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strategie e accerchiamenti della paura 
Leggi Scrivi all'autore Alfonso Cardamone DALLA PAURA AL SANGUE ALLA GROTTA
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  registrazione n.94 del 28.2.1972 presso il tribunale di frosinone
direttore responsabile alfonso cardamone
 



 
strategie e accerchiamenti della paura 
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Alfonso Cardamone
[ a.cardamone@email.it ]
 
DALLA PAURA AL SANGUE ALLA GROTTA
 
Venti anni dopo. E non si tratta di Dumas padre. Bensì di una scommessa vinta. Una delle poche. Per chi sa che la vita è un tragico gioco incomprensibile -un assedio del Nulla, unica sostanziale ed eterna verità- e che la poesia è al tempo stesso un modo di essere e uno strumento privilegiato per forzare di tanto in tanto il muro compatto delle arroganti idiozie costruite intorno dalla Storia (o dalla Scienza o dalla Politica o dalle mille altre lettere maiuscole che avvelenano la Società e mortificano l'Individuo). Per chi sa che la vita è una disperazione e al tempo stesso l'unica occasione di felicità possibile. Una Rivista dunque come una tensione all'Utopia Concreta del Convivio dei Liberi e degli Uguali, degli intossicati dal Tempo che pure hanno la forza di veleggiare verso le grotte stordenti e lussuriose di Ogigia e che scuotono le catene dell'Essere e della Storia e, scuotendole, ne fanno sortire suoni e impensati e inebrianti afrori. Del Convivio dei figli del sangue di Caino, che della loro ira inesausta e dei loro intenerimenti impudichi fanno punte acuminate e rivoltose. Una Rivista che resiste ed è -anche per questo- continuo scandalo e minaccia ad ogni sistema costituito, così delle Lettere come della Politica e dell'Economia. Una scommessa che vogliamo continuare a vincere.
 


 
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Zelinda Carloni
[ ME6490@mclink.it ]
 
VALE LA PENA
 
E mi chiedo: vale la pena? Che cos'è che "vale la pena"? Certo non c'è quasi niente che valga la pena, se "pena" deve essere. Se è vero, ed è vero, che va colto l'attimo che unico può essere fonte di gioia e di piacere, se è vero che la giovinezza è breve (perché è un esercizio che stanca l'anima prima ancora del corpo) e va catturata e intrapresa con dedizione; se il "carpe diem" ha il valore che ha (e i napoletani lo sanno e dicono: "campa nu' jorno e campalo buono"); allora perché "darsi pena" per altro da sé: il mondo, la società, gli umani, e via dicendo?
Mi chiedo seriamente perché la mia natura m'induce prepotentemente a "darmi pena": dev'essere un vizio di nobiltà. Sì, perché è tipico della mitologia del nobile, dell'eletto, del paladino, ergersi ad eroe combattente per tutto quanto vi è di buono e di giusto. Ma dev'essere qualcos'altro ancora, perché se è vero che "nobile" è "generoso" che suona stucchevole e parrocchiale, è vero pure che il suo contrario è meschino e volgare. Insomma, il "darsi pena" è un tratto dell'anima ineliminabile.
Ma per togliergli il connotato parrocchiale dirò subito che, nel mio caso, lo slancio che mi coglie nei confronti del mondo è accompagnato dal più profondo scetticismo nei confronti del mondo stesso: non lo saprei dire meglio di Cecov che recita più o meno così: "Mi farei crocifiggere per l'umanità ma non riuscirei a sopportare un'altra persona che dorma nella mia stanza".
È in me perfettamente chiaro che il mondo e l'umanità tutta è un perfetto caos nel quale solo un pazzo potrebbe pensare di mettere ordine, e questo non è un giudizio morale ma una semplice constatazione, non c'è nulla sotto il sole che sia meno ponderabile, prevedibile, conoscibile di un uomo, figuriamoci poi la combinazione degli umani a quale assurda rete di follia può dare origine. E gli sforzi sovrumani e le "pene" che si sono date generazioni di nobili pensatori hanno ben poco schiarito il quadro oscuro che ci si presenta: avrebbero fatto meglio, quei nobili pensatori, a cercare altrove il loro piacere piuttosto che a consumare le "sudate carte"? È ovvio (e parlo molto per citazioni, come è evidente) che "dove c'è gusto non c'è perdenza", che se l'hanno fatto un qualche piacere ne avran cavato, e questo già di per sé assolve l'operazione. Ma... quel che ci sta a cuore, a me ed a me stesso, è sapere se poi questo serva, se sia insomma in qualche modo efficace. Perché è evidente che la speculazione è un'attitudine dell'anima e che perciò chi la possiede la esercita come una funzione primaria; ma quando ci si occupa degli altri, e delle loro sorti, bisognerebbe come minimo avere il consenso degli altri ad occuparsi degli affari loro o, quantomeno, la serena consapevolezza di fare "cosa buona e giusta" nell'esercitarsi a speculare sulle sorti altrui.
E però necessario dire subito che nel mondo esiste sempre la circostanza per cui c'è in ogni caso qualcuno che si occuperà dei fatti nostri con molti meno scrupoli di quanto non facciano i nobili pensatori. Ed è forse questo uno dei nodi fondamentali per cui io credo che scatti la molla del "darsi la pena". Perché se è vero, come lo è, che l'egoismo è il principio che regge degnamente il mondo, e dio ci salvi dagli altruisti, in tutto questo può giocare la molla dell'orgoglio pensante, una specie di "fargliela vedere" su un piano elevato, una tenzone combattuta sul terreno al pensatore più consono: si sceglie l'arma e anche il terreno di contesa; e questo può far bene al suo spirito offeso, e se fa bene va bene. Ma... è anche efficace? Carlo Marx ha scritto il Capitale e varie altre cosucce con le quali si è degnamente lustrato il cervello: ma, a parte il disvelamento del feticcio/merce, cosa ha mai detto di nuovo sotto il sole che gli altri uomini non dovessero già sapere? Forse che ha inventato la solidarietà? Forse che ha scoperto che è una cosa brutta sfruttare ed opprimere il prossimo? Forse che ci ha abbagliato con l'affermazione che non è giusto che ci sia chi abbia troppo e chi nulla?
Per parte mia trovo lacerante che periodicamente ci debba essere qualcuno che, per motivi suoi, debba impegnare un'esistenza a ricordare, e sottolineo ricordare, agli uomini ciò che è meglio per loro, e se esiste un'ingiustizia divina io credo che sia in questa condizione, vale a dire che c'è chi capisce e chi no, per cui chi capisce ed è nobile si sente investito del compito di far capire agli altri ciò che va inteso; un vero comunismo, questo sì, in cui viene redistribuito un bene che alla fonte è stato elargito ad alcuni e lesinato ad altri.
Ma la speculazione è un'attitudine dell'anima, s'è detto, e come tale ineliminabile. E allora ci si trova a tormentarci la coscienza con la ricerca ossessiva di chiavi, formule e illuminazioni che, come una sorta di alchimia, ci diano il possesso del mondo: sono convinta che non serva, ma la mia natura eroica mi costringe al cimento e la mia natura generosa alla redistribuzione.
 


 
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Giuseppe Panella
 
IL LIMITE DEL FURORE - 1
genesi e struttura dello psycho-thriller

Parte Prima
 
"Allora -dissi io- l'identificazione dell'intelligenza di colui che ragiona con quella
del suo avversario dipende dall'esattezza con cui l'intelletto di quest'ultimo viene
misurato
".
(Edgar Allan Poe)

"Gli incanti dell'orrore inebriano soltanto i forti".
(Charles Baudelaire)

