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Leggi Scrivi all'autore Massimo Silvestri IL SENTIERO DEGLI SPECCHI
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  registrazione n.94 del 28.2.1972 presso il tribunale di frosinone
direttore responsabile alfonso cardamone
 



 
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Alfonso Cardamone
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LO SVILUPPO INFELICE
 
Il mai troppo compianto Pier Paolo Pasolini, maestro di pensiero se non di vita, in un suo "bozzetto" sulla rivoluzione antropologica in Italia, scriveva: "Non è la felicità che conta? Non è per la felicità che si fa la rivoluzione? Lo Sviluppo, poiché non dà che angoscia, non è in nessun modo rivoluzionario". Tagliando così corto, molti anni prima del cosiddetto "crollo delle ideologie", sia con le mistificazioni del marxismo volgare e del "socialismo reale" sia con gli spudorati inganni della mitologia capitalistica dello Sviluppo. E agganciandosi -aggiungiamo noi-, direttamente o indirettamente, al messaggio del grande pensatore dell'Utopia Concreta Ernst Bloch: "Dai tempi più antichi la meta della ricerca della felicità -che l'interiore diventi esterno e l'esterno come l'interiore- non abbellisce e conclude, come in Hegel, il mondo esistente, ma è collegata invece con quello non ancora presente, con le qualità del reale cariche di futuro". Perché scomodare "hic et nunc" questi nomi? Perché noi siamo convinti di trovarci intrappolati in un mondo e in una società che l'ideologia e la pratica dello Sviluppo selvaggio e del profitto ad ogni costo rendono sempre più "inquinati" a tutti i livelli (compreso quello delle coscienze) e sempre più infelici, probabilmente per tutti, sicuramente per i più deboli ed indifesi. Ed allora diventa irrinunciabile, per chi come noi non si adatta a questo stato di cose, riproporre i temi della Speranza rivoluzionaria e dell'Utopia Concreta, per un impegno di lotta per un mondo che non sia più solo un immenso inceneritore di beni naturali, di energie e di coscienze umane, ma piuttosto un laboratorio di terrena felicità.
 


 
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Zelinda Carloni
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UNA SPLENDIDA E MOSTRUOSA ESSENZA
 
La speculazione sull'uomo, sulla sua natura e sulla sua essenza, ha una grave carenza rispetto alle cosiddette scienze esatte: queste hanno da sempre considerato il tempo come una funzione imprescindibile e centrale della elaborazione teorica mentre quelle, le scienze umane, hanno spesso trascurato questa funzione, e ciò con pesanti risentimenti delle circostanze teoriche. Il tempo delle scienze umane è fondamentalmente stato affidato alla considerazione della storia come disciplina preposta alla sua analisi, ed invece è proprio il concetto di tempo che assume la storia quello che è meno utile, se non addirittura deleterio, a considerare e ad intendere l'universo uomo. Intanto il tempo considerato dalla storia è spaventosamente, ridicolmente breve, rispetto al tempo realmente vissuto dall'uomo. Ciò è nato dal presupposto aberrante che la storia inizi (che il tempo dell'uomo inizi) con la sua scrittura, o giù di lì. È pur vero che l'antropologia ha uno sguardo un po' più lungimirante, ma è ancora del tutto modesto il contributo che questa disciplina, che dovrebbe essere centrale, ha dato alla storia del pensiero speculativo.
In realtà le scienze morali dei dati antropologici hanno ben poco tenuto conto. Nella storia del pensiero umano solo il mito si spinge più oltre e tenta lo Spazio e il Tempo come assunzione non funzionale ma sostanziale. Eppure ciò, che pur s'avvicina ad una più corretta impostazione del problema, non è ancora sufficiente. Perché il mito è pur sempre legato alla memoria, e dirò ad una memoria "storica", genetica, antropologica, che fa pur sempre riferimento a ciò che in qualche modo è il dato dell'esperienza della specie. Ma si può forse pensare che il Tempo esista solo in funzione della nostra memoria, e che in nessun modo debba interessarci il Tempo altro da noi, e che nessuna influenza possa avere o aver avuto o poter avere sulle nostre categorie di pensiero? È forse ipotizzabile che tutto il tempo che non ci ha compresi e non ci comprenderà né come individui, né come specie, né come mondo, debba perciò essere concettualmente trascurato?
È il Tempo il dato primo da cui bisogna ripartire per riconsiderare i dati della speculazione sull'esistenza.
È pur vero che esiste un tempo soggettivo che può anche essere considerato un universale, all'interno del quale si può fingere una rappresentazione del mondo convenzionale ma necessaria. Ma quando si va oltre l'io individuale, alla ricerca di un dato più radicale e profondo che coinvolga la specie intera in un tentativo onnicomprensivo, non è possibile trascurare la presenza del tempo e la sua assunzione ad elemento primario ed ineludibile dell'osservazione.
Si è detto il tempo che non ci ha compresi e non ci comprenderà: si è finto da secoli di non sapere tutto questo, continuando a lavorare di mente come se questo dato fosse relativo o peggio insignificante: non lo è. I dati della morale, che apparentemente sembrano lontanissimi dal nutrire dipendenza da questa circostanza, sarebbero probabilmente sovvertiti se messi di fronte a questa necessaria considerazione. Intanto sarebbe incontestabile la loro appartenenza ad un orizzonte fornito di meschine dimensioni, ad una convenzionalità fuori misura senza essere, come dovrebbe, dismisurata.
L'essere del Tempo, anche solo dai dati delle "scienze esatte", ci viene proposto come un immane contenitore che da solo riesce a contenere essere e non essere, una splendida e mostruosa essenza senza dimensioni, perché le contiene tutte, che metabolizza la vita e la morte, il nulla e l'esserci, che si riproduce su se stesso e da se stesso.
La cronologia è una sistematizzazione del Tempo, a cui siamo abituati ad attenerci, che è del tutto inadeguata a fornire un elemento di comprensione del dato: la necessità di creare una dimensione convenzionale al tempo ci ha lasciato credere che esso venga scandito dagli orologi.
Nell'attesa di essere in grado di valutare con il giusto respiro l'importanza del Tempo per la comprensione dell'uomo e della sua esistenza, sarebbe buona regola assumere la lezione della poesia e del mito, che è la poesia del tempo dell'uomo, per poter ripensare le circostanze del nostro esistere.
 


