mediatica che ha ingigantito ogni delitto commesso da rumeni e zingari, alcuni cittadini hanno iniziato a fare ciò che molti temevano: fare giustizia per conto proprio.

Nelle ultime 48 ore, una massa di cittadini di Ponticelli, nella periferia orientale di Napoli, ha ridotto in cenere cinque accampamenti zingari. Ingiustamente chiamati nomadi - appena un 5% degli zingari lo sono, e questi in particolare da anni risiedevano a Ponticelli - gli zingari erano fuggiti dalle proprie case scortati dalla polizia davanti alle minacce.

Il motivo dell’assalto è stata la notizia che una ragazza rumena di 16 anni aveva tentato di sequestrare un neonato. La folla ha lanciato pietre e bombe molotov, si è armata con spranghe di ferro e ha seminato il terrore tra i bambini e gli adulti delle baracche. Uno di loro ha dichiarato ieri alla televisione: “Non sappiamo dove andare. Se andiamo a Roma o a Venezia non cambierà niente, là ci accoglieranno allo stesso modo”.

Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha detto ieri che i fatti di Ponticelli dimostrano che “non è l’allarmismo, bensì la politica del lasciar fare ciò che genera la cultura di farsi giustizia per mano propria”. Il reggente, che si dice contrario a questa giustizia, dice che se lo Stato dà al cittadino la sensazione di non difenderlo, “il cittadino si vede obbligato a difendersi da solo”. “Prima la legalità”, ha concluso, “poi la solidarietà”.

L’UE ha ricordato all’Italia di essere il paese che destina meno fondi all’integrazione: meno di quattro milioni di euro tra il 2000 ed il 2005, durante l’ultimo Governo di Berlusconi. Probabilmente, i 750.000 immigrati rumeni ed i 150.000 zingari che vivono in Italia si conformerebbero sentendosi uguali. “Non ci fanno mai andare in televisione per raccontare la nostra realtà, dicono peste e corna di noi e se uno commette un delitto ci crocifiggono tutti”, commenta Naio Adzovic. “La gente deve riconoscere la verità”, avverte Ricci, “in Italia la criminalità organizzata sta in mani italiane ed i rumeni sono subalterni che sono qui per necessità od obbligo: molti sono schiavi della mafia italiana”.

Un commissario speciale per gli zingari

Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha annunciato ieri, dopo aver parlato con il ministro degli Interni, Roberto Maroni, che la capitale avrà un commissario speciale che si occuperà degli zingari. Questa decisione è uguale a quella presa a Milano tra Maroni e la sindachessa Letizia Moratti, che concede poteri speciali al prefetto della città per decidere del destino degli zingari. Alemanno ha precisato che il commissario avrà poteri per agire in materia di “sicurezza pubblica e definizione del territorio”. Secondo il sindaco, “se ci sono persone non gradite a Roma, devono essere allontanate dalla città, e ciò vale, per esempio, anche a Milano, perché altrimenti le nostre città saranno invase da cittadini che agiscono nei limiti della legalità”. Alemanno ha dichiarato che se un nomade ha la cittadinanza italiana sarà integrato e dovrebbe essere integrato nei quartieri normali. Per coloro che non sono italiani, si dovrà decidere, dice Alemanno, tra quelli che vogliono vivere nella legalità e tra quelli vogliono solo delinquere: “Questi saranno allontanati”. “La decisione di dotare i prefetti italiani di poteri speciali sulla comunità zingara si fonda sul pregiudizio”, ha detto ieri il commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, Thomas Hammarberg, che ha criticato la “promesse xenofobe”della campagna elettorale.

http://italiadallestero.info/archives/156


"Iremos a campos de concentración"

Incendiados cinco campamentos gitanos en Nápoles en apenas 48 horas - La comunidad teme que vuelvan las leyes raciales del fascismo italiano
MIGUEL MORA - Roma - 15/05/2008


"Mis hijos son italianos, no saben hablar otra cosa, pero no tienen oportunidad de trabajar", relata Hakia Husovic. "Los gitanos somos como las nubes. No tenemos derechos, no tenemos luz, el agua nos la pusieron hace dos años. Ya nos han dicho que nos van a echar de aquí, nos llevarán a un campo lejos de la ciudad. ¿Qué harán con nosotros? Yo se lo diré: nos meterán en campos de concentración modernos".


Husovic tiene seis hijos y 30 parientes a su cargo. La mayoría son italianos. Según el número oficial del Ayuntamiento, pintado en amarillo en la pared trasera de su chabola, su casa es la número 23 de las 157 que hay en el campamento de Casilino. "Aquí viven 650 personas, es el más antiguo de Roma. Aunque está autorizado, no cumple las condiciones sanitarias", explica Paolo Ciani, especialista en minorías de la organización católica Comunidad de San Egidio.

Casilino es uno de los 25 campamentos gitanos que hay en Roma. Entre todos, alojan a 10.000 personas. Las ONG calculan que en Italia viven entre 130.000 y 150.000 gitanos y que la mitad son italianos, unos 50.000 son rumanos y el resto son yugoslavos.

Muchos empezaron a llegar a finales de los años sesenta, cuando en las chabolas Casilino sólo vivían emigrantes italianos, gente de Sicilia, Calabria y el Véneto. "Poco a poco, los italianos fueron comprándose casas y dejando sitio a los gitanos de Yugoslavia. Montenegrinos, bosnios, kosovares... A ellos se sumaron muchos otros en los años noventa, huyendo de la guerra", dice Ciani.

Muchos gitanos de Casilino llevan más de media vida en el país, pero aún no tienen permiso de residencia; otros son italianos, pero todavía no han sido reconocidos por el Estado. Según Antonio Ricci, de Cáritas Italia, eso demuestra el abandono absoluto que ha caracterizado la política del Estado hacia los gitanos.

"Yo llegué asilado en 1991, era suboficial de la Armada", recuerda Naio Adzovic, montenegrino, periodista y escritor, residente en Casilino. "Y seguimos igual que hace 15 años, abandonados y en las mismas chabolas. Pero muchos no tenemos ya un país al que volver porque no existe".

Algo más ha cambiado (a peor) en los últimos tiempos en este rincón infame y lejano de la periferia romana, plagado de niños que ayer, al volver de la escuela, jugaban al fútbol entre la basura y las ratas. En los últimos años, desde que en 2001 empezaron a llegar progresivamente los zíngaros rumanos, los gitanos que viven en Italia dejaron de ser ignorados para convertirse en el enemigo público número uno.

El Gobierno de Silvio Berlusconi ha vuelto al poder, y ha lanzado, con tanta celeridad como aparato mediático, una situación de emergencia. "Parece una locura, pero es así", explica Ciani, "en el país de la Mafia, la Camorra y la N'drangheta, el primer enemigo de la seguridad no es el crimen organizado, sino la gente que intenta escapar de la pobreza".

El panorama venía cociéndose desde hace un par de años. "Los medios siempre hablaron de una invasión", recuerda Ciani, "aunque la verdad es que llegaron gitanos rumanos en la misma proporción demográfica que hay en Rumania: un 10% del total".

Il Giornale, un periódico del imperio Berlusconi, tituló el 2 de enero de 2007, un día después del ingreso de Rumania en la UE: "Medio millón de rumanos vienen hacia aquí". Era mentira. La emigración rumana era masiva y estaba ya en Italia desde hacía años. El 1 de enero de aquel año, según Cáritas, había 556.000 rumanos en Italia. Hoy, según los cálculos de Antonio Ricci, la cifra ha debido casi duplicarse, pero "porque muchos de ellos estaban ya trabajando ilegalmente, y simplemente afloraron con el ingreso de su país en la UE".

Junto al número, se exacerbó también la calidad de la inmigración. Hace unos meses, los medios publicaron que un tal Ajmetevic había atropellado, yendo borracho, a cuatro jóvenes italianos matándolos en el acto. "Días después se supo que Ajmetevic era gitano, pero no rumano, sino italiano, nacido en Caserta", cuenta Miruna Cayvaneanu, corresponsal de la agencia rumana Hotnews en Roma. "El juez obligó a los medios a corregir la información. Se hizo, pero a los pocos días todos se olvidaron y volvieron a decir que era rumano. La manipulación es total".

Animados quizá por la escalada verbal desplegada por los socios de Berlusconi, la Liga Norte y Alianza Nacional, durante la campaña electoral y después, y asustados por esa campaña mediática que ha magnificado cada delito cometido por rumanos y gitanos, algunos ciudadanos han empezado a hacer lo que muchos temían: tomarse la justicia por su cuenta.

En las últimas 48 horas, una turba de vecinos de Ponticelli, en la periferia oriental de Nápoles, ha reducido a cenizas cinco campamentos gitanos. Los mal llamados nómadas -apenas un 5% de zíngaros lo son, y éstos llevaban años en Ponticelli- habían huido de sus casas escoltados por la policía ante las amenazas.

El detonante del asalto fue la noticia de que una muchacha rumana de 16 años había intentado secuestrar a un bebé. La multitud lanzó piedras y cócteles molótov, se armó con barras de hierro y sembró el terror entre niños y adultos de las chabolas. Uno de ellos declaró ayer en televisión: "No sabemos a dónde ir. Si vamos a Roma o a Venecia no cambiará nada, allí nos cazarán igual".

El alcalde de Roma, Gianni Alemanno, dijo ayer que lo de Ponticelli demuestra que "no es el alarmismo, sino la política del dejar hacer lo que genera la cultura de tomarse la justicia por su mano". El regidor, que se dice contrario a esa justicia, entiende que si el Estado da al ciudadano la sensación de no defenderlo, "el ciudadano se ve obligado a defenderse solo". "Primero la legalidad", concluyó, "luego la solidaridad".

La UE ha recordado a Italia que es el país que menos dinero dedica a la integración: menos de cuatro millones de euros entre 2000 y 2005, durante el último Gobierno de Berlusconi. Probablemente, los 750.000 inmigrantes rumanos y los 150.000 gitanos que viven en Italia se conformarían con sentirse iguales. "Nunca nos llevan a la televisión para contar nuestra realidad, dicen pestes de nosotros y si uno comete un delito nos crucifican a todos", comenta Naio Adzovic. "La gente debe reconocer la verdad", advierte Ricci, "en Italia la criminalidad organizada está en manos italianas, y los rumanos son subalternos que están ahí por necesidad u obligación: muchos son esclavos de las mafias italianas".

Un comisario especial para zíngaros
El alcalde de Roma, Gianni Alemanno, anunció ayer, tras hablar con el ministro del Interior, Roberto Maroni, que la capital tendrá un comisario especial que se ocupará de los gitanos. La decisión iguala la tomada en Milán entre Maroni y la alcaldesa Letizia Moratti, que otorga poderes extraordinarios al prefecto de la ciudad para decidir el destino de los zíngaros. Alemanno precisó que el comisario tendrá poderes para actuar "sobre la seguridad pública y sobre la definición del territorio". Según el alcalde, "si hay personas no gratas en Roma, deben ser alejadas de la ciudad, y esto vale, por ejemplo, también para Milán, porque si no nuestras ciudades serán invadidas por ciudadanos que actúan en los límites de la legalidad".Alemanno aclaró que si un nómada tiene ciudadanía italiana será integrado, y debería ser integrado en los barrios normales. Para los no italianos, habrá que decidir, dice Alemanno, entre los que quieren vivir en la legalidad y entre aquellos que sólo quieren delinquir: "Esos serán alejados"."La decisión de dotar a los prefectos italianos de poderes especiales sobre la comunidad gitana se funda en prejuicios", dijo ayer el comisario para los Derechos Humanos del Consejo de Europa, Thomas Hammarberg, quien criticó las "promesas xenófobas" de la campaña electoral.

http://www.elpais.com/articulo/internacional/Iremos/campos/concentracion/elpepiint/20080515elpepiint_1/Tes
306  Lingua e cultura ROM / Abitare / Toscana - Osservatorio progettuale sugli insediamenti di Rom e Sinti il: 17 Giugno 2008 - 09:35:41
Osservatorio progettuale sugli insediamenti di Rom e Sinti
Monitoraggio, progettazione e di esperienze di superamento dei “campi nomadi”

15/01/2007

Oltre che nel puntuale lavoro di Osservatorio, la Fondazione Michelucci è stata consulenze di numerose amministrazioni per la progettazione e la realizzazione di interventi innovativi rispetto ai “campi nomadi”.

