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Fernando Mastropasqua
[ ndmastro@tin.it ]
 
CONTEMPLANDO NELLO SPECCHIO DI DIONISO
la Sala del Grande Affresco nella Villa dei Misteri di Pompei
 
Secondo due diverse interpretazioni, l'affresco potrebbe essere riproduzione di un originale greco risalente al IV sec. a.C. oppure opera autonoma del I sec. a.C.; in ambedue i casi ci troviamo di fronte alla più arcaica rappresentazione -che ci sia giunta- di un rituale dionisiaco. Poiché il rito per sua natura tendeva a fissarsi in forme rigide [altrimenti avrebbe perso la sua ragione e la sua efficacia], è molto probabile che le immagini e gli atti possano considerarsi identici a quelli più antichi, quando Dioniso non aveva ancora istituito il rito pubblico -non più segreto- del teatro.

Nell'affresco riconosciamo tre fasi: nella prima la domina presiede alla toelette di una fanciulla, assistita da due Eros; nella seconda sono illustrati i riti preparatori; nella terza Dioniso e Arianna danno vita alla rappresentazione del mistero [v. schemi].
Le tre fasi distinguono nettamente tre luoghi all'interno della sala e indicano il percorso che deve affrontare il visitatore per entrare in contatto con le verità dionisiache.
Per maggior chiarezza è meglio procedere, nell'analisi, alla rovescia, partendo dall'ultima fase (il mistero), per giungere alla seconda (il rito) e ritornare infine alla prima (la toelette). Infatti è la decifrazione del mistero che illumina le fasi precedenti. Per questo indicheremo con A, la terza fase; con B, la seconda; con C la prima.
Tutto emana dalla coppia Dioniso-Arianna. Il dio è in preda alla propria esaltazione: giace scomposto e in estasi tra le braccia di Arianna. Durante l'ebbrezza e la danza ha perso un sandalo [monosàndalos]. Il piede nudo ha un valore sacro e divino. Era la condizione, a cui ricorrevano gli eroi, i sapienti, i medici per mettersi in contatto con le presenze ctonie(1). Dioniso dunque mostra, in termini rappresentativi (di finzione scenica), lo stato d'invasamento e la denudazione del piede come atti necessari a penetrare nelle ombre del mistero.
Dioniso e Arianna sono collocati al centro della parete frontale rispetto all'ingresso principale della sala. Ai loro lati, sulla stessa parete, sono dipinti gli atti iniziatici [rivelazione della maschera, alla destra di Dioniso; lo svelamento del fallo, alla sinistra di Arianna]. Alle estremità la maschera di Sileno e la figura della Notte, angelo con le ali nere, segnano il territorio della iniziazione dionisiaca e spingono -in opposte ddirezioni sugli angoli formati dalle pareti longitudinali- a contemplare gli effetti dell'invasamento dionisiaco: dalla parte della maschera di Sileno, alla destra di Dioniso, la figura dell'Atterrita rende esplicita l'angoscia che invade il novizio di fronte alla crudeltà della conoscenza impartita da Sileno (2); mentre dalla parte della Notte, alla sinistra di Arianna, si assiste alla flagellazione dell'adepta.
Il terrore di fronte alla verità, difficile da accettare, di Dioniso, corrisponde al terrore di doversi sottoporre ad una dura disciplina di purificazione. A queste immagini di paure seguono, rispettivamente sulle due pareti, visioni finalmente serene: a colui che entra nella sua corte Dioniso offre i suoi doni: la musica e la danza, che permettono all'iniziato di "ritornare" alla felice età dell'oro (3), prima del Tempo, quando la vita non era stata ancora corrotta dal presente, dalla catena perversa delle nascite e delle morti, e Tutto semplicemente "era" in eterno. La musica e la danza sono rappresentati da Sileno che suona la lira, dal lato della maschera di Sileno e dalla Danzatrice che si accompagna con i cembali, dal lato della Notte. Le due figure contrapposte segnano i limiti del mistero [dopo la Danzatrice s'interrompe la sequenza pittorica in virtù della grande finestra - dopo il Sileno s'incontra l'illustrazione dei preparativi rituali che introducono al mistero: la fase B]. Da Sileno che suona la lira fino alla Danzatrice si determina nella sala uno spazio chiaramente rappresentativo, un palcoscenico con fondale e quinte laterali sul quale avviene la fase A: il Mistero. La felice età dell'oro, conseguenza della musica e della danza, doni di Dioniso, è situata tra Sileno che suona e l' Atterrita.
A dare unità alla rappresentazione e a rendere chiaro il doppio percorso che, però, muove in senso circolare dalle contemporenee iniziazioni [rivelazione della maschera-svelamento del fallo] da sinistra verso destra (4), è il Vento (manifestazione di Dioniso) che gonfia il velo della Danzatrice e il manto dell' Atterrita. Il movimento del Vento unisce le due pareti, unisce la Danzatrice a Sileno che suona [cembali e lira sono strumenti dionisiaci] e fa sprigionare dalla danza e dalla musica la visione dell'età dell'oro, conclusione del percorso, che viene così a trovarsi contigua al primo moto, quello che allontana l'Atterrita dal teatro di Dioniso. Ma il Vento emanato dal dio la obbliga a fermarsi e a seguire il vortice che dalla danza la conduce, dopo l'angoscia, verso la serenità dell'ultima visione.
Le iniziazioni che avviano il processo dionisiaco sono, abbiamo detto, la rivelazione della maschera di Sileno e lo svelamento del fallo. Il primo atto si fonda su un'attività particolare di Dioniso: lo specchiarsi. Fu contemplandosi nello specchio che Dioniso, secondo le tradizioni orfiche, si frantumò del tutto, subì una lacerazione che lo riportava al caos e gli consentiva di plasmare la visione di un mondo diverso. È lo specchio che permette di riconoscere la propria identità quanto di distruggerla per conquistarne un'altra. È un mezzo per contemplare l'età dell'oro e per divinare. Tutti i mondi, esistenti o no, trascorrono nello specchio, tutte le figure, reali o della mente, acquistano il corpo leggero dell'immagine riflessa. Lo specchio era infatti anche evocatore di presenze.
In una brocca, dal fondo riflettente, il novizio scorgeva per un attimo il proprio volto, al quale si sovrapponeva, per l'abile tecnica del sacerdote e del suo assistente di muovere la brocca insieme al sollevamento della maschera, il volto di Sileno. Era questi il sapiente precettore di Dioniso, custode della crudele certezza che la vita sia solo male per l'uomo.
La maschera di Sileno, riflessa nel fondo della brocca, rivela al novizio la terribile verità. L'angoscia che lo invade è rappresentata dalla figura dell' Atterrita che fugge allontanandosi dal luogo della rivelazione della maschera.
La seconda iniziazione consiste nello svelamento del fallo, riposto nella cesta mistica. L'ancella che procede all'atto porta la mystica vannus, simbolo di rigenerazione.
Come fallo rigeneratore il vaglio, con la sua azione ripetuta e violenta, libera il grano dalle impurità.
In quanto divinità vegetale Dioniso ha subìto questa flagellazione e ne fa gesto di rifondazione dell'identità del novizio. Come il terrore provocato dalla visione della maschera di Sileno serve a liberare da ogni impurità, da ogni falsa credenza sulla vita, il novizio; così il dolore della flagellazione scuote il suo fisico per liberarlo dai falsi comportamenti, rigidi estatici, dei vincoli sociali in atto e per indurlo a conquistare la levità multiforme e dinamica della danza. Non più un corpo stretto nelle anchilosate positure del quotidiano, un inerte burattino, ma un leggero volteggiare che inventa figure e forme: il corpo inventa infiniti corpi. La danza riunisce l'iniziando alla musica di Sileno e apre la visione del ritorno al prima di ogni tempo.
La fase B, ovvero i preparativi rituali alla partecipazione al mistero, sono collocati sulla parete alla destra di Dioniso. Essa è contigua all'atto conclusivo del mistero [Sileno che suona la lira-visione dell'età dell'oro] e comprende la lettura d'introduzione al rituale, l'offerta votiva di ciambelle, il rito lustrale dell'olivo: viene passato da una cesta nel canestro, purificato dall'acqua che vi versa sopra un'ancella e riposto poi nella cesta. La sacerdotessa di spalle effettua la lustrazione, che è ricordata anche nella formula dei misteri eleusini riportata da Clemente d' Alessandria: "... ho preso dalla cesta, dopo di aver maneggiato ho riposto nel canestro, e dal canestro nella cesta" (5).
Il gesto che qui viene compiuto con un ramo d'olivo, sarà ripetuto all'interno del mistero con il fallo dionisiaco.
La fase C, ovvero la prima, mostra la preparazione al rito. E una preparazione simbolica, che consacra l'essenza femminile del mondo dionisiaco. Questa fase infatti rappresenta la toelette di una giovane fanciulla, assistita da due Eros, di cui uno le regge lo specchio, e da una ancella che l'aiuta a pettinarsi. La scena avviene sotto lo sguardo della Domina, la Signora che presiede al Mistero. Lo spazio in cui è illustrata questa fase è quello vicino alla porta principale della sala: la Domina è collocata sulla parete della porta che fa angolo con quella su cui sono dipinti i preparativi del rito. La Domina è separata dalla fase B da una piccola apertura che dà in una stanza adiacente, adibita, pare, a camera da letto e che riporta sulle pareti immagini di satiri e ninfe; la toelette della fanciulla avviene invece nell'angolo tra la porta principale e l'altra parete longitudinale, ed è separata dalla Danzatrice della fase A dalla grande finestra che si apre su questa parete.
L'atto di abbigliarsi e pettinarsi era considerato di ambito dionisiaco. Infatti comportava una definizione di identità ed era dominato dalla presenza dello specchio. Un gesto preparatorio quello di specchiarsi che ha il suo doppio nella rivelazione della maschera di Sileno. Il pettine e altri oggetti della toelette muliebre, sacri a Demetra, fondatrice dei misteri eleusini, facevano parte del corredo della cesta mistica, dove accanto al simulacro del fallo di Dioniso o del pube di Demetra erano riposti dolci, ciambelle, pettini, specchi, ecc.
Il gioco dello specchio e il riflesso degli sguardi, nell'affresco, contengono il segreto per individuare il corretto percorso che il visitatore deve fare per riconoscere il cammino dell'iniziando a Dioniso.
Probabilmente l'entrata è quella minore, dalla stanza da letto, che permette al visitatore di osservare la Domina e cogliere, attraverso il suo sguardo, la direzione che lo porta davanti alla fanciulla che si pettina e si abbiglia.
Il visitatore nota, a questo punto, che lo specchio, che Eros regge davanti alla fanciulla, è in posizione frontale rispetto al suo volto. Dentro, nonostante l'impossibile posizione, come l'iniziando che si piega verso la brocca di Sileno, non scorge il proprio volto [altrettanto impossibile, ma quello che vi è dipinto della fanciulla. Il visitatore è dunque coinvolto nello stesso gioco dell'iniziando. Il volto della fanciulla dirige il suo sguardo verso la parete opposta, là dove comincia la fase B. Così il visitatore segue adesso i vari preparativi: la lettura, le offerte votive, la lustrazione del ramo d'olivo. Il suo sguardo è costretto però a fermarsi davanti alla figura di Sileno che suona la lira. La sua presenza indica infatti che dal territorio umano si sta entrando nel divino; invita dunque il visitatore a rivolgersi verso la divinità, dipinta al centro della parete-fondale. La visione di Dioniso in estasi induce adesso il visitatore a seguire con gli occhi i doppi avvenimenti che avvengono ai lati del dio, fino a lasciarsi avvolgere dalla danza e dalla musica.

NOTE
(1) K. Kerényi, Dionysos, London 1976, p.360. Cfr. anche Frazer, Il ramo d'oro, Torino, Boringhieri, 1956.
(2) La verità di Sileno, attestata da Teognide (I,425-28), Bacchilide, Sofocle, Cicerone e altri si ri
 


 
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Amedeo Di Sora
[ teatrodellappeso@libero.it ]
 
IL DANDYSMO ESTREMO DI JACQUES RIGAUT
 
C'è gente che fa soldi, altri fanno i matti, ed altri ancora dei
figli. C'è chi fa dello spirito. C'è chi fa l'amore, e chi fa pena.
Da quant'è che cerco di fare qualcosa! Non c'è niente da fare:
non c'è niente da fare.
(Jacques Rigaut)