 
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Giuseppe Panella
 
ALLA SUPERFICIE DEL MODERNO
note sul rapporto tra arte e Metropoli nella cultura del Novecento

PARTE 1 - PROLOGO IN TERRA

 
"Una dialettica, che non resti più "incollata" all'identità, provoca se non l'occusa
di non avere terreno sotto i piedi ? che si può riconoscere nei suoi frutti fascisti -
quella di far venir le vertigini. Tale sensazione è centrale nella grande poesia
a partire da Baudelaire; anacronisticamente si fa ora capire alla filosofia che non
deve avere niente a che fare non cose del genere"
.
(Theodor Wiesegrund Adorno, Dialettica negativa)

1. PROLOGO IN TERRA
Punto di partenza di gran parte delle più importanti esperienze estetiche cd artistiche tra la fine dell'Ottocento ed i primi tre decenni del Novecento è la sicura consapevolezza di ciò che la Città sarebbe divenuta nel futuro più prossimo: la Metropoli. Nella New York di Whitman, come al polo opposto, nella Dublino di Joyce (1) si ritrovano tutti i segni della trasformazione antropologica di cui la Città sarà la maggiore artefice (anzi, la protagonista assoluta).
Nelle tre ricostruzioni di tale mutamento (che ho scelto come campione di un repertorio che potrebbe essere altrimenti ben più vasto), la Città per eccellenza al centro dell'indagine è Parigi: un microcosmo che raccoglie al suo interno infinite possibilità di attraversamento e di lettura degli accadimenti storici.
La città (come assai bene aveva capito Thomas Mann che dedicò a questo fenomeno un saggio esemplare (2)) non sono soltanto punti sulle carte geografiche, ma soprattutto luoghi dello spirito. Parigi è la Città che da sempre allude alla grande Metropoli che, per molti, moltissimi anni, è stata. Per Walter Benjamin, che ne fu suo 'incantato' descrittore e suo primo, esauriente 'cartografo', per Schinitzler che la considerò il luogo adatto (insieme alla Grande Vienna fin de siècle) per la sua messa in scena del `teatro della Storia' (3), per Aragon e per Breton che la lessero come la ricostruzione "topografica" del loro inconscio di artisti, Parigi rappresentò il punto ideale di connessione in cui coordinate teoriche e pratica letteraria potevano intersecarsi e divenire realtà concreta: il toppunt in cui esse si riconobbero incontrandosi per ricostruire, poco a poco, un mosaico interminabile che permise loro di mostrare quello spettacolo cui solo per accenni e per ammicchi avevano avuto la possibilità di alludere. Anche per essi, Parigi rappresentava in sé una categoria dello spirito: rimandava a qualcosa che soltanto nella Storia e nella Teoria aveva ritrovato la propria ragion d'essere. Nel suo crogiuolo, destini generali e destini individuali si incontrano per costruire qnel 'mito' (per usare un'espressione cara a Giovanni Macchia) che la renderà, attraverso gli ultimi due secoli, il territorio incontaminato della sperimentazione artistica ed il regno elettivo degli intellettuali "in esilio" rispetto alle città della produttività dispiegata. Parigi è il luogo del dominio della pratica artistica, ma è anche (nello stesso tempo) il laboratorio dove verranno sintetizzati i composti chimici e le soluzioni alcaline per la disgregazione programmatica di essa. Nei suoi vicoli, nei suoi passages, nei piccoli alberghi a poco prezzo, nelle mansarde, nelle soffitte dai vetri rotti e dalle porte malferme, nelle osterie, nei bistrots e nei sobborghi che ne costituiranno la cintura suburbana sempre più integrata al suo centro storico "naturale", tutto si compie in anticipo e ciò che in essa si verifica condanna le altre Metropoli del "mondo nuovo" all'imitazione ed all'inseguimento (o, almeno, una simile situazione si è verificata fino all'avvento ed al trionfo dell'informazione telematica).
Ville Lumiére del presente e dell'avvenire, nelle sue strade si consuma in anticipo quello che più tardi darà senso alla vita degli altri (e costituirà, forse, il vero motivo della sua crisi come città?guida in ognuna delle attività in cui eccelleva "Merita di essere raggiunto dalla sua epoca colui il quale si limita ad anticiparla" (Wittgenstein, 1930)). Per questo motivo, come si è già detto, diviene una città?emblema: simbolo araldico della vecchia Europa. In questa sua condizione di stemma vivente, la Metropoli appare lo specchio di qualcosa che già si intravede dietro di essa: le trasformazioni oggettive della struttura economico?sociale si rivelano dapprima quali mutamenti simbolici, come tarli sottili che incrinano l'apparente solidità dell'unità sociale. Gli sconvolgimenti urbanistici che affascinano il Benjamin del Passagenwerk, le sottili alchimie verbali che trasportano il sogno nella realtà e poi riconducono questa a quello, l'irruzione del misterioso (4) e del pre?conscio nella vita quotidiana sotto forma di trouvailles (strani oggetti senza norma né funzione che, tuttavia, obbediscono egualmente ad altre norme e ad altre funzioni ? che parlano, di conseguenza, un linguaggio altro rispetto a quello della quotidiana fatica del giorno e della veglia (5)) possono essere unificati (nella loro capacità allusiva) sotto il segno e la protezione di Parigi, dinamica metafora di se stessa, di una verità, dunque, che si lascia a malapena intravvedere. I problemi che risultano connessi all'interpretazione di quei segni lasciano intendere, alludono al nuovo che sta emergendo per ergersi vittorioso sulle rovine del vecchio che è ormai sulla via del trapasso. Nelle grandi città (e, soprattutto, nella Metropoli allora prossima ventura il cui modello era dato da Parigi) il futuro si ritrova così, inaspettatamente, nei polverosi residui di un passato che non parla più se non a chi sa interrogarlo, nell'archeologia sottile di chi sa rintracciare nei fossili l'avvenire e l'avvenire in un passato che ne è già stato travolto.