Il rapporto tra popolazioni rom e sinte, da un lato, e società locali dall’altro, è da sempre un nervo scoperto della convivenza e dell’inclusione, non solo in Italia.
Negli ultimi decenni questo rapporto conflittuale si è concentrato sui processi insediativi e sull’uso dello spazio urbano da parte di queste popolazioni. Scomparse le condizioni di contesto (sociale e urbanistico) che avevano sempre consentito, pur tra mille contrasti, l’insediamento spontaneo dei gruppi rom ai margini delle nostre città, il modello del “campo nomadi” si è diffuso (anche se fra tante varianti) come strumento al tempo stesso di controllo e di ”esclusione organizzata” di popolazioni vissute come portatrici di degrado e di insicurezza.
Il “campo nomadi”, la concentrazione in un unico luogo delle presenze zingare sul territorio, si configura come l’unica forma tollerata di accoglienza territoriale degli zingari.
Ma, come in un rovesciamento di specchi, ben presto gli stessi “campi nomadi” sono divenuti essi stessi il simbolo del degrado e dell’insicurezza, oltre che della negazione di diritti considerati fondamentali per tutti gli altri cittadini.
La pesante eredità dei “campi nomadi” in molte città italiane deriva dalla scelta di una precaria forma di equilibrio nel governo urbano di questo fenomeno, tesa alla ricerca di quella soglia minima che possiamo definire di “sopportazione sociale”.
Dalla Toscana, dall’inizio degli anni Novanta, è partito un processo di decostruzione di questo circolo vizioso, che aveva reso quasi “intrattabile” da parte delle amministrazioni la questione dell’accoglienza dei gruppi rom.
L’Osservatorio promosso dalla Regione Toscana e dalla Fondazione Michelucci è stato, negli anni, il punto di riferimento per un vasto cambiamento (culturale, legislativo, operativo) che ha coinvolto non solo la Toscana. Obbiettivi come il superamento del “campi nomadi”, realtà come le nuove esperienze di residenza per le popolazioni Rom e Sinti sono il risultato dell’innovazione che lo studio e la ricerca effettuati dalla Fondazione Michelucci ha prodotto.
Un processo che, grazie alla vitalità del tessuto associativo e del volontariato, e al coraggio di alcune amministrazioni (in primo luogo quella regionale, e poi di quelle comunali che si sono prestate alla sperimentazioni) ha innovato profondamente non solo le politiche, ma anche il senso comune e la percezione del “problema”.
Aldilà delle effettive realizzazioni, ancora numericamente limitate, la presa di distanza dall’idea di “campo nomadi”, la ricerca di soluzioni diverse da questo, è ormai in territorio toscano un punto acquisito della cultura amministrativa e sociale.
Oltre che nel puntuale lavoro di Osservatorio, la Fondazione Michelucci è stata consulenze di numerose amministrazioni per la progettazione e la realizzazione di interventi innovativi rispetto ai “campi nomadi”.
NS
 

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ROM&SINTI IN TOSCANA 2007
Tra superamento dei campi e nuove baraccopoli

Allegati: rapporto rom 2007.pdf (1.52 MB)
http://www.michelucci.it/sites/michelucci2-dev.etabeta.it/files/rapporto%20rom%202007.pdf


http://www.michelucci.it/node/14

 
307  Lingua e cultura ROM / La lingua / IL DIALETTO DEI SINTI PIEMONTESI il: 17 Giugno 2008 - 09:19:48


IL DIALETTO DEI SINTI PIEMONTESI   

1. Grammatica (PDF)
2. Lessico (in costruzione)
3. Rakarássa romanés [manuale di conversazione] (PDF)


I Sinti Piemontesi - Le Sínti Piemontákeri
Testo bilingue italiano-sinto piemontese (PDF)
(ortografia romaní)

I Sinti Piemontesi - Le Sinti Piemontacheri
Testo bilingue italiano-sinto piemontese (PDF)
(ortografia semplificata)

un CALENDARIO (2004)
con disegni e materiali bilingui
a cura dei bambini Sinti della Scuola di Madonna Bianca di Trento

Tutti i materiali si possono scaricare qui:
http://www.vurdon.it/niglo.htm

PROGETTO NIGLO: LA PROPOSTA
Che cos'è?

Il "Progetto Niglo" è un'associazione culturale il cui scopo è la tutela della cultura dei Sinti italiani.


Perché "Progetto Niglo"?

Il termine "progetto" indica un’ attività associativa che non si limita a raccogliere ed a conservare informazioni ma che vuole dare vita ad iniziative per valorizzare i diversi aspetti della cultura sinta (storia, tradizioni, lingua, ecc.).
Il "niglo" (riccio) è stato scelto come simbolo dell'associazione poiché appartiene alla tradizione gastronomica dei Sinti.


Perché questa iniziativa?

•   Perché è importante valorizzare una cultura che ha radici antiche e che, a contatto con la società maggioritaria, rischia di andare perduta per sempre

•   Perché è importante che i giovani imparino a conoscere e ad amare le tradizioni della propria gente, che non dimentichino la propria lingua e trasmettano questi valori ai loro figli

•   Perché conoscere il proprio passato significa guardare con più determinazione al proprio futuro

•   Perché condividere le proprie esperienze culturali e le proprie esperienze di vita con altri aiuta a diventare più forti, a non vergognarsi di ciò che si è, a combattere il pregiudizio e l’isolamento

•   Perché è importante cogliere le opportunità offerte a sostegno di iniziative di carattere culturale e sociale da parte di istituzioni pubbliche e private (contributi  economici e logistici, collaborazioni a vario titolo, ecc.)


A chi si rivolge?

•   A tutti i Sinti che vivono in Italia o fuori dai confini nazionali (laddove essi condividono il medesimo patrimonio culturale).
Per le ragioni spiegate in precedenza l'Associazione Culturale "Progetto Niglo" è rivolta in modo particolare ai giovani.

•   A coloro che, pur non essendo Sinti, condividono le finalità dell'associazione.


Chi può far parte dell'associazione?

L’adesione è aperta a tutti in uno spirito di incontro tra le culture ed è subordinata all’accettazione da parte del Consiglio Direttivo.
In ogni caso, al fine di mantenere inalterate le prerogative su cui l'associazione si fonda, almeno due terzi dei Consiglieri devono essere sinti o di origine sinta.


Cosa si deve fare per aderire?

E' sufficiente compilare un modulo di adesione impegnandosi ad osservare lo statuto e versare una modesta quota una sola volta per sempre.
Ma, al di là di questo aspetto formale, è importante che ciascun socio aderisca con l'intenzione di partecipare in modo convinto ad attività ed a progetti il cui scopo è quello di difendere e valorizzare tutti gli aspetti della cultura dei Sinti italiani.


A chi si possono chiedere ulteriori informazioni?
A coloro ai quali è venuta l'idea di creare questa associazione:

per contatti qui:
http://www.vurdon.it/proposta.doc
http://www.vurdon.it/niglo.htm




308  Lingua e cultura ROM / Abitare / Una casa per i rom - FIrenze - realizzazione di un'area residenziale attrezzata il: 17 Giugno 2008 - 08:30:40
Una casa per i rom
La realizzazione di un'area residenziale attrezzata per famiglie Rom
31/03/1998

Il Comune di Firenze realizza nel 1998, la prima “area attrezzata per la residenza” di famiglie Rom, cercando, non senza difficoltà, di aprire un nuovo capitolo nella storia dell’accoglienza e della convivenza con i Rom.

Il progetto elaborato dalla Fondazione Michelucci che portò alla nascita dell’area residenziale attrezzata per famiglie rom, ebbe origine nell’ambito del programma di interventi stabiliti dalla allora Amministrazione comunale fiorentina (siamo nel 1994) rispetto alla grave situazione dei tre campi nomadi presenti all’interno del proprio territorio, due autorizzati, ed uno abusivo.
L'obbiettivo era quello del superamento della condizione di degrado e di alleggerimento della pressione abitativa dei campi, attraverso la sperimentazione di alcuni piccoli insediamenti di tipo abitativo distribuiti nel territorio cittadino, come per altro previsto dalla LR.73/95, riguardante le popolazioni Rom e Sinti, che consentì il finanziamento dell’intervento. Le “aree attrezzate per la residenza” di famiglie di Rom e Sinti, così come previste dalla nuova LR., cercavano di aprire un nuovo capitolo nella storia dell’accoglienza e della convivenza con i Rom
La volontà progettuale fu quella di realizzare un intervento impostato in termini appropriati da un punto di vista culturale, di rispetto delle esigenze, di utilizzo delle risorse disponibili, di rapporto col contesto sociale ed urbano che potesse sicuramente rappresentare un passo in avanti nel processo di accoglienza territoriale e inserimento abitativo dei Rom. Nella concezione di questi spazi fu tenuta in considerazione la flessibilità della famiglia Rom, la destinazione non indifferenziata ma indirizzata a nuclei familiari definiti e limitati, il basso costo economico dovuto alla realizzazione di servizi essenziali per la residenza.
Le sei piccole case, realizzate in muratura tradizionale, e assegnate a famiglie Rom nel 1998, più di quanto non dica il dato quantitativo, costituirono per Firenze (e non solo), un contributo concreto al superamento della logica del "campo nomadi”, tollerato apartheid del moderno scenario urbano. L’efficacia dell’azione di progetto (la prima di questo tipo realizzata in Italia) pur non essendo a suo tempo risolutiva della pesante eredità dei campi presenti in città, intaccò definitivamente il luogo mentale che il ghetto zingaro rappresenta, segnalando di fatto la possibilità di un cambiamento di prospettiva rispetto alla usuale abitudine di ricorrere ad un unico contenitore spaziale delle differenze.
Alcuni presupposti progettuali come la realizzazione in autocostruzione, così come condiviso fin dall’inizio con i Rom stessi, e la possibilità di poter ampliare in autonomia e a proprie spese il modulo, con l’accrescimento della famiglia, non si realizzarono. L’intervento così come l’ampliamento dei moduli seguirono le canoniche procedure di appalto a ditte private.
L’intervento, realizzato alle spalle di un grosso quartiere nella zona est di Firenze, e ai piedi delle colline che delimitano in tale direzione l’espansione urbana, realizzato grazie ad uno stanziamento regionale di 502 milioni di lire (escluse le opere di urbanizzazione) permise la realizzazione, all’interno di un’area di 4.200 mq., di un tipo edilizio basato su un modulo minimo di 46 mq., edificato all’interno di una area di pertinenza, con la possibilità di successive estensioni e eventuali accorpamenti.
Pur nella sua esiguità volumetrica, il modulo base, composto da cucina-soggiorno, una camera da letto e da un blocco servizi diversificato, vuole essere l’espressione di un modello spaziale centrato sull’identità dell’abitare, luogo “interno” di incontro della famiglia allargata, ma al contempo, spazio “esterno” di raccordo e di relazione con il resto dell’insediamento e per estensione con il tessuto urbano circostante.
A ormai circa dieci anni di distanza, l’area residenziale ed i suoi abitanti fanno parte integrante del quartiere, le case, dal punto di vista strutturale le case, non hanno risentito del passare del tempo, e l’attenzione con la quale gli abitanti curano l’area, smentisce totalmente lo stereotipo del Rom che tanto “non è abituato a vivere in casa e vive nello sporco”.
MC
 

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Allegati: progetto rom Guarlone.pdf (124.11 KB)
http://www.michelucci.it/sites/michelucci2-dev.etabeta.it/files/progetto%20rom%20Guarlone.pdf

in:
http://www.michelucci.it/node/39
309  Lingua e cultura ROM / La musica / Campagna per salvare il quartiere Rrom di Sulukule (Istanbul, Turchia) il: 17 Giugno 2008 - 06:43:57
Campagna urgente per salvare Sulukule (Turchia) e tutelare la Comunità Rrom più antica del mondo.


Gruppo EveryOne
(+ 39) 334-8429527
www.everyonegroup.com :: info@everyonegroup.com

Il Gruppo EveryOne è a fianco dell'Associazione Rrom di Sulukule, dell'Union Romani, dell'Unesco e di tutte le organizzazioni che si battono per la tutela dei diritti dei Rrom in questa Campagna internazionale contro lo sgombero di una fra le comunità Rrom più antiche del mondo e la "modernizzazione" del quartiere, che distruggerebbe un Patrimonio dell'Umanità.

Il quartiere di Sulukule fu popolato dalla comunità Rrom a partire dall'era Bizantina e divenne il primo insediamento al mondo di Rrom sedentari nel XV secolo, sotto  il sultano Mehmet il Conquistatore, protagonista della caduta di Costantinopoli. Le case, le strade, l'intero quartiere di Sulukule sono parti di uno straordinario monumento che rappresenta un'epoca e un popolo antico: un prezioso, inestimabile Patrimonio dell'Umanità. Il Comune di Istanbul ha già attuato interventi invasivi nell'area, ma attualmente ha preso la decisione di cancellare le tracce dell'insediamento, sgomberandola dai 3000 Rrom che la abitano (discendenti dei Rrom di Costantinopoli) e avviando, a partire da febbraio 2008, il "progetto di rinnovamento urbano", che prevede la demolizione degli edifici storici e l'edificazione di un quartiere moderno.