Il dandy è sempre un esule, uno straniero casualmente e temporaneamente collocato in un "mondo" che non gli appartiene e da cui non subisce condizionamento alcuno. L'essenza del dandysmo consiste nel narcisismo delle sfumature, delle minime differenze, fino a sfociare nell'indifferenza assoluta: la differenza dell'indifferenza. La toeletta scandisce gli attimi eterni di un tempo "sacro", in cui il tempo "reale" viene irretito nei gesti lenti e solennemente futili di una vestizione che prelude alla morte e la cravatta, di tutti gli elementi che formano la toeletta, è il più significativo, perché è il più prossimo al nulla.
"(...) Usciva, già si stava annodando la cravatta. Abbassò le mani per guardarsi meglio nello specchio, che lo riflesse come l'acqua di un pozzo (...) Acqua immobile. Avrebbe voluto fissare in questa immobilità apparente la sua immagine perché ad essa potesse afferrarsi il suo essere minacciato di subitanea dissoluzione". Così Drieu La Rochelle, in un passo di Le feu follet (l), riferendosi ad Alain, il protagonista del racconto che altri non è se non Jacques Rigaut, scrittore ed amico suo carissimo, morto suicida nel 1929. Già nel '23, Drieu gli aveva dedicato un altro racconto, La valise vide, ad indicare il bagaglio con il quale, simbolicamente, viaggia il protagonista Gonzague. È per questo che egli, alla morte dell'amico, vergò un sentito e sofferto commiato dal titolo Adieu à Gonzague, nel quale inseriva Rigaut nella schiera dei dandies e lo raffrontava a Lord Brummel come bevitore e come amatore.
Jacques Rigaut, della cui vicenda Georges Hugnet ci fornisce in L'aventure Dada 1916-1922 (2) un profilo efficace, si sforzò pigramente di trovare nei sogni, nelle donne, nel denaro, nella droga e nel culto del suicidio degli ancoraggi (che ben sapeva illusori) alla sua esistenza sospesa nel tragico. Tutto si risolveva nel Nulla (3). Rigaut fu dadaista e surrealista marginale: entrambi i movimenti furono contrassegnati da un'ideologia del negativo. In particolare, come ha scritto A. Bonito Oliva, "la produzione artistica, l'impossibilità di identificazione con l'oggetto prodotto, provoca nell'artista surrealista una tensione verso la morte, proposta a due livelli: come sublimazione ed introiezione del tema negativo nell'opera e come gesto reale, il suicidio" (4). Un libro dovrebbe essere un gesto: questo aforisma di Rigaut è, nella sua lapidarietà, folgorante. Ancora Drieu: "Non si affrettava, anzi, rallentava tutti i suoi gesti, ad acuire il proprio desiderio (...). La sua dissolutezza era puramente mentale. La sua presa di possesso del mondo si sarebbe risolta in un unico gesto e questo gesto non si sarebbe rivolto verso le cose" (5).
Come ha spiegato in un bel saggio Giorgio Agamben (6), il dandy (e con lui il poeta moderno, erede dell'esperienza baudelairiana) si fa interprete del tentativo di instaurare con le cose un nuovo rapporto basato sull' "appropriazione dell'irrealtà". Per sottrarsi alle spire dell'utile, per non essere comunque "segnati" dal processo di mercificazione, bisogna scientemente divenire "altro da sé", farsi altro, dismettere la condizione di viventi, riassumere resistenza in una serie di gesti devitalizzati, diventare, come scrive Balzac nel suo Traité de la vie e1égante (7), "un manichino estremamente ingegnoso".
Ma Jacques Rigaut non seppe "impegnare tutto il proprio pensiero in ognuno dei propri gesti" ed il suo fu un dandysmo "estremo".
Certamente, gli elementi distintivi del dandysmo, anche se estenuati, sono chiaramente riscontrabili nella vicenda esistenziale ed artistica di Rigaut: il rapporto con la donna ed il rifiuto del matrimonio, ad esempio.
"Il dandy è contro il matrimonio, la codificazione dell'amore ed il suo impossibile imprigionamento, in vista della trasformazione, della finalizzazione del sentimento alla produzione di bambini (...) Avversario dichiarato della banalità e della ripetizione, il dandy preferisce alla rassegnata stanchezza del talamo le incertezze e rinstabilità degli amori fugaci. In tal modo contrappone, alla falsa eternità del rapporto coniugale, il tempo reale dell'amore, in cui un secondo s'allarga e s'approfondisce, sino a comprendere in sé l'infinito, proprio a patto di non volersi infinito, imperituro". Ciò che G. Scaraffia scrive nel suo Dizionario del dandy (8) alla voce "Donna" è in sintonia con le parole pronunciate dal Alain-Jacques in un passo di Le feu follet: "sono votato al celibato". Ed il rifiuto del matrimonio si accompagna con un tormentato, problematico ed "improduttivo" rapporto con le donne: creature distanti, aliene, illusorie parvenze capaci al con tempo di attrarre e di respingere (9).
"Una delle più sicure ragioni del fallimento di Alain era di non aver mai ammesso francamente di essere quello che era, un pigro amato dalle donne" (10). Altra caratteristica fondamentale del dandysmo: la pigrizia. Anche il dandy Rigaut (pur senza ostentazione) si veste d'indolenza e di languore per difendersi da un mondo che ha definitivamente inalberato la bandiera della più frenetica quanto fittizia attività, basata sul mito del lavoro e della produttività ad oltranza (11).
Poi: un particolarissimo gusto della pagina scritta e stampata, la ricerca di una discrittura che, ironicamente, sappia distanziarsi dalla scrittura convenzionale come dalle Sacre Scritture. E Rigaut, come Vache, non fu un "professionista" della poesia: "per lui la vita era soltanto gesto, e non pensiero" (12).
Il suicidio. A questo passo Jacques Rigaut si preparò con metodo scrupoloso, attivando un rituale quotidiano. Sappiamo che egli soleva coricarsi ogni notte con una rivoltella sotto il cuscino ed affermava di viaggiare sempre con il suo "suicidio all'occhiello". Aveva perfino ironicamente progettato l'istituzione di un'Agenzia Generale del Suicidio (13). Sappiamo bene che l'idea della morte, la coscienza della sua costante presenza è componente costitutiva del dandysmo e che il dandy, cultore del gesto, non può non essere attratto fortemente dal richiamo seducente del "gesto estremo". Cavaliere del nulla, in bilico sempre tra la vita e la morte, con la quale è solito "giocare" senza timore, egli stesso perinde ac cadaver, secondo la definizione di Baudelaire, il dandy che con il suo gesto sa dissipare ogni falsa realtà, che in un attimo è capace di racchiudere l'intera esistenza, con il suicidio intende definitivamente appropriarsi della morte e, riprendendo in mano la direzione della propria esistenza recuperando la propria libertà, aderire finalmente alle cose.
Baudelaire scrive nei Journaux intimes (14): "Il Dandy deve aspirare a essere sublime, senza tregua. Deve vivere e dormire davanti a uno specchio". Negli scritti frammentari, nei fusées di Rigaut esiste una vera e propria ossessione dello specchio che, in quanto strumento di duplicazione dell'imago individuale, rimanda ancora e sempre all'idea della morte e del suicidio. L'emersione di una figura di sosia rappresenta, dal punto di vista psicoanalitico, un'invasione dell'inconscio nel campo della coscienza, che viene interpretata come "ritorno del rimosso" e che, al di là di ogni controllo possibile, fa riaffiorare l'angoscia della morte di cui la comparsa del Doppio reca con se un chiaro ed inquietante presagio. A questo proposito, esiste una copiosa letteratura psicoanalitica alla quale il lettore può fare -se lo ritiene utile- ricorso. Analizziamo, ora, la descrizione che Rigaut ci fornisce, nei minimi particolari, del suo "passaggio nello specchio" a Oyster Bay:
"Il 20 luglio 1924, a Oyster Bay, in casa di Cecil Stewart, ho compiuto quest'incredibile prodezza. ci sono testimoni -ho preso una breve rincorsa e a fronte bassa ho attraversato lo specchio. È stato facile e magico -un leggero taglio sulla fronte, ferita impercettibile e fatale. Da allora, mentre prima ogni specchio portava il mio nome, ora sono io che dall'altra parte vi rispondo, sono io che vi informo, sono io che vi plasmo (...) (15)".
A differenza del Dandy baudelairiano, il dandy Rigaut non si accontenta di vivere e di dormire davanti a uno specchio; egli decide di compiere una straordinaria impresa: passare al di là dello specchio. Sotto lo pseudonimo di Lord Patchogue, Rigaut esprime la tensione a farsi specchio egli stesso:
"Lord Patchogue e la sua immagine si fanno lentamente incontro l'uno all'altra. Si studiano in silenzio, si fermano, s'inchinano. Da quale vertigine è stato colto Lord Patchogue. Fu breve, facile e magico: Lord Patchogue si è lanciato a testa bassa (...). Lo specchio all'urto, al trapasso, vola in pezzi, ma in quanto a lui eccolo dall'altra parte (...) Sola a sanguinare impercettibilmente era la fronte di Lord Patchogue (...). All'indomani due operai vennero a sostituire lo specchio. Una volta terminato il loro lavoro, Lord Patchogue era scomparso" (16).
L'attraversamento dello specchio indica, a nostro avviso, il tentativo disperato di oltrepassare la soglia della morte, di non morire. Solo mandando in frantumi la propria immagine, il proprio doppio, solo sostituendosi all'imago, rinunciando volontariamente alla condizione di individuo "organico" per farsi semplice riflesso-ombra, si può evadere dalla condizione di mortale:
"(...) Quando la stanchezza avrà sopraffatto Lord Patchogue nel suo posto d'osservazione, insieme con la certezza di non ottenere nient'altro che una conferma, egli si girerà, dietro di lui è uno specchio ed è ancora Lord Patchogue che si guarda. In preda a un terrore che non fa che aumentare nel contemplarsi, ognuno dice all'altro: io sono un uomo che cerca di non morire, e per la seconda volta Lord Patchogue si lancia attraverso lo specchio. Fracasso, vetri in frantumi. Lord Patchogue è in piedi di fronte a un nuovo specchio, di fronte a Lord Patchogue. La ferita sulla fronte riprende a sanguinare. Lord Patchogue ripete: sono un uomo che cerca di non morire, e quando attraversa il terzo specchio in mezzo a un rumore ormai familiare, sa che incontrerà Lord Patchogue la cui fronte sanguinerà ancor più nel quarto specchio e che gli dirà: sono un uomo che cerca di non morire. Il che avviene. Adesso lo sa, non potrà far altro che rompere vetri: l'occhio che guarda l'occhio, che guarda l'occhio, che gua..." (17).
Non si può passare una vita a frantumare specchi: è troppo faticoso e troppo vano. C'è sempre quella fastidiosa ferita sulla fronte e, soprattutto, quell'occhio che guarda l'occhio, quello sguardo mortale. In fondo, è meglio chiuderlo quell'occhio, non vedere più, scomparire finalmente alla vi(s)ta (18).

NOTE
(1) D. La Rochelle, Le feu follet, trad. It. Fuoco Fatuo, SugarCo, 1979, p.41.
(2) G. Hugnet, L'aventure Dada 1916-1922, Parigi, Ediz. Seghers, 1971.
(3) "Il nulla mi avviluppava con la stessa sensibilit
 


 
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Romolo Runcini
 
LA SCRITTURA: SPECCHIO E INVENZIONE DI REALTÀ
dal taccuino di viaggio '91
 
Se Platone opponeva, nella sua teoria del mondo delle idee, i due termini di rappresentazione della realtà -in quanto la prima forma corrisponde all'imitazione perfetta mentre la seconda a quella imperfetta- Gerard Genette considera solo il secondo termine, quello dell'imitazione imperfetta associabile al ruolo della finzione estetica, il primo essendo infatti la cosa stessa, poiché l'identità dell'immagine della cosa riprodotta non può consentire più distinzioni fra le parti in causa.
Nondimeno sappiamo bene che ogni imitazione per quanto perfetta non potrà mai cessare di essere la copia dell'originale. La più precisa copia è dunque un segmento, una duplicazione dell'aspetto rappresentato, così come l'immagine dello specchio lo è della persona che vi si pone davanti. In tale modo si può dire che l'imitazione non è che il doppio dell'oggetto imitato; anzi proprio la sua riproducibilità inficiata nell'era della tecnica -come W. Bejamin ha ben dimostrato- lascia alla copia, anche a quella tecnicamente perfetta, un residuo di opacità che la fa portatrice di informazione ma non di valore in quanto ha spezzato l'aura dell'unicità totalizzante (l'hic et nunc) dell'opera originale. Inoltre possiamo pensare senz'altro che l'imitazione replicando l'originale sovverte l'atto creativo, che è sempre compiuto da un punto di vista, da un angolo di fuga scelto dall'artista, mentre la copia che lo riproduce sceglie altri spazi con gli stessi strumenti (pennelli, spatole, mazze, scalpelli) a spazi identici con altri strumenti (fotografie, apparecchi di ingrandimenti, sostanze chimiche ecc.).
Potremmo dunque affermare che la copia è un doppio equivalente all'immagine dello specchio, ossia un'immagine rovesciata, nel senso che la sua esatta replicazione riporta tutto fedelmente, ma da un punto di vista opposto: questo contrasto non è subito evidente poiché occorre misurare il rapporto con la cosa imitata stando al di qua dello specchio. Una tale singolare differenza si può cogliere con profitto solo se, negando che la perfetta mimesis debba annullarsi nell'oggetto rappresentato (e dunque cessare del tutto la sua funzione comunicativa) questa perfezione venga riconosciuta come necessario corredo di ogni atto informativo, presupposto del piano di esperienza.
In tal senso si può considerare l'opportunità di ripristinare il rapporto conflittuale tra Mimesis e Diegesis -che Platone aveva concepito contro la riproduzione imperfetta che gli artisti facevano arbitrariamente del mondo delle idee- rovesciandone la prospettiva. Allora diremo che nel discorso letterario la mimesi costituisce il tracciato informativo, esperenziale, mentre la diegesis ne forma il gradiente di ricerche e combinazioni espressive. Entrambe dunque sono necessarie alla scrittura.

 


 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
FIABA DANUBIANA
 
C'era una volta un cavaliere senza cavallo. Dovremmo in verità appellare il nostro personaggio, per il fatto che era appiedato, semplicemente, un viandante, ma preferiamo quell'appellativo un po' desueto, poiché i suoi pensieri erano nobili ed aveva il cuore puro, e viceversa. Così si narra dei cavalieri nelle antiche storie.
Egli camminava lungo la riva di un azzurro fiume in direzione della corrente.
Cercava una terra incantata vista un giorno, da bambino, su un libro d'avventure o su un francobollo, o forse soltanto sognata.
Forse i nomadi, i vagabondi, i giramondo - epiteti che ben si adatterebbero all'uomo che stiamo accompagnando nel suo viaggio - seguono i fiumi perché, pur non conoscendo la loro meta, sanno che in qualche luogo giungeranno, un giorno o l'altro.
Il suo passo era allentato per le molte vestre già percorse e allora sedette sulla soffice erba. Il suo sguardo tuttavia non riposava, ma si posava ora sui sassi levigati dal lavorio secolare dell'acqua, ora contava i fiori sull'argine e li nominava uno ad uno, ora numerava le piccole onde spumeggianti e per ogni sasso si chiedeva da dove venisse, per ogni fiore di domandava per quanto tempo ancora avrebbe sparso il suo profumo in quel luogo e per ogni onda come si fosse formata…Ed immaginava tutti i piccoli avvenimenti che modellano il mondo.. E nelle notti stellate e silenti gli pareva di ascoltare il respiro lieve del mondo dormiente ed immaginava i sogni dell'umanità… e immaginando s'addormentava.
Lettrice o lettore, tu invece non t'addormentare ora, nel momento in cui questa storia ha inizio, nell'ora in cui il giorno volgeva alla fine ed il sole colorava il mondo fluviale di brune sfumature e donava all'acqua azzurro-argentea giocosi riflessi tinti di carminio.
Pur se la speranza dona forze smisurate, al cavaliere le gambe dolevano e lo stomaco era vuoto da molte parasanghe, sì che egli estrasse dalla borsa di cuoio le poche vivande conservate come bene prezioso ed iniziò a rifocillare lo spirito ed ancor più il corpo.
Il fiume scorreva lento -come s'addice ad una fiaba-, il viandante guardava le lievi increspature acquee, si voltava di tanto in tanto e si sentiva orgoglioso della strada già calcata, pensava al suo viaggio ed a quello parallelo del fiume, alle sponde che insieme avrebbero lambito, alle lingue diverse che avrebbero udito, ai paesi e città che avrebbero attraversato e a tutte le storie che avrebbero ascoltato e che egli in futuro avrebbe raccontato. Spesso aveva deviato dal corso del fiume, così come a volte l'acqua devia dal suo letto principale per diventare ruscello ed irrigare benevolmente qualche campo d'intorno o per formare una pozza ove i fanciulli giocano allegramente.
Anch'egli, attratto da qualche paese in lontananza o dalla musica di qualche festa o da un nuovo sentiero, aveva abbandonato la sua via maestra ed aveva irrigato il suo cuore con nuovi paesaggi e quella freschezza aveva donato nuovo vigore alle gambe. In verità, qualche volta, fermatosi ad una festa, invitato ad una danza, o invitato di fortuna ad un banchetto dove vino sincero veniva offerto senza parsimonia, aveva sì provato a riprendere la via subito dopo, ma la sosta era durata più del tempo previsto. Le visioni di questi nuovi mondi erano rimaste nel suo animo ed egli aveva annotato pochi versi nel suo taccuino, immancabile patrimonio d'ogni giramondo. Erano i paesaggi dell'anima, ma a volte lo assaliva la nostalgia della casa lontana, della stella che era uso contemplare dalla sua finestra prima di coricarsi, ma bastava che guardasse la prossima sinuosità del fiume e tornava il desiderio del cammino. Il luogo natio ha sempre un monte, un ponte e al di là vi sono mondi infiniti.
Fra simili pensieri scendeva nel corpo l'ultimo tepore solare e con esso il sonno.
Il sole scendeva ed apparivano le prime stelle della sera, i riflessi delle quali delle quali tremolavano nel fiume, e fra quelle il vagabondo vide una luce, anch'essa assai mossa. E per quanto fosse visibile che essa si trovasse sulla terra, gli parve che fosse in mezzo agli astri.
La notte era silente.
I pellegrini ben conoscono l'arte di noverare i corpi celesti ed anch'egli sovente, seduto su un sasso o sull'erba, si dedicava a questo trastullo e assegnava alle stelle nomi di persone care e discorreva con quelle gemme incastonate nel cielo.
Quel chiarore tuttavia era così prossimo da poter essere toccato. Così sembrava.
Il cavaliere non avrebbe potuto dire se lo scintillio fosse apparso con il sopravvenire della notte, né v'era alcuno che potesse assicurargli di non trovarsi dinanzi ad un'illusione. Come sono soli i viandanti! Egli confondeva l'immagine superiore con il riflesso nell'acqua e ciò non era dovuto soltanto all'ingannevole chiarore della sera, accresciuto dall'entrata della bianca luna nella scena del firmamento. La ragione del turbamento risiedeva principalmente nell'animo suo: egli ben vedeva che la movenza nel fiume non era altro che una sembianza, ma verso quale delle due visioni si sentisse attratto, non avrebbe potuto dirlo.
La risoluzione di attraversare il corso d'acqua era altresì ben salda nel suo cuore di cavaliere coraggioso e di straniero curioso, perché a chi è tale s'impone di intraprendere avventure, forse solo per poterle raccontare e aprire una falla nel cuore di una fanciulla. Si parte per essere ricordati, si ritorna per raccontare.
La memoria andò a giovani donne delle quali aveva letto o immaginato e che assumevano le fattezza di giovani incontrate durante il viaggio, una cameriera in un'osteria o una passante alla quale aveva chiesta indicazioni o una donna vestita a festa nell'ora della passeggiata nella strada di qualche cittadina.
In lontananza un campanile batté l'ora e l'eco si disperse nell'aria.
Non v'era ponte su quel tratto di fiume, ma nel silenzio della notte, rotto soltanto dal gorgogliare dell'acqua, s'udì uno scalpitare di zoccoli: il muso di un bianco destriero sfiorò la spalla del viandante ed egli lo carezzò.
Ma se tu, mia lettrice, preferisci che il cavaliere traversi il fiume in altro modo, allora avvenne che nella quiete notturna uno zatterone s'accostò alla riva. Inutilmente lo sguardo del passeggero cercò il timoniere.
È verità che nelle fiabe occorra il personaggio del traghettatore, eppure il viaggiatore era solo e la sua unica guida erano sogni e pensieri.
Sul fedele bianco cavallo misteriosamente apparso oppure a bordo dell'altrettanto arcano barcone, il cuore del cavaliere restava confuso: una inquietudine ignota e una gioia del tutto nuova si mescolavano e nessuno dei due sentimenti prevaleva; gli pareva di rivolgere l'ultimo saluto al mondo e ad un tempo l'entusiasmo dell'avventura lo spingeva, e l'anima stava in equilibrio fra le due sensazioni. Ed ambedue gli intendimenti erano complessi: addio alla terra sotto i piedi, ad un oste con cui si era intrattenuto per qualche ora bevendo buon vino, al sorriso d'una fanciulla, addio a tutte le piccole cose che riempiono la vita. L'oste, i visi di molti uomini conosciuti, il sorriso di fanciulle, le albe, i giorni azzurri e quelli piovosi, tutti i quadri visti erano chiusi in lui, ma egli era forse uno straniero dimenticato come altri mille stranieri che passano e vanno. A chi avrebbe rivolto l'ultimo saluto prima di congedarsi per sempre dalla strada? A quale terra? A quale patria? Come sono soli i viandanti!
I cavalieri, quelli dei poemi antichi, usavano al principio d'ogni impresa invocare il nome dell'amata, ma egli non aveva un nome da pronunciare, bensì soltanto il ricordo vago d'un sorriso o di mille sorrisi.
Sull'altra sponda, quella opposta alla memoria, c'era la sua meta o almeno così credeva il vagabondo. Il lume, a lui sembrava, lo chiamava al compimento del suo destino ed egli credeva di sentire voci che lo chiamavano.
Egli tremava come la fiammella.
Egli non era dunque una goccia d'acqua trasportata dalla corrente, insieme con le altre verso il mare? Innumerevoli volte aveva guardato la sorgente del fiume vicino la casa natia, e si era figurato il delta finale, e s'era stupito che un piccolo rivolo potesse scavare un lungo corso per giungere al mare.
Sull'altra riva la luce continuava a tremolare. Era quella la sua destinazione? Non avrebbe raggiunto mai più il mare, come fanno tutte le gocce d'acqua? Non avrebbe visto la città sul mare che mille volte aveva immaginato? Respirò l'odore salmastro nei vicoli, udì il chiasso delle taverne sui cui usci stanno i grassi unti osti olezzanti di pesce fritto, ascoltò lo stridio dei gabbiani, mandò ancora un saluto non corrisposto. Voci lo chiamavano.
Vedi, mia lettrice, quanto confuso era il viandante, e tu già credi d'essere la sorridente fanciulla incontrata chissà dove e in quale giorno. Vorresti forse che egli tornasse indietro, che non lasciasse la via vecchia per la sconosciuta, vorresti regalargli ancora un sorriso gravido di mille promesse. Al contrario, abbandonati al racconto, lasciati trasportare dal fiume, dalla corrente delle parole. E rifletti che anche la via vecchia era ignota.
La barca non aveva comando, il destriero era privo di testiera, il viandante, gran camminatore, non aveva idea di come si navigasse e non era più uso alla cavalcatura.
La sua attenzione era rivolta alla traversata.
Allorché era stato seduto a rifocillarsi, l'acqua gli era sembrata scorrere chetamene, ora però il mondo gli vorticava intorno e non sapeva quale delle due sponde fosse la destra e quale la manca ed il cielo era sotto e il fiume sopra.
Si era smarrito? Era una di quelle ore durante le quali gli esseri umani pregano per il loro destino.
Il guado continuava ed egli, pur nel turbamento, continuava a vedere fremere il luccichio, e presumeva di incontrare chissà quali personaggi, chissà quali avventure.
Il cavallo poggiò infine gli zoccoli sul terreno o il natante toccò la sponda.
Il viaggiatore scese finalmente; la luce splendeva in lontananza e una voce lo chiamava per nome.
Indugiò, ma i cavalieri sono coraggiosi e s'avviò, e più s'avvicinava, più la voce si faceva nota. Il cuore palpitava fra timore e curiosità e un po' egli rallentava il passo, un po' l'affrettava.
Si voltò: le luci dell'ultimo paese lasciato splendevano simili alle stelle e laggiù il chiarore di una dimora isolata, forse dell'ancella dell'osteria… Era infine giunto presso la luce e là stava a scaldarsi, presso un misero fuoco, un vagabondo del tutto simile a lui. Quegli veniva dalla città del mare e percorreva l'itinerario inverso e la sua meta era la sorgente del fiume. Si scambiarono le vivande, chiacchierarono dell'ultima taverna e di paesi e di città e di fanciulle dal bel sorriso e ancora e ancora fino all'ora di riprendere il cammino. Si salutarono abbracciandosi.
Il cavaliere senza cavallo tornò indietro e inviò ancora un saluto muto all'occasionale amico e fu ricambiato.
Riprese il cammino come una goccia d'acqua fra mille e mille stille d'acqua…
 