NOTE
(1) "Anch'io vissi, Brooklyn dalle ampie colline fu mia,/Anch'io percorsi le strade dell'isola di Manhattan, e mi tuffai nelle acque che la circondano,/Anch'io avvertii strane domande improvvise agitarsi entro me./ Di giorno t
 


 
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Romolo Runcini
 
LO SPECCHIO DELLA NATURA E LO SPECCHIO DELL'ARTE
dal "Taccuino di viaggio 1991"
 
Davanti a me, dal finestrino, si estende una verde campagna che scende e sale dolcemente nelle basse colline, alberate con fusti sottili, e scheletrici, ancora privi di foglie. Ma nel verde della pianura sfolgorano altri colori forti e allegri dal rosso al rosa al bianco. Sono piccoli alberi in fiore? ciliegi, aranci, mandorli? che raggruppano in fasce distinte secondo la specie il tipo di colore congeniale alla pianta. È uno spettacolo affascinante che ogni primavera, da ormai vent'anni, mi colpisce sempre con lo stupore di una scoperta. La Campania felice offre ancora oggi, per nostra buona sorte, quadretti del genere dove la primavera trionfa come ai tempi della pittura rinascimentale in armonia col creato. È proprio l'analogia fra gli splendori della Natura e quelli della pittura più primaverile ad affacciarsi ogni volta nella gioiosa scoperta dello spettacolo agreste.
Ma c'è una differenza. L'armonia che cogliamo nella prospettiva pittorica risulta calibrata sulla prefigurazione del punto di fuga del dipinto su cui convergono tracce e campiture cromatiche in accordo ritmico con modulazioni plastiche intese tutte a costituire, nel segno specifico del linguaggio iconico, la struttura unitaria, totalizzante di un insieme di masse e energie naturali dominate e ridotte alla enucleazione di un momento, di un aspetto, singolari impressi dall'artista. La singolarità della scelta spazio-temporale definisce sempre la sfera creativa degli uomini e dello stile di un pittore.
D'altra parte l'armonia che promana dalla prospettiva naturale, multipla, deriva dalla suggestione di campi cromatici omogenei, compatti la cui disposizione è affidata al rigoglio di fertilità del terreno o all'ordine delle colture agresti, dalla spontaneità evolutiva o dall'utilizzo tecnico delle risorse rurali. Entrambi questi aspetti si configurano in un linguaggio onnicomprensivo, continuo, disponibile a qualsivoglia funzione. Non vi è compiutezza né fine nello spettacolo naturale appena emerso, anche perché le condizioni metereologiche e ambientali mutando nel tempo il grado e l'intensità del campo visivo finiscono per annullare ogni elemento ad esso intrinseco.
La differenza fra la prospettiva pittorica e quella naturalistica del paesaggio consiste dunque nella diversa dislocazione d'uso dell'atto di comunicazione linguistico. Per la prima si parla di visione, lettura di un insieme nei suoi particolari, per la seconda di sguardo, ricezione dei particolari nel loro insieme.
Nel primo caso il rapporto fra le parti e il tutto appare calibrato su precise scansioni spaziali, cromatiche, materiche. Nel secondo caso tale rapporto è puramente casuale. All'interpretazione fa riscontro così l'impressione, alla lettura attiva la ricezione passiva.
Il paesaggio dipinto di ciliegi in fiore ci induce a frugare tra i diversi dettagli figurativi per cogliere la linea, il tono del discorso che li unisce, senza appiattirli; il paesaggio naturale di ciliegi in fiore ci offre, ci impone subito, nella sua compattezza strutturale e cromatica, la linea unificante di un discorso generale, sempre identico. II fatto è che il primo discorso appartiene al gusto, è individuale, mentre il secondo deriva dalle leggi evolutive, è proprio della specie.
Per un verso il tutto è giocato sulle convenzioni, per l'altro sulle probabilità.
Quando la coincidenza di fattori ambientali e metereologici ci offre lo spettacolo affascinante di un campo di ciliegi in fiore guardiamo con allegrezza la Natura, apprezziamo il suo meraviglioso dispendio di energie nell'allestire quello scenario, e non possiamo fare a meno di pensare alle sue vaste capacità produttrici che le consentono di riuscire a imitare spontaneamente la destrezza dell'uomo.