A nulla sono valse finora le proteste dell'Associazione di Sulukule per la valorizzazione della Cultura Rrom e la Solidarietà né le istanze presentate al municipio e al governo turco da numerosi accademici delle più importanti università del Paese. Il progetto in corso, se portato a termine, causerà l'assimilazione forzata dei Rrom di Sulukule da parte della cittadinanza di Istanbul e la distruzione di un quartiere storico in cui le tradizioni dei Rrom turchi si sono miracolosamente conservate per secoli e secoli. Il Gruppo EveryOne, insieme all'Associazione di Sulukule per la valorizzazione della Cultura Rrom e la Solidarietà, all'Union Romani, a La Voix des Rroms e alle organizzazioni per la tutela dei diritti dei Rrom chiede con vigore alle autorità di Istanbul e della Turchia di non perseguitare un popolo che deve invece essere tutelato, con le sue preziose tradizioni, e di non distruggere un sito storico che è Patrimonio dell'Umanità.

Salvare l'antico sito Rrom di Sulukule e impedire che i Rrom che vi abitano siano sgomberati significa salvare un pezzo di Storia del nostro mondo, impedire un grave abuso sui Rrom della Turchia e permettere che un'antica tradizione si tramandi alle generazioni future. E' necessario agire subito, inviando e-mail, cartoline e lettere di protesta, copiando il testo della pedizione e aggiungendo messaggi rivolti alle autorità turche: "No alla distruzione di Sulukkule", "No allo sgombero dei Rrom dal quartiere di Sulukkule", "Il quartiere di Sulukkule e i suoi abitanti Rrom sono patrimonio della Storia e dell'umanità" ecc.

E inviate le vostre e-mail, cartoline e lettere ai seguenti destinatari:

Abdullah Gül
President of Turkey
Postal address:
T.C. Cumhurbaskanligi
Cankaya-Ankara Turkey
e-mail: cumhurbaskanligi@tccb.gov.tr

Recep Tayyip Erdogan
Prime Minister of Turkey
Postal address: Basbakanlik
06573   Ankara
Turkey
Fax: +90 312 417 0476

Ertuğrul Günay
Minister of Culture and Tourism of Turkey
Postal address:
T.C. Kultur ve Turizm Bakanligi
Ataturk Bulvari No. 29
06050 Opera Ankara Turkey
e-mail: ertugrul.gunay@kulturturizm.gov.tr

Kadir Topbag
Major of Istanbul
Postal address:
Istanbul Buyuksehir Belediye Baskanligi Sarachane Istanbul Turkey
e-mail : baskan@ibb.gov.tr

Mustafa Demir
Major District of Fatih - Istanbul
Postal address: Büyük Karaman Cad. No. 53 Fatih Istanbul, Turkey
e-mail : mustafademir@fatih.bel.tr



EveryOne Group
Roberto Malini,  Matteo Pegoraro,  Dario Picciau, Jean (Pipo) Sarguera, Santino Spinelli, Daniela De Rentiis, Marcel Courthiade, Saimir Mile,  Ahmad Rafat,  Arsham Parsi,  Laura Todisco,  Glenys Robinson,  Steed Gamero,  Fabio Patronelli, Stelian Covaciu,  Udila Ciurar,  Alessandro Matta,  Cristos Papaioannou, Paul Albrecht.


Promoters and Consultants

Carolina Varga Dinicu • Association des Droits Democratiques a Geneve • Centre Culturel Gitan, Pavillons-sous-Bois (France) • Promoters and Consultants • La Voix des Rroms (Paris) • Gypsy Lore Society (Usa) • Group of Migrants & Refugees of Salonica • Union Gypsy • Roma Right Watch • Union Rromsni • Roma Press Center (Budapest) • Opera Nomadi • Associazione Çingeneyiz (Rroms in Turkey) • Romani Yah - Association and Newspaper of Romas from Transcarpathia • Roma Virtual Network • Tamara Deuel (Israel), Holocaust survivor – activist against the discrimination of Rroms • Mercedes Lourdes Frias, Italian Republic Depute (Rifondazione Comunista - Sinistra Europea) • Etudes Tsiganes (Paris) • Alain Reyniers, anthropologist at the University of Louvain-La-Neuve (Belgium), expert in Rroms, Sinti and Kale cultures • European Roma Information Office • Roma Diplomacy Programme • John Pearson, Secretary, Democratic Socialist Alliance, UK • Gady Castel (Israel), director, director of the Jewish Film Festival "Jewish Eyes" of Tel Aviv, author of documentaries on the Holocaust • Cristina Matricardi, founder of the first  Multiethnic kindergarten "Oasis" - Genoa • Maria Eugenia Esparragoza, cultural mediator,  member of the Ministerial Intercultural Technical Committee • Professor Matt T. Salo, researcher and publisher, expert in Gypsy culture • Emiliano Laurenzi, giornalista •  Paolo Buconi, Yiddish and Klezmer musician • Marius Benta, journalist • Seven Times (Romania) • Ted Coombs, Director of Hilo Art Museum (Holocaust and Genocide art) • Steve Davey, co-director of the Hilo Art Museum (Holocaust and Genocide Art) • Mirjam Pinkhof, survivor of the Shoah, Holocaust heroine who saved 70 Jewish children from the Nazis • Halina Birenbaum, survivor of the Shoah, writer and teacher • Oni Onhaus, Holocaust witness • Manzi Onhaus, Auschwitz survivor • Elisheva Zimet, Auschwitz survivor • Alice Offenbacher, Bergen Belsen survivor• Mirko Bezzecchi, survivor the Samudaripen • Antonia Bezzecchi, survivor the Samudaripen • Hanneli Pick-Goslar, friend of Anne Frank, Holocaust survivor • Michael Petrelis, veteran  Human Rights Advocate (Usa) • Stichting Buitenlandse Partner • Professor Saimir Mile, jurist, lecturer in Rromsni, Sinti and Kale culture at the University of Paris (INALCO), General-Secretary of the Centre of Research and Action in France Against all Forms of Racism, member of EveryOne Group • Jean (Pipo) Sarguera, President of the Centre culturel gitan – Paris • Emeritus professor Marcel Courthiade, holder of the chair of Rromsni, Sinti and Kale language and civilization at the University of Paris (INALCO) • Kibbutz Netzer Sereni, Israel • Antonia Arslan,  essayist and writer • Caffé Shakerato - Intercultura - Genova • Simona Titti, Caritas Livorno • Gazeta de Sud, Cotidian al oltenilor de pretutindeni (Romania) • Oana Olaru, journalist (Romania) • Fabio Contu, playwright and teacher, Comunità Sant'Egidio, Genova • Allie, Gypsy News, NE, Ohio, United States • Guri Gentian - Group of Migrant&Refugees of Salonica •  Associazione Yakaar Italia Senegal • Associazione Secondoprotocollo Onlus • Elisa Arduini, Cristina Monceri, Miriam Bolaffi, Roberto Delponte, Noemi Cabitza, Giorgia Kornisch, Claudia Colombo, Andrea Pompei, Chiara Maffei, Federica Battistini (Members of Secondoprotocollo) • Thèm Romano ONLUS Association

http://www.everyonegroup.com/EveryOne/MainPage/Entries/2008/1/25_Urgent_campaign_to_save_Sulukule.html

310  Lingua e cultura ROM / La musica / La comunità Rom di Sulukule - Istanbul il: 16 Giugno 2008 - 12:51:59
Gli zingari non sono benvenuti a Istanbul                                        
14/6/08


http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=7092

di Pelin Turgut - da Time Magazine.
Scelto e tradotto per Megachip da Fabrizio Bottini

All'ombra dei bastioni bizantini, una frotta di ragazzine ridenti corre avanti e indietro fra le case diroccate, fermandosi ogni tanto a muovere ritmicamente i fianchi facendo ruotare i polsi. Sono inseguite da parecchi ragazzini urlanti, che alla fine riescono a prenderle e a trascinarle in “prigione”, in un certo punto contro il muro. I bambini zingari di questo quartiere povero di Istanbul, Sulukule — che ospita la più antica comunità Rom del mondo — chiamano questo gioco Guardie e Danzatrici del Ventre, versione adattata Guardie e Ladri, a rispecchiare la propria esperienza di un mondo dove si balla e si cerca di evitare la polizia.
 
É il primo pomeriggio di un martedì, però, e i ragazzini che giocano nelle strade dovrebbe stare a scuola. Il motivo per cui non ci stanno è la paura: “I bambini sono spaventati” spiega Dilek Turan, studente di psicologia che fa volontariato a Sulukule. “Non vogliono andare a scuola perché temono, tonando a casa, di non trovarla più”. Ed è una paura fondata: le autorità cittadine prevedono di demolire le loro case nel quadro di un controverso progetto di rinnovo urbano legato all'ammodernamento di Istanbul in tempo per il 2010 quando sarà ufficialmente Capitale Europea della Cultura.

Gli antenati dei bambini Rom di Sulukule si insediarono in questa particolare zona nell'epoca bizantina, vicino al Corno d'Oro e a ridosso delle mura del V secolo dell'antica Constantinopoli. Le prime notizie ufficiali della comunità, che risalgono al 1050, riferiscono di un gruppo di persone, che si ritiene venuto dall'India (luogo che in effetti molti storici ritengono originario dei Rom) accampate in tende nere fuori dalle mura cittadine. Dopo la conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani, alla comunità è garantito dal Sultano Mehmet II il permesso ufficiale di costruirsi le proprie case in quello che ora è Sulukule.

Per secoli la comunità Rom si guadagna in qualche modo da vivere, musicisti di strada, lettura della mano, danzatori per la corte ottomana, e poi coi turchi di tutte le classi sociali: una tradizione ripresa sullo schermo ad esempio anche nel film di James Bond Dalla Russia con amore. Le fortune declinano negli anni '90 quando le “case del divertimento” – abitazioni private dove le famiglie zingare cucinano, fanno musica e danze per i ricchi abitanti di Istanbul — vengono chiuse dopo accuse di gioco d'azzardo e prostituzione.

I Rom di Istanbul sono molto poveri, con un reddito medio di circa 250 dollari al mese, ma la terra che occupano, un tempo periferia priva di importanza, ora è di grande valore immobiliare, a pochi minuti dal centro città. Se costruttori e amministrazione municipale riusciranno nel loro intento, l'intero quartiere di Sulukule — coi suoi 3.500 abitanti — sarà demolito entro la fine dell'anno per far posto a una gated community di 620 case di lusso in stile ottomano.
“Ogni giorno ci chiediamo per quale casa arriveranno le ruspe” racconta Nese Ozan, che fa volontariato alla Sulukule Platform, gruppo di architetti, attivisti e operatori sociali impegnato contro la the demolizione. Una ogni tre-quattro basse case cadenti è stata ridotta a un cumulo di macerie e ferri contorti. Una X rossa contrassegna i prossimi obiettivi delle squadre di demolizione.

Mustafa Demir, sindaco del municipio di Fatih a capo di una maggioranza conservatrice, che gestisce il piano di demolizione, sostiene che si tratta di un assai necessario progetto di rinnovo “per sostituire dei tuguri”.

Il Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan ha definito Sulukule “orrendo”, ed espresso sconcerto per le proteste anti-demolizione. É evidente il fatto che il quartiere abbia assoluto bisogno di essere risanato, ma i critici accusano l'amministrazione di non aver coinvolto in alcun modo nel piano di trasformazione quella che è una delle più antiche comunità presenti in città. Invece, ai Rom sono state offerte due alternative: possono o cedere gli immobili a un prezzo molti inferiore a quello di mercato (con la minaccia comunque dell'esproprio), oppure trasferirsi nelle case di proprietà pubblica a Tasoluk, a quaranta chilometri dalla città, per le quali devono pagare un mutuo di quindici anni che in pochi possono permettersi.

“La municipalità non capisce che se vuole rinnovare l'area deve farlo in modi che consentano alla comunità di continuare a vivere qui” spiega Ozan. “Non possono semplicemente mandare tutti via, demolire e costruire un quartiere suburbano. Si tratta di una comunità storica”.