0) IDENTIFICAZIONE DEL PROBLEMA: L'ORRORE METAFISICO
Le riflessioni che seguiranno hanno il compito (probabilmente possibile solo in parte) di chiarire quali siano le implicazioni filosofiche relative all'universo di discorso che racchiude al suo interno l' "orrore metafisico", ciò che costituisce, quindi, secondo la definizione icastica e brutale di Lezlek Kolakowski, il 'nocciolo duro' della modernità (1). Le definizioni sociologiche e/o psicologiche di questo sentimento così diffuso (e solo apparentemente così banale) non sarebbero comprensibili, se non lateralmente, senza un'analisi che si ponga problemi di ordine concettuale generale. La dimostrazione dell'incidenza dell'orrore a livello di 'immaginario collettivo' sarà affidata, infatti, alla ricostruzione della genesi di un genere para-letterario (lo psycho-thriller) che, a mio avviso, rimarrebbe incomprensibile senza una dimostrazione della sua importanza a livello di antropologia filosofica. In sostanza, quello che mi preme verificare è la 'sostanza' teorica delle figurazioni letterarie che compaiono nelle finzioni romanzesche che a quel filone appartengono. Sul sentimento della paura e la sua stratificazione di senso (nelle diverse discipline possibili ed ibridantisi -psicologia, psicoanalisi, sociologia, filosofia, critica letteraria), la bibliografia è talmente vasta che mi sembra giusto dichiarare, fin dall'inizio, la mia incapacità personale a padroneggiarla compiutamente(2); quello che mi interessa, invece, non è tanto redarre una rassegna degli studi sull'argomento quanto mostrare come da premesse di natura filosofica si possa discendere, per li rami, a rendere conto della nascita di un nuovo codice letterario il quale, senza una conoscenza specifica di tali connessioni tra natura e teoria, tra cultura ed emozioni, risulterebbe altrimenti inspiegabile (soprattutto per quanto concerne la fortuna che ha incontrato e che continua ad incontrare). Non saprei ritrovare un punto di partenza più significativo per l'esplorazione del territorio rappresentato dalla paura di una petite phrase riportata da P. J. Buchez e P. C. Roux nella loro Histoire parlamentare della Révolution francaise del 1837 e riferita ad una conversazione (verificatasi vent'anni dopo la caduta di Robespierre) tra l'ex-termidoriano Vadiez ed il suo compagno d'esilio Cambon. La dichiarazione di chi era stato (come tanti altri parlamentari della Costituente) nel mirino del Terrore robesperriano, suona: Le danger de perdre la tête donna de l'imagination (la si può ritrovare, con volenterosa erudizione, nel tomo XXIV, p. 59, di quell'opera ponderosa e polverosa). La dichiarazione di Vadiez mi sembra tanto più significativa in quanto mette in rapporto due aspetti fondamentali della teorizzazione intorno alla "passione della paura" così come la si può rilevare nelle opere di antropologia filosofica redatte all'epoca della secolarizzazione dispiegata, nel momento in cui, di conseguenza, il pensiero rifletteva le ansie e le difficoltà di un assestamento teorico della razionalità. I due movimenti che si intrecciano, quasi un passo di danza, nella frase precedentemente citata, sono quelli relativi al pericolo ed all'immaginazione, entrambi momenti fondamentali nel campo metaforico della paura; il primo perché ne costituisce il livello genetico e la dimensione storica, il secondo perché rappresenta il tramite mediante il quale, a mio avviso, la paura come sentimento si rovescia in affetto e, di conseguenza, in una struttura ontologica costitutiva della cosiddetta "natura umana". I tre autori che ho scelto quali poli intorno ai quali far ruotare la mia ricostruzione di natura antropologico-filosofica sono, a mio avviso, oltre che i padri fondatori della filosofia della Modernità, tre momenti di livello altissimo nella costruzione di una teoria della soggettività che tenga conto delle passioni come momenti irrinunciabili del loro contesto. Inoltre, nel loro pensiero, il riporto emozionale (e descrittivo) si appoggia ad uno schema concettuale (ed analitico) che tiene conto dell'importanza della paura come forma filosofica di una teorizzazione etica che voglia proporsi come tale in un ambito forte di proposta teorica positiva. Il primo, erede della Scolastica tomistica e, contemporaneamente, della riflessione intorno alla nascita della Rivoluzione scientifica, è l'architetto del Cogito, di una teoria, quindi, del pensiero puro e di un Io rigorosamente salvaguardato dal pericolo di ricadere nell'abisso nominalistico del Nulla dalla sua natura di coscienza interiore e di auto-descrizione delle procedure della sua "falsificabilità": Descartes, allora, le cui Passions de l'âme chiudono, non a caso, un lungo percorso che dalla scienza giunge alla sanzione 'scientifica' della sua applicabilità alla natura umana ed alle sue regole di funzionamento (3). Il secondo è il padre della moderna scienza dell'agire politico, della teoria della paura come sostrato originario dello stato umano in natura (come substantia, quindi) e dell'agire degli uomini come "macchine semoventi", in continuo moto ed in continua collisione tra di loro, alla ricerca come sono di un livello sempre più alto di potere e di sempre maggiore sicurezza riguardo alla loro preservazione dalla morte, mossi da un feroce e gelido self-interest che ne garantisca la possibilità di agire in quel mercato concorrenziale che è divenuta la collettività sociale libera, per il momento, dall'atroce verità del bellum omnium contra omnes: Hobbes, la cui teoria dell'uomo e del cittadino si possono riassumere nel modo in cui concitatamente si è voluto fare in precedenza, giustapponendo alla "teoria dell'individualismo possessivo" di Crawford Macpherson l'assunto umanistico che può essere dedotto dalla lettura delle opere storiche di Leo Strauss (4). Il terzo rappresenta "l'anomalia selvaggia" (5), il costruttore delle armoniose arcate che dalle passioni mediate dal corpo degli uomini si innalzano verso il cielo dell'amor Dei intellectualis, il padre di ogni moderna teoria della tolleranza usata contro la filosofia dogmatica e la superstizione
delle religioni rivelate in nome di un sapere libero da ogni condizionamento connesso all'azione combinata della paura e della speranza, quel judìo le cui traslùcidas manos labran en la penumbra los cristales y la tarde que muere es miedo y frio: Spinoza, così come lo descrivono, in versi di perfetta commozione, i sintagmi poetici di Jorge Luis Borges(6). Prima di continuare nello scrutinio delle loro opzioni teoriche, vorrei prima precisare ulteriormente una questione di carattere semantico: la peur di cui sono affetti gli honnêtes hommes cartesiani deriva dal pavor latino, così familiare ai lettori di Sallustio e di Tacito (da cui anche l'italiano paura) e i men and citizens che costituiscono il people hobbesiano soffrono di una fear che è assai diversa dal to be affrighted che i critici del filosofo inglese vorrebbero attribuirgli. Nella seconda edizione del De cive, infatti, Hobbes contrappone il metus al perterri di tacitiana ascrizione, in quanto sostiene che la paura risulta diversa dal terrore per grado e sostanza della soggettività che si contrappone al pericolo: di conseguenza, la paura indica una strategia di comprensione del pericolo e della sua consistenza e, conseguentemente, una contrapposizione, in qualche modo lucida, ad essa; il terrore è, invece, cieco ed indiscriminato, tale, infatti, da togliere capacità di discernimento e di analisi ai soggetti ed è comparabile, mutatis mutandis, all'angoscia ed all'ansia immotivata allo stesso modo in cui lo spavento (Schrecken (7)) può essere assimilato ad una paura razionalmente motivata da un evento imprevisto (8). Spinoza, invece, per continuare la rassegna terminologica già iniziata, si attiene al termine metus (da cui, peraltro, deriva lo spagnolo miedo) e lo usa come esclusiva denotazione della paura così come la analizza nelle pagine della sua Ethica: per il filosofo olandese, infatti, la paura è concetto filosofico, termine astratto e non soltanto categoria psicologica, politicamente instrumentum regni (come aveva appreso dalla lettura di Machiavelli) e non trascrizione pura e semplice di uno stato emotivo fluttuante e vago (come si vedrà, ad es., essere per Cartesio, nella cui teorizzazione la paura ha una funzione, tutto sommato, marginale nel contesto attivo delle passioni umane). La ricostruzione a seguire (che si vorrebbe il più possibile adeguata dal punto di vista storico-filosofico) avrà, allora, il compito (possibile, come si è detto precedentemente, solo a livello di abbozzo o di compendio) di chiarire quali siano le implicazioni antropologiche relative alla nozione -centrale per la comprensione di quanto verrà detto, invece, in seguito - di "orrore metafisico". Il punto di partenza è, quindi, il processo di secolarizzazione conseguente all'attacco all'eredità aristotelica consegnata alla summa enciclopedica del tomismo. Come ha scritto Kolakowski, allora:
"L'attacco all'eredità aristotelica lasciò intatta la distinzione fra i sogni e la realtà. Ciò che a loro premeva era cancellare la distinzione -empiricamente irrealizzabile- tra realtà e irrealtà in un senso metafisico. Senza necessariamente dirlo in così tante parole, essi resero inutile il concetto stesso di esistenza, a meno che esso fosse applicabile a due realtà ultime: Dio e io. E qui si colloca l'orrore metafisico. Svolgiamolo. L'orrore consiste in questo: se nulla esiste veramente tranne l' Assoluto, l'Assoluto è nulla; se nulla esiste veramente tranne me stesso, io sono nulla" (9).
Kolakowski argomenta, in seguito, a favore della sua tesi che sia l' Assoluto (neo-platonicamente inteso da Plotino fino a Damascio e a Spinoza) sia il Cogito (sviluppato e ripreso da Malebranche ed invocato, sotto vesti eidetiche, da Husserl e 'corporeizzato' da Merleau-Ponty) approdano entrambi al Nulla, perché il primo (l' Assoluto) si perde nell'abisso della sua assoluta ineffabilità ed autonomia rispetto a ciò che Assoluto non è, risultando, conseguentemente al suo concetto, incomunicabile ed incomprensibile e perché il secondo, riducendosi alla sua intenzionalità teorica (da un punto di vista fenomenologico) o alla sua dimensione di " corpo vissuto" (in Merleau-Ponty) ritorna ad essere non più il punto di partenza (come nel Cogito cartesiano), ma un punto d'arrivo tra gli altri, sganciato dalla sua irriducibile interiorità ed agganciato, invece, ad una 'falsificabile' fenomenologia della percezione (questo, a mio avviso, si ritrova limpidamente nell'ultimo testo edito in vita da Merleau-Ponty, L 'occhio e lo spirito del 1964 (10))- La tesi di Kolakowski è anch'essa, ovviamente, un'interpretazione e ricade nel regno dell'opinabile; essa si riferisce, in maniera impietosa, soprattutto alle Meditazioni cartesiane (mentre, come si è visto, in certa misura, rivaluta il Discours sul Cogito), ma potrebbe essere ugualmente impiegata con profitto per le riflessioni di Hobbes sulla natura 'originaria' della paura quale sentimento fondamentale per la comprensione delle pulsioni degli uomini o per l'indagine sulle elucubrazioni degli psicopatici narrate nelle opere mediche di Karl Jaspers e nelle ricostruzioni antropoanalitiche di Ludwig Binswanger (un autore quest'ultimo che, per la diretta ascendenza filosofica che la sua opera assume nei confronti di Heidegger, meriterebbe un maggior interesse di quello che oggi ispira(11)).
D'altro canto, come si è detto, una delle più rigorose eccezioni secolarizzate al timor non più Dei, ma del mondo esterno e dei propri simili è presente solo nell'opera di Spinoza ed è costruita (in contrasto con la soluzione "fondazionistica" meditata da Hobbes) non tanto sull'analisi del meccanismo della paura quanto sulla sua commistione con il tema della speranza. Da questo confronto filosofico (metus versus spem), infatti, emerge, a mio avviso, un'idea dell'orrore quale elemento fondamentale per la comprensione del meccanismo che regola le passioni umane ed una delle 'figure' più agghiaccianti nella moderna fenomenologia della storia.