 


 
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Alfonso Cardamone
[ a.cardamone@email.it ]
 
GLI SPECCHI DEL CACCIATORE
(Dramma poematico e catottrico in un atto e tre scene)
 
SCENA PRIMA


(Buio)

Voce registrata (dalla platea)
e venne il cacciatore alla montagna
Kessi era il suo nome e l'arco senza fallo
e venne il cacciatore alla montagna

Occhi di Notte lo visitò nei sogni
e le prede dei boschi furono subito
più preste dei suoi dardi
e venne il cacciatore alla montagna

disertando l'altare degli dei
a placare la fiamma del suo petto
venne Kessi alla montagna

Kessi (sulle ultime battute della voce registrata. Urlando)
Aaaaah... Udispsharri! No!
(Dall'alto, luce livida su Kessi, in piedi sul procenio, le vesti stracciate. AI suo fianco Udipsharri, che ha appena finito di legargli i polsi. La scena è un labirinto di specchi giganteschi e tenebrosi. Di spalle, più in profondità rispetto al gruppo Kessi-Udipsharri, una figura ammantata che regge una lanterna dalla quale si sprigiona una luce rossastra. Kessi, i polsi avvinti da monili come catene, solleva con violenza le braccia, strappando le estremità delle "catene" dalle mani di Udipsharri, che crolla in ginocchio, la testa girata così da rivolgere a Kessi la nuca) .
No! Questi monili che mi cingono i polsi, queste catene feminee con cui mi stringi le braccia, questi vincoli che il dio ti ha ordinato di infliggermi perche mi fosse consentito di varcare la soglia di bronzo, alla fine del mio lungo cammino, e seguirlo nell'ignota galleria dei morti senza che io vivo possa fuggirne, io li riconosco! Io già li seppi miei ed a me destinati, segni ambigui nell'ambiguo mondo dei segni.
Ah, Udipsharri, io li ho sempre visti, o sognati, questi monili, nei momenti in cui l'anima si faceva più cedevole: riflessi di giochi che credevo ingannevoli di specchi. E riflessi erano. Riflessi. Riflessi del mondo dei morti.
Erano essi che l'algore tagliente delle notti sull'altipiano dipingeva diafani e netti, come cristalli, nei cieli, quando seduto presso il fuoco il cacciatore sollevava lo sguardo a scrutare gli astri, monili, monili che si piegavano, si torcevano in cerchi e spirali a disegnare fantastici gorghi. E se gli occhi riabbassavo per un brivido, o chissà un oscuro presagio, la Luna giocava a serrarli leggeri intorno ai miei polsi.
(scuotendo con rabbia i monili)
Nooo! Udispharri, no!
Tu non sai, miserevole larva che fosti il padre della mia sposa diletta, tu non sai, anima perduta in questa estrema galleria che il Sole percorre e che mai piede mortale attraversò prima che il fato guidasse i miei passi corrotti dai sogni, che io gli stessi monili già vidi scintillare alle braccia lunate di Shintalimeni
(Udipsharri volta la testa di scatto verso Kessi)
quando la sentii cantare dietro la cascata la prima volta...

Udipsharri (brutale, aggrappandosi e tirando con forza i monili che stringono Kessi)
Parlami di Shintalimeni, dimmi della figlia che vive di là della porta, di lei, se vive...