Il ricercatore britannico di etnia Rom Adrian Marsh individua un progetto ancora più oscuro. “Quello che vediamo qui, è il caso di una municipalità fra le più religiose del paese, che si confronta con quello che considera un gruppo sociale storicamente non religioso. Se intervenissero con la comunità in un piano di rigenerazione inclusivo, guadagnerebbero 3.000 voti, ma non lo fanno. Perché? Perché considerano la comunità di Sulukule non recuperabile”. Le soluzioni di lungo termine, come il consentire ai Rom di organizzare locali da musica regolari che producano reddito, non piacciono all'amministrazione locale dominata dagli islamici, che non vuole favorire alcun tipo di intrattenimento , conclude Marsh.

Una cosa è sicura: disperdere la comunità Rom di Sulukule distruggerà la sua cultura, premessa di vita comune. Le famiglie allargate condividono le abitazioni e formano gruppi musicali, utilizzando le strade come sale prova. “ Sulukule propone un modello di vita unico ” ha concluso un gruppo di ricerca sulla progettazione urbana dello University College di Londra. “Cosa che va considerata e tutelata in qualunque piano di trasformazione dell'area”.
Il gruppo Sulukule Platform sta tentando di ottenere da un tribunale una sentenza contro le demolizioni, e il parlamento ha nominato una commissione di indagine. Ma le ruspe non stanno ad aspettare i risultati. Il gioco della vita a Guardie e Danzatrici del Ventre non si mette bene per chi danza.

Nota: il testo originale anche sul mio sito Mall_int sezione Society (f.b.)
http://eddyburg.it/index.php/article/articleview/11447/0/239/
311  Lingua e cultura ROM / Porrajmos / Dal pregiudizio allo sterminio - Sitografia il: 15 Giugno 2008 - 08:44:29
O Porrajmos
Dal pregiudizio allo sterminio l'olocausto dei Rom
Percorso a cura del Centro Risorse Didaweb
Raccolta di link e materiali

http://www.didaweb.net/risorse/singolo.php?id=197
312  Lingua e cultura ROM / Materiali Trasversali / Gli zingari molestati dal vocabolario il: 15 Giugno 2008 - 06:55:25
Gli zingari molestati dal vocabolario

NE SIAMO consapevoli: le estremizzazioni del politicamente corretto portano a risultati a volte grotteschi. E poi in tempi come questi non ci si può permettere di andare tanto per il sottile. Bisogna badare alla sostanza, come insegnano i cittadini che incendiano i campi rom. Altro che chiacchiere. Per Riccardo Noury, il direttore dell'ufficio comunicazione di Amnesty International Italia, questi concetti appartengono alla routine quotidiana. Il tono del suo messaggio, infatti, è cauto. Un suggerimento sottovoce: "Provate a digitare la parola "insediamento" nel "Grande dizionario di inglese" del vostro sito Internet".

Fatto. Ci sono due diversi significati di "insediamento". Il primo è quello del linguaggio istituzionale e il termine inglese corrispondente è "installation". Esempio: "L'insediamento del nuovo presidente" - "The installation of the new president". Il secondo appartiene al linguaggio comune e indica la presa di possesso di una zona o di un territorio da parte di gruppi umani organizzati. L'esempio è: "The gipsy settlement was contested by the local inhabitants" - "L'insediamento degli zingari è stato contestato dagli abitanti della zona".

E' questa frase ad aver colpito l'attenzione del responsabile comunicazione di Amnesty: "Con tutti gli esempi a disposizione - scrive nel suo messaggio - guarda un po' quale è stato scelto. Sarà un segno dei tempi?"

In effetti - se proprio si voleva parlare di un insediamento di zingari e non di pellegrini, di campeggiatori o di profughi - "the gipsy settlement" lo si poteva anche immaginare "realizzato nello spazio messo a disposizione dalle autorità comunali", o si poteva dire che era stato "visitato dagli assistenti sociali". D'altra parte, se si va a cercare lo stesso termine in un dizionario della lingua italiana come lo Zingarelli, si trova un esempio completamente diverso: "Studiare gli insediamenti dell'uomo primitivo". Insomma, non c'è alcuna necessità di tirare in ballo gli zingari. Invece, nel dizionario online (più recente e più aggiornato di tutti gli altri) non solo si parla di "gipsy" ma si afferma che la loro presenza suscita fastidio tra i "local inhabitants". E' davvero un segno dei tempi?

Verifichiamo andando sul link che presenta il "Grande dizionario" e ne descrive la completezza e l'ampiezza. Apprendiamo che le voci sono ben 176.000 e i vocaboli, tra composti e derivati, sono addirittura 500.000. Veniamo a sapere che vi sono anche voci di lessici specialistici (economico-commerciale, tecnico-scientifico e medico) e "termini e locuzioni della lingua colloquiale". A questa categoria - la "lingua colloquiale" - appartiene la frase sul campo degli zingari. Una scelta neutra, dunque. Il curatore del vocabolario, quando ha dovuto spiegare cosa è un "insediamento" nel senso di "settlement", ha scelto come esempio una delle locuzioni usate con maggiore frequenza nei nostri discorsi. Esattamente come, per chiarire l'uso del termine "ristorante", ha indicato la locuzione "to go to a restaurant", per il termine "casa" ha scelto frasi come "to look for a house" (cercare casa) o "to rent a house" (prendere in affitto una casa). In definitiva, l'ostilità degli abitanti del quartiere è ufficialmente, anche per il vocabolario, l'attributo colloquiale all'espressione "campo nomadi".

Sì, un segno dei tempi. Di tempi cupi. Il dubbio ha trovato conferma poco dopo. Conclusa la ricerca suggerita dal dirigente di Amnesty, abbiamo aperto la posta della rubrica. C'era questo messaggio, inviato da Padova: "Quando farete un discorso serio sugli zingari parlando con chi ci sta in mezzo? I miei amici carabinieri non ne possono più. Quando li arrestano, prima si sentono minacciati e, dopo 24 ore, li vedono liberi. Un carabiniere mi ha detto: "Se te ne trovi uno in casa non chiamarci neanche. Arrangiati. Fallo fuori e buttalo in un canale. Non faremo troppe indagini". Altro che politically correct, chiacchiere e dizionari.
(glialtrinoi@repubblica.it)

(15 giugno 2008)
http://www.repubblica.it/2005/b/rubriche/glialtrinoi/zingari-vocabolario/zingari-vocabolario.html
313  Lingua e cultura ROM / La musica / In Italia: cultura e musica il: 15 Giugno 2008 - 02:46:04
In Italia: cultura e musica
di Nico Staiti

Con la parola “zingari”i si sogliono definire i lontani discendenti di popolazioni provenienti dal nord dell’India, che intorno al Mille sono state spinte ad emigrare da quelle zone da problemi politici ed economici, e che in seguito si sono distribuite in diverse zone dell’Asia, dell’Europa, del nord-Africa e, successivamente, dell’America settentrionale e meridionale e dell’Oceania. Il romani - la lingua parlata dalla maggior parte dei gruppi zingari in innumerevoli varianti dialettali - è una lingua indiana, modificata da innesti di varia provenienza, nei quali si rinvengono le tracce dei percorsi seguiti da ciascuno di essi. Agli ambulanti indiani si sono variamente mescolati, fin dall’inizio del loro esodo e poi ancora in varie zone e in varie epoche, marginali e ambulanti di diversa origine e provenienza; tratti zingari e tratti allogeni si sono trasmessi tra gli uni e gli altri rendendo a volte indistinguibili i due insiemi. Elementi lessicali del romani sono entrati a far parte di vari gerghi locali, e parole di gergo di marginali e artigiani non zingari sono penetrati nel romani.

Il nomadismo, o anche il semplice ambulantato dei diversi gruppi in genere e normalmente (in periodi non critici, che costringono a spostamenti di ampio rilievo e di lungo periodo) si svolge ciclicamente su aree alquanto ristrette, all’interno di un territorio mappato per mercati, luoghi di ricovero, servizi di vario genere.

Dunque gruppi genericamente definibili come zingari in varie parti del mondo si sono mossi, si muovono, si sono fermati e si fermanoi in aree circoscritte, ove specializzano la propria cultura e le proprie attività in relazione all’ambiente circostante.

Ciascun gruppo ha elaborato orizzonti culturali, sistemi mitici e religiosi, abitudini di vita modellati in buona misura su quelli delle popolazioni presenti nell’area sulla quale insistono, sia pur salvaguardando delle specificità che consentono loro di non essere assorbiti da queste.

Gli zingari in Italia: rom, caminanti, sinti

In Italia attualmente sono presenti numerosi gruppi zingari, arrivati in epoche diverse, e seguendo percorsi differenti. La prima notizia certa della presenza di zingari in Italia risale al 1422: si tratta di un gruppo di un centinaio di persone, che sosta a Bologna e dice di essere diretto a Roma. Da allora in avanti è documentata la presenza in Italia di diverse comunità.
Quello di più antica presenza è il grande gruppo dei Rom dell’Italia centro-meridionale, arrivati verosimilmente da aree balcaniche via mare e insediatisi in Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria fin dal XV sec. Il loro romani, fortemente influenzato dai dialetti regionali, oggi è quasi del tutto abbandonato in favore di questi: la lingua zingara sopravvive pressoché esclusivamente nella memoria degli anziani e nell’uso di alcune frasi con funzione di gergo.
Esercitavano le attività di fabbri e mercanti di equini. Fino agli anni successivi la seconda guerra mondiale durante la bella stagione giravano per i mercati con carrozzoni trainati da cavalli; svernavano vicino a qualche borgo, in stalle o fienili presi in affitto.

Adesso si sono tutti “fermati” in baraccopoli adiacenti le città o in quartieri di periferia; hanno macellerie equine, fanno gli sfasciacarrozze, i rottamai, lavorano il ferro e vendono i prodotti della loro attività (treppiedi, pale, zappe, pale da forno, ferri da calza, ferri per fare la pasta, scacciapensieri, azzarini) nei mercati rionali e di villaggio, chiedono l’elemosina.
Alcuni di essi praticano l’attività di usurai; in qualche caso sono legati al mondo della malavita non zingara, di cui conoscono il gergo e le norme di comportamento. Parecchie famiglie continuano a praticare un nomadismo stagionale: durante l’estate si spostano nelle grandi città del Nord, ove le donne chiedono l’elemosina e predicono la ventura e gli uomini vanno in giro con dei finti organetti di Barberia (carrettini tirati a mano e variamente decorati, all’interno dei quali è occultato un magnetofono a cassette).

Sono di religione cattolica; la loro partecipazione ad alcune feste religiose le influenza in maniera determinante: è il caso, ad esempio, della festa di S. Rocco a Torrepaduli, in provincia di Lecce, cui intervengono i Rom del Salento, e della festa dei SS. Cosma e Damiano a Riace (CZ), che vede la partecipazione dei Rom calabresi. In entrambi i casi la presenza degli zingari, simultanea a quella dei contadini, è sensibilmente diversa da questa: i contadini trascorrono la notte accampati in chiesa, seguono la processione cantando, suonano e danzano la tarantella solo in spazi e in momenti a margine della festa vera e propria; gli zingari si accampano in automobili, camion o furgoni, nei pressi del santuario.

A Riace precedono la processione danzando; a Torrepaduli, dopo la processione, si impadroniscono del sagrato dando vita per tutta la notte a delle “ronde” di “pizzica”.
Qui agli zingari (e, in misura minore, ad altri marginali e a gente di malavita) spetta prevalentemente il ruolo di danzatori, ai contadini quello di suonatori di tamburello e di armonica a bocca. La tarantella ballata a Torrepaduli in occasione della festa di S. Rocco è detta la “scherma”: due uomini si affrontano danzando, indice e medio della mano destra tesi a simulare la presenza di un coltello, e duellano fino a che uno dei due contendenti viene toccato per la terza volta dalle dita dell’avversario. Alcuni Rom salentini sostengono che la “scherma” viene “dalle Calabrie”. E in provincia di Reggio Calabria viene danzata una tarantella di questo genere, detta, anche lì, “scherma”, o “tarantella maffiusa”.

In Calabria non è tipica degli zingari, ma è danza di contadini e, soprattutto, di pastori e di gente di malavita. Come in Salento, i danzatori mettono in scena, con la “scherma”, la propria appartenenza ad un ambiente maschile in cui è elemento fondante la capacità di confronto virile di ogni individuo con altri individui appartenenti allo stesso gruppo.

Dei Rom del Salento che sono oggi gli interpreti principali della “scherma” locale è documentata la provenienza dalla Calabria, nel secolo scorso; è del tutto verosimile che siano stati loro ad importarla dalla provincia di Reggio in quella di Lecce. Gli zingari insomma hanno svolto ruolo di mediatori di tradizioni tra due diverse regioni dell’Italia meridionale, e interpretano, a Torrepaduli come a Riace, un ruolo diverso da quello degli altri partecipanti alla festa e ad esso complementare.