a) Hobbes
In Hobbes, infatti (benché questo non venga enunciato in termini tanto precisi), la paura è praticamente l'unica speranza di salvezza del genere umano in quanto sul suo potere apotropaico riposano la sovranità del Leviatano e la concordia discors della società civile, fondata come è sullo scontro incessante delle volontà in movimento e sulla loro continua ricerca di qualcosa che le appaghi. Negli Elements of Law Natural and Politic del 1640 (pubblicata, tuttavia, solo nel 1650, nella classica suddivisione in Human Nature e De corpore politico,), il filosofo inglese affermava:
"Questo movimento, in cui consiste il piacere o il dolore, è anche una sollecitazione o provocazione, o ad avvicinarsi alla cosa che piace, o a ritrarsi dalla cosa che dispiace. E questa sollecitazione è il conato o inizio interno del moto animale, che, quando l'oggetto piace, si chiama appetito; quando dispiace, si chiama avversione, se riferito ad una ripugnanza presente; ma riferito ad una ripugnanza attesa, si dice timore. Cosicché piacere, amore e appetito, che si chiama anche desiderio, sono diversi nomi per diverse considerazioni della medesima cosa" (12).
Ne consegue che lo stimolo al bene o al male (ciò che piace o non piace in relazione alla differenza costitutiva degli esseri umani) è sempre lo stesso così come simili sono gli uomini nel rimanere attaccati a quello che considerano il loro buon diritto. Sempre Hobbes nella stessa opera (13):
"Ma il fatto che tutti gli uomini abbiano diritto a tutte le cose, in effetti, non è una situazione migliore di quella che si avrebbe se nessun uomo avesse diritto ad alcuna cosa. Infatti un uomo può usare e beneficiare ben poco di un suo diritto, quanto un altro altrettanto forte, o più forte di lui, abbia anch'egli diritto alla medesima cosa".
[***]
"Poiché lo stato di ostilità e di guerra è tale, che per esso la natura stessa viene distrutta, e gli uomini si uccidono l'un l'altro [...]; colui quindi che desidera vivere in uno stato come quello della libertà e del diritto di tutti a tutto si contraddice".
Lo stato migliore per l'uomo è, ovviamente, quello che Hobbes definisce pace e che fa nascere da una condizione di sottomissione volontaria ad un unico potere assoluto, perché, come continuerà nel Leviathan (1651):
"Tutte le conseguenze perciò di un periodo di guerra, in cui ogni uomo è nemico di un altro, sono anche le conseguenze del tempo, in cui gli uomini vivono senz'altra sicurezza, se non quella, che dà loro la propria forza o la propria sagacia" (14).
Per questo motivo, dunque, bisogna rassegnarsi ad una continua condizione di paura e terrore reciproci conseguenti allo stato di guerra onnipresente tra esseri simili, nel quale, aggiunge Hobbes:
"quel ch'è peggio di tutto, domina un continuo timore ed il pericolo di una morte violenta; e la vita dell'uomo è solitaria, povera, lurida, brutale e corta" (15).
Brutale e corta significa dominata dall'orrore; orrore fisico, da un lato, orrore metafisico, dall'altro. Paura della morte, in primo luogo, e paura del futuro, successivamente, visto che la natura umana, come tale, non può mai essere diversa da come è e l'obiettivo principale resterà sempre, per ognuno, quello di rimanere in vita. Ma mantenersi in vita, come egli stesso aveva precedentemente osservato (16), significa essere soggetto a passioni:
"Infatti, come il non avere nessun desiderio è la morte, così avere passioni deboli è la stolidità, ed avere passioni indifferentemente per ogni cosa è la storditaggine e la distrazione, ed avere per una qualche cosa passioni più forti e più veementi di quelle, che ordinariamente si notano negli altri, è quello, che gli uomini chiamano pazzia. Di essa vi sono quasi tante specie, quanto quelle delle passioni stesse".
La ragione, dunque, non è altro che un grado meno forte della follia, dato che in essa si è sempre ad un passo dallo scivolare, quando l'equilibrio degli umori è sottoposto a sforzo fisiologico o a pressione meteorologica; le passioni dominano incontrastate tra gli uomini e la loro forza sempre presente garantisce della loro stessa sopravvivenza fisica.

b) Descartes con Spinoza
Come è noto, invece, Descartes non attribuisce una simile importanza alla "passione della paura". Riferendosi ad essa come ad una filiazione della meraviglia (la prima delle sei passioni fondamentali, e cioè meraviglia, amore, odio, desiderio, tristezza e gioia), inserisce nell'aspetto di incertezza che il timore del futuro necessariamente inerisce una dimensione di stupore, di gioia mista a trepidazione, in questo molto simile ad una sorta di propensione per l'avventura, per l'apertura, cioè, verso nuovi 'mondi vitali':
" Art. 176. Sulla funzione della paura. Quanto alla paura o allo spavento, non trovo che si possa mai parlare di aspetti utili e lodevoli; ma qui non si tratta di una passione particolare, bensì di un eccesso di vita, stupore e timore, che è sempre vizioso; [...] e poiché la principale causa della paura è la sorpresa, il mezzo migliore per liberarsene è di riflettere alle cose in anticipo, preparandosi a tutti gli eventi il timore dei quali può suscitarla" (17).
Nell'art. 174 (che tratta della "viltà e della paura"), allo stesso modo di Hobbes nel De corpore, aveva attribuito "la paura o lo spavento, che è il contrario dell'ardimento" ad "un senso di freddo", ma aveva aggiunto che non si trattava soltanto di questo, ma "di turbamento e uno sconvolgimento dell'anima per cui essa è privata del potere di resistere ai mali che suppone prossimi". Descartes collega, in questo modo, le ragioni fisiologiche della peur (il freddo) ad un'incertezza riguardo alla propria sorte da parte di chi prova paura, leggendo unidirezionalmente la paura come spavento e privandola di quell'aspetto spettrale, catastrofico, quasi da incubo notturno che, invece, caratterizzava rimpianto hobbesiano. In tal modo, l'angoscia (elemento fluttuante e volatile, non collegato a nessuna determinazione precisa, oscillante tra l'ansia e la nevrosi) si dissolve nell'elemento della sorpresa ed attenua il terrore immotivato che, invece, dall'attesa di eventi e di fatti improvvisi e sorprendenti potrebbe giustificatamente nascere. In polemica con Descartes, ma riprendendone sostanzialmente il legato semantico (18), Spinoza proporrà, invece, nell' Ethica ordine geometrico demonstrata (pubblicata postuma nel 1677), una prospettiva del sentimento della paura vista simmetricamente in connessione con l'afflato della speranza. Nella Parte Terza della sua grande opera dedicata all'analisi del movimento che va dal corpo all'amor Dei intellectualis, egli parte dal presupposto che la maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti umani li abbiano trattati non come parte della natura (cui tutti gli uomini partecipano), ma come elementi estranei ad essa. Di costoro egli dice, con frase divenuta celebre, che "sembra anzi che concepiscano l'uomo nella natura come uno Stato nello Stato, perché credono che l'uomo turbi, piuttosto che seguire, l'ordine della natura, che abbia una assoluta potenza sulle proprie azioni, e non sia determinato da niente altro che da se medesimo" (19). Dalla naturalità degli effetti egli deduce la corporeità di essi e pone l'elemento della auto-conservazione dei corpi come fondamentale per lo studio delle passioni che lo attraversano (nella Parte Terza, proposizione 10 dell'Ethica, infatti, si può leggere che "un'idea che esclude resistenza del nostro corpo non si può dare nella nostra mente, ma è ad essa contraria" (20)). Per questo motivo, corpo e mente convertuntur e "la prima cosa che costituisce l'essenza della mente è l'idea del corpo esistente in atto" (21).
Da ciò scaturisce l'effettiva presenza e realtà degli affetti o passioni e l'importanza di essi per il progresso della mente, ovverossia della conoscenza che essa determina. Da ciò si può dedurre anche l'importanza dell'immaginazione che è virtus che attiene specificamente alle affezioni corporee (è, cioè, conoscenza ancora imperfetta e non costante). Paura e speranza mantengono tale carattere di imprecisione teorica e, in questo contesto, vanno considerate:
"La speranza è letizia incostante, sorta dall'idea di una cosa futura o passata, del cui evento in una certa misura dubitiamo" (Parte Terza, alla proposizione 12).
"Il timore è tristezza incostante, sorta dall'idea di una cosa futura o passata, del cui evento in un certa misura dubitiamo" (Parte Terza, alla proposizione 13).
E nello scolio relativo a questa proposizione, continua:
"Da queste definizioni segue, che non si dà speranza senza timore e che non si dà timore senza speranza. Chi invero è sospeso alla speranza e dubita dell'evento di una cosa, si suppone che immagini qualcosa che esclude resistenza della cosa futura; e che perciò si rattristi [...], e di conseguenza, che mentre è sospeso alla speranza, abbia timore che la cosa non avvenga. Chi invece è intimorito, cioè dubita dell'evento della cosa che odia, immagina anch'egli qualcosa che esclude resistenza di essa; e perciò [...] si allieta, e quindi ha la speranza che la cosa non avvenga" (22).
Entrambi questi affetti, dunque, non possent esse per se boni perché sono ambedue condizionati da un'indecisione, da un'attesa, da una sospensione del giudizio che blocca il processo del potenziamento del sé, lasciando gli uomini in balìa di un'angoscia cui sanno reagire soltanto passivamente. Come ha scritto Remo Bodei:
"Spinoza combatte su due fronti. Da un lato, si rivolge contro i fautori dell'assolutismo monarchico e della ragion di Stato: Hobbes, che pone la convivenza tra gli uomini sotto il segno di una ragione che nasce dalla paura della morte e che non recide affatto il cordone ombelicale che la lega alla sua origine; [...] Dall'altro lato, polemizza contro gli apostoli della speranza terrena e i predicatori della beatitudine celeste, quanti cioè immaginano gli uomini diversi da quello che sono.. ." (23).
In Descartes, in Hobbes ed in Spinoza, allora, con accenti diversi e con motivazioni sicuramente divergenti (nella modalità d'uso delle passioni che ho provato a ricostruire), pulsa il cuore nuovo di una teoria della secolarizzazione che allude al Moderno che sorgerà, sicuramente, anche per merito della loro proposta di pensiero. Ma in esso, come si è visto, la paura ha un posto preminente e solo dalla sua esorcizzazione antropologica potrà configurarsi una teoria della natura umana (come storia e come psicologia delle passioni fondamentali) che sia in grado di fronteggiare quell'orrore metafisico che sembra essere, fin dalla scoperta del Cogito cartesiano, il suo destino ineludibile. Il confronto con quest'ultimo, allora, si rivela uno strumento ermeneutico indispensabile per comprendere 'quale metodo' si nasconda 'nella sua follia' e se vi siano 'cose sulla terra' in grado di farne comprendere, teoricamente, il percorso e sconfiggerne gli effetti perversi. Il mio tentativo di analisi dello psycho-triller nasce dalle premesse filosofiche finora esposte; il campione che ho raccolto nel corso della mia ricerca mi ha condotto a privilegiare due autori (tra gli ormai innumerevoli) di romanzi che rientrano in questo filone e che, a mio avviso, ne costituiscono due momenti di non-ritorno: Thomas Harris e James Ellroy. Come si potrà vedere più dettagliatamente in seguito, il primo privilegia l'aspetto psicologico e deduttivo del problema, il secondo, invece, indirizzando il proprio 'delirio narrativo' nella direzione del cosiddetto police procedural, esplora in profondità l'abisso della follia e delle psicopatologie con l'ausilio di elementi d'indagine dedotti, in massima parte, dall'armamentario della medicina e della psichiatria legali, fondendo insieme gli aspetti patologici ed investigativi delle vicende poliziesche di cui è l'allucinato e coinvolgente narratore. Se Harris descrive personaggi e situazioni in modo apparentemente freddo e distaccato, Ellroy, invece, racconta sempre la stessa storia nelle sue varianti infinite: la lotta tra follia e ragione in un ambito narrativo in cui non si sa mai dove il delirio finisca e subentri, al suo posto, l'analisi delle cause che lo hanno condotto ad assumere un ruolo così importante nell'ambito delle vicende descritte. Harris interpreta ciò che, invece, Ellroy sembra rivivere ogni volta come esperienza personale.