 
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Enzo DOnorio
[ enzo.donorio@libero.it ]
 
POESIE
 
E POI IL DUBBIO E L'AFFANNO

Vanno ora i figli lontano a marcare il loro territorio
E tu già. perso nel tempo in smarrimento dell'essere e certezza del ruolo compiuto
Non più tue
tracce flebili insegui

Un fremito impercettibile ti scuote i pensieri
gli hai dato le ali?


DI FOGLIE E PRESENZE

Ogni anno è ritorno di riti
a scansione di foglie e presenze e antico risuono i ricordi

s'attarda l'umore del cuore in spirali illusioni
ove al centro già sai non c'è nulla


FUGGE CORSARO

E ancora il pensiero in smania di giorni migliori
è complice e ladro nel cesto dei sogni

poi ancora e ancora lo cogli con le mani nel sacco
a rapire segrete speranze

soggioga crudele il tempo tuo vero
e fugge corsaro a increspare lontano altre onde

 


 
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Ottavia Lo Forti
[ maurizioloforti@libero.it ]
 
I FIGLI BELLI DELLA CIVETTA
 
Dovete sapere che, in origine, la civetta non era un rapace notturno. In origine, la civetta era un uccello diurno dotato di piume variopinte come quelle del pavone, del fagiano e del colibrì messi insieme. Del suo piumaggio portentoso, la civetta era fiera e in tutte le occasioni si vantava come se fosse merito suo. Dei figli poi cinguettava tutto il giorno: - girate pure la foresta, belli come i miei figli non ne troverete. I miei figli sono più belli del sole!- era solita ripetere.
Della domenica poi, quando tutti gli animali bighellonavano per la foresta godendosi il passeggio, la civetta approfittava lanciando sfide a questo o a quell'animale. Così facendo urtava la suscettibilità degli animali meno disposti ai confronti. Insomma provocava malumore nei suoi vicini.
Anche in occasione della Pasquetta di quell'anno, durante il pic-nic, ricominciò con il suo ritornello:- belli come i miei figli non ne troverete... i miei figli sono più belli del sole...- diceva: - belli come i miei figli non ne troverete...
-Basta! Non se ne può più ...! urlò un facocero che si godeva la vacanza disteso sull' erba in compagnia della moglie e dei suoi quattro figli.
- Quando è troppo, è troppo...- e, raccolti tovaglie e tramezzini, si allontanò minacciando in direzione della civetta che ripeteva ancora una volta:- i miei figli sono più belli del sole... belli come i miei figli non ne troverete.
Al tramonto, quando il sole sfiora la terra, il facocero ne approfittò e gli disse:- Oh! Sole, eterno sole! Fino a quando ignorerai la tracotanza della civetta?!
Il sole stupito, chiese- Di che parli?
- Ah! A quanto pare sei rimasto solo tu a non aver sentito quello che va ripetendo in continuazione quella civetta della civetta!
Il sole incuriosito:- A che ti riferisci?
- Mi riferisco... in poche parole... la civetta dice che i suoi figli sono più belli di te!
Il sole, insofferente dei paragoni, ormai sulla linea dell' orizzonte, divenne tutto rosso... e fece appena in tempo a dire:- Domani ci penso io per quella signora!- che già era buio.
Il facocero, soddisfatto, prese la via di ritorno fischiettando.- Mi compiaccio - lo apostrofò un gufo che se ne stava appollaiato tra i rami- mi compiaccio proprio che non sei più arrabiato compare facocero! Non vale davvero la pena di prendersela. Tu lo sai come è mia cugina! Povera illusa non si è resa ancora conto che i colori del suo piumaggio non sono merito suo, ma piuttosto dei raggi del sole che, illuminandoli, li rendono visibili agli esseri dotati di occhi adatti. Lasciala parlare, non farci caso.... se ci pensi, è davvero ridicola una civetta che si... pavoneggia!
E per tutta risposta, il facocero:- Quel che è fatto è reso, caro mio! Ho riferito tutto al sole che domani le darà una bella lezione, in pieno giorno e davanti a tutti!
Il gufo non replicò, ma non appena il facocero si fu allontanato, si affrettò, con volo leggero, a raggiungere la cugina civetta nel cavo della quercia millenaria.
Quando furono abbastanza vicini, il gufo informò la civetta delle intensioni del sole aggiungendo:- Sento odore di bruciato... tu da un incontro ravvicinato con il sole puoi correre rischi di rimanere scottata. Secondo me, tu e i tuoi figli dovete trovarvi subito un nascondiglio sicuro.
- Sì! Ma dove? - esitò la civetta non più tanto sicura. Il gufo ci pensò un attimo e poi, solenne, disse: - Un posto ci sarebbe e nemmeno tanto lontano...solo che, cara cugina, devi essere disposta a rimanerci per sempre...
- Per sempre... dici?
- Per sempre... tu e i tuoi discendenti!
- Qualsiasi cosa pur di non finire sulla... griglia... sai è per via delle piume!
- Bene! Ti consiglio di rifuggiarti nell' unico posto dove mai il sole potrà arrivare: dovete nascondervi nel buio della notte!
- Magnifico, cugino mio! Sei la salvezza mia e della mia specie! Non so come ringraziarti!
- Non te ne preoccupare - disse sornione il gufo- a me basterà la gratitudine degli animali diurni della foresta...
Fu così che, quando l'indomani il sole si mise alla ricerca della civetta, non riuscì a trovarla, né in quel giorno, né in quelli che seguirono.
Ma la civetta, di notte, continuò a cantare la bellezza del piumaggio dei suoi figli dimentica del fatto che, al buio, non si distinguono colori.
Di tanto in tanto gli animali notturni sentono ancora il tritornello... ma si allontanano, per niente infastiditi, mentre nella notte: - ... belli come il sole... belli come i miei figli non ne troverete più...
 


 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
LA SETTIMA NOTA
 
Un angelo era sceso sulla terra.
Era un angelo –per così dire– particolare nella gerarchia celeste.
Egli aveva occupato, insieme con altri sei suoi consimili, il posto più vicino al Signore – che sempre sia lodato.
Era stato, se pur per un tempo brevissimo, uno degli angeli cantori del coro di Dio.
Dovremmo soffermarci sull’espressione “tempo brevissimo”, su quel tempo che l’angelo, il nostro angelo, aveva trascorso nel complesso di voci suddetto.
Ma tutto il sapere filosofico secolare e l’intera scienza di profeti e teologi concordano - e non fatto irrilevante – nel riconoscere che il tempo è soltanto una misura umana; ed anche la nostra ragione lo suggerisce, ma nonostante ciò l’assenza di tempo non entra nell’intelletto dei mortali, e tanto meno in quella di coloro che alle speculazioni filosofiche preferiscono il fluire della narrazione.
Eppure è scritto, nel Libro dei Libri, che Dio creò il mondo in sei giorni.
Il nostro angelo è legato alla creazione dei giorni.
Alla fine di ogni giorno il Signore – che sempre sia lodato – vide che ciò che aveva fatto era cosa buona. Volle adunque creare, al termine di ogni giorno, un angelo cantore, la cui voce allietasse i cieli. Ad ogni angelo fu dato di possedere una nota, il cui suono è tanto perfetto da non poter essere immaginato dalla mente umana.
Al sesto giorno, con il sesto angelo, il coro fu in grado di intonare la melodia perfetta, il canto dei canti, che solo a Dio può essere levato.
Non è del tutto da respingere l’opinione di quegli antichi che ritenevano le sfere celesti produttrici – o dovremmo dire creatrici? – mediante il loro movimento di una musica armoniosa. Può darsi che qualcuno di quegli antichi sapienti dalle lunghe barbe e dagli occhi pensosi abbia tanto teso l’udito o il cuore o il fegato da percepire un suono lontano e soave; ma la sua mente ha molto probabilmente, una volta caduta l’estasi, cercato di spiegare con parole umane ciò che era stato l’inizio di un dialogo dell’anima con il mondo originario.
Il sesto giorno il coro innalzò il suo canto: gli angeli stessi si beavano di quell’armonia che, partita da loro, si spandeva con eguale intensità per tutti i cieli e diveniva parte di quel regno. E tutte, tutte le schiere angeliche partecipano del suono che infondeva la felicità somma di essere gli eletti di Dio – che sempre sia lodato -, perché è detto che il respiro degli angeli è lode a Dio, ma nessuna lode era più giusta e santa di quella dei sei cantori.
Il settimo giorno il Signore – che sempre sia lodato – riposò.
Così è scritto.
Il coro tacque.
Ma un angelo si era avvicinato ai sei.
Aveva osato!
Gli angeli hanno il loro sito secondo il loro essere ed il loro uffizio, il che è, a ben guardare, la medesima cosa.
È scritto che Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza, ma nulla è scritto dell’aspetto angelico.
Aveva osato!
Quest’angelo aveva udito la melodia; tutto il suo essere ne era stato pervaso; aveva voluto – colà ove la volontà è solo di Uno – avvicinarsi ai cantori e nel fervore del suo amore s’era unito all’altissimo canto, un attimo prima che esso tacesse.
Egli non era stato creato per quell’ufficio ed…aveva stonato.
I sei elettissimi, non potendo per loro natura comprendere che quella non fosse la volontà divina, non avevano smesso immediatamente; pur nei loro sguardi v’era stato un cenno di smarrimento.
Poi il silenzio s’era diffuso nel santo reame, ma non quel silenzio che governa l’anima umana – solo paragoni umani possiamo accennare – nella pace, bensì quel silenzio rigonfio di presagi come nubi annunciatrici dell’uragano.
Un tremito aveva percorso l’angelo che ora stava dinanzi a Colui che l’aveva chiamato.
Noi non osiamo dar voce a Colui di cui onoriamo il nome, pur tuttavia è nostro compito riferire.
L’angelo aveva trasgredito l’ordine dei cieli, ma non era un ribelle. Egli non si era posto contro il Signore; aveva agito in un eccesso d’amore. La sua intenzione era stata di dare un’intensità maggiore al suo respiro che, come sappiamo, è già di per sé lode a Dio – che sempre sia lodato. Ma agendo in tal modo era uscito dall’ordine dato, perché la facoltà di scelta non è degli angeli, bensì dell’uomo e della donna.
Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza – è scritto.
In più, senza intenzione, senza superbia, s’era posto al di sopra della sua schiera.
Doveva dunque essere punito, ma non così severamente come si castiga un ribelle, e neppure tanto blandamente da poter incoraggiare simili azioni.
Il pensiero di poter sfidare l’Altissimo non aveva sfiorato l’angelo e neppure aveva presunto di levarsi al di sopra della coorte cui era destinato.
Superbia e orgoglio non hanno peso in questo dibattimento.
L’errore – o volete chiamarla colpa? – rimaneva.
L’angelo, né ribelle né altezzoso, s’era appropriato di un dono non dato agli esseri celesti: la volontà. Aveva mostrato di preferire alla condizione angelica quella umana. Egli aveva mostrato invidia – anche se non ne era cosciente –per quegli esseri che sulla terra nella loro imperfezione nascono con dolore, vivono con fatica, periscono con sofferenza.
Nascita, vita, morte erano frutti inebrianti di un albero chiamato volontà.
Egli doveva lasciare i cieli.

Zain
Egli dovrà scendere sulla terra e confondersi con gli esseri umani.
Avrà ciò che ha chiesto: la volontà.
Il Signore – sempre sia lodato – non disfa ciò che nella sua magnificenza ha fatto.
L’angelo non è imperfetto; a lui non può essere assegnata la morte.
Egli è stato creato per lodare il Signore. Questo è il suo compito e non può essere mutato.
A lui sarà assegnato il nome di Zain, giacché volle essere il settimo.
Scenderà sulla terra e vagherà alla ricerca di suoni e voci che sappiano intonare il canto sublime che il coro dei suoi fratelli leva.
Egli cercherà sette voci, sette suoni, poiché lo ha reso possibile.
Soltanto quando il coro da lui prescelto innalzerà l’inno sublime, la celestiale armonia, allora, solo allora per l’angelo esiliato si riapriranno le porte del cielo ed egli si porrà, eletto fra gli eletti, a guida del coro.
L’angelo, cui era stato imposto il nome di Zain, ascoltò; poi lasciò la dimora infinita, uscì dalla porta senza porta, e accolse i vestimenti umani.

1 Alef
Ha camminato nella notte oscura, nella notte delle notti, nella tenebra primigenia, con fratelli esiliati, alla ricerca di una terra promessa. Con gli scacciati ha alzato gli occhi al cielo e ha reso grazie, incurante che il canto potesse attirare i nemici assetati di sangue, come il rapace ode l’agitarsi della preda.
2 Beth
Ha udito il ferreo fragore delle armi superbe di guerrieri feroci, incomprensibile musica di un desiderio ignoto ed ha udito il palpito tremebondo dei loro cuori
e dopo la battaglia ha ascoltato il pianto di uno e più re, lacrime versate sulla vanità umana.
3 Gimel
In palazzi di uomini potenti ha ascoltato, fra ori e gemme d’ogni sorta che contendevano la luce alle stelle, cantatrici d’ogni dove
e lo scalpitio degli zoccoli dei puledri che dalle stalle rispondevano all’eco dei nudi piedi delle danzatrici.
4 Daleth
Nascosto tra le fronde, ha ascoltato parole di giovani e fanciulle che vicendevolmente tessevano lodi d’amore
e ha rubato le parole delle fronde mosse dal vento
5 He
Ha origliato allo stridio della penna di uno scrittore che intesseva labirinti per catturare l’anima del mondo
e il rumore della bava del ragno che edifica la sua tela
6 Waw
Ha sostato vicino a voci di madri che accanto a schioppettanti focolari, carezzando riccioli di bimbi dagli occhi incantati, raccontavano fiabe con voce amorosa
ed ha udito la fiaba crepitante del fuoco.