Si assiste insomma alla divisione di ruoli e di comportamenti tra zingari, contadini e pastori, che insieme e separatamente concorrono a formare un orizzonte culturale costituito da più componenti di diversa natura. I Caminanti siciliani, venditori ambulanti che, con bancarelle di semi di zucca, ceci abbrustoliti, torroni, palloncini girano per le feste patronali in Sicilia e risiedono per lo più a Noto in provincia di Siracusa, sono forse una casta di ambulanti e marginali autoctoni, nel cui linguaggio sono penetrati elementi gergali mutuati dal romani e che si sono variamente ibridati con gruppi zingari allogeni.

Un segmento recente della loro storia illustra bene i modelli di relazione e le forme di ibridazione tra gruppi diversi, anche di diversa origine: recentemente un matrimonio tra una ragazza appartenente al gruppo dei Caminanti e un Rom croato, di una famiglia residente da tempo a Milano, ha rafforzato i rapporti tra le due comunità, che dapprima si limitavano a condividere saltuariamente la città di Milano come luogo di migrazione stagionale. Questi rapporti in seguito sono stati consolidati da altri matrimoni, che hanno allargato il numero delle famiglie coinvolte in questi nuovi legami di parentela. La malattia e la lunga degenza ospedaliera di un Rom croato l’inverno scorso ha mosso parecchie famiglie di Caminanti dalla Sicilia, e ha determinato il sorgere di un grosso accampamento provvisorio nei pressi dell’ospedale, in cui convivono croati e siciliani.

I Rom croati residenti a Milano e i Caminanti ad essi imparentati, sebbene mantengano delle identità differenziate, hanno acquisito degli elementi culturali in comune: quelli perlomeno che derivano dalla sinergia delle due tradizioni applicata alla nuova esperienza condivisa. Il nuovo accampamento ospita ora quelli che si potrebbero definire, per certo verso, degli “zingari di Milano”, con una propria identità, diversa da quella dei gruppi d’origine.
I Sinti, che popolano l’Italia settentrionale (detti Sinti piemontesi, veneti o emiliani a seconda della regione in cui hanno soggiornato di più e di cui hanno fatto proprio il dialetto), sono verosimilmente arrivati in Italia a più riprese e in varie epoche dalla Francia e dai paesi di lingua tedesca, ove sono ancora massicciamente presenti. Parlano, oltre ai dialetti regionali, il sinto, che è uno dei dialetti romani. Le loro attività tradizionali sono la vendita e l’elemosina porta a porta, la fabbricazione e la vendita di piccoli oggetti d’artigianato (ad esempio fiori di carta e, recentemente, bottiglie di bibite rimodellate a caldo in forme allungate e contorte), i mestieri legati ai luna-park (giostre, tiro a segno, autoscontro ecc.) e ai circhi.

I loro costumi non differiscono in maniera sostanziale da quelli dell’altra gente che appartiene al mondo della piazza, dello spettacolo popolare, della marginalità urbana in Italia settentrionale. Molti di essi, in Italia come in Francia, in Austria, in Germania, sono di culto evangelico avventista; i Sinti veneti ed emiliani venerano S. Antonio, per la cui festa si recano in massa a Padova. Alcuni di essi - quelli che hanno mantenuto le attività di giostrai o circensi - sono nomadi; gli altri si sono “fermati” da 15/20 anni, col diminuire dei proventi delle occupazioni girovaghe e con la maggiore difficoltà di reperire aree autorizzate e attrezzate per la sosta temporanea.

Vivono per lo più in campi nomadi alle periferie delle città del Nord, in roulotte o in container. Sebbene spesso vi abitino da molti anni, hanno mantenuto in certa misura una forma di vita segnata dal viaggio, dall’abitudine allo spostamento: un campo di Sinti in genere si distingue da altri campi di zingari perché non vi sono state edificate baracche o altre strutture più o meno stabili. Vi si vedono di solito soltanto le roulotte e, accanto ad esse, l’automobile e pochi oggetti (uno stendibiancheria piegevole, qualche giocattolo dei bambini): come se, raccolte queste poche cose, si dovesse esser pronti a partire anche immediatamente.

Sono, o sono stati, professionisti dello spettacolo popolare: per l’attività circense, ma anche perché alcune famiglie localizzate in Alto Adige affiancano alle altre attività consuete dei Sinti quella di musicisti professionisti: con chitarra e violino eseguono repertori di varia origine e provenienza; la loro presenza marca l’estrema periferia, si potrebbe dire, della diffusione della tradizione musicale “tzigana” che ha il suo epicentro in Ungheria.

A questi gruppi di antica permanenza in Italia recentemente - nel corso del nostro secolo - se ne sono aggiunti degli altri: Rom provenienti dalla Slovenia, dalla Romania, dall’Ungheria, dalla Croazia, dalla Macedonia, dalla Bosnia, dal Kosovo, dal Montenegro, che si sono variamente distribuiti su tutto il territorio italiano, come in altri paesi dell’Europa occidentale.

L’immigrazione più recente - e forse numericamente più rilevante - è quella determinata dagli sconvolgimenti politici e dalla guerra nell’ex-Iugoslavia, che hanno condotto numerosi gruppi di zingari bosniaci e, soprattutto, kosovari a lasciare queste aree, in cui erano insediati da molto tempo. Al pari di quanto è avvenuto in Italia coi Sinti, i Caminanti, i Rom di antico insediamento, i Rom balcanici avevano fatto propri gli orizzonti culturali delle aree su cui hanno insistito per secoli, contribuendo in modo determinante alla loro definizione.

Come gli zingari italiani, gli zingari dell’ex-Iugoslavia sono divisi in una quantità di gruppi diversi per sistemi religiosi, dialetti, tradizioni, costumi, aree elettive di presenza. Le denominazioni relative alla religione di appartenenza - che nell’ex-Iugoslavia distinguono i due insiemi dei cristiano-ortodossi e dei musulmani - denunciano in maniera particolarmente evidente la contiguità di due distinti insiemi di zingari a una cultura diversa dalla propria ma - ad un tempo - il loro distinguersi dalle altre popolazioni che vivono nella medesima zona e afferiscono al medesimo orizzonte culturale. “Dassikhané” (che è il nome dei cristiano-ortodossi) significa infatti, nel romani dei musulmani del Kosovo e del Montenegro, “al modo dei Serbi”, mentre “Khorakhané” (che è il nome dei musulmani) “al modo del Corano”, cioè dell’Islam. I costumi e i riferimenti culturali dei Dassikhané sono, pur con una loro specificità, riferibili a quelli delle popolazioni serbe; quelli dei musulmani sono fortemente segnati dall’influenza islamica e in specie dalla cultura turca).

Svolgono, gli uni e gli altri, attività musicale professionale: nei Balcani le orchestre che offrono i loro servigi per occasioni di festa pubbliche e private sono per lo più formate da zingari.


Una tradizione continuamente rinnovata

Gli zingari tutti insomma sono, all’interno di comunità più vaste, delle quali hanno acquisito gli orizzonti culturali, un gruppo con una forte identità sociale, che si distingue dal resto delle comunità per l’uso della lingua (che affianca ma non sostituisce del tutto quella locale) e, in parte, per le attività professionali e per quello che potremmo definire le modalità di interpretazione delle tradizioni locali o, forse meglio, per il particolare ruolo da essi assolto nella società variegata e stratificata di cui sono parte. Sono di regola (o sono stati fino a tempi recenti), dappertutto, allevatori e mercanti di equini, fabbri (poi ferrivecchi e sfasciacarrozze), mendicanti, musicisti, danzatori, giocolieri, ammaestratori di cavalli, giostrai, gente di circo.
Definiscono se stessi, in prima istanza, per differenziazione da altri gruppi sociali: sono, forse soprattutto, non contadini: dunque non legati alla terra, al padrone, al ciclo delle stagioni, alla sedentarietà. Il ruolo giocato nella definizione dell’identità dalla diversa matrice etnica è senza dubbio storicamente rilevante ai fini della determinazione della collocazione attuale degli zingari all’interno della società più ampia in cui vivono e agiscono, e con cui variamente interagiscono; questa non sembra tuttavia al presente che una delle componenti, e non tra le più evidenti, della loro identità, quale viene percepita da loro stessi e da chi li circonda.

I Rom slavi, sebbene in larga parte non nomadi, hanno tradizionalmente esercitato, come altri gruppi zingari, attività non legate alla terra, a volte a carattere ambulante: il che spiega peraltro perché l’esodo verso Occidente di popolazioni serbe, bosniache, albanesi a seguito della guerra nell’ex-Iugoslavia abbia a grande maggioranza interessato gente Rom, con un’intensità tale da ricordare quel che dovette avvenire quando la guerra e la fame, intorno al Mille, spinsero i gruppi “zingari” del nord dell’India, anche allora, a disperdersi verso Occidente.
Questi non-contadini, e in parte, forse in passato più che oggi, ambulanti, mercanti di cavalli, commercianti, calderai, e musicisti, saltimbanchi si sono specializzati come interpreti professionali o semi-professionali delle tradizioni locali. Tradizioni locali, ovviamente, dei paesi in cui hanno soggiornato più a lungo: i Rom bosniaci e kosovari, occorre sottolinearlo, in Italia oggi sono, nella loro percezione del mondo che li circonda come nella percezione che questo mondo ha di loro, doppiamente stranieri: perché slavi e perché zingari. Il processo di appropriazione di elementi di cultura locale e di ibridazione dei propri costumi con quelli del nuovo paese di residenza è appena iniziato; di questo si proverà, nelle pagine che seguono, a dar conto.
I Rom più che un’etnia, suddivisibile in sub-etnie, sono - sia pure in parte in ragione di una differenza etnica - una casta di artigiani e di marginali, e di interpreti specializzati delle tradizioni - siano esse turche, albanesi, serbe, macedoni o altro ancora - e di diffusori di cultura: il che, peraltro, può evocare una continuità tra quelle famiglie di fabbri e saltimbanchi di casta bassa fuggite dall’India nel medioevo e gli attuali gruppi di zingari europei e medio-orientali.

I Rom, peraltro, hanno contribuito in maniera rilevante alla formazione dell’attuale patrimonio culturale delle regioni in cui vivono, o quantomeno della sua componente di derivazione islamica, in specie per quanto riguarda la musica: per la loro provenienza da Oriente e per aver esercitato l’attività musicale professionale in tutte le zone soggette alla dominazione turca.
Questi interpreti specializzati di tradizioni - e soprattutto di tradizioni musicali – sono stati responsabili, in misura rilevante, dell’importazione in Europa occidentale di strumenti e forme musicali di provenienza islamica che hanno contribuito in modo determinante alla formazione dei linguaggi musicali dell’Europa occidentale moderna.

È evidente indizio dell’attuale vitalità del ruolo culturale dei Rom il continuo rinnovarsi degli strumenti della loro tradizione, e la pronta diffusione che hanno, in seno alla comunità, certi prodotti della più moderna tecnologia: telefoni cellulari, videoregistratori, antenne satellitari sono i nuovi strumenti di un’antica oralità; del pari, saxofono, batteria, tastiere elettroniche hanno sostituito pressocché totalmente le surle e i daouli, gli oboi e i tamburi bipelli della cui diffusione nei Balcani pure i Rom erano stati artefici.

Più volte, quando mi è capitato di vedere, presso qualche famiglia residente in Italia, la videoregistrazione di una festa fatta a casa di qualche parente rimasto in Iugoslavia, in cui le danze fossero accompagnate, appunto, da surle e daouli, mi è stato detto con sprezzante ironia che si trattava di una festa di contadini, seppure sapessimo bene, loro e io, che si trattava invece di Rom, e loro parenti: ché è roba vecchia, da gente restia al cambiamento e ignorante delle cose del mondo quali sono, appunto, i contadini.

Gli strumenti musicali di recente introduzione, poi, rispetto alla fisarmonica entrata in voga presumibilmente, come in tutto il mondo popolare, all’inizio del Novecento, rappresentano una restaurazione della tradizione, e una coerente evoluzione dei suoi linguaggi, non uno stravolgimento di essa: la possibilità di costruire sulle tastiere elettroniche scale diverse dai modi maggiore e minore (e spesso i musicisti Khorakhané che vivono in Italia vanno in Tunisia a comprare strumenti, già impostati sul sistema dei maqam, costruiti dalle grandi industrie giapponesi per il mercato arabo) consente di suonare sui modi tradizionali; il glissato che si può ottenere col variatore manuale delle altezze permette di imitare le oscillazioni d’intonazione regolate sulla surla dalle labbra del suonatore, peraltro su un’estensione assai più ampia di quella consentita dal vecchio strumento (del quale il nuovo conserva talvolta il nome: mi è capitato più volte di sentir definire surla un sintetizzatore Casio o Yamaha), esasperandone anzi le peculiarità di linguaggio. Le membrane tesissime di due piccoli timpani della batteria imitano alla perfezione il suono del darabouk, il tamburo a clessidra che ancor oggi, in alcuni casi, viene utilizzato come sostituto portatile della batteria.