NOTE
(1) Cfr. Lezlek Kolakowski, Orrore metafisico, trad. it. di B. Morcavallo, Il Mulino, Bologna 1990.
(2) Mi sembra doveroso dichiarare, fin dall'inizio, il mio debito nei confronti dei saggi di Remo Bodei, Geometria
 


 
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Giuseppe Panella
 
IL LIMITE DEL FURORE - 2
Parte Seconda
 
1) THOMAS HARRlS. MITOGRAFIA DEL RACCONTO POLIZIESCO

a) Psicopatologia di un terrorista

Thomas Harris esordisce, nel 1975, con Black Sunday, un thriller fantapolitico di andamento ancora tradizionale.
I suoi pregi, tuttavia, derivano dal modo in cui lo sviluppo psicologico della vicenda viene osservato più che dalla struttura stessa del plot. Il romanzo racconta l'organizzazione di un attentato da parte di una frangia estrema del terrorismo arabo e del modo in cui essa si proponga di 'ferire a morte' l'opinione pubblica americana, facendo esplodere nello stadio di New Orleans un dirigibile pieno di cariche al plastico rivestite da uno strato di freccette per fucili calibro 177. Ad agire materialmente (grazie al suo passato di pilota della Marina americana), i palestinesi hanno convinto Michael Lander, un ex-veterano del Vietnam, che ha subito una lunga detenzione nelle prigioni nord-vietnamite ed è ritornato in America completamente sconvolto e desideroso di vendicarsi dei torti subiti (almeno in apparenza) per colpa dell'Amministrazione governativa. Sottoposto in carcere ad un duro processo di 'rieducazione', Lander era stato costretto ad una pubblica autocritica, prima di essere rilasciato; inoltre, una volta tornato a casa, aveva divorziato dalla moglie e dato segni palesi di squilibrio psichico (principale ossessione dell'ufficiale americano era la sua supposta impotenza). Caduto nella rete tesagli dai palestinesi dopo il suo coinvolgimento affettivo con una terrorista del gruppo, Dahlia Iyad (che non solo gli aveva permesso di superare il blocco psichico alla base delle sue penose difficoltà sessuali, ma che lo aveva anche spinto alla vendetta nei confronti degli artefici dei torti di cui egli credeva di essere la vittima), il paranoico Lander tenta disperatamente di portare a segno la sua missione di morte.
L'attentato, alla fine, come si conviene alle leggi del genere letterario, viene stroncato all'ultimo secondo dall'azione congiunta di agenti americani ed israeliani. L'interesse del libro, tuttavia, non risiede nel modo in cui si struttura l'azione vera e propria, ma nella narrazione ad incastro della vita (a partire fin dalla sua infanzia) dell'ex-ufficiale americano e nella dimostrazione del suo progressivo deterioramento psichico. Lander, in sostanza, non sarebbe stato soltanto la vittima di un plagio psicologico ad opera del nemico, ma avrebbe avuto i requisiti adatti per compiere un'azione di quel tipo già prima di essere avvicinato dai terroristi che si interessavano a lui. La tesi di fondo che Harris vuole dimostrare attraverso il racconto della vita dell'ex-pilota (i suoi difficili rapporti con la famiglia, in particolare il padre, il suo forte complesso di inferiorità nei confronti degli altri bambini durante infanzia prima e nei confronti dei suoi colleghi durante il periodo trascorso in Marina poi, il suo crollo psichico durante la prigionia, i suoi conflittuali rapporti con la moglie, le sue difficoltà spaventose di reinserimento nella società dopo il ritorno dal Vietnam, il suo progressivo scivolare in una crisi di lucida e selvaggia furia vendicativa) è che la vera ragione per cui agisce è una volontà di rivalsa nei confronti del mondo nata da un forte risentimento psicologico. Black Sunday, in realtà, non è ancora uno psycho-thriller (si tratta, come si può dedurre dalla trama, di un romanzo 'fantapolitico' più che di un mystery nel senso stretto del termine) né Lander agisce esclusivamente sulla base dei propri impulsi soggettivi, per quanto sia 'motivato' solo in chiave psicopatologica (anch'egli risulta, alla fine, una vittima del suo stesso atto terroristico), ma in esso si possono già ritrovare alcuni dei motivi che caratterizzeranno così marcatamente la successiva produzione di Harris. Il comportamento patologico del terrorista 'mancato' Michael Lander viene analizzata, per così dire, a parte, rispetto al 'normale' svolgimento del racconto, quasi non avesse nulla a che fare con esso se non di sfuggita. Ed, infatti, se la vicenda scorre quasi automaticamente verso la sua già probabile conclusione e la salvezza degli spettatori dello stadio Tulane di New Orleans non viene messa mai effettivamente in discussione dai lettori, ciò che provoca inquietudine ed interesse è il viluppo interiore della personalità malata del pilota americano. Perché è proprio grazie alla sua natura psicopatologica che gli agenti del Mossad israeliano riusciranno a far fallire l'attentato. Black Sunday, quindi, oltre ad essere la cronaca di un episodio della guerra segreta combattuta tra Israele e la diaspora palestinese, è la storia del disfacimento di una mente: la sua ricostruzione (che richiede quasi un terzo del romanzo) lascia già intuire l'interesse di Harris per l'introspezione psicologica. Più che all'universo delle spy-stories, l'opera prima dell'ex-reporter americano appartiene di diritto alla tradizione della detective story degli anni '40 e '50, dove più che l'azione in se stessa contavano i meccanismi psicologici che la facevano scattare (si pensi, per citare soltanto due esempi tra i più significativi, ai racconti di Raymond Chandler o ai romanzi di Cornell Woolrich). E, a differenza di quanto avviene nei bestsellers firmati con successo da Frederick Forsyth o da Ken Follett, più dell'analisi della situazione internazionale o del puro reportage romanzato, qui si tratta della storia "naturale" di una psiche malata e del suo modo di pensare, logico e contorto nello stesso tempo. Quello che conta è la ricerca dei suoi moventi ed è proprio questo a costituire il tessuto connettivo dei diversi episodi della vicenda, in quanto essa non nasce tanto dal rispetto per le leggi 'classiche' della detection quanto dallo spessore umano dei detectives e dei loro avversari. Citando lo stesso Harris:
"Quando il dolore e l'ira raggiungono livelli di gran lunga superiori alla capacità che ha la mente di sopportarli, un curioso sollievo è possibile, ma richiede una morte parziale. Lander ebbe un sorriso spaventoso, un rictus insanguinato, allorché sentì morire la sua volontà [...]. Quello che restava poteva vivere con la furia perché era fatto di furia e la furia costituiva il suo elemento, ed esso vi prosperava come un mammifero prospera nell'aria. Si alzò, si lavò la faccia e, quando uscì di casa, quando tornò in Florida, era calmo. Aveva la mente fredda come il sangue di un serpente. Non c'erano più dialoghi nella sua testa. Vi rimaneva soltanto una voce. L'uomo funzionava perfettamente perché il bambino aveva bisogno di lui, aveva bisogno di un cervello pronto e di dita abili. Allo scopo di provare sollievo. Uccidendo e uccidendo e uccidendo. E morendo" (24).
Pagine simili si ritrovano di continuo nelle opere di Woolrich o di David Goodis; la descrizione del 'paesaggio mentale' costituito dal folle comportamento di Lander anticipa la lotta all'ultimo sangue tra Will Graham e Dolarhyde narrata nel successivo Red Dragon ed è sicuramente il risultato più innovativo contenuto in Black Sunday.