Kessi (liberando con uno strattone le braccia dalla presa di Udipsharri)
Io venni fin qui seguendo i miei sogni. Tu non sai, verme che strisci nell'ombra, miserabile servo degli dei che mi avvincono e mi vogliono morto, tu non sai (mostrando e scotendo i monili) che allora già mi tinnivano più melodiosi della voce di lei, più fragorosi dell'acque della cascata.

Udipsharri (come sopra)
Parla! dimmi di Shintalimeni, della cascata, le acque...

Kessi No! tu non sai. Non sai che bevendo a quell'acqua io già li vidi, come adesso, stretti e scintillanti intorno ai miei polsi, che pure, allora, erano ancora forti e saldi e implacabili. Nessuna preda, in quei tempi, sfuggiva al cacciatore, ma i suoi polsi già erano stretti dai perfidi anelli.

(Buio)

SCENA SECONDA


Voce registrata (dalla platea) -
gli gnomi malvagi e mentitori
gli portarono via l'arco ed il mantello
e Kessi trovò riparo giù nel cuore
fondo più profondo della montagna

Occhi di Notte che gli venne in sogno
cercava il Cacciatore alla montagna
come un segugio cieco il Cacciatore
nel cuore fondo più profondo
della montagna

Kessi (intervenendo sulle ultime battute della Voce Registrata)
Madre, perche non volgi la testa dalla mia parte?

(luce diffusa sul palcoscenico. Kessi è avvolto nel mantello da viaggio. Ai suoi piedi, seduta, ma voltata come nella scena precedente Udipsharrl, la Madre)

Kessi Madre, ti prego, non posso partire senza la tua benedizione.
Guardami, madre, le montagne mi aspettano ed io ho paura. Le mie mani tremano (poi, piano, come a se stesso) , i polsi come legati (di nuovo a voce alta) , non sono più quello, madre

Madre (voltandosi di scatto) Dov'è la puttana che prendesti con te, per la quale tradisti tua madre e gli dei?

Kessi Madre, Shintalimeni è andata via, non so dove.
Non dire così, madre. Ella era la mia vita, la mia ossessione.

Madre La tua dannazione

Kessi I suoi occhi erano specchi, la sua voce catene

Madre e tu ancora la cerchi e ancora abbandoni
me vecchia, me affamata, morente

Kessi (inginocchiandosi) Perdonami madre

Madre Solo per lei tu esistevi. Il tuo braccio inerte più non fulminava le prede. Il desco vuoto. Gli altari deserti. Non andare sulle montagne. Gli dei non perdonano
chi li trascura. Le tue frecce saranno
sterili e le montagne livide e lontane.

Kessi (rialzandosi) Shintalimeni è fuggita, io devo andare.

(Buio)

SCENA TERZA


Voce registrata
e vide una luce ed era il Sole
e vide una fine ed era Morte
il Cacciatore a cui sanguinava il cuore

là dove più struggenti insidia i sogni
Occhi di Notte nel cielo più profondo
là cacciò il Cacciatore il Sole
impietosito del suo sangue e l'arco
i dardi ed il mantello restituì
togliendoli ai malvagi gnomi e mentitori.

Dio del Sole (invisibile, sul fondo, dietro l'ultimo specchio, da cui trapela appena la luce rossastra della lanterna)
Fermati, Kessi. Oltre non ti è consentito
andare.

(luce su Kessi e Udipsharri, che si bloccano)

Tu che entrasti dalla porta
del tramonto, ti trovi adesso a fronteggiare
la porta del mattino. Per intercessione
di Udipsharri ti concessi di attraversare
r la galleria negata ai mortali. Ma qui
avrà termine il tuo cammino e più oltre
non potrai andare. Occhi mortali
che il mondo videro segreto
di là non possono tornare. Tuttavia
tu fosti in passato generoso, se prima
che scegliessi negli occhi di annegare
di Shintalimeni, ben meritasti a fronte
degli dei. Gli altari colmasti delle offerte
e opimi i sacrifici giammai risparmiavi.
Malgrado la sciagura, mostrarmi io voglio
generoso e la libertà offrirti della scelta. AI mondo
da cui provenisti non potrai mai più fare ritorno, ma te
beato che, avendo conosciuto ciò che gli dei riservano
a coloro soltanto che condussero a termine l'intero
cammino della vita, puoi ancora scegliere
se morire di mia mano prima ch'io varchi questa soglia
e tra le periture cose riprenda il mio andare, o essere
nel cielo, non vivo e non morto, trasfigurato
costellazione ed astro ad indicare
ai mortali l'ingresso al gorgo fatale.