Ha percepito il suono della lacrima di un poeta in cerca del suo sogno
il suono evocatore delle campane nella mattina albeggiante
il germogliare d’un bocciolo nella notte di primavera
il battito d’ali d’una candida colomba altissima nel cielo
la melodia dello zufolo d’un giovane pastorello fra monti silenti
il nascere di un filo d’erba nel rorido mattino.

Fu attento ad ogni respiro, ad ogni alito della terra e di tutti gli esseri animati, udì le cicale estive e l’uragano invernale, il nascere delle primavere e seppe che i colori dell’autunno hanno un suono, ascoltò l’usignolo e il fruscio delle serpi, lo squittio di esseri minuscoli e i discorsi dei pesci degli abissi, l’ululato del lupo e i canti dei fiori delle foreste, si fermò estasiato davanti a tutti i templi da dove giungevano le litanie dei fedeli, imparò tutti gli idiomi, raccolse tutti gli strumenti inventati dall’uomo per far musica, compose canti, ballate, sinfonie…
Non trovò la settima nota, il canto dei canti.
Traversò il tempo che non conobbe.

A volte Zain, l’angelo esiliato sta seduto sulla vetta del più alto dei monti e guarda perduto le nubi: attende.
Attende, guarda perduto le stelle seguendo un itinerario già percorso.
Ascolta assorto il silenzio: a volte gli pare di udire provenire da dietro le nubi, da oltre le stelle, un suono vago, lontano, sublime, un suono già udito in un’altra patria, in un altro mondo, in un altro tempo.
Ascolta rapito il silenzio. Egli, l’angelo esiliato, prova ad accoglierlo nella sua celeste anima, perché sa che allorché potrà cantare quella melodia, allora, solo allora, la porta senza porta si riaprirà, ed egli , cantando, dimenticherà il passaggio terreno.
 


 
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Alfonso Cardamone
[ a.cardamone@email.it ]
 
LA VOCE CHE NOMINA LE COSE
("móvil" di francesco de napoli)
 
Distesa tra impegno (sociale, culturale, letterario) e culto del privato, tra attualità del divenire e inattualità pur feconda del mito, questa raccolta bilingue di Francesco De Napoli (italospagnola, con traduzione dall'italiano di Carlos Vitale), "Móvil" (Barcellona, 2001), raccoglie il meglio della produzione poetica del poeta lucano, cassinate d'adozione, così come si è venuta rappresentando ed esprimendo in un trentennio di attività e di pubblicazioni. Da "Noùmeno e realtà" a "Fernfahrplan" da "La dinamica degli eventi" a "L'attesa", da "Il pane di Siviglia" a "Urna d'amore", un breve, ma intenso e significativo excursus, per paradigmatici exempla, nell'universo poetico di De Napoli. Il tutto impreziosito dall'eco speculare della traduzione castigliana, veramente di rara efficacia.
Varietà di temi e di toni, ma, al fondo, una tensione costante, un accento unico, che fa immediatamente riconoscibile e inconfondibile questa voce poetica a noi contemporanea.
Una voce che indugia sulle "voci" (della natura, della memoria, dell'amore di un istante come del sentimento di una vita, del tempo che passa e trasporta con sé il male di vivere, degli autori più amati, degli amici perduti). Una voce che si interroga sul significato dei nomi, sul senso del nomare (le cose come gli eventi, la natura come le persone, i sentimenti…), consapevole, il poeta, che in questo "nomare", e solo in esso, si cela il "movente" (il "móvil", appunto, che dà titolo alla raccolta), "il più possibile strano / per giustificare vite errabonde / ed errate", che è poi come dire rintracciare, ancora oggi, il potere in senso stretto magico, ai primordi religioso, oggi sempre più laico, comunque perenne, della parola poetica.
 


 
identità e imperfezione 
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Andrea Cacciavillani
[ andcacc@tiscalinet.it ]
 
UNPLUGGED - Parte Prima
 
Prese i due fogli dalla stampante e guardò il primo: si era riprodotta male e in bianco e nero la pianta di una zona della città. La città dove avevano deciso di incontrarsi. La zona in cui si trovava l'albergo.
Il secondo foglio, lo guardò distrattamente e lo posò sulla scrivania.
Continuava ad osservare il monitor del computer per verificare la corrispondenza della cartina stampata con quella colorata e visualizzata nel video.
Aveva oramai memorizzato il posto e comunque sapeva che, una volta sceso dal treno, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe chiesto informazioni per raggiungere quel luogo; la stampa della cartina era inutile: non sarebbe stata utilizzata, era solo qualcosa che faceva parte dei movimenti già programmati.
Da quando si era svegliato tutti i suoi movimenti erano stati caratterizzati da una sequenza di azioni, come se seguisse un programma interno. Azioni in sequenza, stava sviluppando un algoritmo come quelli utilizzati dal computer di fronte al quale era seduto.
Per questo continuava a studiare la stampa.
Almeno sembrava.
In realtà il suo era semplicemente un movimento meccanico: la testa si limitava a fare passaggi continui dal monitor al foglio appesantito e inumidito di inchiostro nero ma non aveva più percezioni visive di quelle che in quel momento osservava o che lo circondava.
Tra i suoi occhi e il monitor, già da quando si era aperta l'immagine dell'albergo che aveva scelto, si erano infiltrati uno ad uno tutti i suoi pensieri.
Gli si insinuavano dritte, come attaccate caparbiamente allo sguardo, tutte quelle azioni - anche le più insignificanti - che avevano caratterizzato i suoi movimenti fin dalla mattina e che alla fine lo avevano portato a sedersi davanti al PC per collegarsi ad Internet e controllare la posta per leggere il messaggio con le indicazioni per arrivare all'albergo e soprattutto la conferma della prenotazione per una sola notte a suo nome di una camera matrimoniale.
Anche se perfettamente cosciente che il suo vedersi lì era solo una fantasia che si stava "solamente" concretizzando, che assumeva sempre di più forma, gesti, suoni, verità percettibili, da quando era entrato in ufficio si sentiva come uno che stava per mettere in gioco la sua vita ma senza una convinzione totale, senza una completa consapevolezza di quello che desiderava. Come se stesse complottando qualcosa di illegale, come se stesse compiendo azioni a scadenza.
E dire che in fondo era tutto premeditato.
Tutto premeditato è vero, ma non era quella la causa che materializzava in quel momento i suoi gesti: si muoveva spinto da una strana forza di inerzia. Sembrava come obbligato. E non gli piaceva quella sensazione, non doveva andare così, non era così che immaginava questo giorno, la vera vita di questo progetto.
Era la realizzazione di un sogno, di qualcosa che con persistenza aveva immaginato? O non lo era?
Non riusciva ad accettare la differenza così netta e freddamente distinta tra le sensazioni vagheggiate e quelle che realmente si stavano in quel momento producendo dentro di lui.
Quando fantasticava, sognava di incontrare Stefania e la sua mente diventava un fiume in piena con fantasie fervide, forti, fresche che gli bagnavano le giornate e lo lasciavano con gli occhi sbarrati e fissi nel vuoto come se tutto quello che pensava e desiderava si proiettasse in ologrammi davanti a lui; invece in quel momento sembrava si fosse tutto ridotto ad un piccolo ruscello che continuava sì a scorrere ma soggiogato, nascosto da una forma di preoccupazione della quale non conosceva con precisione origine e motivo.
Si trovava davanti ad un monitor e alla realizzazione di qualcosa per il quale aveva passato nottate intere a fissare il soffitto come se fossero scritte sul bianco intonaco della sua stanza da letto e non avrebbe dovuto avere quello stato d'animo guardando quel video e un A4 su cui era stampata una cartina in bianco e nero. Ma era così.
Non gli era esploso dentro all'improvviso, lo aveva sentito crescere piano, piano nei giorni precedenti a partire da quella sera durante la quale avevano preso la decisione di vedersi.
Era stata Stefania, in una frase senza rumore, che aveva lanciato la proposta. Per lui era sempre stato un desiderio difficile da esprimere.

Gianni - Mi manchi, lo sai?
Stefania - Mi manchi anche tu. Vorrei avere la possibilità di accarezzarti.
Gianni - È un desiderio che sento da tanto anche io.
Stefania - Perché non lo fai allora?
Gianni - Come?
Stefania - Esiste un modo per poterlo fare. Non adesso, certo, ma esiste un modo.
Gianni - Quale?.
Stefania - Vederci.
Gianni - Mi sta scoppiando il cuore in questo momento, lo sai?
Stefania - A me batte forte da oggi. Da quando ho deciso di chiedertelo.
Gianni - Si, ma dove?
Stefania - Non è importante il posto, è importante il modo in cui ci incontriamo.
Gianni - Sì.

…………
Quella sera però, anche se in modo meraviglioso, era stato catapultato improvvisamente oltre il sogno; quel sogno che fino ad allora era stato un suo irreale segreto, per ritrovarsi in un attimo nella realtà delle sue preoccupazioni così diverse da tutto quello che la sua mente fino ad allora aveva sviluppato.

Non ne era convinto e più navigava all'interno del sito dell'hotel pieno di banner colorati, immagini e descrizioni, più il suo corpo era pervaso da brividi invisibili, interni, nascosti anche alla sua pelle che giravano liquidi e vorticosi con il sangue per finire la corsa alla punta delle sue dita.
Ogni click del mouse gli penetrava nelle mani per dipanarsi su per le braccia e poi sul collo che si irrigidiva nei movimenti. Il suo cervello era diventato come una spugna e le sue orecchie amplificavano anche i più piccoli rumori: avvertiva e assorbiva il rollio del mouse che scorreva a tratti sul tappetino, il cicalio continuo dell'hard disk.
Ad ogni nuova immagine aperta pensava di fermarsi e tornare indietro e scappare via; non si sentiva a suo agio in quello stato di incertezza. Poteva trovare una scusa; poteva farlo e cercare di rinviare tutto a quando magari non ci sarebbe più stato quello spaventoso e incomprensibile salto in caduta libera tra le sensazioni provate quando sognava di incontrarla e quelle che provava in quel momento; ma i pretesti si rincorrevano troppo da vicino per poterli fermare e definire: si confondevano, si combinavano, non riusciva a comporre un pensiero che avesse senso logico.
Andava avanti. Lui credeva di essere comunque arrivato oramai, nel punto oltre il quale anche voltandosi indietro non avrebbe visto da dove era partito, da dove tutto si era originato ma avrebbe avuto solo visioni opache e senza contorni delle sue azioni, dei suoi pensieri e il cammino a ritroso sarebbe stato più deleterio, pieno di rimorsi e senza spessore che il continuare ad andare avanti.
Credeva di essere nel punto di non ritorno. Ma non era così. La verità era che l'eccitazione e il desiderio di incontrarsi con Stefania era ancora presente dentro di lui e lavorava di nascosto ipnotizzandogli i movimenti e le azioni, facendolo andare avanti, ma lui non riusciva a comprenderlo e a riconoscerlo preso com'era dalla preoccupazione di vedersi con una donna che non aveva mai visto e sentito e che aveva incontrato in una chat solo un mese e mezzo prima.

UN MESE E MEZZO PRIMA


Quando vide comparire nella casella della posta in arrivo il nome "Stefania", il cuore iniziò a pulsargli cupo nel petto ad una velocità poco al disopra della media ma con forza, come se si volesse dilatare in altezza.
Non si aspettava una e-mail così velocemente. Forse non si aspettava neanche che lei gli scrivesse.
Si erano scambiati l'indirizzo solo qualche ora prima, quando si erano conosciuti.
Conosciuti: questa parola gli suonava strana, gli ruotava nella mente aliena come se ancora non avesse un contenuto comprensibile, un significato e probabilmente, se avesse dovuta pronunciarla a voce, avrebbe fatto molta più fatica.
Ma con quale termine si poteva definire, spiegare una conversazione lunga e interessante con una persona in una chat line?
Era la prima volta che "chattava". Stefania era la prima persona con la quale aveva condiviso questa esperienza che aveva trovato divertente, piacevole, diversa. Sapere di parlare con un essere umano in tempo reale, che non si vede, che non si tocca, della quale non si percepiscono i battiti delle ciglia, i movimenti delle labbra, del viso, la gestualità delle mani lo aveva entusiasmato. Si è divisi sempre e comunque da una distanza impossibile da coprire, perché virtuale. Poco importa se l'altra persona è di fronte ad un monitor, come te, magari nell'appartamento al piano di sotto. L'unico appiglio reale è solo il tempo; il resto è distanza infinita.
Non era neanche paragonabile ad una conversazione telefonica con una persona sconosciuta perché in quel caso ci sarebbe stato un elemento che avrebbe frantumato l'incanto: la voce.
E sì, perché la voce è un elemento oggettivo, è realtà che non puoi cambiare, non puoi modificare o plasmare secondo la tua immaginazione, i tuoi desideri.
La voce - come qualunque altra caratteristica reale e propria della persona - diventa distintiva, identificativa. Troppo identificativa. Con la chat nessun elemento che non fosse nato dalla sua immaginazione, nessun tassello estraneo si era innestato in quel mosaico mentale che pian, piano si stava componendo dentro di lui rischiando di non combaciare perfettamente.
Lì era stato tutto perfetto. Pura immaginazione.

AUTOBUS


Mentre era sull'autobus guardava fuori: stava attraversando la città per andare alla stazione dei treni. Aveva uno sguardo fisso, davanti al quale scorrevano veloci e sfocate le strade e le case. E su quell'aria rarefatta, oltre il finestrino, si muovevano senza dimensione tutte le sue sensazioni. Le vedeva sui muri delle abitazioni, nei riflessi delle finestre, sui cartelloni pubblicitari, come se tutto fosse un enorme palcoscenico disteso lungo il tragitto, e lui unico spettatore in quel teatro dove recitavano e danzavano le sue percezioni in una stramba e improbabile rappresentazione.
Vedeva l'eccitazione di incontrarsi con una donna che non aveva mai visto e sentito, la preoccupazione che l'incontro fosse solo uno stupido gioco che avrebbe avuto uno squallido finale, la curiosità di sapere come fosse fisicamente Stefania, il tono della sua voce, la lunghezza e il colore dei suoi capelli, la calorosa aspettativa dell'inizio di una storia romantica, il terrore del silenzio e dell'immobilità. Sensazioni che affioravano tutte insieme. La sua mente in fibrillazione era riuscita a far incontrare emozioni che per definizione si escludono, si respingono, non ci sono mai contemporaneamente.

STAZIONE DI ARRIVO


Quando scese dal treno, aveva la sensazione di essere in quel posto senza un reale motivo e mentre si addentrava nella stazione, nei suoi rumori, nei suoi odori pensava a dove fosse Stefania e a come si sentisse lei in quel momento.
Sarebbe arrivata con circa un'ora di ritardo rispetto a lui; un ritardo programmato, preventivato, premeditato per fare in modo che si potessero incontrare nella stanza dell'albergo.
Nella penombra: così si erano detti.
Non capiva se questa decisione era dettata dalla eccitazione, da quell'intrigo misterioso e labile che nasce da un incontro "al buio" oppure era il desiderio comune di diluire l'impatto inevitabilmente forte e tachicardico che ci sarebbe stato alla vista dei loro corpi.
Erano entrambe le cose?
Sicuramente la loro era la situazione di due persone che avevano tenuto gli occhi chiusi per un mese e mezzo e sapevano che di lì a poco avrebbero dovuto aprirli e vedere e incontrarsi, scontrarsi con tutto quello che era sempre stato al di là delle loro palpebre serrate, della loro anima impregnata solo di sensazioni elaborate singolarmente, della loro immaginazione.
La stanza d'albergo era la materiale ricostruzione di quel piccolo mondo personale che loro si erano creati, piccolo ma dalle infinite possibilità: il posto dove si erano sempre incontrati con la individualità dei loro desideri e dei loro sogni. La penombra doveva fare da filtro, come una stoffa dalla trama stretta attraverso la quale far "gocciolare" e comporre poco alla volta, davanti alla loro vista, la "verità" dei loro corpi.
Non era solo un gioco eccitante: loro si volevano - forse si dovevano - abituare gradualmente alla "luce" accecante che li avrebbe abbagliati.
In fondo lui lo sapeva - probabilmente da quando avevano deciso di incontrarsi - che stava per fare i conti con quella materialità che finché non era stata presa in considerazione, non aveva mai avuto un ruolo primario, che anzi non aveva avuto nessuna parte; e invece da quel giorno in poi si era sempre più infiltrata di prepotenza in quello scenario, in quel loro mondo etereo, nelle loro elucubrazioni sistematiche, spesso anche involontarie. Più il treno scivolava metallico sui binari e correva verso la stazione, più avvertiva il dissolvimento progressivo e irreversibile di quell'universo costruito sull'immaginazione, lasciandolo lontano, indefinito, incomprensibile dietro le sue spalle.
Aveva portato con sé tutte le e-mail, tantissime, che Stefania gli aveva scritto durante quel mese e mezzo e le aveva rilette tutte sul treno voracemente e casualmente come per aggrapparsi tenacemente alla Stefania che viveva e si muoveva dentro di lui e portarla dietro con lui.
E allora perché si trovava lì?
Perché voleva, doveva amare, continuare ad amare una persona reale non un suo riflesso, una sua immagine, un suo sogno auto-prodotto?
Perché entrambi avrebbero dovuto farlo prima o poi, o tutto quello sarebbe finito per sfinimento mentale e le loro emozioni, i loro sogni e soprattutto l'amore che si erano reciprocamente ammesso sarebbe rimasto per sempre incastrato nella rete rimbalzando tra modem remoti fino a dissolversi e sciogliersi in quelle scatole che avevano assunto il ruolo primario e indiscutibile di messaggeri della loro storia.
Questo era quello che pensava mentre si girava attorno per trovare l'uscita.
Questo era quello che gli bombardava il cervello mentre guardava tutte le persone che disordinatamente lo incrociavano, lo superavano, gli camminavano a fianco.
Osservava con eccitazione e falsa distrazione tutte le donne che incedevano sole e che gli sembravano dell'età che Stefania gli aveva detto: 32 anni.
Lei era tutte. Lei non era nessuna. Lei era una in più, quella che lui aveva dentro.