b) Perché un assassino?
Il punto di partenza di Red Dragon, il romanzo che Harris scriverà ben sei anni dopo Black Sunday, è costituito da un'evidente 'passione' letteraria per William Blake e per uno strano e magnifico acquarello del 1805, The Great Red Dragon and the Woman Clothed with the Sun, opera del poeta e pittore londinese. L' originale del quadro si trova effettivamente, come Harris annota con acribia filologica, presso il Brooklyn Museum, anche se non risulta che sia mai stato "mangiato" da un paranoico assassino a nome Francis Dolarhyde. I tratti decisi ed incisivi delle due figure (la Donna e il Dragone) che lo compongono ed i colori limpidi e precisi che le definiscono sono pressocché irriproducibili a stampa ed il dipinto, probabilmente per questa ragione, si trova con una certa difficoltà anche nei saggi su Blake e nei cataloghi delle sue opere pittoriche (l'unica copia che mi è riuscito di vedere proviene dal volume di Morton D. Paley su William Blake in cui vengono esaminati in dettaglio le circostanze della sua composizione ed i motivi ispiratori della sua realizzazione concreta(25)). Le testimonianze dirette di chi ha avuto l'opportunità di osservarlo di persona sono, tuttavia, concordi: The Great Red Dragon è un tentativo, perfettamente riuscito, di rappresentare, attraverso la sola forza del colore usato, la maestosità del Male e della sua potenza che si impadronisce della Bellezza. Si tratta del motivo conduttore del romanzo (ed, in parte, anche del film da esso ispirato -Manhunter. Frammenti di un omicidio-,che Michael Mann ha sceneggiato e diretto nel 1986; in esso, purtroppo, il fuggevole fotogramma in cui l'acquarello di Blake viene mostrato non rende ragione della drammatica lotta che si intuisce nella composizione). Il Male (simboleggiato dal Dragone Rosso) e la Bellezza (il cui emblema è la Donna Vestita di Sole) si stringono in un abbraccio che si intuisce successivamente mortale per entrambi. In questa inestricabile stretta di Amore e Morte si apre uno spazio per la raffigurazione della forma estrema della potenza del Male Assoluto: il Sublime incarnato dal Drago dell' Apocalisse di Giovanni. È ciò che Dolarhyde intende diventare mediante l'esercizio rituale dell'omicidio; è ciò che la sindrome schizofrenica che lo affligge gli impone di essere fino alla giustapposizione ultima di se stesso con il Dragone. Harris descrive il quadro con penetrazione psicologica e buona preparazione critica:
"Meno di una settimana dopo gli capitò di vedere il quadro di Blake. Ne fu immediatamente avvinto. Era una grossa fotografia a colori pubblicata su Time in un articolo in cui si parlava della retrospettiva di Blake tenuta al Tate Museum di Londra. Il Brooklyn Museum, per l'occasione, aveva inviato a Londra Il Drago Rosso e la Donna Vestita di Sole. Il critico del Time diceva: "Nell'arte occidentale poche immagini demoniache emanano come questa una carica così intensa e allucinante di energia sessuale...". Dolarhyde non ebbe bisogno di leggere il testo per rendersene conto. Per giorni e giorni portò con sé la riproduzione, la fotografò e la ingrandì in camera oscura" (26).
Quello che affascinava Dolarhyde era la dualità presente nell'acquarello ed il modo di rappresentarla tramite l'uso peculiare del colore. La sua delirante identificazione con il Dragone veniva resa possibile dal fascino che il rosso vivo e fulgido della Grande Bestia esercitava su di lui. È a questo punto che l'identità psicologica di Dolarhyde (già largamente compromessa da un'infanzia trascorsa sotto il dominio incontrollato di una nonna dispotica e malata di mente e dalla forzata convivenza con la 'famiglia adottiva' che sua madre era riuscita a rifarsi, dopo la sfortunata avventura amorosa di cui egli era stato il frutto, sposando qualche anno più tardi un vedovo, danaroso "faccendiere" politico) si appanna definitivamente. Si trasforma nell' Attesa della sua Trasfigurazione definitiva, dell' "Avvento di Dolarhyde" quale sintesi invincibile ed indistruttibile di Bellezza e di Morte. La simbiosi Dolarhyde - Dragone - Blake (quale creatore del Dragone) è evidenziata con forza: Harris la rimarca più volte.
"Dolarhyde sopportava gli urli di dolore come uno scultore sopporta la polvere che si stacca dalla pietra che scalpella" (27).
L'assassino si maschera da artista: paradosso possibile soltanto ad una mente folle (ed ai lettori di Thomas De Quincey, l'autore di The Murder as one of the Fine Arts(28)). Il paradosso di cui è vittima Dolarhyde risulterà comprensibile, tuttavia, soltanto a chi sarà capace di calarsi negli abissi opachi della sua mente con tanta forza da esser costretto a ritrarsene sconvolto e fuggirne, riluttante dal ritornarvi. La grande forza espressiva dell'opera di Blake funge da detonatore per la mente dimidiata dello psicopatico e la fa deflagrare come una mina sotto le mura di un castello fortificato, aprendo in essa una breccia che non si chiuderà più. Chiedersi se l'interpretazione 'personale' e salvifica che egli dà dell'opera del grande poeta inglese sia esatta non è né possibile né utile - fatto sta che il romanzo di Harris comincia ad assumere una certa consistenza drammatica soltanto a partire dalla comparsa della figura dell'omicida e dal racconto della sua infanzia infelice ed allucinata. In realtà, è Dolarhyde l' 'autentico' protagonista di Red Dragon. A differenza del film di Michael Mann (dove è il manhunter Graham a rappresentare il polo aggregativo della fiction ed il momento 'positivo' del racconto, mentre Dolarhyde assume la figura di semplice 'spalla' del primo attore), Harris traduce la follia omicida del Dragone in una spietata volontà di fare della propria vita un'opera d'arte. In questo modo, ogni possibile (e plausibile) compassione per il suo passato, ogni pietà per i maltrattamenti psicologici e spesso fisici che ha dovuto subire, la stessa descrizione medica della sua condizione patologica vengono rifiutati come semplice espressione di un'analisi sociologica di taglio 'positivo' (così come avveniva ancora in Black Sunday) e diventano gli elementi 'puri' di una qualsiasi biografia. La follia di Dolarhyde non desta commiserazione in nessuno (29) nel corso del romanzo, se non al momento della diagnosi psichiatrica effettuata da uno dei membri del team di cui Graham è parte, il dottor Allan Bloom. Proprio per questa ragione, essa non viene 'giustificata' come possibile movente dei delitti, la cui mostruosità non è, in alcun modo, mai messa in discussione. La premeditazione da parte dell'assassino non deriva dal suo stato mentale turbato; anzi, è paradossalmente vero l'opposto. L'assassino non uccide a caso, né in un momento di furia incontrollabile: il suo delirio di onnipotenza nasce da una scelta culturale, rappresenta il modo in cui egli può giungere ad una più soddisfacente immagine di sé, trasformare la sua miseria di oggi nel glorioso destino di domani. Esso non è né casuale, né momentaneo, né geneticamente obbligato dalle circostanze biologiche del suo concepimento. La pazzia è il suo destino e la sua unica via d'uscita - in caso contrario, egli dovrebbe rassegnarsi ad essere il 'mostro di natura' che è fin dalla nascita. Non solo egli porta inscritta la follia nel suo stesso cognome (Dolar/Hyde - dove l'allusione al celebre personaggio creato da Robert Louis Stevenson si giustappone all'accenno alla valuta americana e, d'altronde, Lo strano caso del dottor ]ekyll e del signor Hyde è sicuramente una delle fonti cui Harris attinge per la costruzione dei suoi personaggi). Il ruolo preminente attribuito alla figura del 'mostro' ed alla sua genesi è uno degli aspetti più evidenti della differenza tra Red Dragon (romanzo) e Manhunter (film), anche se lo scoprire quasi subito le carte e mostrare le 'vite parallele' dell'assassino e del suo 'cacciatore' in modo da affiancarli su un piano di parità come personaggi non è del tutto originale. Senza dover ricorrere alla tecnica narrativa che contraddistingue romanzi di pura detection come L'assassinio di Roger Aykroyd o Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, basti pensare ad una fonte letterariamente più inattesa: la struttura di Delitto e castigo dove il nome dell'assassino non costituisce mai oggetto di curiosità per il lettore, dato che esso è noto fin dalla prima pagina del romanzo. È la lunga attesa del castigo di Raskolnikov a costituire il movente stilistico della scrittura dostoevskijana. Ciò che è importante, per Harris, non è il chi è l'assassino? del thriller tradizionale quanto la descrizione della caccia e dei suoi protagonisti. L'analisi dei 'caratteri' di Will Graham e di Hannibal Lecter ne saranno la riprova necessaria.
c) Uno sguardo sull'abisso
Il detective Will Graham è ossessionato, a sua volta, dal timore di diventare pazzo. Conosce troppo bene i suoi meccanismi di funzionamento per non sapere che essa può toccare in sorte a ciascuno di noi. Sa altrettanto bene che gli psicopatici non debbono necessariamente possedere poteri psicocinetici per agire (come pare sia d'obbligo per i protagonisti, anche se 'normali', di gran parte dei romanzi di Stephen King(30)), ma che sono, invece, intelligenti, tenaci, tutt'altro che indifesi. Gli altri due assassini sadici con cui ha avuto a che fare gli hanno insegnato che, per catturarli, bisogna imparare a pensare come loro. Si tratta di un topos classico nel romanzo poliziesco, come si può facilmente vedere sfogliando qualsiasi storia della letteratura angloamericana alle voci Edgar Allan Poe e Gilbert Keith Chesterton. Ma Graham, tuttavia, non si muove con la composta ragionevolezza del cavalier Auguste Dupin o del serafico Padre Brown. Si trova, invece, di fronte ad una prospettiva allucinante che qualsiasi persona normale cercherebbe di allontanare da sé. Se Dolarhyde pianifica a tavolino i suoi congegni omicidi (esaminando i film amatoriali che sviluppa e stampa per professione, scegliendo le vittime ed i luoghi sulla base di essi), Graham pianifica la sua caccia allo stesso modo. Ma se, per il folle assassino, tutto questo preannuncia l'Avvento del suo personale dominio sulla terra, la sua Apocalisse individuale e definitiva, Graham dovrebbe essere dalla parte della giustizia, del buon senso e del buon gusto.
"Graham si preoccupava molto delle questioni di gusto. Spesso i suoi pensieri non erano di buon gusto. Nella sua mente non c'erano barriere efficaci e solide. Quel che vedeva e imparava influenzava tutte le altre sue conoscenze. E certe combinazioni era difficile sopportarle. Comunque, non riusciva a prevederle, né a bloccarle e a reprimerle. l valori di decenza e senso morale che aveva imparato stavano sempre in agguato, sconvolti dalle associazioni, inorriditi dai sogni; gli dispiaceva di non avere fortilizi nel cervello per difendere ciò che amava. Le associazioni scattavano alla velocità della luce. l giudizi di valore invece andavano al passo di una lettura attenta. Non riuscivano mai a essere all'altezza della situazione, a dirigere il corso dei suoi pensieri" (31).