Kessi (senza guardare nella direzione del dio, ma volgendosi a Udipsharri, alle cui mani porge le estremità dei monili)
Dio maledetto che io male dico, tu non consumerai il tuo ultimo
inganno. lo respingo la tua ipocrita offerta. Che libertà
è mai quella di scegliere tra condizioni date? Cercare
il terzo termine, il lato oscuro dello specchio, il soffio
del gorgo che la quiete incrina delle superfici, quando
queste paiono più calme, o fa sembrare
ridicolo il loro agitarsi quando esse appaiono
in tempesta, questa l'unica libertà possibile
ai mortali.
Io non scelgo, perché finalmente so
che già scelsi. Non mi inganna la falsa
alternativa che squaderni a me davanti. Quando
nel mondo dei vivi io da solo riconobbi
i segni di morte e di seguirli decisi fino alla
porta e oltre quella, allora io scelsi. Prima
che tu fossi costretto a nuove strategie di dominio
io avevo scelto.
La morte che non accetto
io la cerco, e non scendo ai tuoi patti. Costringerò
te, dio che discrimini e scandisci il tempo
della vita e il tempo della morte, ad accettare
le mie condizioni.
Udipsharri! afferra e stringi
forte i monili intorno al collo! forte, Udipsharri,
fino a farne
cappio
mortale.
 


 
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Massimo Silvestri
[ mose@email.it ]
 
IL SENTIERO DEGLI SPECCHI
Il Signore del sonno
 
scende con la pioggia
la veste strappata dal vento
scende da inaccessibili monti.
come fuoco divampa
da ceneri spente
dio dal volto bendato
e con la mano percuote
la ruvida pelle
di un lento
tamburo
lontano.
al suono profondo
in solitudine emerge
Signore del sonno
nelle conche dal suolo
in sembianze di uomo
memoria di arcaiche ombre
di astri di luce
consunta dal tempo.
scende danzando
lungo un sentiero
cosparso di specchi
e sollevando il mantello
dà inizio al gioco del tempo
colma ogni spazio
di indistinguibili forme
di inafferabile aria
di austere rovine
di oblio
e cosparge il sentiero
di volti bendati
di ingannevoli figli di un dio.
ruota la spada
il Signore del sonno
lungo il sentiero
cosparso di specchi
danzando
presso le soglie del tempo
il vuoto sfidando
e un volto temendo.
e all'ora fissata
solleverà
il manto alla notte
e colpirà in segreto
e in segreto scoprirà
chi nasconde il suo volto.
 


 
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IL GUARDIANO DELLA SOGLIA
 
signore assoluto
del gioco muto ubiquo
mistero senza sonno.
un'alba dritta nera
un'orma alta all'orizzonte
l'ombra della polvere
la trama dei tumoli
sulle ali ricurve delle nuvole
dei passi degli occhi
rovi di terra di sassi.
e la strada degli uomini
sconosciuti nella polvere
e i vapori
dall'inferno che sale
i lampi rossi
di nuvole di argilla
di fango fino al gorgo
nello specchio d'acqua senza fondo.
il clangore dei cembali nascosti
il suono rauco dei corni
con terma e rosari
l'unguento delle tigri
e il crepitio sospeso
nell'urna con le ceneri.
 


 
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Massimo Silvestri
[ massimo.silvestri@bms.com ]
 
LA STATUA DI SALE
 
" ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale "


l'eco delle lune le dune
con la polvere degli Angeli
un'ombra impressa nella pietra
nutrita in modo permanente
da un flusso di calore.
e l'insieme duplice
delle illusioni delle immagini
dei nomi in una sola voce.
una approssimazione
tra le masse solide
una linfa coagulata
sola circolazione nelle arterie
di impulsi e cellule.
un enigma il contorno
e la forma nuova
e il tempo contratto ostinato
in misure di acqua di sale.
poche combinazioni possibili
un gioco meccanico in sedi ignote
dove tacciono le distinzioni
e i vortici delle energie
contro l'inerzia e la gravità
l'immobilità
la quiete.
 