STRADA


Quando uscì dalla stazione si trovò su una strada trafficata e rumorosa. Aveva visualizzato la cartina stampata al computer tante di quelle volte che alla fine gli si era riprodotta nella mente come una brochure.
Camminava e immaginava di muoversi come un piccolo puntino elettronico, lampeggiante, scuro e sicuro su un percorso di strade e incroci stilizzati come se fosse guidato da qualcun altro.
Non ebbe bisogno di chiedere informazioni per arrivare alla strada che cercava: la trovò subito e, quando imboccò la traversa dove era l'hotel, ebbe un sussulto vedendolo dall'altra parte del marciapiede con il suo enorme tappeto che copriva tutto il passaggio di fronte all'entrata e l'insegna al neon piccola e livida.
Alzò lo sguardo e lo osservò per qualche istante: cinque piani, la facciata era ben tenuta e pulita, le imposte erano lucide e di alluminio nero. C'era qualche stanza illuminata.
Più si avvicinava all'entrata e più avvertiva il passaggio del sangue nelle sue vene come se avesse preso improvvisamente consapevolezza della sua circolazione. Il cuore gli batteva forte dando il ritmo ai suoi passi.

HOTEL


Appena dentro, sentì rumore di posate e mormorii che provenivano dall'altra parte di un grande sèparé composto da un vetro colorato e spesso attraverso il quale si intravedevano teste e volti sfocati.
Gli penetrava nelle orecchie il leggero ronzio dell'aria condizionata, nel naso odore di pietanze, nelle gambe si ripercuotevano i suoi passi felpati e profondi nella moquette.
Si girò verso la reception e incrociò lo sguardo di una ragazza che gli sorrideva da oltre il bancone mentre cercava di infilarsi una spilla o una targhetta sulla giacca della divisa.
Mentre si avvicinava la ragazza gli disse:
- Buonasera.
Lei rimase a guardarlo con un sorriso che sembrava allenato ma stanco.
- Buonasera. Hanno prenotato una stanza questa mattina per telefono a nome mio.
Non sapeva se dirle che era una camera matrimoniale, visto che probabilmente era stato specificato con la telefonata.
- Mi dice il suo nome?
Le disse nome e cognome e in quel momento alcuni ospiti dell'hotel uscirono dall'ascensore per avviarsi verso la sala chiusa dalla vetrata.
Tornò a guardare la receptionist china sul registro per cercare il nome.
- Si, eccolo. Hanno prenotato una matrimoniale solo per questa notte, vero?
Aspettò che la ragazza gli rivolgesse di nuovo lo sguardo. Questa volta le sue pupille avevano un lampo come di curiosità e lo fissarono per qualche istante negli occhi. Era talmente nervoso che pensò per un attimo che la sua emozione gli si fosse tatuata sulla fronte in bella vista per tutti quanti.
- Sì, esatto. Le serve un documento?
- Sì grazie.
Mentre cercava il documento, si girò verso l'entrata dell'hotel e vide ferma sulla soglia una ragazza. Era sola con uno zaino sulle spalle. Era sola e ferma sul marciapiede e si guardava intorno.
Stefania! Fu il primo pensiero che gli venne in mente. Fu il solo pensiero che gli venne in mente.
Quando fece per girarsi, lui gli volse immediatamente lo sguardo facendo finta di niente come se lei avesse potuto riconoscerlo. Non si era neanche reso conto di come fosse fisicamente, riusciva solo ad essere nervoso e a produrre un unico concetto pesante e oppressivo come la presenza della ragazza sul viale.
Non sapeva dove stesse guardando in quel momento ma fu preso dal panico.
Era passata un'ora? Tutte le idee gli si mischiarono come se qualcuno avesse agitato la sua testa scuotendola energicamente e dentro quella confusione non riusciva a ritrovare la cognizione del tempo che era trascorso da quando era sceso dal treno, perso in chissà quale angolo remoto del suo cervello in iperattività.
Guardava dritto davanti a sé guardando le mani della receptionist che indugiava sulla sua carta di identità girandola, rigirandola, aprendola e chiudendola come se volesse perdere tempo, mentre lui era troppo ansioso che effettuasse la registrazione dei suoi dati per poter volare via nella sicurezza di una stanza.
Quando sentì la porta che si apriva, iniziò a divampare dall'interno; con la coda dell'occhio vide che una persona si avvicinava al bancone e avvicinandosi entrava sempre più nel suo campo visivo fino ad accorgersi dalla gonna che era la ragazza che aveva visto oltre la porta di entrata.
La receptionist alzò lo sguardo, sorrise di nuovo come aveva fatto con lui. Invidiava il suo sorriso rilassato e ignaro.
- Buonasera.
Stava trattenendo il respiro come se si trovasse in un apnea forzata, come se la presenza di quella ragazza gli togliesse tutto intorno l'aria.
Con il viso rivolto in basso sentiva il viso che gli bruciava e lo immaginava rosso come il tappeto che ricopriva i pochi gradini che portavano al piano rialzato dell'ascensore, che lui guardava a tratti e anelava come la sua unica via di fuga.
Respirava lentamente mentre avrebbe dovuto annaspare per riprendere tutto l'ossigeno che quella tensione gli sottraeva.
Se era Stefania e avesse chiesto di lui così come erano rimasti d'accordo, la receptionist invece di indicarle il numero della stanza dove lui avrebbe dovuto attenderla le avrebbe indicato direttamente lui. Il tempo che trascorreva aveva perso qualsiasi importanza perché, quando ancora la ragazza non arrivava al bancone, dentro di lui si stava già riproducendo l'incubo:

Stefania chiede di lui e la receptionist, alla quale viene all'improvviso in mente che sta registrando appunto il suo nome, dopo un attimo di esitazione e probabilmente di incredulità le risponde:
- Ma è lui!?
E rimane ferma con la carta di identità tra le mani e con il suo sorriso in franchising ad osservare tutta la scena. Entrando nella scena.


Come si sarebbe consumato quel grottesco incontro tra tre sconosciuti?
E sì, tre sconosciuti: lui, Stefania e la receptionist la quale si sarebbe ritrovata suo malgrado ad essere vertice di una triangolo tra punti ignoti a se stessi.

Lui e Stefania si guardano e non sanno se balbettare qualche parola, guardarsi solamente o salutarsi facendo finta di niente.
La ragazza dietro al bancone sorride sospettosa, non comprende assolutamente quello che succede e non sa che lei fisicamente ha lo stesso grado di anonimato delle due persone che ha davanti.
Cosa fanno? Prendono le chiavi? Con quale forza lo fanno? Chi le prenderebbe dei due? E poi verso l'ascensore? E una volta dentro? Quanti piani avrebbero dovuto….


- Room two-zero-nine
Quelle quattro parole gli entrarono nelle orecchie che erano protese e irrigidite e si accorse solo che ogni volta che una di quelle cifre arrivava al suo cervello il suo respiro diventava sempre più regolare, i suoi muscoli sempre più distesi, il cuore iniziava una lenta marcia di ritorno nel suo incavo tra le costole, da dove era balzato fuori.
Non gli importava il significato di quello che aveva sentito, ma solo quello che aveva sentito: la voce di una persona che non chiedeva di lui.
Non era Stefania.
Si voltò verso quella voce riuscendo a venire fuori dalla paralisi che lo aveva colpito e osservò la persona che per istanti che avevano avuto una distensione infinita lo aveva occultato nell'imbarazzo: le osservò velocemente il viso e si rese conto che doveva avere almeno 50 anni.
Lui non aveva visto una ragazza fuori dall'hotel, aveva solo visto una donna e quello era stato sufficiente a farlo vibrare come una corda tesa fino all'ultimo punto di trazione prima di spezzarsi.
La receptionist consegnò il portachiavi alla donna e tornò a guardarlo, sorridendo. Gli porse il registro girandolo verso di lui e chiedendogli di mettere una firma. Si accorse con la coda dell'occhio che lei lo guardava: con un sorriso che le era rimasto sulle labbra da quando era entrato, però il suo viso aveva cambiato espressione. Sicuramente aveva notato il suo cambiamento repentino di colore e probabilmente era riuscita a percepire la tensione che lo aveva attanagliato; forse aveva anche sentito il rombo del suo cuore.
Gli consegnò le chiavi:
- Stanza 321. Prenda l'ascensore fino al terzo piano. La stanza è sul corridoio di destra.
Le rispose al sorriso anche se non era propriamente rivolto a lei: era più un gesto di liberazione perché stava per prendere quell'ascensore che aveva mirato poco prima.
Mentre si allontanava, si ricordò improvvisamente il motivo per cui si trovava lì e si girò avvicinandosi di nuovo al bancone: la ragazza lo stava ancora guardando. Se ne accorse perché quando si voltò lei abbassò subito gli occhi:
- Mi scusi, la persona che è con me dovrebbe arrivare fra poco. Quando arriva, le può dire il numero della stanza?
Mentre parlava, osservava la ragazza che inconsapevolmente era entrata in quello schema di incontro.
- Sì certo.
Si girò di nuovo e si avviò verso il piano rialzato dell'ascensore.
Quando uscì dall'ascensore, seguì le indicazioni e si inoltrò nel corridoio: era stretto, silenzioso, poco illuminato, coperto di moquette grigia e pulita. Guardava i numeri delle stanze incollati con targhette dorate sulle porte.
321.
 


 
identità e imperfezione 
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Andrea Cacciavillani
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UNPLUGGED - Parte Seconda
 
STANZA 321


Guardò per qualche istante la porta e il suo numero luccicante, poi mise la chiave nella serratura e aprì. Notò che c'era anche la maniglia esterna e ne fu felice perché altrimenti avrebbe dovuto lasciare la porta aperta per fare in modo che Stefania potesse entrare senza che fosse lui ad aprire.
La camera era immersa nel buio, si fermò sulla soglia in attesa che le sue pupille si abituassero alla differenza di luce e lentamente gli comparve davanti agli occhi la forma di un letto.
Entrò chiudendosi delicatamente la porta alle spalle. Si girò un po' attorno e posò la chiave su un tavolino. Rimase immobile senza tentare neanche di capire dove si trovasse l'interruttore della luce, continuando solo ad osservare il posto in cui si trovava.
La camera, man mano che i suoi occhi si abituavano alla penombra, gli restituiva alla vista, in modo sempre più definito, le sue dimensioni, i suoi oggetti, il suo profumo.
Iniziò a muoversi verso la finestra dalla quale filtravano raggi rossastri che dovevano attraversare le imposte semi aperte e poi le tende bianche, sottili e chiuse. Una luce blanda e sofferente che si buttava diagonalmente sul letto.
Seguì quella scia luminosa toccando con la mano la lettiera metallica e fredda che gli trasmise un senso di estraneità; di fronte al letto un armadio con le ante semi aperte dall'interno del quale proveniva un odore di coperte e stoffa.
Quando arrivò alla finestra scostò le tende, aprì leggermente le persiane e si sporse per vedere su quale lato dell'hotel affacciava. Non riconobbe la strada dalla quale era arrivato, ma non ne era sicuro e comunque non gli importava.
Si ritrasse e continuò a camminare fino ad una porta che si trovava lateralmente all'armadio; la aprì e tastò il muro per cercare l'interruttore: il bagno si illuminò di una luce bianca e intensa che si rifrangeva e si allargava sul bianco lucido dei sanitari, sulle mattonelle, sugli asciugamani.
Dovette stringere per un attimo gli occhi prima di potersi di nuovo abituare alla luminosità che invase quella piccola stanza; quando vide la cabina doccia ebbe il desiderio di infilarsi sotto un getto d'acqua tiepido e vigoroso perché voleva togliersi di dosso l'odore del viaggio in treno ma era troppo nervoso e non sarebbe riuscito neanche a sfilarsi una scarpa.
Stefania stava per arrivare.
Spense la luce e richiuse la porta. Tornò verso la finestra, l'unica presente nella camera, e si girò di spalle appoggiandosi al davanzale; da quella posizione tutta la stanza entrava nel suo campo visivo: il letto, l'armadio, i comodini con sopra le abat-jour. Tutte quelle cose diventavano sempre più solo contorni scuri man mano che i minuti passavano.
La luce del tramonto aveva lasciato spazio a quella artificiale dei lampioni che ancora più indebolita filtrava esanime solo per morire sul pavimento al bordo del letto.
Si accorse di avere ancora il giaccone addosso, lo tolse e lo lanciò sul materasso con un tonfo sordo. Il silenzio della stanza era perfettamente accompagnato da quello esterno, come se su quel piano non ci fosse nessun altro. Tutta quell'assenza di rumori lo pervadeva, lo circondava a tal punto che anche il battito del suo cuore lo infastidiva; respirava lentamente, profondamente cercando di darsi un ritmo più regolare di quello che la tensione gli permetteva di avere.
Assenza di rumori, quasi assenza di luce, assenza di pensieri validi e coerenti.
La sua mente sfrecciava come un missile su tutto quello che stava succedendo: su Stefania che stava per arrivare, su di lui che eri lì in piedi e in attesa, sulla loro storia, su quella stanza buia e silenziosa. Non riusciva a fermarsi in un punto logico per ragionare su una serie di parole da dire, di reazioni da avere, di gesti da fare nel momento in cui Stefania sarebbe entrata dalla porta che aveva di fronte.
Neanche in treno era riuscito a pensare a quel momento, era troppo eccitato e allo stesso tempo nervoso e ogni volta che provava a pensarci la sua mente si trovava di colpo di fronte ad una infinita serie di bivi e sistematicamente perdeva di vista la strada che voleva percorrere.
In questi casi bisogna solo aspettare.
Come l'anima che Stefania in quei tre mesi gli aveva donato e della quale si era invaghito inesorabilmente, gli aveva dettato reazioni sincere che vivevano dentro di lui e che riportava nelle e-mail o gliene parlava in chat, allo stesso modo il suo corpo gli avrebbe dettato il comportamento, le parole, i gesti.
Sentì il campanello dell'ascensore che arrivava al piano; il rumore si propagò nel silenzio viaggiando nello stretto corridoio tra le porte delle camere e la moquette.
Il suo nervosismo e la quiete esterna nella quale era immerso amplificarono a dismisura quel suono che si conficcò come una lancia dentro di lui.
Trasalì: sentiva la pelle che si accapponava e una serie completa di brividi iniziò ad attraversarlo furiosamente su tutto il corpo come una cavalleria.
Iniziò a guardarsi intorno come se volesse scappare, o nascondersi per sparire nel buio di quella stanza. Se il cuore ne avesse avuto la possibilità, sarebbe balzato fuori dal petto saturando quel silenzio con i suoi battiti accelerati all'inverosimile.
Gli rimasero attivi solo due sensi: lo sguardo fisso verso la porta e le orecchie tese fuori verso il corridoio.
Il suo corpo era diventato un radar.
La dimensione del tempo che passava si era dilatata e dilaniata, non riusciva più ad avvertire la successione di istanti che si susseguivano da quando aveva sentito l'arrivo dell'ascensore e non registrava la presenza di nessuno che si muovesse fuori.
Forse non era Stefania. Forse era qualche altro ospite che alloggiava nell'hotel e magari nell'ala opposta. Forse aveva immaginato il campanello dell'ascensore.
Non sentì la porta che si apriva, vide solo una lingua di luce che si allargava e si allungava partendo dall'estremità inferiore della porta fino a tagliare diagonalmente il letto. Rimase fermo, fisso sulla soglia cercando di produrre meno rumore possibile, regolando forzatamente anche l'aria che entrava ed usciva dai suoi polmoni. Immobile, attendeva solo di vedere entrare una forma umana. Gli si era pietrificato lo sguardo su quella infiltrazione e immaginava Stefania che, come aveva fatto lui, attendeva dietro la porta che le si compensasse negli occhi la differenza repentina di luce; probabilmente anche a lei in quel momento stava evidenziandosi pian piano la forma del letto.
Con una differenza abissale di stato d'animo però: lei sapeva che c'era qualcuno lì dentro che la stava attendendo e probabilmente a tutto quello si era aggiunta anche la preoccupazione di aver sbagliato camera; un errore che le avrebbe fatto imbarcare tensione che si sarebbe scaricata in una stanza vuota o addirittura con la persona sbagliata.
- Stefania?!
Fu il suo cervello che autonomamente diede ordine alla sua bocca di aprirsi per emettere quella sequenza di suoni e lettere, perché non riusciva più a tenersi in equilibrio sul filo teso di quella tensione. Era la prima volta che pronunciava il suo nome ad alta voce e quel suono riempì come un rumore improvviso tutta la stanza lacerando il buio, rimbalzando sulle pareti, sul letto, infiltrandosi nell'armadio attraverso le sue ante aperte. Avrebbe voluto risentirne l'eco per capire con quale tono e con quale volume lo aveva pronunciato. Non sapeva se Stefania o chiunque si trovasse dietro quella porta avesse sentito. Gli venne il dubbio che quel nome non lo avesse pronunciato davvero.
Stava affogando nel mare in tempesta delle sue emozioni.
- Si!
Non capì se gli arrivò per prima quella voce sussurrata alle orecchie oppure i contorni infuocati di una massa di capelli agli occhi.
Rimase fermo senza dire una parola guardando quella figura che lentamente si componeva spostandosi da dietro la porta. La luce proveniente dal corridoio la colpiva da dietro stagliando in fondo alla stanza il profilo di una figura nera e piena. Sembrava il disegno di una persona in grandezza naturale alla quale era stata data come unica definizione il tratteggio giallo arancio dei contorni.
La porta si chiuse lentamente e quel piccolo fascio di luce fu risucchiato e ricacciato indietro nel corridoio riportando il loro corpi nell'oscurità.
Iniziò tra loro una comunicazione strana e surreale composta di immobilità, semicecità, silenzio e respiri trattenuti. Erano due ombre tridimensionali.
- Ciao Stefania! Sono qui.
Voleva rompere quel silenzio, darle la capacità di comprendere dove fosse, di come fosse il tono e il timbro della sua voce.
- Sì, ti vedo.
Era un sussurro, come se provenisse da profondità sconosciute. Ti vedo. Era una cosa che Stefania gli aveva scritto durante una delle prime conversazioni in chat che avevano avuto:

Gianni - Ciao Stefania, è un piacere "vederti".
Stefania - Perché lo hai messo tra virgolette vederti?
Gianni - Perché non ci vediamo. Ma non è in senso negativo che l'ho inserito. Sa, qui trovo difficoltà ad attribuire ai termini lo stesso significato che hanno nella realtà.
Stefania - Sei sicuro che non ci vediamo Gianni?
Gianni - Che vuoi dire?
Stefania - Non mi stai immaginando in questo momento? Non voglio sapere come mi immagini, voglio solo sapere se mi stai immaginando.
Gianni - Sì, ti sto immaginando. Non siamo in grado di pensare al "nulla". E quindi credo sia necessario per noi, quando la persona non la vediamo con i nostri occhi, costruirci nella mente un'immagine tutta nostra. Immagine alla quale indirizzare le nostre parole e attribuirle quelle cose che ci dice.
Stefania - Allora non è vero che non mi vedi? Io sono davanti ai tuoi occhi adesso.
Gianni - Si, lo sei.
Stefania - Io ti vedo.
……….


Ma in quel momento era diverso: certo non la vedeva o almeno non perfettamente ma ne comprendeva i contorni e la densità ed era meraviglioso avvertire il suo corpo immobile, in attesa e in tensione in quella stanza al buio.
Aveva sentito la sua voce per la prima volta anche se ancora non riusciva a fare osservazioni sul suo timbro e sulle sue sfumature. Una volta riconosciuto un tono femminile, non era arrivato a fare altre considerazioni. Come se fosse una voce già sentita che non aveva bisogno di ulteriore analisi, anche perché le sensazioni si avvicendavano turbinando all'impazzata e la sua mente non reggeva al filtraggio contemporaneo di tutto quello che da qualche istante stava succedendo.
Si diede un piccolo colpo di reni per mettersi dritto con la schiena e iniziò a muoversi verso di lei, lentamente, cercando di intravedere nel buio l'unico passaggio, tra il letto e l'armadio, per arrivare verso la porta.
Toccò nuovamente la lettiera ma la sua consistenza metallica e fredda non gli fece alcun effetto.
Ogni passo lo avvicinava a lei e quello bastava per annullare le sensazioni fisiche esterne: se qualcuno fosse entrato nella stanza sparando all'impazzata, lui ci avrebbe messo del tempo a comprendere cosa stava succedendo.
Più si muoveva, più si sentiva al sicuro e sicuro, perché stava scomparendo quell'intenso senso di stranezza ed estraneità che lo avevano agguantato da quando si era messo in viaggio per poi entrare sconosciuto in una stanza d'albergo che invece in quegli istanti gli sembrava sempre più sua.
La stava amando quasi.
Si avvicinava e respirava l'aria che circondava Stefania impregnata del suo stesso fiato, che soffiava una nuova e più intensa vitalità al sogno di potersi incontrare con lei; quel sogno che aveva covato e costruito nel tempo ma che era sprofondato nella voragine delle incertezze e delle preoccupazioni fin da quando era stato dato l'input alla sua realizzazione.
In quel momento era come se passeggiasse voluttuoso ed eccitato in quel mondo immaginario che si erano costruiti, con la differenza che vi camminava con i suoi piedi riuscendo ad assimilare perfino il pavimento sotto di lui.
Si fermò quando era a poco meno di un metro da lei. Non riusciva a vederla e non cercava neanche di sforzarsi perché era come se la comprendesse nell'intero.
Stefania aveva le braccia lungo i fianchi e il volto che immaginò essere rivolto verso di lui: era ancora ferma, immobile; notava solo il suo torace che si espandeva e si contraeva lentamente e ritmicamente.
Allungò un braccio verso il suo viso fino a quando non sentì con la punta delle dita i suoi capelli e si fermò: voleva scambiare calore con loro prima di continuare a distendere il braccio attraversando quella massa setosa che gli carezzò il dorso della mano. Il suo respiro perse il ritmo quando sul palmo sentì il leggero tocco della pelle del suo collo che gli sembrò avesse un'energia e una consistenza mai sentita prima, realizzato con un velluto che non aveva mai toccato.
Si costrinse quasi a chiudere gli occhi prima di distendere l'altro braccio e racchiudere la testa tra le sue mani. Iniziò una lenta esplorazione del viso usando solo la punta delle dita di entrambe le mani.
Passava silenzioso, lento e accorto sui suoi tratti, sulla sua fronte, sulle sopracciglia piccole e arcuate, sugli occhi che avevano le palpebre chiuse; le carezzò le ciglia allungate e sottili con una delicatezza tale da dare l'impressione di volerle contare tutte.
Cadde sui suoi zigomi morbidi e lisci, sulle guance, attraversò il naso.
Quando arrivò alle labbra iniziò a tratteggiarne il contorno partendo dall'estremità opposte fino a far incontrare le dita nel solco centrale per poi ripartire in direzione opposta e farle incrociare di nuovo in basso; si infiltrò nella piccola fossa del suo mento, per risalire in alto con movimenti perfettamente simmetrici verso le orecchie. Stava disegnando.
Non cercava di capire se la donna che aveva dentro da un mese e mezzo fosse simile a quella che aveva davanti, no lui la stava ridisegnando da capo.
Sostituiva l'immagine che aveva elaborato la sua fantasia con le forme che le sue dita gli trasmettevano nella mente facendole viaggiare sui brividi. Era un cieco che cercava di leggere il braille di un sogno. Scese sulle spalle che si muovevano quasi impercettibilmente, si lanciò in una carezza lenta e palpabile delle sue braccia che avvertiva sottili e coperte dal cotone di una maglietta.
Fu un attimo sentire le sue mani e poi percepire il lento movimento che fece Stefania per fare in modo che i palmi poggiassero l'uno sull'altro; si fermò così, accarezzandole senza movimento per qualche istante come se volesse far combaciare le linee delle loro mani, pensando che si stessero incrociando i loro destini. Destini scritti in quei solchi.
Le strinse le mani e Stefania fece un piccolo passo verso di lui: sentì immediatamente il profumo della sua fronte che gli penetrava nella gola attraverso le narici. Le loro mani incrociarono le dita e lei alzò il viso facendo sfiorare la punta del loro naso e continuò ad alzarlo, lentamente finché le labbra non si scambiarono i respiri, e poi la morbidezza, e poi la lingua.
Mentre la baciava, si immerse fisicamente in quella nera figura in un abbraccio totale e completo. Sentiva il suo seno contro il petto morbido e caldo, la sua schiena contro le sue mani ondulata e contratta. Stefania sembrava si stesse sciogliendo come una statua di cera sotto un sole torrido attaccandosi al suo corpo con movimenti che diventavano sempre più sicuri, decisi, fluidi.
Le sue mani lo cercavano, lo scrutavano, lo accarezzavano con una impetuosità sempre maggiore che lo eccitarono e lo stupirono. Fu lei a spingerlo indietro verso il letto senza smettere di muovere la lingua sulle sue labbra e nella sua bocca con la mano sui suoi pantaloni, che seguiva perfettamente la traccia del suo sesso eccitato. Iniziò una danza impetuosa, umida, erotica di cui lei ne era il cavaliere, la guida; era lei che suonava volta per volta la melodia, lei che batteva il ritmo, lei che segnava il passo. Era diventato completamente passivo ai gesti e al corpo di Stefania che lo guidavano come un aereo telecomandato su in alto, nell'aria, nel cielo per stagliarsi nell'infinito di quel blu che vedeva solo attraverso i suoi occhi chiusi. Sul morbido di quel letto era lei che comandava e decideva i suoi volteggi, le sue piroette, le sue cadute in picchiata e lui si lasciava trasportare, perché aveva perso i contatti con il mondo, con la razionalità, con i suoi pensieri; tutto si stava sciogliendo sulla pelle di Stefania mischiandosi al suo profumo.
La nudità dei loro corpi sembrava apparsa improvvisamente, come se non avessero mai indossato niente, e lui si sentiva avvolto e impregnato dagli umori di Stefania, dalla sua saliva, dalla sua pelle, dalle sue mani che lo scrutavano e lo esploravano senza paure e incertezze.
Si ritrovarono distesi uno di fianco all'altro. Stefania aveva poggiato una mano sul suo petto e con l'altra si reggeva la testa come se volesse guardarlo. Lui riusciva solo a vedere la massa nera del suo cranio coperto di capelli che sapeva lunghi solo al tatto ma non ne conosceva il colore. Sentiva il respiro di Stefania che rallentava e tornava alla normalità.
- Quando posso vederti Stefania?
Le accarezzava la mano che accarezzava il suo petto.
- Abbiamo deciso di aspettare il mattino. Aspettiamo che i raggi del sole lentamente ci rivelino ai nostri occhi.
Da quando era entrata, le poche parole che aveva detto erano state tutte sussurrate. E anche in quel momento sentì la sua risposta come un vento, leggero. Come un respiro. Sorrise anche se lei non poteva vederlo e immaginò che anche lei lo stesse facendo.
La stanchezza lo prese improvvisamente tra le carezze che continuava a farle in silenzio, assorto nei respiri che diventavano sempre più profondi e silenziosi.
Si addormentò profondamente e senza sogni.
 


 
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Andrea Cacciavillani
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UNPLUGGED - Parte Terza
 
Si svegliò con una linea di sole che passava sul petto entrando dalla finestra. Quando aprì gli occhi, si accorse subito, senza dover girare la testa, che di fianco a lui nel letto non c'era nessuno. Si alzò sul busto cercando di dare ai suoi capelli un aspetto ordinato e puntando l'orecchio verso la porta del bagno; non sapeva se farsi trovare così da Stefania o alzarsi e mettersi qualcosa addosso velocemente.
Lei lo aveva visto. Probabilmente era stata ad osservare chissà per quanto tempo il suo viso mentre dormiva e lui non aveva neanche sentito quando si era alzata nuda, e ancora non sapeva minimamente com'era.
Il cuore iniziò a battergli forte quando realizzò che stava per vederla davvero. Cercò di assumere un atteggiamento rilassato, dritto, con la schiena poggiata sulla spalliera del letto pensava a cosa dire, a quale espressione dare al suo viso quando Stefania sarebbe uscita dal bagno. Si guardava attorno nervoso nella stanza illuminata dalla luce del sole e vedeva l'armadio di fronte a lui, il tavolino dove la sera prima aveva posato le chiavi della camera che erano ancora lì, il colore del pavimento, il lampadario che non era stato acceso.
Vicino la porta vide i suoi vestiti e le sue scarpe per terra aggrovigliati a pacco, come se fossero stati sfilati insieme contemporaneamente.
Non vedeva i vestiti di Stefania, anzi a guardare bene, non c'era niente in quella stanza, nessun oggetto, nessun segno della sua presenza e solo allora si accorse che anche dal bagno non provenivano rumori. Decise di vestirsi; non sapeva dove fosse Stefania, ma non voleva farsi trovare allungato nel letto nudo, disorientato e imbarazzato.
Quella stanza gli era più familiare nella penombra e nell'incertezza delle sue dimensioni che in quel suo essere illuminata e così concreta. Un po' come Stefania, che lo aveva amato impetuosamente al buio nell'incertezza e nell'oscurità dei suoi tratti e anche della sua voce.
Era diventato ancora più nervoso e non perché era arrivato il momento di vederla ma aleggiava una strana atmosfera in quella stanza. Una pesantezza silenziosa.
Si alzò e si vesti silenziosamente e velocemente senza staccare gli occhi dalla porta del bagno; con i suoi indumenti addosso si sentiva più protetto per pensare e agire in quell'atmosfera ambigua che si stava infittendo. Posò delicatamente l'orecchio sulla porta senza avvertire nessun movimento o scroscio d'acqua. Picchiò e la chiamò, poi aprì: buio.
Quando accese la luce, si accorse che non era stato assolutamente utilizzato: la tavoletta del water chiusa e avvolta con la fascia della pulizia igienica, gli asciugamani ripiegati su uno sgabello, il lavandino perfettamente smaltato e senza gocce.
Tornò indietro con un'ansia che lo avvolgeva sempre di più come una nebbia che diventava progressiva man mano che i secondi passavano. Si girò verso il letto per accertarsi che c'era stato qualcuno con lui quella notte; guardò i cuscini schiacciati che portavano ancora i segni delle teste che vi erano state poggiate, le lenzuola che erano spiegazzate da entrambi i lati. Si avvicinò al cuscino di Stefania e lo annusò cercando di ritrovare il profumo che aveva sentito su di lei ma del quale aveva perso traccia; tastò il cuscino, lo osservò da vicino per trovare capelli o qualunque altra cosa che potesse raccontargli del suo passaggio. Si aprì la camicia e cercò sulle spalle, sulle braccia, sul petto. Niente.
Quando si fermò un istante a riflettere sul vuoto di quella camera che gli faceva ruotare nella testa come un sogno quello che era successo, si accorse che le coperte da quel lato erano scostate. Qualcuno si era alzato di lì.
Non sapeva cosa fare. Doveva aspettare? Se fosse uscito fuori per cercarla avrebbe dovuto chiamare a voce alta tutte le donne che incontrava perché non sapeva assolutamente com'era fatta Stefania. Aveva fatto l'amore con lei, incontrandone il respiro, la pelle, il profumo, le labbra, la lingua, l'impetuosità ma non ne conosceva i colori, i tratti e questo pensiero gli fece contrarre lo stomaco e la gola. Si affacciò alla finestra sporgendosi: c'era gente in strada che si muoveva e camminava, rumori di clacson, puzza di smog. Cercò le sigarette nella giacca e ne accese una fumando nervosamente appoggiato di nuovo, come la sera prima, di spalle al davanzale.
E come la sera prima si mise di nuovo ad aspettare che la porta si aprisse, ma questa volta con i pensieri completamente accartocciati e sgualciti senza riferimenti e immagini.
La porta non si aprì. Era passata più di mezz'ora e aveva fumato due sigarette che gli avevano bruciato la gola e ridotto ancora di più lo stomaco.
Prese il suo zaino e senza convinzione, con movimenti lenti e di attesa, si avviò verso la porta. Rimase fermo sul corridoio guardandosi intorno senza avvertire rumori o voci; l'unica cosa che sentiva forte dentro era un'ansia imponderabile e uno sconcerto al quale non riusciva a dare una spiegazione e una forma comprensibile.
Quando la porta dell'ascensore si aprì, esitò ad entrare: se si fosse potuto sdoppiare lo avrebbe fatto per scendere sia con l'ascensore che a piedi ed evitare di non incontrarla. Alla fine decise di fare i tre piani di scale e lo fece lentamente, perché non sapeva cosa dire alla reception e - soprattutto - non sapeva ancora se doveva andare via o aspettare. Tutto quello gli sembrava assurdo e ad ogni gradino cercava di riprendere dalle sensazioni della sera prima immagini che potessero dare a quegli istanti della sua vita una parvenza di realtà. Aveva immaginato di tutto per quell'incontro, qualsiasi finale, da quello più bello a quello più brutto, ma non si aspettava che non ci sarebbe stato un finale. Si sentiva come se fosse rimasto imprigionato in un sogno e in quell'albergo.
Quando arrivò al piano terra, vide la receptionist che parlava a telefono: si fermò un attimo pensando cosa chiederle. Lei dovette accorgersi della sua presenza e alzò il viso tenendo la cornetta ferma con la spalla sull'orecchio. Lo guardava fisso con un'espressione seria, senza sorriso, continuando a parlare.
Quando ripose il telefono, il sorriso si aprì e lui iniziò a fare dei passi stentati verso di lei. La ragazza non gli toglieva gli occhi di dosso e lui non riusciva a estrapolare dalla sua mente la domanda meno tendenziosa per chiederle e per sapere che fine avesse fatto Stefania.
Lei l'aveva vista entrare e probabilmente uscire e adesso invidiava i suoi occhi perché avevano avuto questa opportunità. Lo sguardo fisso e pesante della receptionist lo imbarazzava e lo confondeva ancora di più come se lei sapesse qualcosa che lui non sapeva o come se leggesse il suo imbarazzo e il suo sbigottimento per quello che non era successo.
Quando arrivò al bancone, cercò di assumere un atteggiamento naturale e rilassato anche se lo sguardo interrogativo e indagatore della receptionist non gli lasciava molto scampo.
- Ehm! Mi scusi, la persona che era con me in camera, non sa dove è andata?
Era la domanda più stupida che poteva farle ma era anche l'unica. Perché altrimenti avrebbe dovuto chiederle: Non sa dove è andata la donna che è stata con me questa notte e, visto che lei l'ha vista e io no, mi dice come è fatta, così provo a cercarla?
- Le ha lasciato detto dove andava?
Cercava di recuperare la situazione tirandosi fuori dall'imbarazzo dando anche alla sua domanda una vestito naturale. Ma la ragazza non sembrava convinta del suo atteggiamento e continuava a scrutarlo con una luce negli occhi che sembrava volesse entrargli dentro.
- Veramente è uscita questa mattina molto presto. Non mi ha lasciato detto niente.
Non sorrideva più come se volesse partecipare al suo dramma personale, come se volesse fargli capire che le dispiaceva per quella situazione anomala e incomprensibile nella quale si era trovato, nella quale si era risvegliato.
- Ha pagato la camera ed è andata via.
Sentì improvvisamente l'aria dell'atrio che iniziava a schiacciarlo e comprimerlo come se fosse diventata di una pesantezza e di una densità insostenibile, sembrava che qualcuno lo avesse preso per una caviglia e portato giù a decine di metri sotto il livello del mare e, più scendeva, più la pressione del suo sconvolgimento lo opprimeva dall'esterno dilatandosi dall'interno.
- Mi dispiace.
Eccolo. Mi dispiace. Era come se si aspettasse che glielo dicesse. Non si vedeva, ma sentiva di avere un'espressione orrenda e tragica allo stesso tempo: forse si vedeva la sua imminente implosione; doveva essere per forza così per farsi dire "mi dispiace" da una persona che non sapeva quello che stava succedendo dentro di lui. Probabilmente il volto che aveva in quel momento era quello, sconvolto, di chi è stato abbandonato nel letto inaspettatamente e rocambolescamente.
Ed in effetti era stato abbandonato e se ne rendeva conto sempre di più, ma da una persona della quale non conosceva il volto. L'unica coordinata che aveva era il suo indirizzo di posta elettronica, cioè qualcosa che per poter essere minimamente reale doveva essere scritto su un foglio.
Quindi non aveva niente di lei. Neanche i ricordi della notte precedente, che erano ridondanti ma confusi e scoloriti come se fossero stati lasciati tra le pareti di quella camera.
- Ok. Salve.
In quel momento l'unica cosa che desiderava era uscire da quell'albergo, risalire le profondità dentro le quali era stato ricacciato e tornare a respirare aria e realtà, non il liquido denso di quel sogno che non si era neanche minimamente avvicinato alla più brutta delle sue sensazioni.
Si avviò con un passo di fuga verso l'uscita, sperando di ritrovarsi, una volta uscito di lì, come d'incanto senza una buona parte dei suoi pensieri.
La porta a vetri si avvicinava ai suoi respiri, ai suoi occhi mentre la voglia di scappare da lì dentro lo spingeva come una mano che lo tirava e attanagliandoli il collo.
- Gianni??!
Si immobilizzò come una statua di creta: pensieri senza immagini corrispondenti, sensazioni troppo veloci e violente per poterle fare sue e cavalcarle liberamente.
Si voltò bianco in volto, e subito dopo livido con la speranza che fosse stata Stefania a chiamarlo.
Forse era salita con l'ascensore e non si erano incrociati. Era entrata in camera e non lo aveva trovato e allora era uscita di corsa trovandolo proprio mentre stava andando via. È vero, lui era di spalle ma lei aveva avuto l'opportunità di vederlo disteso nel letto assorto nel sonno.
Si girò lento come una bambolina su un carillon, seguendo il comando dal rullo dentato delle sue emozioni:
- Mi scusi, signore. La sua carta di identità.
Vide la receptionist con un'espressione tra il divertito e il dispiaciuto, sempre dietro il bancone con il suo documento in mano, stretto tra le dita. Si guardò lo stesso attorno seguendo un riflesso condizionato, ma non c'era nessun altro. Non voleva andare a riprenderla, non voleva di nuovo entrare in quell'hotel, avrebbe voluto farsela lanciare invece di avvicinarsi.
Mentre andava in stazione con un i passi pesanti come l'ansia, percepiva dentro di sé che non l'avrebbe più sentita. Era quasi una certezza sul treno e lo diventava sempre di più sull'autobus fino ad avere l'amara conferma a casa, davanti al PC, che non ci sarebbe stata nessuna mail di Stefania.
Nessuna, neanche nei giorni successivi.