Il comodo manuale della tastiera, le bacchette e le elastiche e robuste membrane sintetiche della batteria, il sistema di chiavi del saxofono, i mixer, i microfoni, gli amplificatori consentono una velocità di fraseggio e una nitidezza di esecuzione, un volume e un equilibrio tra le diverse voci dell’orchestra prima irraggiungibili, che arricchiscono e rinnovano il linguaggio di tradizione in maniera anche assai evidente.

Del linguaggio di tradizione però si mantengono i caratteri fondamentali (modi, strutture ritmiche, fraseggio, formularità del repertorio, materiali melodici, relazione tra strutture fisse e improvvisazione); si mantiene, soprattutto, la tradizionale disponibilità all’innovazione, all’ibridazione di forme e materiali che è sempre stata caratteristica distintiva dei Rom, soprattutto in un mondo sostanzialmente agro-pastorale, tendenzialmente conservativo.
I Rom, oggi, continuano ad assolvere il ruolo di mediatori e diffusori di cultura in ragione del quale, secoli addietro, avevano importato da sud e da oriente surle, daouli, darabouk, tamburelli, liuti a manico lungo nei Balcani, o avevano contribuito alla diffusione tra i contadini dell’Europa orientale dell’uso del violino. Oggi l’uso di questi strumenti, pur ricordato e ancora praticato, è “da contadini”: le tastiere prendono il posto degli oboi, proprio perché i Rom continuano ad essere uguali a se stessi e fedeli al proprio ruolo.

In questo dunque, cioè nelle modalità di interpretazione e nel ruolo di divulgatori e conservatori delle tradizioni va individuata la specificità dei Rom, assai più che nell’esistenza di tradizioni appartenenti in maniera esclusiva ad essi: e l’unica, rilevante eccezione della lingua sembra ribadire, più che negare, questo particolare ruolo di casta di marginali e, al tempo stesso, di portatori di cultura all’interno di una società più vasta.


Canti e cerimonie domestiche

Un discorso a parte merita la musica domestica, suonata da musicisti non professionisti, in occasione di feste ed eventi rituali o parti di essi che non richiedono l’intervento di un’orchestra professionale. Pare verosimile, anche se una ricerca in questa direzione è ancora tutta da svolgere, che questi repertori siano quantomeno in parte meno legati alla cultura musicale locale, e abbiano invece una più marcata identità zingara.
Questo sembra vero, ad esempio, per l’abitudine, diffusa presso i Rom kosovari, di intercalare il testo di canti composti da formule stereotipe e da versi improvvisati sul momento e intonati su modelli melodici di vasta diffusione con sillabe non-sense, che svolgono la funzione di interludio, per così dire, strumentale al canto: per la quale, piuttosto che nelle tradizioni musicali del Kosovo, si possono forse cercare elementi di confronto nella mouth-music dei Rom Vlach ungheresi, in cui questo elemento informa di sé l’intera struttura dei brani cantati.
Il tamburello è assai diffuso soprattutto presso i Rom musulmani di Kosovo, Montenegro, Macedonia come strumento di accompagnamento di canti e cerimonie domestici, in particolare di un genere di canzoni a ballo detto talavà, praticato soprattutto, in ambito domestico, dalle donne, o, professionalmente, da cantori e suonatori omosessuali; non è mai utilizzato nelle orchestre professionali maschili. In queste zone l’uso del tamburello è condiviso da zingari e gagé; altrove (in Serbia, in Bosnia, in certe zone della Grecia) sembra invece essere prerogativa esclusiva dei Rom. Il tamburello, in Medio Oriente e in tutta l’area del Mediterraneo, è legato alle divinità femminili, ai riti estatici femminili, alle inversioni sessuali praticate in occasioni rituali, nelle quali gli uomini si trasformano simbolicamente in donna suonando lo strumento, che è rappresentazione del ventre e dell’imene femminili (rispettivamente la parte interna, che è una cavità, e la superficie percossa). Presso i Rom musulmani di Kosovo e Montenegro la connotazione sessuale del tamburello è avvertita con particolare forza.
Una donna, alla quale chiesi una volta se il tamburello lo suonano solo le donne o anche gli uomini, mi rispose: “lo suonano solo le donne; sì, lo suonano anche gli uomini, [ride] se suonano il tamburello vuol dire che sono buliasci (omosessuali).

E gli uomini, quando suonano il tamburello, sono più bravi delle donne, molto bravi. E mio fratello anche suona il tamburello, ed è un uomo, non è in quel modo. Ha imparato da piccolo, gli piaceva sempre, gli piaceva, sempre lo prendeva e suonava, e tanti sanno suonare, e non sono a metà”. In questo discorso, l’apparente contraddizione di frasi di opposto significato e l’uso evidente della paratassi tendono manifestamente a concentrare su un unico piano di comunicazione elementi che appartengono ai contesti rituali di uso dello strumento e al suo ruolo simbolico ed elementi che appartengono all’esperienza concreta: il tamburello è strumento femminile, che deve essere suonato dalle donne, e il fatto che venga utilizzato anche dagli uomini va sottolineato, marcando l’inversione sessuale implicita in quest’azione.
Inoltre, vi si è accennato, esiste un particolare genere musicale di canti accompagnati da questo strumento, detto talavà, i cui interpreti specializzati sono omosessuali, il quale ruolo sociale presso i Khorakhané è in genere quello di cantori e suonatori professionisti di tamburello. Nei riti nuziali il suono del tamburello marca tutte le parti della cerimonia di cui è protagonista la sposa: scandisce il ritmo del pianto rituale all’abbandono dell’abitazione paterna, e diviene suo attributo per tutta la durata della cerimonia. Ancora, nel corso della prima danza all’aperto, iniziata dalle donne di famiglia, la sposa brandisce un tamburello cerimoniale, dipinto di rosso e ornato di fiori e fronde, che non viene suonato, ma verrà utilizzato dopo la consumazione del matrimonio per contenere le lenzuola macchiate di sangue, che, avvolte in un drappo rosso, in esso verranno portate in corteo danzante nel villaggio dalle donne della famiglia dello sposo.
Dopo verrà riposto col suo contenuto in fondo al baule del corredo, e non potrà più essere mostrato in pubblico: ché sarebbe come esibire le parti intime della sposa, poiché lo strumento “è”, ormai, il ventre fecondato della ragazza.

Alla fecondità alludono peraltro numerosi altri elementi simbolici presenti nelle nozze. Agli occhi dei Khorakhané, appare evidente il nesso tra la fecondità della terra e quella della sposa novella, ciascuna delle quali rimanda all’altra in modo diretto e immediato: il pane, si dice, durante la festa di nozze viene spezzato e mangiato danzando perché il grano cresca alto e, come il grano cresce dalla terra, così la sposa abbia molti figli. Il nesso, vitale e consapevole, tra rito nuziale e festa stagionale, tra il matrimonio che unisce due persone e, per il loro tramite, due famiglie e lo hieros gamos pubblicamente celebrato nel corso di cerimonie sacre che garantiscono la fecondazione della terra e il raccolto, dunque il rapporto tra rito e mito, è assai presente alla consapevolezza della comunità (e in special modo, naturalmente, di alcuni interpreti specializzati); i complessi apparati simbolici presenti nelle cerimonie nuziali non sono residui opachi di un passato ormai osservabile solo attraverso brandelli e relitti di un mondo una volta più organico, trascinati passivamente attraverso la storia, ma elementi coerenti di una vicenda ben radicata nel presente.

I Rom, per preservare se stessi dall’annullamento attraverso l’omologazione, hanno mantenuto il ruolo, che era loro proprio fin dalle più lontane vicende indiane, di artefici, custodi e interpreti specializzati della cultura delle società in cui vivono, nelle quali la trasmissione del sapere oltre i confini, geografici e sociali, del proprio orizzonte e la sua elaborazione avviene di norma per il tramite, appunto, degli zingari o di altre caste specializzate di ambulanti e marginali: soldati, mercanti, imbonitori, carrettieri, suonatori di piazza. Lo studio delle tradizioni dei Rom, non ultime quelle musicali, in vasta parte ancora da compiere, appare uno dei nodi ineludibili delle vicende culturali dell’Europa moderna e dell’area del Mediterraneo.

L’alta consapevolezza che i Rom di Kosovo e Montenegro oggi largamente presenti in Italia e in altri paesi dell’Europa occidentale hanno della funzione dei simboli presenti nel rito mi sembra fatto assai rilevante: che gente che definisce la propria identità a partire dalle somiglianze e dalle differenze con gli altri - e che individua in prima istanza la propria specificità rispetto ai gagi nel non essere di cultura contadina - si preoccupi della crescita del grano, e che proprio questa gente metta in relazione la coltivazione dei cereali con la fecondità della sposa è cosa singolare: e non trova spiegazione coerente e attendibile se non proprio nel ruolo di interpreti specializzati di cultura svolto dai Rom all’interno di più ampie comunità. Il controllo del ciclo di coltivazione dei cereali è suddiviso per competenze: ai contadini spetta di attendere alle operazioni di semina e mietitura, ai Rom di garantire il successo di queste operazioni mantenendo viva la consapevolezza della relazione tra le nozze di due esseri umani e le nozze dell’uomo con la terra, eseguendo la danza del pane e tramandandone il senso rituale.


I campi di Palermo

Le feste nuziali, al pari di altri riti pubblici e privati, oggi vengono messi in scena dai Rom provenienti dalla ex-Iugoslavia nelle nostre città, all’interno dei campi nomadi o in sale affittate. Nella maggior parte dei casi la loro visibilità all’esterno della comunità è quasi nulla e, del pari, l’influenza di elementi “italiani” sulla messa in scena del rito è sostanzialmente irrilevante: questi gruppi di Rom sono regolarmente e massicciamente presenti in Italia da troppo poco tempo perché la loro capacità di farsi mediatori di cultura possa aver maturato dei frutti rilevanti.
Una particolare forma di sincretismo religioso, tuttavia, sembra preludere a più ampie interazioni tra i Rom e le culture locali in Italia: si tratta delle relazioni che, in Italia, una festa che già in Iugoslavia apparteneva alla tradizione sia dei Rom cristiano-ortodossi che di quelli musulmani trova con alcuni culti religiosi locali: soprattutto, ma non solo, a Palermo, con quello tributato dalla città a santa Rosalia. A Palermo vi sono attualmente due grossi insediamenti di Rom: il campo della Favorita, situato al margine del parco della Favorita, alle falde del monte Pellegrino, che domina il paesaggio, e il campo di via Messina Marine, collocato tra la strada e la spiaggia, in quella periferia indistinta che collega i villaggi costieri ad est di Palermo ormai inghiottiti dalla città, ad una estremità del golfo chiuso, dall’altro lato, dal monte Pellegrino.
Recentemente alcune famiglie hanno abbandonato i campi in favore di alloggi presi in affitto nella parte più degradata del centro storico, nei quartieri della Vucciria e della Kalsa, ove condividono i cortili su cui si affacciano le abitazioni con i vecchi abitanti del luogo, e con immigrati senegalesi e nordafricani. Altre sono andate ad abitare in alloggi popolari messi a disposizione dall’Amministrazione comunale a Bagheria. Il campo della Favorita è popolato da famiglie di Rom musulmani provenienti pressoché esclusivamente da Kosovska Mitrovica, in Kosovo. Le abitazioni sono delle baracche rettangolari, ad un piano solo, in mattoni di tufo, coperte da lamiera ondulata.

Davanti alle case sono state costruite delle verande coperte e recintate da steccati di legno. A queste abitazioni si affiancano in molti casi delle roulotte, a volte incorporate nella costruzione in muratura. Nel complesso si tratta della realizzazione in forma compiuta delle strutture abitative che i Rom appartenenti a questo gruppo tentano di edificare, in genere con scarso successo, in ogni campo loro assegnato. Di solito la costruzione delle baracche viene osteggiata dalle amministrazioni locali, che ne decretano la demolizione perché contravvengono ai regolamenti edilizi, in quanto edificate senza i necessari permessi, o perché i materiali e le tecniche impiegati non rispondono alle normative di sicurezza vigenti. Questa opposizione, spesso condotta con estremo rigore, sembra avere lo scopo reale di impedire la sedentarizzazione di gruppi che, già sedentari nei territori di provenienza, tendono ad insediarsi più o meno stabilmente negli spazi loro concessi.