Graham è un 'visionario' esattamente come Dolarhyde. Lo è, tuttavia, nel senso 'classico' del termine (almeno per quanto riguarda la detection di tipo tradizionale): la realtà dell'azione criminale viene ricostruita non solo sulla base di ferree concatenazioni logiche (come avveniva per gli investigatori del periodo della nascita e del consolidamento del genere, da Sherlock Holmes giù giù fino ad Hercule Poirot), non soltanto sulla base della raccolta degli indizi e delle prove relative ai fatti, ma anche e soprattutto sulla scorta di intuizioni che hanno la natura di veri e propri flash visivi. Anche se viene definito un eideteker (e cioè una persona dotata di notevole memoria visiva) dal già citato dottor Bloom, uno degli psichiatri del gruppo investigativo dell' FBI a Quantico, il maggior pregio di Graham come detective, quello che lo fa preferire agli altri per la caccia agli assassini psicopatici, non è soltanto la sua buona capacità di selezionare e ritenere i ricordi. Graham è, ancora una volta paradossalmente, 'simile' agli uomini che deve catturare - è in grado di immedesimarsi in essi, di entrare nella loro pelle e nella loro mente, di pensare come loro. Le sue capacità investigative rappresentano la sua condanna ad affacciarsi sull'abisso della follia e, nello stesso tempo, la sua 'uscita di sicurezza': grazie ad esse, ha la conferma che, nonostante tutto, non diventerà mai come i soggetti che individua ed arresta. Graham riesce a 'vedere' il modo in cui il crimine è stato commesso ed a prevederne le modalità di funzionamento future. Non è un soggetto ESP; anzi, le sue conoscenze peculiari sono quelle 'scientifiche' del medico legale e dello studioso di criminologia (32).
Il suo impulso fondamentale, la sua 'spinta' nasce dalla paura. Questo lo rende un personaggio di grande suggestività nel panorama della letteratura di genere. Non si tratta, infatti, di paura in senso fisico, ma del terrore di precipitare nello stesso abisso in cui sta guardando. Come continua Bloom nella sua spiegazione:
"La paura nasce dall'immaginazione: è una condanna, è il prezzo dell'immaginazione" (33).
Il che è quanto anche Descartes o Spinoza avevano dichiarato nella loro ricostruzione delle passioni umane. Così come Dolarhyde è spinto dalla volontà di potenza e dal ressentiment nei confronti di un mondo che l' ha rifiutato per colpa del suo aspetto fisico repellente e della sua instabilità psicologica, allo stesso modo, Graham è costretto a guardare dentro di sé per individuare la dinamica psicologica degli assassini che vuole scoprire: il terrore nasce dalla somiglianza, non dalla differenza. Il suo 'dono' gli permette di realizzare alla lettera le istruzioni che Alphonse Bertillon dava alla sua squadra investigativa: "Si vede solo ciò che si osserva e si osserva solo ciò che già esiste nella mente". Una lezione che, per la maggior parte e da lungo tempo, gli storici dell'arte, gli psicologi, gli psicoanalisti freudiani ed i grandi scrittori conoscono, ma che la polizia 'scientifica' rilutta egualmente ad applicare ed a comprendere.
d) Il doppio
Come ogni investigatore che si rispetti, anche Will Graham ha un 'doppio' che lo perseguita. Otto Rank ha abilmente dimostrato come il tema del "doppio" sia legato alle figure mitiche dei "gemelli" fondatori di città e come esse confluiscano, successivamente, in epoca più tarda; nella coppia dicotomica dei "gemelli nemici" (quali sono, ad es., Romolo e Remo (34)). Il "doppio" criminale dell'investigatore è certamente un caso derivato di lettura (mitica) dal tema degli "eroi gemelli". Se Sherlock Holmes poteva pur sempre trovare nel professor Moriarty un genio criminale alla sua altezza, Graham deve confrontarsi con uno psichiatra pazzo e lucidissimo al tempo stesso. Hannibal Lecter (il secondo dei criminali da lui catturati seguendo il proprio intuito) è anche l'incubo vivente che lo perseguita (allo stesso modo, ossessionerà Crawford ne Il silenzio degli innocenti}. È curioso come Michael Mann, nella trasposizione cinematografica di Red Dragon abbia variato il cognome Lecter in Lecktor, con un guizzo di macabra ironia assai fine. Lecter uccide per il gusto di farlo, per noia, per indifferenza, per stupire il mondo con le sue azioni eclatanti e misteriose. È un dandy che ha capovolto completamente le regole del gioco: invece di salvare i suoi pazienti, li uccide quando le loro nevrosi non gli sembrano degne della sua attenzione. Letterariamente, è un personaggio di Huysmans o di Oscar Wilde calato in un romanzo poliziesco (da qui, il suo fascino perverso e l'attrazione malsana che Graham prova nei suoi confronti}. Superuomo nato in un'epoca inattuale, egli rappresenta, mediante la sua natura dissociata, la dimostrazione morale del fatto che, come una volta ha scritto Stephen King citando la Dickinson, "la pazzia è una pallottola flessibile"(35}. Psicopatologo di grande fama e di sterminate conoscenze mediche e culinarie, Lecter è pazzo e prova un vivo piacere ad infierire sulle sue vittime; la sua capacità di dare la morte è il segno, per la sua psiche turbata, della sua onnipotenza e della sua natura pressocché divina.
Ma il suo delirio è ben diverso da quello di Dolarhyde. Se "l'assassino della terza luna" aspira ad una congiunzione con l'Assoluto, Lecter è convinto di averla già realizzata. Nonostante il suo carattere 'mostruoso' di assassino e di medico nello stesso tempo, risulta il personaggio più ricco di fascino presente in Red Dragon (sicuramente più intenso rispetto allo stesso Will Graham). La sua figura è così originale da sconvolgere i lettori per la penetrazione delle sue osservazioni e per la puntualità del carattere del manhunter che lo ha catturato. Se Dolarhyde, come si è detto, doveva molto alle raffigurazioni del suo modello letterario (lo schizofrenico Jekyll/Hyde nelle sue molteplici metamorfosi da Psyco di Hitchcock a Dressed to Kill di Brian De Palma), Lecter è creazione letteraria originale.
Certo, si potrebbe trovargli un precursore in uno dei più grotteschi personaggi scaturiti dalla penna di Edgar Allan Poe: quel monsieur Maillard, restauratore del "sistema del dottor Catrame e del professor Piuma" che anima uno dei più allucinati e divertenti arabeschi dello scrittore americano (36). Ma preferisco pensare che l'archetipo di Lecter sia cinematografico e vada ricercato nella tragica figura del criminale dottor Mabuse di cui Fritz Lang filmò, dal 1922 al 1960, le molteplici incarnazioni(37). Psichiatra pazzo anch'esso, Mabuse mi sembra più adatto ad un confronto con la figura di Lecter, anche grazie all'approfondimento della sua psicologia che avverrà nel romanzo successivo di Harris, The Silence of the Lambs.
e) La tigre e l'agnello
L'amore per la poesia di William Blake dimostrato da Harris si coglie fin dal titolo del suo terzo best-seller. In esso, infatti, si intuisce, con una certa qual facilità, l'eco di una delle più celebri composizioni del poeta inglese, Tyger, Tyger, Burning Bright. Per Blake (convinto assertore di un dualismo Bene/Male presente nell'esistenza di qualsiasi creatura, ma superabile mediante l'accesso ad una superiore totalità che deriva dalla preminenza dell'Arte sulla Vita), la tigre è, infatti, frutto della stessa mano creatrice che ha formato l'agnello ("Did he who made the lamb make thee?") (38). Ma il silenzio degli agnelli è anche quello cui aspira la stessa protagonista del romanzo: cancellare dai propri sogni il grido lancinante e penoso delle bestie portate al macello. Ed agnelli sono anche gli esseri umani che soffrono per mano del sadico assassino che i giornali hanno battezzato Buffalo Bill per la sua tendenza a scuoiare le proprie vittime. Il rapporto 'simpatetico' che si instaura tra Clarice Starling, ancora studentessa presso la Scuola di Polizia dell' FBI a Quantico ed Hannibal Lecter si fonda, infatti, sulla speranza disperata (da parte di Clarice) che questo avvenga davvero(39).
Una volta uscito di scena Will Graham (dopo il micidiale confronto diretto con Dolarhyde che lo ha lasciato definitivamente distrutto nel fisico e nella psiche), Jack Crawford, direttore della Scuola di Polizia di Quantico, ormai prossimo alla pensione e con la moglie Bella in fin di vita, non ha più nessuno da lanciare alla caccia dello scuoiatore pazzo. Decide, allora, di servirsi di una aiutante ancora inesperta (ma giudicata già abbastanza abile da poter prendere il posto di Graham) e di chiedere la 'consulenza' indiretta del dottor Lecter. Questi accetta in cambio del racconto della storia dell'infanzia e dell'adolescenza di Clarice. Nel sottile gioco di dare ed avere che si instaura, Lecter si rivela protagonista assoluto. Se, in Red Dragon, egli era stato soltanto il "doppio" malvagio di Graham, in The Silence of the Lambs vuole essere qualcosa di più: il deus ex machina dell'intera vicenda. Il patto che egli stringe con Clarice (la vita interiore della futura agente FBI in cambio del vero nome dell'assassino prima che uccida la sua ultima vittima, Catherine Baker Martin, figlia di una influente esponente del Congresso), rivela, da un lato, la biografia 'segreta' della ragazza, dall'altro, conduce al trionfo finale dello psichiatra. Servendosi del nome dello 'scuoiatore folle' (che, peraltro, egli già conosce e che ha deciso di rivelare poco a poco, in cambio di alcune lievi attenzioni dello stato di strettissima vigilanza cui è sottoposto e come se si trattasse di una sua personale intuizione), Lecter riesce a farsi trasferire dal manicomio criminale di Baltimora ed, infine, con un macabro stratagemma, a recuperare la libertà. Ma, prima di attuare la sua fuga, nell'ultimo colloquio con Clarice, le lascia indicazioni tali da permetterle di individuare l'assassino(40).
Con le sue dichiarazioni enigmatiche e con il suo silenzioche spesso è più rivelatore delle fluenti, ma sovente inutili concioni che declama per depistare i suoi ascoltatori, Lecter rivela, sottilmente, quasi inconsapevolmente, la verità a Clarice. In questo modo, si assicura una parte da protagonista in tutta la vicenda e risulta il personaggio più significativo del romanzo. Ed, infatti, ciò che è veramente nuovo in The Silence of the Lambs non è certamente la figura dell'assassino che 'colleziona' la pelle delle donne che ha ucciso per farsene dei vestiti che lo facciano assomigliare (almeno nell'aspetto esteriore) alla Donna che vorrebbe essere. Il fatto stesso che ]ameame Gumb strappi delicatamente la pelle alle donne che tiene prigioniere e che agisca sulla base del desiderio di trasformare se stesso attraverso la distruzione di ciò che sente di essere non è, comunque, originale. Il macabro rituale cui Buffalo BilI sottopone le proprie disgraziate vittime è presente in almeno due romanzi di Ed McBain (41) ed il tema della follia da collezione è al centro del primo, fortunato romanzo dello scrittore inglese John Fowles (42). Il protagonista assoluto di The Silence of the Lambs resta, nel bene o nel male, il simbolosimbolo della ragione che si rovescia nell'orrore, dell'orrore che è in se stesso ragione: uno psichiatra che cura le menti portandole alla follia ed i corpi riducendoli in pezzi. Una contraddizione vivente: tale è il dottor Hannibal Lecter.