Probabilmente Gianni capirà e troverà un po' alla volta note stonate in quella che a lui sembrava una sinfonia perfetta. Troverà pezzi di mosaico che, a guardarli bene, non combaceranno perfettamente, tasselli sbagliati all'origine.
Adesso che può solo ripercorrere tutto a ritroso e in lungo e in largo a suo piacimento.
Potrebbe, invece, capire tutto e subito se solo rientrasse in quell'hotel, magari invisibile e nascosto per ascoltare questo dialogo:
- Buonasera
- Buonasera signor Tommasi. Il viaggio è andato bene?
- Sì, ma quando si viaggia per lavoro, per andare bene, deve concludersi l'affare. Per adesso sembra che siano rimasti soddisfatti della proposta di franchising di questa catena di hotel. Ho mostrato loro i conti, le valutazioni. Insomma, ho dato loro i miei dati e ho lanciato l'idea, adesso aspettiamo che decidano. Ma sono ottimista. E stanco.
- Ha chiamato anche il signor Gennari. Gli ho detto che lo avrebbe richiamato lei appena possibile.
- Sì, lo chiamo domani. L'affluenza qui in hotel?
- Per la maggior parte sono stati turisti. Qualcuno è ancora qui. Poi vediamo: un uomo che è rimasto il fine settimana e una coppia che ha preso una stanza per una notte, ieri sera.
- E la tua targhetta?
- Ah sì, l'ho tolta perché ho lavato la divisa. Adesso la rimetto.
- Io vado a casa. Se mi cerca qualcuno, prendi un appunto, poi lo richiamo. Non credo possano cercarmi i Francesi perché è ancora troppo presto, ma solo in quel caso, fammelo sapere subito.
- Ok! Buonanotte signor Tommasi.
- Buonanotte Stefania.
 


 
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Andrea Cacciavillani
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ECHI
 
PRIMO


Ore 7.45

Il trillo della sveglia gli invase il cervello penetrando facilmente e velocemente dall'orecchio rivolto verso il comodino. Aprì gli occhi: la prima cosa che vide fu il soffitto bianco, sbiadito e il lampadario che pendeva fermo e spento al centro. Si era staccata la copertura e alcuni fili colorati si intravedevano uscire da un piccolo foro.
Aveva la bocca impastata, il naso chiuso, gli occhi velati. Restò qualche attimo immobile e senza pensieri concreti con la sveglia che continuava a suonare eccitandogli le cellule nervose, poi con un movimento lento e disordinato allungò il braccio per pigiare il pulsante di arresto. Si mise a sedere sul letto massaggiandosi gli occhi e poi passandosi la mano tra i capelli scompigliati. Si girò dietro solo per constatare che sua moglie era già uscita. Non l'aveva sentita alzarsi, né vestire, né uscire. Oramai la sua mente si era talmente abituata a quei ritmi che riconosceva perfettamente i rumori e i movimenti a quegli stessi orari e non dava nessun impulso di reazione. Li riconosceva, li accettava, li assorbiva, diventavano come silenzio. Probabilmente si sarebbe svegliato se sua moglie avesse fatto tardi o non si fosse alzata.
Il silenzio non atteso diventa rumore.
Si alzò, avviandosi verso il bagno tenendosi la schiena con le mani.
In piedi di fronte allo specchio si guardava il viso che appariva sempre di più morbido e liscio ad ogni passaggio del rasoio. Quel viso che era stato guardato, ammirato, osservato la sera precedente durante il party svolto in suo onore dalla clinica presso la quale lavorava.
In onore di un medico chirurgo che per la prima volta era riuscito a effettuare un'operazione mai eseguita prima di allora, servendosi solo della sua bravura, del suo coraggio, della sua intuizione e di un macchinario altamente tecnologico ideato, progettato e costruito sotto la sua costante supervisione. Lui e quella macchina gli unici artefici di un miracolo: aveva salvato la vita, anzi aveva restituito la vita ad un ragazzo che non ce l'aveva più da tempo; che da più di un anno passava tutti i secondi della sua esistenza allungato su un letto con il corpo collegato a delle macchine che gli soffiavano la sopravvivenza dentro.
Ma lui ci lavorava da troppo tempo per non sapere che dopo un po' i ruoli si stravolgono: quelle macchine iniziarono loro stesse a "vivere" di lui e non il contrario. Il loro senso era in quella stanza, il loro significato era un corpo costantemente collegato a loro. Quel ragazzo che era improvvisamente, involontariamente, senza un senso reale diventato nient'altro che un bianco altorilievo, una forma tridimensionale che nasceva da un letto, era la loro ragione di esistere. Gli donavano ritmo costante al cuore e al tempo stesso gli assorbivano i suoi lenti e artificiali battiti, i profondi sospiri, gli sussurravano nel silenzio - con i loro bip elettrici - la loro superiorità. Secondo lui si sviluppava uno strambo meccanismo, un passaggio surreale e progressivo come di vasi comunicanti: le macchine si riempivano di vita e a lui cedevano il loro metallico vuoto, la loro plastica immobilità.
La cosa che più di tutte lo sbigottiva era come con il tempo riuscivano persino ad accaparrarsi, estorcendogliele, tutte le attenzioni e tutti gli sguardi; i genitori e gli amici quando lo andavano a trovare solo per restare con il palmo delle mani al di là di quel vetro sempre pulito, spesso, schermo asettico di una tragedia, iniziarono a fissare quelle macchine. Come se quel ragazzo si fosse sparpagliato in ognuno di loro. Il suo cuore, i suoi polmoni, i suoi occhi, la sua pur minima vitalità disseminati in quegli apparecchi.
Le vetrate di una camera di isolamento possono diventare uno specchio interno, un visore delle diapositive della propria impotenza, perché danno la possibilità di guardare dentro, di osservare tutto quello che avviene (o che non avviene) e allo stesso tempo osservi te stesso attraverso un riflesso ondulato, monocolore.
Rivolgeva lo sguardo spesso ai genitori quando andavano a trovare il figlio; osservava le loro lacrime sempre più secche, sempre più dense, i loro occhi mobili e tremolanti rivolti agli apparecchi e non a loro figlio; e tutte quelle volte che si era trovato ad fissare la scena in silenzio, mentre era dietro di loro, alle loro spalle e il suo sguardo attraversava le loro nuche, e poi i loro riflessi, ed entrava nella stanza dritto e appuntito fino al letto dove c'era l'immobilità di una vita; e quando sfocava lo sguardo quello che vedeva era se stesso, il suo riflesso, il suo camice bianco, la targhetta con la sua foto e il suo nome scritto al contrario. Quello che vedeva era il viso ondulato di chi come i genitori o qualsiasi altra persona non può far altro che contemplare immobile una vita immobile.
Immobilità in trasparenza.
Quando chiese ai genitori se volevano sottoporre il figlio ad un'operazione che non era mai stata effettuata prima, che era incerta nella riuscita, ma che era l'unica speranza di farlo svegliare gli fece molto più impressione il loro sguardo che si volse velocemente e meccanicamente verso i macchinari attaccati al corpo del figlio come se l'unica cosa che li spaventava era staccare le apparecchiature e non vederle più. Erano diventate loro e solo loro la vita del figlio.
Mentre operava c'era un silenzio che rasentava l'oppressione; avvertiva gli occhi di tutti i presenti che gli colavano sul viso come le gocce di sudore che brillavano sulla sua fronte prima di scendere velocemente lungo le guance ed essere asciugate dall'infermiera.
Il ragazzo si svegliò dopo due giorni di coma vigile. Ma anche durante quei due giorni il miracolo era avvenuto secondo lui perché comunque, quelli erano i primi istanti che viveva di vita solo sua e non donata dagli apparecchi.
Per quel ragazzo riprendere la propria esistenza corrispose anche alla riconquista degli sguardi, dei sospiri, delle lacrime, e in quel caso anche dei sorrisi; tutte cose che durante le visite gli erano state sottratte.
Per lui, il medico del prodigio, ci furono occhiate di ammirazione, di incredulità; e poi strette di mano, abbracci, sorrisi, tutti con il contorno del timore riverenziale.
Per le macchine, ormai relegate in un angolo della stanza, ci furono i suoi sguardi di chiusura. Gli sembrò, addirittura, che lo ricambiassero con un'espressione spenta e esanime. Lui aveva fatto a loro quello che loro avevano fatto a quel ragazzo in coma: gli aveva sottratto dignità.
Quando ebbe finito di radersi si accarezzò il viso morbido, liscio, caldo.

SECONDO


Ore 7.45

Il movimento meccanico della sua mano verso l'altro lato del letto sembrò come comandato dal rumore della sveglia: un automatismo diretto da un allarme; e mentre lo faceva continuava a tenere gli occhi chiusi; non li aprì neanche per spegnere l'apparecchio che trillava: la sua mano cadde a colpo sicuro sul pulsantino di arresto.
Aprì gli occhi: in casa c'era silenzio. L'armadio di fronte a lui aveva un anta semi aperta, non si riusciva più a chiudere correttamente; quel mobile aveva fatto il suo tempo, si doveva decidere a comprane uno nuovo. Si alzò sulla schiena oscillando e ruotando leggermente il collo indolenzito, mentre da fuori provenivano suoni di clacson, rombi di motore, aderenze di copertoni sull'asfalto.
Si alzò e si chiuse immediatamente in bagno. Mentre si spargeva sul viso la schiuma da barba guardava la mano che gli massaggiava il viso e ripensò immediatamente alle carezze ricevute la sera precedente. Tutte quelle carezze di mani sconosciute, casuali; estremità di braccia che si ergevano come rami al di sotto del palco dove stava facendo il suo concerto.
Era la sua prima grande esibizione e ritrovarsi sul quell'enorme palcoscenico con un microfono stretto tra le mani, l'auricolare nell'orecchio che gli spandeva e spalmava nel cervello la sua stessa voce, i musicisti dietro di lui, i fari che sparavano nell'aria circostante e sul suo collo luce e calore gli indolenziva le percezioni.
La sua voce oramai la sentiva solo attraverso gli auricolari, come se fosse registrata e riprodotta successivamente; si era talmente immerso in quell'atmosfera surreale e densa che gli sembrava di stare sotto decine di metri cubi di acqua a muovere la bocca nel silenzio più assoluto, con i movimenti rallentati e pesanti, il corpo in continua compressione. Sentiva, invece, le urla, i fischi; ascoltava gridare il suo nome con la vocale finale allungata all'inverosimile: finché usciva fiato; si sentiva chiamare ininterrottamente da tutte le direzioni ma senza che ne riuscisse a determinarne origine e posizione. Lo stordiva, lo inorgogliva tutta quella folla che sembrava una distesa senza orizzonte, un lago in perenne movimento. Era tutta per lui, erano andati li per sentirlo cantare, per sentire le sue canzoni, per vederlo
E poi tutte quelle dita che cercavano di afferrarlo, di toccarlo, di raccogliere brandelli di esistenza del loro idolo per poi riportarseli indietro, insieme al desiderio di avere avuto qualcosa da ricordare davvero..
Prima che iniziasse il concerto, mentre era dietro le quinte a sbirciare nascosto quella massa indistinta di teste e capelli in attesa; osservava e pensava che tutte quelle persone gli erano sconosciute e a come, in fondo, la loro situazione era simile: loro erano talmente tanti e talmente anonimi da perdere completamente consistenza reale, da non sembrare davvero esistenti; così come era lui per loro, che avevano sentito e sentivano continuamente le sue canzoni, le compravano, le imparavano a memoria, le cantavano in macchina insieme agli amici, le strimpellavano con la chitarra; lo avevano fatto schizzare ai vertici di tutte le classifiche, loro erano lì spiaccicati, pressati, sudati e stanchi per vederlo e inconsciamente per rendersi conto della sua esistenza.
Per questo aveva deciso di andare ai bordi del palco rischiando di farsi tirare giù, con gli uomini della sicurezza che arrancavano, faticavano, scalpitavano per fare in modo che non venisse "aggredito" e risucchiato in quelle sabbie mobili di delirio che si era sviluppato appena lo avevano visto avvicinarsi. Ma doveva toccare e essere toccato da qualcuno di loro, dai più fortunati e intrepidi delle prime file. Glie lo doveva. E lo doveva a se stesso: sentire quelle mani che lo tiravano, lo tastavano, lo palpavano; respirare i loro aliti, i loro sorrisi; aspirare profondamente il loro sudore, la loro stanchezza e felicità era un modo per sentirli più veri, meno sconosciuti.
In quel momento esistevano davvero. E anche lui.
Ma il desiderio di tastare, di esaminare quell'esistenza lo aggredì insinuandosi dentro di lui per arrivare in fretta alle sue braccia che si distesero improvvisamente per prendere, per afferrare due mani aperte e piccole che puntavano verso di lui. Era in uno stato di confusione e trasporto tale che non avvertì il minimo sforzo per aver tirato su quella ragazza. Era una tra le tante, ma in quel momento era la rappresentazione e la rappresentanza di tutta quell'esistenza; e lui ce l'aveva al suo fianco con la piccola mano calda-sudata che gli stringeva forte le dita. Guidarla insieme a lui al centro del palcoscenico era come portarli tutti vicino a lui; insieme a lui.
Lo fece senza smettere di cantare, mentre sentiva alle sue spalle l'enorme folla che aveva iniziato ad urlare a squarciagola quando aveva visto che una ragazza era insieme a lui sul palco. Ci furono momenti di tensione che si svilupparono dietro di lui con gli uomini della sicurezza che cercavano in tutti i modi, anche i più brutali, di ricacciare indietro coloro che cercavano di salire.
Quando si fermò per girarsi lentamente di fronte al pubblico, diede un occhiata alla ragazza al suo fianco e nonostante l'atmosfera, rarefatta dalle urla, dalle luci, dai suoni, nella quale si muovevano, gli avesse sopito tutti i sensi, rimase molto colpito dal suo sguardo, dal suo atteggiamento: era agitatissima, ma non era solo emozione; muoveva in continuazione le mani, i piedi, il busto; non si girava a guardarlo nonostante lui fosse lì a pochi centimetri da lei. Cercava qualcosa con gli occhi, ma dritta davanti a se.
Voleva andare via. Era paradossale ma era così. Probabilmente mentre era sotto il palco con le braccia protese al massimo della loro estensione era completamente posseduta dal desiderio di essere presa per mano da lui e tirata su. E nel momento in cui ciò era davvero successo, a quello si era istantaneamente sostituito il desiderio di andare via, con quell'esperienza marcata sulle mani, sui vestiti, sugli occhi, sul sorriso. Voleva tornare di corsa di nuovo in mezzo agli amici, per accogliere i loro sguardi di invidia e di ammirazione. Doveva raccontare quello che aveva provato.
Ci sono sogni che per essere realizzati devono terminare. O se vogliamo ci sono sogni che sono strumentali ad altri sogni.
Quella ragazza non voleva stare con lui sul palco…lei voleva poterlo raccontare.
Per questo quando le fece un piccolo cenno con la mano sulla spalla appena terminata la canzone, non esitò a correre via senza rivolgergli neanche una piccola occhiata come se lui le avesse dato il segnale che il sogno poteva essere completato. La vide allontanarsi di corsa, finché non sparì di nuovo tra la folla, confondendosi, mischiandosi di nuovo alla sua stessa sostanza.
Tornò ad essere folla.
I suoni bassi della musica serpeggiavano tra le assi del palcoscenico fino a risalire le sue gambe per arrivare allo stomaco in pause circolari.
Quando ebbe finito di radersi si accarezzò il viso morbido, liscio, caldo.