L’Amministrazione comunale di Palermo, al contrario di quanto suole avvenire altrove, per far fronte all’emergenza delle necessità abitative di questa comunità ha messo a disposizione dei Rom dei mattoni di tufo, del cemento, della lamiera ondulata, lasciando loro il compito di costruire le abitazioni. Il risultato è che sul terreno loro concesso i Rom hanno costruito un piccolo villaggio su modello di quelli del Kosovo, disponendo e occupando le casette secondo criteri che riflettono e consentono di meglio articolare le relazioni tra le diverse famiglie. In un angolo del campo una grande baracca è stata adibita a moschea.

La preghiera e l’osservanza dei riti religiosi, in altre città d’Italia spesso praticate assai blandamente o per nulla, qui rivestono grande importanza nella vita individuale e sociale. La maggior parte degli uomini frequenta regolarmente la moschea e osserva i digiuni prescritti; molti sono dervisci e prendono parte ai riti propri del sufismo che seguono i due digiuni del Ramadan e del Matem, nel corso dei quali attraverso la musica, la danza e l’iperventilazione alcuni di loro raggiungono uno stato di coscienza alterata, in cui si realizza l’abbandono mistico che è segnale del cammino verso la santità: ne è prova l’ostentata insensibilità corporea, dimostrata in modo clamoroso dall’indifferenza al dolore raggiunta al culmine della cerimonia; essi pertanto si attraversano le guance, i lobi delle orecchie, il grasso sottocutaneo dell’addome, i muscoli pettorali con dei lunghi spilloni di metallo, manifestando la vittoria dello spirito nel cimento con il corpo, con i sensi e con la ragione.

Al rito, nella forma cui ho assistito nella primavera del ’97, alla fine del digiuno del Matem, segue un lungo canto epico a voce sola, in cui si narra, in un romani infarcito di parole arabe e spesso non comprensibile dagli stessi Rom estranei alla tariqqa, dell’origine mitica del sufismo, che nasce con l’adozione di Alì da parte di Muhammad. Il campo di via Messina Marine è popolato da Rom di un gruppo diverso da quello che popola la Favorita: Cergari, sia musulmani che cristiano-ortodossi, provenienti dalla Bosnia, dal Kosovo, dal Montenegro.

Dal campo sono quasi del tutto assenti le roulotte. Le abitazioni sono le tipiche casette dei Cergari, su palafitte, con tetto spiovente a una o due acque, costruite con legno e materiali di risulta. L’esito, anche in questo caso, è la piena realizzazione di quello che di solito in altri campi di Cergari distribuiti sul territorio italiano si trova in abbozzo: un denso e grande villaggio, fittamente popolato, diviso in una zona principale, che affaccia su un grande spiazzo oblungo, e una dépendance, separata dal nucleo centrale da un muro preesistente la collocazione in sito del campo e riutilizzato dai Rom per dividere nuclei familiari separati da diverse relazioni parentali.

La particolare struttura dei campi, una relazione col territorio - e con le istituzioni locali - meno antagonistica che in altri luoghi sembra abbiano prodotto in queste comunità due tendenze opposte e concomitanti.

Da una parte, ciò ha determinato una strutturazione delle comunità più salda e articolata di quanto non avvenga altrove: costumi e abitudini delle regioni di provenienza qui vengono reistituiti con maggior forza di quanto non sia avvenuto altrove, e la particolare attenzione dedicata ai riti religiosi ne è un segno evidente. D’altra parte, una possibilità di comunicazione con la popolazione locale maggiore che in altre parti d’Italia - i Rom condividono con i siciliani certe modalità espressive, che si potrebbero definire genericamente “mediterranee” soprattutto nella gestualità, che non appartengono di certo alle grandi città dell’Italia settentrionale - e certe generiche affinità ambientali, fanno sì che a Palermo questa gente si senta “a casa propria” più che altrove.

Ne deriva una tendenza a costruire relazioni più intense e meno conflittuali con l’ambiente esterno al campo e una maggiore penetrazione nella comunità di elementi di cultura locale. Rom e gagé, certo, sono visibilmente diversi tra loro, non soltanto in Italia, ma anche in Kosovo, in Montenegro, in Bosnia. In Italia però i Rom sono anche stranieri; la distanza tra loro e gli altri e la diffidenza reciproca ne risultano sensibilmente accresciute.

A Palermo - come pure, ad esempio, a Napoli, e in Italia meridionale in genere - distanza e diffidenza sembrano più temperate. Il segno più evidente di questa migliore collocazione nell’ambiente, per chi abbia consuetudine con le abitudini dei Rom in Italia, è la maggior libertà di movimento concessa alle ragazze nubili. Queste, di regola, non escono dal campo se non per attività necessarie: la scuola, l’elemosina, l’acquisto di generi alimentari, e in genere vengono accompagnate e riprese da un parente di sesso maschile.

Lamentano di frequente questa limitazione della loro libertà di movimento, che, dicono, è assai più forte di quanto non lo fosse nelle regioni di provenienza, ove la loro frequentazione delle città e dei borghi non era soggetta a tante interdizioni. A Palermo pure queste interdizioni sono palesemente molto meno forti che altrove: è frequentissimo vedere sciami di ragazzine tra i dodici e i diciotto o vent’anni dirigersi dal campo, vestite a festa, verso il centro della città, ove vanno a far passeggiate, piccoli acquisti, o si recano al luna-park.

Questo diverso, più disteso rapporto con l’ambiente ha probabilmente contribuito pure ad accentuare la tendenza sincretica che è già propria, ab origine, degli zingari: fatta propria una zona, stabilite delle relazioni dinamiche con la cultura locale, tendono ad impadronirsi delle tradizioni del posto, e a diventarne degli interpreti qualificati.

Ciò a Palermo ha potuto favorire la genesi dei fenomeni di sincretismo religioso con culti locali, dei quali la devozione dei Rom - sia musulmani che cristiano-ortodossi - a santa Rosalia è quello di maggiore evidenza e rilevanza. Le comunità di Khorakhané Shiptari e di Cergari Khorakhané e Dassikhané presenti a Palermo sono state verosimilmente uno dei motori primi dei più vasti fenomeni di sincretismo religioso che coinvolgono, in maniera sempre più estesa, gli altri Rom Shiptari e Cergari presenti in Italia.

I Cergari di via Messina Marine vendono per le strade di Palermo delle immagini di padre Pio da Pietralcina, come, dappertutto, capita che offrano alla gente all’uscita della chiesa immaginette della Madonna o di vari santi cattolici, senza tributare loro alcun culto, ma solo per incentivare nei fedeli il morso della pietà cristiana.

I Cergari di Palermo, invece, affiggono ai muri delle loro abitazioni o tengono nel portafogli le stesse immagini di padre Pio che vendono ai gagé. Il 6 maggio i Rom slavi celebrano la festa chiamata, in serbo-croato, di Dzurdzedan (letteralmente: “giorno di Giorgio”, che è il giorno in cui la chiesa cristiano-ortodossa festeggia S. Giorgio), o, in romani, di Herdelesi, dalla parola turca Hidirellez, che deriva dall’arabo e significa “verde”. Herdelesi è, dicono i Rom, “la festa in cui si ammazzano i bambini”: in cui, cioè, si sgozzano delle pecore, col cui sangue il padre tinge la fronte ai propri figli, giacché le pecore vengono uccise in luogo dei bambini: la qual cosa, in una forma di pensiero di tipo magico, corrisponde ad una reale uccisione dei bambini, benché attuata solo in forma simbolica. Il rito drammatizza - e i Rom ne sono consapevoli - il sacrificio del figlio Isacco da parte di Abramo. I bambini prima dell’alba del giorno successivo il sacrificio vengono riportati a nuova vita mediante l’immersione in una tinozza d’acqua in cui siano stati gettati dei petali di fiori e, eventualmente, dei lumini galleggianti. Il giorno di Herdelesi le case vengono ornate da fronde d’albero prese, di regola, da un monte consacrato ad una divinità.
Questa struttura di base del rito, con diverse varianti, aggiunte e interpolazioni, viene messa in scena dai Rom di Serbia, Bosnia, Herzegovina, Kosovo, Montenegro, Macedonia. In Italia la festa di Herdelesi, celebrata nei campi nomadi e negli accampamenti di Rom slavi, si limita in genere alla scarna cerimonia dell’uccisione della pecora e dell’abluzione descritta sopra. A Palermo la festa di Herdelesi assume una rilevanza molto maggiore; il giorno della festa giungono in città parecchie famiglie di Rom provenienti dalle altre città della Sicilia e da altri campi anche assai distanti (per lo più da Napoli, Firenze, Bologna, ma anche dalla Francia, dal Belgio, dalla Germania). La festa dura tre giorni e il rito si articola in una serie di fasi distinte tra loro, non sempre e non tutte presenti nelle celebrazioni che hanno luogo in altre città d’Italia.

Una parte rilevante delle cerimonie ha luogo sul monte Pellegrino, all’interno del santuario di santa Rosalia e nei boschi che lo circondano. Il 6 maggio ogni capofamiglia accompagna in automobile i bambini della propria famiglia al santuario al cui interno si trova la grotta che ospita il simulacro di santa Rosalia. Le gocce d’acqua che stillano dalle pareti della grotta sono canalizzate da un complesso sistema di canalette di zinco, che confluiscono in una vasca di pietra. A questa, o a una fontana antistante il santuario, i bambini attingono l’acqua sacra, di cui riempiono bottiglie e taniche. Quindi si recano nei boschi circostanti, ove, aiutati dagli adulti, tagliano fronde d’albero (per lo più di eucalipto, ma anche arbusti di ginestra o di ferula), con i quali si coprono le automobili. Delle foglie vengono anche inserite nell’imboccatura delle bottiglie e delle taniche.

Le vetture, così agghindate, iniziano alla spicciolata la discesa verso il campo, suonando il clacson a distesa. All’arrivo al campo uomini, donne e bambini staccano le fronde dalle automobili, e ne decorano l’esterno delle abitazioni. La sera alcune famiglie iniziano a scannare le pecore, acquistate da pastori nei giorni precedenti. Ogni famiglia, se ne ha i mezzi economici, scanna almeno una pecora per ogni bambino.

Il padre intinge un dito nel sangue che scorre per terra e ne tinge la fronte dei propri figli. L’uccisione dell’animale avviene ad opera di alcuni uomini specializzati, che prestano i propri servigi a più famiglie. Prima dell’alba del giorno seguente vengono accesi dei grandi fuochi, si scannano altri animali, e vengono svegliati i bambini, che le donne di casa lavano in tinozze riempite dell’acqua prelevata al santuario, cosparsa di petali di fiori (di solito di rosa).
Dopo, i bambini vengono vestiti a festa e ogni famiglia davanti a casa propria danza al suono di musica diffusa in genere dall’impianto stereofonico delle automobili, e gli adulti bevono birra. Tutti fanno il giro delle case dei vicini, scambiandosi gli auguri. Il giorno successivo tutte le famiglie si recano a monte Pellegrino, ove si accampano nei boschi a ridosso del santuario. Qui arrivano anche i Rom provenienti da fuori Palermo.

La partecipazione delle famiglie residenti in Sicilia (Messina, Paternò, Siracusa, Mazara) e nel sud della Calabria è pressoché totale; da più distante, molto meno. Sebbene il culto a santa Rosalia sia noto a tutti i Cergashi e Khorakhané Shiptari presenti in Italia con cui abbia avuto modo di parlarne (e persino ai Rom macedoni residenti a Varna, vicino Bressanone, in provincia di Bolzano) la loro partecipazione alla festa palermitana è sporadica e irregolare: dipende soprattutto dalle relazioni che ciascuna famiglia anno per anno nel periodo della festa intrattiene con famiglie che vivono in Sicilia. Sono presenti in maniera più regolare Rom provenienti da Lecce, che hanno rapporti di parentela e di comparatico con i campi di Messina e Reggio Calabria, da Firenze e da Bologna, che sono invece legati da analoghe relazioni coi campi di Paternò, Siracusa e Palermo.