NOTE
(24) Thomas Harris, Black Sunday (1975), trad. It. di B. Oddera, Sperling & Kupfer, Milano 1989, pp. 90-91.
(25) Cfr. Morton D. Paley, William Blake, The Greenwich House, New York 1983.
(26) Thomas Harris,
 


 
strategie e accerchiamenti della paura 
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Giuseppe Panella
 
IL LIMITE DEL FURORE - 3
Parte Terza
 
2) JAMES ELLROY. ARCHEOLOGIA DEL DELIRIO
a) Il sangue degli innocenti

Aver analizzato per tante pagine l'universo di discorso in cui si sviluppa il mondo narrativo di Thomas Harris, permetterà di essere più veloci, meno didattici riguardo i personaggi ed il modello di scrittura che caratterizzano l'opera di James Ellroy. Quello che Harris si limitava a comprendere dall'esterno, Ellroy lo ha vissuto all'interno di un'esperienza autobiografica tra le più lancinanti e spaventose che si possano aver provato sulla propria pelle. Non è un caso che The Black Dahlia (a tutt'oggi, il suo best-seller più riuscito) sia dedicato alla memoria di sua madre. La peculiarità dell'opera dello scrittore californiano è tutta legata all'opera di accorto montaggio delle vicende della sua vita: quanto in essa vi sia di sincero omaggio alle sconcertanti circostanze della sua nascita come romanziere e quanto di essa sia, invece, il frutto di una ben orchestrata strategia narrativa bisognerà dedurlo da un breve esame della sua esistenza passata. Nato a Los Angeles nel 1948, il primo avvenimento peculiare che lo sconvolge è il divorzio dei suoi genitori: suo padre (un piccolo procacciatore d'affari che naviga prudentemente nelle acque basse della malavita locale) e sua madre (un'infermiera di origine tedesca con una irrefrenabile tendenza alla promiscuità) si separano poco dopo la nascita del figlio. Affidato alla madre, il suo ricordo migliore di quegli anni sono i week-end durante i quali suo padre gli legge ad alta voce brani dei romanzi di Jim Thompson o di Mickey Spillane di cui è appassionato cultore (il legame tra l'opera letteraria di Ellroy ed i maestri dell'hard-boiled school, da Hammett a Chandler o a Burnett è dichiarato fino a sfiorare, in alcune circostanze, il plagio deliberato). Poi, la tragedia: un sabato del 1958, il corpo strangolato di Geneva Hilliker viene ritrovato senza vita dietro un cespuglio; il suo assassino (rimasto poi per sempre sconosciuto) era stato, probabilmente, uno dei suoi occasionali accompagnatori incontrato in qualche single bar. Questo episodio spaventoso segnerà tutta la vita letteraria di Ellroy; la dedica di Dalia Nera del 1987 sarà, infatti, il memento e l'epigrafe per la vita stroncata (e sciupata) di sua madre:
"A Geneva Hilliker Ellroy (1915-1958). Madre: ventinove anni dopo, queste pagine d'addio in lettere di sangue"(43). Dopo l'assassinio della mamma, il futuro scrittore va a vivere col padre che lo lascia, a diciotto anni, con una assai poco cospicua eredità: un orologio, un esiguo libretto di banca, il servizio militare come scelta di vita. Ma l'impegno nell'Esercito dura poco: congedato 'con disonore' pochi mesi dopo, ritornato a Los Angeles, lo scrittore inizia un'odissea per le strade della città californiana che ritornerà, con puntualità ossessiva (come gli incubi notturni nei versi dei poeti romantici inglesi), nelle pagine di tutte le sue opere narrative. La sua vita diventa quella che egli stesso definirà, con suggestione rimbaldiana, "una stagione all'inferno": ladro abituale, bevitore fino al limite estremo dell'alcoolismo, consumatore di anfetamine fino all'età di ventinove anni, la sua esistenza sembrerebbe l'equivalente di quella di un poeta maudit di fine Ottocento senza, tuttavia, il conforto di un'educazione letteraria (una Bildung) in grado di darle una ragione o un qualsivoglia significato oggettivo. Finito in carcere, Ellroy rimarrà poi per quarantacinque giorni nell'ospedale psichiatrico della prigione della Contea di Los Angeles (questa esperienza sarà il fulcro intorno al quale ruoterà il meccanismo narrativo di Perché la notte del 1984 (44)). Dal 1966 al 1977, egli vivrà un'esperienza che lo accomuna (e che gli permette di descrivere con competenza e con ferocia chirurgica) l'esistenza dei piccoli delinquenti, dei crackers che popolano le pagine di tutti i suoi romanzi: la deriva notturna, le cattiverie gratuite, la follia quotidiana ed assurda della Metropoli, l'esplodere incontrollato della furia, il vuoto fine a se stesso della mente. Durante la "notte senza fine" (45) di quegli anni, si trova a contatto con un serie di vicende ossessive ed allucinate che costituiranno il sostrato variamente esperito del suo universo narrativo: per alcuni mesi, ad es., sarà saltuariamente impiegato in un sex-shop (le risultanze di questo breve impegno lavorativo si trovano, descritte con perizia e cinismo imbevuti di umorismo sottilmente macabro, sia nel già citato Perché la notte sia ne Il Grande Nulla del 1988). Nel 1977 , allora, Ellroy si trova ad un bivio: costretto a decidere se continuare nella condotta di vita finora scelta (con lo sgradevole risultato di una fine precoce per alcoolismo), sceglie enfaticamente di accettare "la Vita" (ovverossia di imboccare la strada che conduce alla letteratura) e di diventare "il più grande scrittore di romanzi polizieschi" della sua epoca. In realtà, come è facile arguire, il pathos sotteso a questa decisione è anch'esso intriso di letterarietà: fra la vita e la morte, la letteratura rappresenta, da sempre, una 'terza via' che assume i caratteri magniloquenti della vocazione. Quanto sia stata spontanea la chiamata per Ellroy non è dato sapere: fatto sta, tuttavia, che il limite della sua produzione è proprio nel suo autobiografismo esibito come un' 'opera d'arte esistenziale' la cui sincerità risulta, alla fine, inficiata dal suo stesso intellettualismo (allo stesso modo, la lettera del carcere più lunga mai scritta e mai spedita -il c.d. De profundis di Oscar Wilde del 1897-trova, nel limite mai raggiunto della 'sincerità letteraria', i momenti più liricamente toccanti di una auto-confessione che non sarebbe risultata certamente così suggestiva se non fosse stata 'corretta' dalla passione per il mot juste e per la consapevolezza stilistica). Per questo stesso motivo, se, per le opere narrative di Thomas Harris, è stato necessario ricorrere ad un'analisi dettagliata delle motivazioni profonde dei suoi personaggi e ad una ricostruzione accurata della loro presentazione sul piano stilistico, non è necessario compiere un'operazione analoga per i romanzi di Ellroy. Il movente profondo delle sue orchestrazioni romanzesche è sempre lo stesso (il dominio sulle proprie emozioni e sulle proprie ossessioni conquistato duramente mediante un passaggio attraverso la sofferenza e, spesso, raggiunto solo con la morte), il suo linguaggio, sovente modellato liricamente, spesso violento e realistico fino alla crudezza, trae origine dalla necessità di mostrare con decisione i risultati concreti delle ossessioni che giacciono nell'inconscio mai esaustivamente scandagliato dei suoi personaggi, i protagonisti delle sue ricostruzioni letterarie (rigorose dal punto di vista storico - è il caso della tetralogia costituita da Dalia Nera, Il Grande Nulla, Los Angeles-Strettamente Confidenziale del 1990 e White Jazz, ancora non tradotto in italiano (46)) si riducono tutti ad un unico archetipo. Per lo scrittore californiano, tutti (poliziotti che indagano, vittime che subiscono, assassini che infieriscono) hanno in comune la stessa psicologia, lo stesso modus operandi, la stessa delirante strategia per la vita: trovare uno scopo alla propria esistenza, cercare fino alla fine il luogo dello spirito dove è racchiuso the big nowhere che darà un senso alla propria realtà.
b) La notte e l'anima
Facendo frutto della 'vera' eredità lasciatagli dal padre (la passione per i romanzi polizieschi basati sulla psicologia dei personaggi e non sul corretto dispiegarsi del meccanismo di precisione dell'indagine poliziesca), Ellroy esordisce positivamente con Brown's Requiem, un thriller pubblicato nel 1981. Da allora, la sua attività non avrà soste: nel 1982, esce Clandestine premiato con una segnalazione della giuria del prestigioso Edgar Allan Poe Award, nel 1984 scrive la prima sezione della trilogia idealmente dedicata alla vicenda del poliziotto Lloyd Hopkins (Blood on the Moon, banalmente tradotto in Italia con il meno suggestivo titolo de Le strade dell'innocenza(47)), la prosegue, sempre nel 1984, con Perché la notte, e la conclude, nel 1986, con Suicide Hills. Dopo un romanzo di 'transizione', Silent Terror del 1987, inizia la tetralogia sulla storia della polizia di Los Angeles che si è precedentemente ricordata. I romanzi che la compongono, pur essendo collegati dall'esile filo del police procedural, possono essere considerati indipendenti l'uno dall'altro e, pur raccontando vicende strettamente legate alla cronaca della città, costituiscono un affresco impressionante degli incubi ricorrenti nell'immaginario sociale americano dopo la morte (e decantazione) dell' American Dream. I suoi legami con la storia sono figure inquietanti di delinquenti da strapazzo (come Mickey Cohen, il gangster di origine ebraica che voleva emulare il leggendario Dutch Schultz, protagonista famigerato dell'epoca del Cotton Club e del Proibizionismo nella New York degli anni '30 (48)), gangster entrati per la porta principale nella storia del loro paese (Bugsy Siegel, non a caso elegiaco protagonista dell'ultimo film diretto da Barry Levinson), miliardari passati alla leggenda (il mitico Howard Hughes, inventore, eccentrico proprietario della RKO ed accanito 'cacciatore di streghe' nell'era maccarthista della crociata contro i presunti comunisti infiltrati ad Hollywood) e teppisti da quattro soldi (come Johnny Stompanato, il cui unico merito in vita è stato quello di morire per mano dell'attrice Lana Turner, di cui fu, per breve tempo, l'amante). Ma il rapporto più preciso che Ellroy riesce a stabilire tra vicende del passato non tanto remoto e la sua storia personale è costituito dall'episodio che è al centro di Dalia Nera: la violenza barbaramente ed efferatamente commessa sul corpo di Elizabeth Short, il cui cadavere tagliato in due, torturato e poi ricomposto dall'assassino, venne ritrovato il 15 gennaio del 1947 a Los Angeles, all'incrocio tra la South Norton Avenue e la Trentanovesima Strada. La somiglianza tra la sorte della Short (aspirante attrice dai facili costumi) e quella della madre ispirano allo scrittore americano una storia dal ritmo incredibile e verosimile al tempo stesso: il suo tentativo di soluzione della vicenda criminosa (il cui responsabile non è stato, in realtà, mai rivelato dalle indagini della polizia) è un vero e proprio tour de force narrativo che si conclude con la scoperta di un assassino e l'auto-distruzione di quasi tutti i protagonisti (fittizi o reali) della vicenda. In essa, tutti, vittime e carnefici, escono fisicamente e moralmente distrutti: nella notte della loro anima, essi ritrovano i fantasmi del loro passato e gli incubi del loro presente trasformati in realtà dall'abisso del delirio con cui sono costretti, volenti o nolenti, a fare i conti. Ellroy forza i limiti del genere fino a costruire delle opere che vanno al di là del meccanismo narrativo di intrattenimento per sondare i punti oscuri ed i 'buchi neri' dell'animo umano. La forza e la potenza del suo linguaggio artistico (di difficile resa in italiano (49)) rendono visibili incubi ed allucinazioni, labili le differenze tra sogno e realtà, inutili le barriere tra verità e menzogna. Nelle sue pagine, il pessimismo cupo dello sfondo rende necessario lo sforzo conoscitivo impiegato per ritrovare la nitidezza del primo piano, per distinguere le figure nella nebbia, per separare l'oscurità dalla luce del sole "perché la notte - scrive Ellroy, parafrasando il Nietzsche di Al di là del bene e del male -esisteva per essere saccheggiata, e solo una persona al di sopra delle sue leggi poteva sperare di raccogliere il bottino e sopravvivere" (50). Gli incubi presenti nella sua narrativa sono quelli di un'intera generazione: il suo passato è quello, nascosto deliberatamente (o inconsapevolmente) dal facile ottimismo esibito dai media, della 'faccia oscura' dell' America intera; il suo futuro (letterario) promette, per ora, di continuare a mostrarne instancabilmente l'allucinante verità.