 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
LA PRIGIONE DI EURIDICE
 
La prigione di Euridice

Erano tempi remoti. Erano alti monti, ove eternamente regnavano gelo e silenzio. Ed erano nevi perenni e scuri abissi.
Pochi pastori vivevano fra quelle alture con mandrie e greggi.
Fra essi uno v'era, uno soltanto, che s'avventurava fra le cime prossime al cielo. Ed era un cuor lieto: cantava e suonava e discorreva - e le sue parole erano note- con stelle e pianeti, sole e luna, con i fili d'erba e i rari fiori.
Gli altri pianeti non incontravano spesso quella giovane anima, ma il vento portava a volte l'eco dolcissima dei suoi canti, le note soavi del suo piffero, l'armonia beata dei suoi versi.
Anche a notte fonda, talvolta, mentre gli uomini sedevano vicino ai caminetti crepitanti della legna accesa o giacevano fra i grembi muliebri, i componimenti del giovane si diffondevano da lontani anfratti, impervi scoscendimenti, sperduti valloni. E quand'anche si era nel gelido inverno provavano tutti, forse pure gli armenti, quell'indicibile intima gioia che scorre negli esseri umani alla vigilia delle stagioni primaverili.
Accadde tuttavia che più non s'udirono canti e musiche.
I pastori erano afflitti che il giovine potesse esser precipitato in un burrone. Da valle a valle si chiamavano: l'uno gridava "l'avete visto?", l'altro rispondeva "l'avete udito?". Nessuno osava scalare i monti fin lassù per intraprendere la ricerca; ed a qualche temerario che manifestò questa nobile intenzione furono di impedimento le rimostranze della consorte o dei parenti più stretti.
Noi invece ci infondiamo coraggio e saliamo, su con timore e apprensione, ma pure con curiosità.
Al pastorello era accaduta la più comune delle venture della giovinezza: si era innamorato. In quelle elevate solitudini aveva incontrato una fanciulla. Anch'ella aveva udito le note e i canti ed aveva seguito le tracce sonore che restavano nell'aria, si nascondevano fra le rocce, scendevano negli strapiombi e risalivano ora da questo ora da quel luogo. E se credessimo alle leggende dovremmo indovinare che i fiori chinati le indicarono la via da seguire.
Non immediatamente ella si era mostrata al ragazzo. Per giorni e giorni gli era stata vicino e lo aveva ascoltato.
Noi non sappiamo da dove provenisse la fanciulla, né perché abitasse quelle altezze, tuttavia le fiabe non hanno necessità di spiegazioni e possiamo affermare, senza tema di smentita, che il cielo ha il colore dei suoi occhi e le nubi sono lievi come i suoi sguardi.
Allorché i due abitanti delle tacite vette s'incontrarono nei dintorni del firmamento, l'amore sbocciò rigoglioso.
La loro acerba età tuttavia non permetteva di comprendere pienamente gli sconcerti del cuore e dei sensi, che si schiudevano castamente in taciti sguardi, colmi di timide vaghe promesse, e in un raro sfiorarsi delle mani e ritrarle tremanti di felicità e turbamento. Nondimeno egli smise canti e musiche, ma nessuno all'infuori della fanciulla poteva udire quelle melodie, ché solo a lei erano serbate.
Neanche noi, per decoro, abbiamo origliato.
Avvenne un giorno che i pastori giù a valle udirono l'eco antico. Essa non era più annunzio gioioso, non più dolce ninna nanna della sera, ma era un cupo canto di morte, una funebre nenia, una tetra litania e penetrava nelle capanne, inquietava i cuori, rendeva doppia la fatica, accresceva il tedio. Perfino le greggi lacrimavano. Non c'era ora del giorno e della notte durante cui quel suono avesse compimento. Quanti fra i pastori avrebbero voluto cercare il giovane per supplicarlo di cessare il suo pianto! Ma era impossibile raggiungerlo e quel lamento faceva più paurose le notti ed il cammino. L'eco saliva da ogni sasso, da ogni stella.
È usanza antica fra i pastori narrare vecchie storie, allorché s'incontrano dopo mesi di solitudine e siedono intorno ad un fuoco acceso. Questa storia tuttavia essi non la conobbero.
I due giovani camminavano felici, il ragazzo innanzi e la fanciulla seguendo i suoi esperti passi, costeggiavano dirupi, guardando ora le verdi valli sottostanti ora il cielo sterminato. Ella mise un piede nel vuoto e sprofondò in oscuro strapiombo. Il giovane continuò per lungo tratto ancora il malagevole cammino, cantando e componendo versi e meditando le parole ed il momento per dichiarare tutto l'amore che sgorgava dall'animo suo. Si vietava altresì di volgere i pur cupidi occhi, sceglieva e tralasciava immediatamente i termini, il modo e il tempo, si figurava l'amata, si fermava consapevole che il suo passo era troppo lesto, smetteva il canto e la musica, ascoltava il lieve profumato alito ora vicino ora lontano della compagna. Il desiderio cresceva senza misura, di respiro in respiro, di passo in passo, ed i passi erano silenti sulla recente neve. Più lunga l'attesa, più piena la felicità. Guardò le stelle amiche per invocarle, ma esse, in luogo di pulsare felici, tremavano di dolore. Inquieto si volse.
Noi non possiamo descrivere quali voragini si dilatarono in quel tenero spirito! Cercò con gli occhi verso il tragitto appena percorso, poi disperato tornò indietro. Pensava, ma era una speranza, che la fanciulla si fosse fermata a riposare e s'incolpava della propria fretta; non trovandola, da una parte aumentava l'angoscia, dall'altra la lusinga.
Molte volte lo sguardo si volse verso i dirupi. Forse fu la speranza di ritrovare la giovane, forse fu la mano di un novelliere pietoso a fermare il folle gesto.
Il pastorello trovò alfine la neve smossa e vide le orme della tragedia da breve occorsa. Piangeva e le lacrime piovevano copiose sulla fanciulla caduta sul soffice niveo manto senza la minima scalfittura. E le gocce della disperazione formarono una bara di ghiaccio per il suo perduto amore.
Non si piegò al destino: a rischio della vita si calò nel baratro traditore, trovò la pastorella, tentò d'infrangere la mortale prigione. Vanamente!
Si scavò o forse trovò una grotta là accanto e così trascorsero anni ed anni. Ogni giorno ed ogni notte contemplava la donna prigioniera e si disperava delle sue ree lacrime. Lo zufolo, orami obliato, cadde ai piedi della giovinetta ed il ghiaccio lo coprì. Il silenzio delle cime innevate scese nel cuore del giovane ed egli tacque.
La bellezza di lei raddoppiava ogni giorno e ogni notte, ma nel cristallino sepolcro l'uomo poteva scorgere orribili solchi scavare il proprio volto ed i capelli farsi color della neve, la figura curvarsi sotto il gravame degli anni. Solo gli occhi, benché umidi, restavano giovani d'amore.
L'eco che i pastori udivano a basso era il terrifico stridio delle unghie del disperso che, senza posa, grattava il ghiaccio nella speranza di liberare la prigioniera dal sarcofago scolpito dal dolore.
L'eco salì fino all'Angelo della morte ed egli pietoso spiegò le nere ali e discese ad avvolgere il pastore.
Questi tuttavia pregò l'Angelo di concedere di poter sfiorare, almeno una volta, le labbra dell'amata e di poterle confessare le parole rimaste sepolte nel cuore.
Quale narratore potrebbe resistere!
L'angelo nero, che mai aveva indugiato nei suoi compiti, contemplò l'urna e lesse i versi d'amore che il pastore aveva inciso con mani sanguinanti. Una lacrima scese, forse, sul viso del messaggero e così parlò "Ti concedo tante vite finché..." e sussurrò le ultime parole nell'orecchio dell'innamorato e nel silenzio infinito.
Visse il pastore, poiché gli angeli non mentono, consumò innumerevoli esistenze, percorse vie fino a monti sconosciuti, si sporse da perigliosi dirupi, guardò un luccichio nel fondo nero, contemplò nelle botteghe sfere di vetro ove neve cadeva; forse egli vaga ancora per il mondo, segnato dalla struggente nostalgia, dall'invitto desiderio dell'ora promessa.
Ed io che racconto questa storia, già da altri narrata in altri tempi e in altri modi, sono segnato dal desiderio che il pastore e la giovane s'incontrino in qualche vita e che ella, infine, decifri tutti i versi incisi sulla bara di lacrime.
Allora si ameranno...
 