Ciascuna famiglia stende nel bosco dei tappeti, su cui dispone cuscini e imbandisce un banchetto con cibo portato da casa e con carne di pecora macellata e arrostita sul posto. Tra gli alberi si tendono delle corde su cui si allestiscono con coperte delle culle ad amaca per i bambini più piccoli; ciascuna famiglia accende un fuoco su cui si cuociono allo spiedo le ultime pecore, scannate sul posto. Ogni nucleo ha la propria musica, fornita di solito dai mangianastri delle vetture parcheggiate sotto gli alberi, vicino agli accampamenti. Qua e là, però, vengono allestite delle postazioni musicali ad uso collettivo, con musica eseguita direttamente da musicisti, i cui strumenti vengono elettrificati e amplificati con l’ausilio di generatori elettrici, o con degli impianti di amplificazione di grandi dimensioni che diffondono musica registrata su cassette audio.

Nel corso della giornata le diverse famiglie si recano al santuario, entrano nella grotta, si bagnano con l’acqua sacra e si accovacciano in preghiera davanti al simulacro della Santa, alla quale offrono anche soldi e oro. Alcuni portano in chiesa pecore, per bagnarle con l’acqua benedetta prima del sacrificio. Indi escono dal santuario camminando all’indietro, baciano gli stipiti del cancello posto all’ingresso della grotta e tornano ai fuochi nei boschi. Prima del tramonto la festa finisce, e ciascuna famiglia fa ritorno alla propria abitazione. Il giorno successivo i Cergari preparano, ciascuno a casa propria, dei banchetti, con la carne avanzata dalla festa e altri cibi cucinati per l’occasione. Gruppi di famiglie legate da rapporti di parentela o di comparatico fanno il giro delle abitazioni, fermandosi a mangiare e a bere in ciascuna di esse. In ogni casa viene preparato un pane, che contiene, occultata al suo interno, una banconota da 10.000 lire. Gli uomini la strappano, e uno di essi troverà, nel suo pezzo di pane, l’auspicio di abbondanza.


Santa Rosalia e le sette sorelle

Le ragioni del culto di Rosalia da parte dei Rom musulmani e cristiano-ortodossi vanno cercate, da una parte, nelle qualità della figura della Santa, che le consentono di assumere, agli occhi degli zingari slavi come a quelli di altre comunità straniere di altra religione, il ruolo di grande divinità sincretica, e dall’altra nella capacità dei Rom di inglobare in un sistema mitico aperto e flessibile il culto di Rosalia. Il 15 luglio del 1624, durante un’epidemia di peste, venivano ritrovati in una grotta del romitaggio di monte Pellegrino dei resti organici, in cui si vollero riconoscere le reliquie della santa vergine ed eremita Rosalia.

Il culto della Santa era attestato già dal Trecento, ma è verosimile che “prima del 1624 fosse ancora marginale in città e legato pressocché esclusivamente alla sacralità del luogo (Monte Pellegrino)”. La devozione popolare, dopo il ritrovamento delle spoglie, associò il progressivo scemare dell’epidemia all’intervento soprannaturale di Rosalia. Il riconoscimento da parte delle istituzioni ecclesiastiche seguì di poco il favore popolare: il 22 febbraio del 1625 venne pubblicamente riconosciuta l’autenticità delle reliquie. Dal 1625, e, con alterne vicende, fino ai nostri giorni, la città di Palermo in occasione dell’anniversario del rinvenimento delle reliquie dedica ogni anno un festino alla sua Santa patrona. Il luogo del ritrovamento delle spoglie di santa Rosalia era legato, già prima del 1624, a pratiche rituali e culti religiosi.

Monte Pellegrino è stato sede di un culto punico, verosimilmente dedicato ad una divinità della fertilità, Tanit, e vi sono tracce riconoscibili di culti cristiani almeno fin dal VII secolo.
I culti di diversa epoca e origine legati al monte e alla grotta furono assorbiti dalla religione cristiana e trovarono organizzazione in ambito eremitico. Sono state messe in luce analogie tra questa vicenda e altri culti di divinità femminili che hanno sede su un monte sacro.
Queste analogie, in qualche caso, vanno oltre i generici nessi tipologici che interessano ogni culto di una “montagna cosmica”, come luogo che ha il suo modello nella volta celeste, e della divinità che risiede su questa montagna, come antropomorfizzazione di un corpo astrale. In particolare, le vicende relative al culto della Madonna di Montevergine, nell’avellinese, presentano notevoli analogie con la tradizione relativa a santa Rosalia, fino a coinvolgere, si vedrà, elementi del sistema religioso dei Rom: cosicché, sorprendentemente, la capacità degli zingari slavi di farsi elaboratori di tradizioni e mediatori di cultura arriva a rinsaldare i legami tra segmenti della storia religiosa di luoghi diversi e distanti dell’Italia meridionale.

Il santuario alla Madonna di Montevergine fu costruito, nel XII sec., da san Guglielmo, in un luogo in cui verosimilmente già esistevano antichi culti della “montagna sacra” e in cui nell’VIII sec. san Vitaliano aveva già fondato un tempio dedicato alla Vergine.


a cura di a cura di Gaetano Amici
 
Tratto dal giornale www.picusonline.it e stampato il 14-06-2008
Riproduzione autorizzata con citazione della fonte
http://www.picusonline.it/scheda.php?id=7752
314  Lingua e cultura ROM / Nello spazio e nel tempo: il viaggio / La situazione dei Rom in un'Unione Europea allargata il: 14 Giugno 2008 - 07:07:29
La situazione dei Rom in un'Unione Europea allargata

« La situation des Rom dans une Union européenne élargie »

Cette étude fait le point sur la situation des Rom, des Tziganes et d'autres communautés de gens du voyage dans l'Europe élargie et décrit comment les politiques communautaires présentes et futures ou d'autres politiques pourraient améliorer leur situation.

La brochure est disponible en allemand, en anglais, en français et en romani
 
da iscaricare in inglese, francese, tedesco e romani
http://www.didaweb.net/mediatori/articolo.php?id_vol=935
315  Lingua e cultura ROM / Documenti e riferimenti normativi / Romania. Migrazioni e lavoro in Italia - Un libro il: 13 Giugno 2008 - 08:38:53
“Romania. Migrazioni e lavoro in Italia. Statistiche, problemi, prospettive”
Un libro dedicato alla grande collettività romena in Italia

Questa mattina a Mestre il Servizio Immigrazione e Promozione dei diritti di cittadinanza del Comune di Venezia e la Caritas italiana hanno presentato il volume “Romania. Migrazioni e lavoro in Italia. Statistiche, problemi, prospettive” curato da Caritas Italiana. Un iniziativa promossa con il patrocinio dell’Ufficio nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR) e presentata contemporaneamente e in prima nazionale in altre quattro città.

Alla presentazione sono intervenuti l’assessore comunale alle Politiche sociali, Sandro Simionato, il responsabile del Servizio Immigrazione del Comune di Venezia, Gianfranco Bonesso, il direttore della Caritas veneziana, mons. Dino Pistolato, il redattore della scheda veneta del volume, Bruno Baratto e il presidente dell’Associazione culturale Romena Decebal-Traian di San Donà di Piave, Daniel Saboanu.
Dopo diversi anni di studi di carattere storico, giuridico, sociale, politico e religioso dedicato ai flussi migratori di origine est-europea in Italia, Caritas Italiana pubblica quest’anno un volume dedicato all’immigrazione romena che ha l’obiettivo di descrivere la realtà in esame senza pregiudizi, inquadrando “dal vivo” la presenza dei romeni in Italia, mostrando chi sono, come vivono, quali problemi incontrano, come si pongono nei nostri confronti, evitando di cadere in ragionamenti scontati e preconcetti.

Di seguono alcuni dati importanti a partire dalle statistiche:

La Romania ha 21 milioni e mezzo di abitanti, il paese non è ricco (prodotto interno lordo pro capite è di 5.639 euro e lo stipendio medio è di 380 euro al mese), il tasso di disoccupazione è contenuto, molte terre sono in stato di abbandono e ciò finisce per alimentare l’emigrazione. Sono quasi 4 miliardi le rimesse che pervengono ogni anno in Romania (tanto quanto hanno rappresentato negli anni ’50 le rimesse degli emigrati italiani per il boom economico nazionale nei decenni seguenti!). Rom e Ungheresi sono le minoranze presenti nel paese. Sono 50 mila i Rom con cittadinanza romena presenti in Italia, molti di più quelli con cittadinanza italiana.

La collettività romena è la prima in Italia per numero di immigrati. I Romeni che in Italia erano appena 8.000 nel 1991, sono andati continuamente aumentando fino a diventare all’inizio del 2008 circa 1 milione, a fine 2007 rappresentavano il 25% del totale degli immigrati presenti in Italia Quasi 350 mila i residenti, a questi vanno aggiunti gli irregolari, i domiciliati e i temporanei, la temporaneità infatti assieme alla circolarità sono caratteristiche dell’immigrazione romena nel nostro paese. La prima regione per presenza è il Lazio seguito da Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna. La prima provincia veneta con il maggior numero di residenti romeni è Padova in cui ha giocato un ruolo fondamentale la presenza di una comunità antica e il “ponte” creatosi dagli investimenti fatti dalla provincia padovana in Romania.

Apporto dei romeni al sistema produttivo italiano. I primi motivi della loro presenza in Italia sono per lavoro e famiglia (ricongiungimenti), molte le donne (53%) e i minori (11,4%); i settori d’impiego sono prevalentemente l’edilizia (uomini) e l’assistenza alle famiglie (donne). Nel nostro paese ogni 6 nuovi assunti stranieri 1 è romeno e garantiscono l’1’2% del PIL italiano; il Veneto è la seconda regione per occupati con quasi 33 mila lavoratori di origine romena. Negli anni ’90 inizia la delocalizzazione delle aziende venete in Romania, nel 2005 sono 2578 le aziende a capitale veneto cioè il 22% delle aziende italiane, la prima provincia in Veneto è Treviso seguita da Padova. Oggi sono 20 mila le aziende italiane insediate in Romania con 800 mila dipendenti e un fatturato pari al 7% del PIL.

Già alla fine della seconda guerra mondiale la Romania ha accolto 130 mila emigrati provenienti dal Friuli e dal Veneto, soprattutto contadini e oggi con la nuova Costituzione gli Italiani in Romania sono considerati una minoranza etnica con un proprio parlamentare.

L’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR) che collabora con l’omonimo romeno (CNCD) e con le associazioni dei romeni ha tracciato un quadro delle più ricorrenti discriminazioni che caratterizzano i romeni tra cui:

  diffusione di un’informazione tendenziosa sui fatti nei quali sono coinvolti i romeni

  sfruttamento sul luogo di lavoro

  primato dei romeni negli infortuni mortali specialmente nel settore edile e molestie sessuali
  subite dalle donne durante l’accudimento

  atteggiamenti intimidatori nel perseguimento della sicurezza pubblica

Presente nel volume un capitolo dedicato a “Gli immigrati romeni e la criminalità” e un altro sui “Media e romeni: un anno vissuto paurosamente”. Temi di discussione critici che i dati statistici (65% degli italiani non vorrebbe una persona romena in famiglia) ci aiutano a capire come la presenza della comunità romena nel nostro paese, soprattutto in seguito all’omicidio della Signora Reggiani a Roma da parte di un romeno e altri fatti di cronaca e la conseguente sovraesposizione mediatica, sia divenuta maggiormente perseguibile e braccabile in qualsiasi momento. Il 60% degli stessi romeni ritiene che dopo l’omicidio di Roma la stampa e i politici italiani abbiano mostrato un atteggiamento tendenzioso.

Rispetto a questi temi scottanti il Dossier statistico ha contribuito a rivelarne le problematicità con dati di conoscenza oggettivi. Anche tra i romeni vi sono le organizzazioni malavitose che si occupano di immigrazione clandestina, tratta degli esseri umani, lavoro nero, traffico di sostanze stupefacenti, contraffazione, accattonaggio e sfruttamento di minori; inoltre un terzo dei minori stranieri denunciati è romeno ( 4.000 nel 2004).

Senz’altro non devono essere sottovalutate le dimensioni della criminalità ma possiamo concordare con Rando Devole, sociologo immigrato, quando afferma che “La questione sicurezza ha acquisito i colori della bandiera romena” illustrandoci come la paura – in una società caratterizzata dalla precarietà - può diventare ideologia e portare il paese a diventare ostaggio di questo sentimento, finendo per parlare di ladri e assassini anziché di muratori e badanti.

Le diverse indagini condotte dalla Caritas con la collaborazione di associazioni di romeni, Università, strutture pastorali, Consiglio italiano per le scienze sociali, Governo Romeno ci restituiscono invece un’immagine inedita dei romeni, non sufficientemente esplorata, non priva di aspetti problematici ma anche ricca di virtualità.

[ venerdì 13 giugno 2008 ]
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