NOTE
(41) I romanzi di Ed McBain cui si allude come possibile fonte per Il silenzio degli innocentisono Calypso per l'87° Distretto (Il Giallo Mondadori 1653, 1980) e La gatta con gli stivali (Il Giallo Mondad
 


 
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Mario Amato
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PREGHIERA PER UN FRATELLO
 
“A mio fratello Filippo”

Molti anni or sono si consumò in una foresta una tragedia ed un miracolo.
La morte è un evento noto fin dalla nascita, ma trova sempre il modo di sorprendere.
Un uomo giovane e forte e buono smarrì la via, vagò fra giganteschi alberi che parevano toccare il cielo, fra intricati arbusti che gli rallentavano il cammino, fra viottoli e sentieri e mulattiere senza principio né fine che sempre e sempre conducevano nel medesimo luogo; poi, stremato e stanco di quel vagabondare senza meta, smarrì anche il grande coraggio d’un tempo, si adagiò sul duro terreno, chiuse i grande occhi e spirò.
Lontano lontano da quel bosco viveva in una grande casa un giovane uomo che credeva alle storie e amava il silenzio ed i sogni quanto suo fratello desiderava le avventure e sprezzava i pericoli. Egli, al contrario, evitava i viaggi.
Quella sera tuttavia il silenzio non era il suo eterno amico, anzi era cupo e gravido di dolore, sebbene il crepuscolo dipingesse di dolci colori il mondo.
Il giovane aprì la porta della grande sala ed augurò la buona notte ai suoi anziani genitori ed andò senz’altro a coricarsi, ma con l’animo grave di inesprimibile pena.
Nella foresta frattanto il fratello maggiore, con un immane sforzo, prima di esalare l’ultimo respiro, aveva raccolto gli antichi vigori ed aveva chiamato a sé le anime dei cari estinti. Pietose, esse erano accorse ed egli aveva rivolto loro la preghiera di recarsi al più presto dal più giovane fratello nella grande casa e chiedere aiuto. I parenti allora, commossi da quel cuore ingenuo, presero la sua mano e lo condussero nel sogno del fratello.
Filamenti segreti e silenti, misteriosi ed invisibili avvincono il sangue.
L’anima parlò al suo primo compagno di giochi "Fratello, io giaccio senza vita in un’oscura foresta e non ho speranza di avere sepoltura. Ascolta, fratello, puoi ancora chiamarmi al tuo mondo, poiché la mia anima dimora ancora sulla terra, ma devi affrettarti. Sono ancora nel fiore degli anni ed è contro la legge che governa la natura che padre e madre piangano il figlio. Essi verseranno lacrime innumerevoli se tu non verrai a salvarmi. Tu puoi, ma devi intraprendere un viaggio. So, mio piccolo fratello, che sei pavido di avventure, ma allorché il sole sorgerà, evoca il coraggio sopito nei recessi del tuo cuore e mettiti in cammino. Ascolta le anime dei nostri morti: esse ti indicheranno la via e ti proteggeranno". Così parlò l’anima e tornò al corpo giacente nell’oscura selva.
L’alba sorse. Il fratello minore si levò dall’inquieto giaciglio, compì le mattutine abluzioni, preparò un leggero fardello, ché uno plumbeo gravava già sull’animo, aprì la porta della stanza da letto dei genitori, che, pur senza conoscere il mistero e la sorte amara del figlio del primo amore, avevano gli occhi umidi di pianto, salutò e si avviò.
Noi stessi che narriamo questa storia, e non per caso, abbiamo dovuto interrompere il racconto invasi dal pianto.
Le anime dei parenti indicarono la strada al ragazzo, sedettero al suo fianco quando egli sostò per rifocillarsi, lo destarono quando il sonno stava per vincere, lo sostennero quando le gambe rallentarono il passo, lo esortarono quando la speranza sembrò abbandonarlo, e più e più volte asciugarono il suo viso.
Era il tramonto quando giunse alfine presso l’amato fratello.
Le anime parlarono. Accadde che tutt’intorno si fece silenzio. Egli poteva udire: genuflesso accanto all’inerte corpo compiva una fatica che non è di questo mondo per ascoltare parole che venivano "Tu credi ai sogni, ora pronunzia una preghiera per tuo fratello maggiore, per colui che sempre ti ha protetto, ti ha preceduto nel percorso anche quando v’erano rischi, ascolta leva gli occhi al cielo, recita la preghiera che noi ti suggeriremo, recita con pieno amore e non dimenticare nessuna parola".
Ed egli recitò con voce accorata fino a che egli stesso divenne preghiera.
Ed avvenne che incontrò l’anima del fratello in luogo ove non è morte e non è vita.
Si levarono, si strinsero per mano ed intrapresero la via del ritorno, stanchi e felici.
Le non visibili presenze avevano lasciato quel luogo ed erano tornate al loro mondo.
 


 
strategie e accerchiamenti della paura 
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Roberto Miele
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ABSIT INIURIA VERBO
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Si dis-vive in Italia un periodo pre-elettorale perenne, interessante oltre che per le eventuali diagnosi, prodigalmente tese tra significante dato e significato da stabilire, con una cronica quanto meno specialistica esigenza di ermeneutizzazione (il carattere esegetico di tali iniziative analitiche lascia presupporre, nella maggior parte dei casi, un contenuto riposto, ma come se le zampe di una sindrome tarlassero il proibito), fenomeno della "ricezione" in(d)iziatica; anche per quanto concerne l'aspetto rigorosamente funzionale dell'interferenza del contado, vale a dire di tutte quelle manifestazioni oblique create o risorte dal sostrato storico per depistare gli utenti (per dirla con le parole di Antonio Delfini, "qualche fantasma" che "potrebbe o vorrebbe o penserebbe di venir fuori a dire: "Quel tal fatto io non l'ho commesso, ma sono io quel tale che non l'ha commesso"), in linea di massima spettatori televisivi, e comunque fruitori dei mass-media, essendo i referenti del periodo elettorale e non.
Due paradossi, dunque: la codificazione del linguaggio politico, o meglio, usato dai politici, da che non esiste un linguaggio specialistico, a dispetto delle rivendicazioni in voga di alcuni candidati, circa la scelta di una formula espressiva a favore di tutti, entro le affabulazioni del cosiddetto politicante (una figura non certo nuova, d'altronde, come non è nuova la strategia adottata -e non potrebbe essere altrimenti, considerato che si tenta di far presa sugli asini con la retorica della carota); e, secondo paradosso, quello di un'informazione, anziché delucidativa, depistante (qualcuno ne ha evidenziato la perfetta funzionalità, contestando, in caso contrario, lo statuto dell'informazione), sorretta dal quanto mai volgare tentativo (quasi sempre con i risultati previsti, se non addirittura maggiori rispetto all'orizzonte d'attesa) di risvegliare dei terrori congeniti e ipertrofici (non pochi benvenuti si rivolgono allo spettro delle "brigate rosse", a mio parere patetico quanto lo erano gli scherzi che subivo da piccolo, in cui, dopo una serata trascorsa a raccontare alcune storie dell'orrore, ci si appartava un attimo per ricomparire avvolti da un lenzuolo) o di crearne dei nuovi, se pure questo sia, non solo praticamente impossibile (o "poca cosa" direbbe Blanchot), per il semplice fatto che lo spettatore ricicla quel po' di scaltrezza avuta in prestito (magari dal partito o dal personaggio che voterà, e che si ritrova bersaglio della strategia in questione), per scansare i colpi (mentre sarebbe meno dispendioso abboccare a quanti sussurrando lasciano presagire di essere al corrente dello "scheletro nell'armadio"; e quanti ne hanno gli italiani…), ma moralmente inaccettabile (sarà, ma chi ha inventato la morale? come la si interpreta?).
Tali paradossi risultano tanto meno paradossali quanto più gratificano l'idiozia dei fruitori.
Qualche anno fa il sempreverde grembo hollywoodiano partorì "Sesso e potere", tra i cui interpreti spiccavano (per fama, si intende!) Robert De Niro e Dustin Hoffman. Per coloro che non hanno avuto la possibilità di vederlo, e a quanti lo hanno solamente gustato, tornerà comodo, e non certo fuorviante, la focalizzazione delle strategie adottate dall'intelligence del presidente degli Stati Uniti per ovviare ad uno scandalo (un sex-gate, non privo di allusioni) esploso a poche settimane dalle elezioni prossime venture.
In breve (per la trama ed un giudizio critico rimando al Mereghetti) fu inventata una guerra in un paese dell'Europa balcanica, che chiamava in causa la diplomazia del presidente stesso (una sorta di sofisma che si richiama all'autorità) spostando l'attenzione degli elettori, in senso orizzontale (dal sex-gate, di carattere privato, alla guerra, di risonanza mondiale) e verticale (dal ventre presidenziale alla mente). La guerra, inutile ripetersi, fu elaborata su di un set cinematografico, con l'ausilio dell'avanguardia telematica, che pure dovrebbe offrire qualche spunto per la riflessione, demiurgo del paesaggio bombardato, e dell'attrice fuggente con in braccio un gattino. Commovente, vero?
Il risultato fu non solo l'avvenente disinteresse degli elettori, circa lo scandalo suddetto (anch'esso strategico, ma elaborato dalla concorrenza politica:…meditate), ma, terminata la guerra, in virtù della competenza dello staff presidenziale, l'adesione incondizionata (il libero arbitrio!!!) al suo partito, anche da parte di quelli inizialmente scettici o più inclini al condizionamento della "opposizione".
Dis-viviamo in Italia un periodo pre-elettorale perenne, e il suo ingresso in Europa, le tanto attese (e offese) elezioni europee, potrebbero incautamente infonderci il sospetto orwelliano (la psicosi demonizzante e decauterizzata, volgarmente diffusa come "sindrome del complotto"). Le ingenti tasse reclamate dalla popolazione sono simbolicamente rappresentabili quale fila anonima presso uno sportello del banco dei pegni, con la consapevolezza che, prima del diretto interessato, qualcun altro salderà il conto, estinguendo-si, con non poche agevolazioni.

gennaio 2002
 


 
strategie e accerchiamenti della paura 
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Sandra Palombo
[ plmb@iol.it ]
 
D.A.P.
disturbi da attacchi di panico
 
Traballante terreno
luce strana , diversa
segnali rossi, pericolo,

- inspirazione espirazione-

estremità sudate
falsi passi lunghi
andamento bloccato,

- respirazione controllata-

miraggio, oasi
sicura e protetta,
meta inaccessibile

- rifugio di pensiero-

ritmo tamburante
cuore in protesta
veloce e irregolare;

- tachicardia rampante -

tensione muscolare,
arti legnosi impalati
mente incontrollata;

- momento culminante-

falso svenimento,
squilibrio corporale,
paura da pensiero,

- panico avvolgente-

pazzia totale come
alternativa sana
a questa malattia

- D.A.P.-