 
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Marcello Ruspi
[ laslok74@hotmail.com ]
 
2 ETA'
 
Muti con l'abbaglio...
Come l'ombra di un puro atto
Che si culla oscuro sopra
fredde fiamme.

Ecùba.
Solo il suono doppio,
il simulacro, esplode

In mille tetri petali.Il tuo nome,
Presenza della fonte
che m'abbevera,

M'asseta.Risalita,quella cupa
China verso i bordi
frastagliati,

Risalito,quel costone si contendono
ombra e sole,

Ed il lucore in sottobosco,
La superficie del tuo lago
corrugata.


Resterò come un bambino assorto, davanti al fiume magico, tra i ricordi
favolosi, i dispettosi giorni senza quiete, strani; assorto tra stupori
immensi e il crudele bacio dell'addio, resterò come un bambino con l'abito
scomposto e il moccio al naso, avvolto nella nuvola di un pianto lieve.
Lieve, lieve scorre quella nuvola che avanza, e passa...
 


 
la superficie e il gorgo 
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Silvana Poccioni
[ g.bucci@tin.it ]
 
CUPIO DISSOLVI
 
Mi sublimai
Narciso senza fonte
nello specchio profondo dei tuoi occhi
finché rise al mio riflesso
la tua malinconia.
Pareva allora racchiudersi
la vita
nella linea perfetta del tuo viso
dove si disegnava
in un magico incastro
il mio profilo.
Conoscemmo l'eterno
e in quell'istante
io fui per te la prima
e l'ultima.

*

Mi rimanda lo specchio
l'immagine mia
che io sola conosco
segnata da rughe
tracciati di lacrime antiche
che posso vedere io sola
(è liscia per gli altri la pelle
e dolce il sorriso)

*

Chi ha parlato
una volta
( fu ieri
o mille secoli fa?)

di una solitudine antica
fascinosa e oscura
emozione dell'animo
arcano canto soave
di uccelli
in volo radente sui cerchi
a spirale di un
gorgo profondo
e buio e silenzio
assenza e presenza
sconfitta e vittoria.
 


 
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Mario Amato
[ amatus@libero.it ]
 
S'AGGIRAVA
 
S’aggirava la commessa
Fra il sapore d’eternità
Di sogni
Di polvere sacra
Di libri
Con lo sguardo incantato
Miope
E spandeva aroma
Di mattutini unguenti

Lieve era il fruscio
Delle vesti
Come battito d’ali
D’angelo
 


 
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Igor Traboni
[ itraboni@laprovinciaquotidiano.it ]
 
I MIEI AMICI POETI
 



I miei amici,
alcuni,
fanno i poeti:
sbriciolano ricordi (loro)
guarniscono i pensieri (miei),
macedonia di una vita ambulante
tra affetti deambulanti.