TERZO


Ore 7.45

Fissava la sveglia con la guancia poggiata sul cuscino già da diverso tempo aspettando che suonasse. Guardava la lancetta dei minuti che si muoveva con piccoli, veloci e improvvisi scatti. Quando iniziò a trillare allungò subito il braccio per spegnerla.
Rimase ancora qualche minuto immobile con la testa, spostando solo di qualche centimetro lo sguardo sulla parete di fronte: i raggi di sole che entravano dalla finestra correvano dritti e polverosi verso il vetro del quadro naif rimbalzando con riverberi colorati e accesi. Gli piaceva molto quella stampa. Non ne capiva i disegni e le forme ma lo attraevano i tanti colori che si intrecciavano e si mischiavano in danze e movimenti di cui non aveva una comprensione logica. Era solo questo il motivo che lo aveva spinto ad acquistarlo per corrispondenza insieme ad altre cinque stampe dello stesso genere rimaste nello sgabuzzino ancora chiuse nella loro confezione in attesa che si decidesse ad appenderle.
Attraverso il riflesso del vetro riusciva a vedere anche la parete opposta e l'appendiabiti di sua moglie. Un'immagine distorta, disturbata, sgranata.
Mentre era in bagno avvertiva un cerchio alla testa e leggeri, quasi impercettibili giramenti inaspettati. Si stropicciò gli occhi e si guardò allo specchio, appoggiando le mani ai bordi del lavandino.
Sentiva la schiuma da barba avvolgergli il viso morbida, delicata, profumata; era un po' come lo sguardo che sua moglie gli aveva fatto la sera prima, mentre erano a cena in un ristorante e un giornalista suo amico, entrando di fretta si era avvicinato mettendogli un braccio attorno alle spalle e gli aveva annunciato che aveva avuto una nomination all'oscar come migliore attore straniero. Mentre il giornalista gli porgeva la mano non smise un attimo di guardare sua moglie che nonostante il tono sommesso era riuscita a sentire e gli sorrideva dal basso inviandogli continui impulsi di ammirazione, soddisfazione, orgoglio, amore. Quando rimase solo con lei non riusciva a smettere di sorridere neanche mentre parlava non poteva non inarcare le labbra e le parole che pronunciava venivano fuori gonfie, con un tono deformato dalla felicità.
I suoi occhi erano diventati lucidi, riflettevano qualsiasi cosa li colpisse, come uno specchio; come il vetro della cornice del quadro naif in camera sua. Occhi sui quali rimbalzavano le delicate e flebili luci del locale che lui elaborava, amplificava e guidava per dipingere la sua vita, e quella serata con colori ardenti e abbaglianti uniti in girotondi persistenti, in danze confuse e ritmiche. Una vita che gli si era si praticamente modificata istantaneamente a metà filetto, in un ristornate mezzo vuoto, silenzioso, posto in una strada di cui non conosceva neanche il nome.
Iniziò a girarsi attorno staccandosi ogni tanto dallo sguardo fisso e sorridente della moglie la quale anche se lentamente continuava a smangiucchiare; guardava le altre persone presenti nella sala che masticavano, bisbigliavano, sorridevano e pensava a come qualche istante prima era come loro: tranquillo, rilassato, senza pensieri degni di nota. Invece improvvisamente era accaduto qualcosa di straordinario e tutto davanti ai loro occhi. Anche se non sapevano quello che era successo. In fondo tutti gli altri avevano solo visto entrare un uomo che dopo aver scambiato con lui poche parole lo aveva abbracciato e gli aveva stretto la mano. Probabilmente qualcuno più attento aveva notato anche il cambiamento e la metamorfosi del suo sguardo, del suo viso e di quello di sua moglie. Ma in quel momento per loro era tornata la normalità. Per loro.
Poi c'era la moglie che suo malgrado si era ritrovata ad essere spettatrice attiva e non incolume di quel cambiamento repentino, anzi istantaneo; era come se il giornalista fosse arrivato lì dentro recidendogli di netto l'esistenza e innestandogliene contemporaneamente un'altra che prevedeva percorsi completamente diversi. Direzioni completamente diverse.
Guardava la moglie che lo osservava con le mani incrociate sotto il mento, il suo filetto nel piatto, il bicchiere di vino, ma non li vedeva quasi più: era rapito da se stesso, dal suo possibile futuro che si manifestava con immagini quasi oniriche che invadevano e occupavano il suo campo visivo e sensoriale. Occhi come cineprese che proiettavano (o registravano) quello che gli sarebbe successo da quel momento in poi: le interviste, le foto, le continue richieste per partecipare ad altri film. E poi:
La sala dove si svolgeva la cerimonia di consegna degli oscar, illuminata e colma di profumi, tailleur, scollature e smoking; il personaggio famoso di turno sul palco estrae il foglio bianco e rigido dalla busta, il suo sorriso che si apre, i suoi occhi che scrutano la platea, la sua voce amplificata che con un italiano non conosciuto e imparato a memoria proclama il vincitore e chiama il suo nome.
E poi applausi deboli e incerti che partono dalle prime file e dopo qualche istante si avviano procedendo velocemente indietro ingrossandosi sempre di più, riempiendosi di mani ad ogni fila scavalcata fino ad arrivare alla sua oltrepassandola. Lui si sente in un attimo invaso, colpito, schiaffeggiato da quell'onda che continua la sua corsa, schiumosa, confusa e determinata fino alla galleria per ridiscendere giù: fino a quando non c'è più mare da cavalcare; si alza dalla sua poltroncina rivestita di velluto, sorridendo, guardando l'enorme sala che è diventata sua. La moglie che dal basso - ancora una volta diventa involontaria e passiva - lo cerca con lo sguardo, lo chiama con il sorriso; lui le prende la mano per non farla "annegare" e sparire in quel mare in burrasca e tenerla a galla e vicino a se.
Mormorii, sguardi e ancora applausi attestati sullo scroscio accompagnano e spingono i suoi passi verso il palcoscenico Il personaggio famoso che lo guarda avvicinarsi con un sorriso sempre più scintillante come la statuina stretta nella sua mano che cattura e ricaccia indietro con sottili e luminosi riflessi le luci della sala.
Sente il sangue rifluirgli nella testa come se stesse andando tutto lì senza ridiscendere. Lo sente girare vorticosamente, lambirgli tutti i tessuti cerebrali; gli ottura le orecchie, gli infuoca il volto. Ogni passo sulla gradinata che porta sul palco è una scarica di brividi che gli sensibilizza la pelle allo smoking, e gli gonfia le vene del collo che pulsano costrette, e strette dal colletto della camicia.
Si ritrova improvvisamente in piedi sul palco con l'oscar in mano a cercare la moglie - tra il bianco confuso dei sorrisi e gli applausi che erano cresciuti di intensità - come se un esperto del montaggio avesse tagliato alcuni fotogrammi, riuscendo a lasciare intatta la continuità della scena.
Nei film si possono saltare fasi superflue (sempre che ce ne siano) nella vita no (chissà perché?). In fondo se sei bravo non si perde la comprensione dell'azione: è una questione di "economia".

Quando ebbe finito di radersi si accarezzò il viso morbido, liscio, caldo.


QUARTO


Ore 7,45

Dimenticarsi di togliere la programmazione della sveglia quando si va a dormire è molto scocciante, ma capire dopo qualche trillo - rifiutato dal corpo, e dalla mente - che la si può spegnere tranquillamente e continuare a dormire perché da quel giorno iniziano le ferie pasquali, compensa del disturbo. Ampiamente. Fece un piccolo sorriso mentre si girava dall'altra parte dopo aver interrotto velocemente quel rumore diventato inopportuno per evitare che la moglie si svegliasse completamente.
Quando si voltò la vide con la fronte corrugata e gli occhi chiusi. Respirava ancora profondamente. Era un respiro in bilico tra sonno e veglia. Tra sogno e realtà. Le accarezzò il viso dolcemente e lei si girò dall'altra parte mettendosi nella sua posizione preferita per il sonno: semi fetale sul fianco destro. Si stava riappropriando completamente del sonno.
Lui restò con gli occhi aperti, il corpo rilassato, la mente in stand by. Nonostante le tapparelle fossero state serrate completamente, la luce trovava comunque dei varchi per entrare; sfruttava dei piccoli fori e delle imperfezioni per infiltrarsi nella stanza in filini luminescenti troppo deboli e sottili per arrivare al quadro naif che senza illuminazione sembrava un'enorme macchia scura sul muro.
Poteva (anzi doveva) approfittare di quei giorni di libertà per trovare un posto anche alle altre stampe chiuse nello sgabuzzino. La moglie gli aveva detto che dovevano assolutamente passare in qualche mobilificio per comprare un altro armadio perché non sopportava più l'anta che si riapriva continuamente di quello che avevano in camera. Ma la prima cosa che avrebbe fatto appena sveglio e in piedi, era riparare il lampadario per rimettere la copertura al suo posto e nascondere i fili elettrici che sbucavano dal foro al centro del soffitto.
Si accarezzò il viso e sentì sulla pelle i peli della barba che immancabilmente si erano riproposti, ma radersi non rientrava assolutamente tra i suoi programmi della mattinata. Iniziavano le ferie.
Poteva anche sognare di essere un grande chirurgo, un idolatrato cantante o un bravissimo attore ma lo avrebbe fatto nel letto ad occhi chiusi e con il viso ruvido e caldo.
Si girò verso la moglie, l'abbracciò assumendo la sua stessa posizione per incastrarsi al suo corpo e si riaddormentò profondamente.
 


 
identità e imperfezione 
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Sandro Pizzutelli
[ c.pizzutelli@libero.it ]
 
IL DUPLICE ELEFANTINO
 
C'era una volta una cicogna sfaticata.
Era talmente pigra che un giorno invece di fare due consegne a due aspiranti mamme-elefantesse, ne fece una sola. Fu così che nacque un elefantino doppio: aveva due nasi o meglio due proboscidi.
Anche se con questa diversità, la sua mamma lo curò amorevolmente per cui, almeno da piccolo, crebbe tranquillo e felice.
Anzi, era avvantaggiato rispetto agli altri: poteva fare il bagno e nel contempo dissetarsi; poteva spruzzarsi di polvere contemporaneamente sia sul fianco destro che sul sinistro e quando giocava con i suoi compagni era sempre vincitore perché aveva "due mani" con cui afferrarli e sconfiggerli.
Ma ad un certo punto le due mani cominciarono a pesargli. I suoi coetanei iniziarono a prenderlo in giro e, quando nessuna elefantina lo volle come suo compagno d’amore, si rese effettivamente conto di essere un diverso e di essere per questo rifiutato.
Fu così che poco alla volta si chiuse sempre di più in se stesso: non si accettava, ma soprattutto. rifiutava gli altri.
Iniziò quindi a vivere una vita da solitario. Nella savana vasta e sconfinata lui batteva le piste che non erano frequentate dagli altri della sua specie, si cibava di piante che non sempre gli erano congeniali. e giorno dopo giorno dimagrì sempre più, fino a diventare solo ossa e proboscidi.
Era veramente infelice.
Perfino gli uccellini che prima avevano scelto il suo corpo come territorio di caccia, da cui prendere insetti iniziarono a trascurarlo perché, vista la sua magrezza, neanche gli insetti avevano di che cibarsi da lui.
Arrivò quasi al punto di decidersi a lasciarsi morire.
Un giorno, mentre ormai stanco e deluso si trascinava pigramente verso una sorgente d'acqua, incappò in un cacciatore che, invece di. ucciderlo, lo catturò e lo portò via con sé. L'elefantino si sentì definitivamente solo e infelice.
Accettò, però, il cibo che gli veniva offerto dal cacciatore e, un po’ alla volta, prese ad affezionarglisi perché almeno qualcuno, dopo la sua mamma, si prendeva cura di lui.
Le sue disgrazie non erano però ancora finite.
Dopo che si fu un po’ ristabilito, anche il cacciatore si disfò di lui caricandolo su un grande aereo e spedendolo in una terra a lui sconosciuta.
L'elefantino si ritrovò così, senza averne alcuna colpa, rinchiuso fra le mura di una grande gabbia: aveva due inservienti che si curavano di lui, una mangiatoia sempre piena di ottimo cibo ed una enorme piscina ricolma di acqua pulita dove poter fare continuamente il bagno. Ormai poteva essere considerato un principe-elefantino: aveva tutti i beni e le comodità di questa terra.
Lui però si sentiva ancora più triste e solo.
Aveva un regno di cui era padrone e signore, aveva anche degli schiavi, ma era il principe del nulla: era un principe prigioniero.
Gli mancavano tanto le distese enormi della savana, i barriti in lontananza dei suoi simili, perfino i pericoli di quella vita selvaggia ed aspra.
Capì fino in fondo la vera cosa che gli mancasse: la libertà di essere completamente se stesso.
Fu così che decise di fuggire.
Iniziò a spingere sempre più tutta la sua forza fisica verso un lato della vasca che gli sembrava più debole; utilizzò ambedue la proboscidi, con le zanne scardinò profondamente il malto che era tra le pietre della piscina e finalmente un giorno riuscì a sfondare il muro.
Si sentì per la prima volta veramente vittorioso.
Ma accadde un fatto imprevisto.
La massa d’acqua: che si dipartì dalla piscina verso la .fessura che aveva procurato, prese una forza tale che inondò tutti i dintorni e si riversò sempre più forte verso un gruppo di persone che visitava lo zoo.
Poi il vortice dell'acqua catturò un fanciullo e lo sommerse completamente.
L'elefantino non ebbe un attimo di incertezza.
Abbandonò immediatamente il suo sogno di libertà e tornò sui suoi passi; afferrò per la vita il bambino e cercò di sollevarlo ma il piccolo era rimasto incastrato fra le pietre.
Allora continuò a tenerlo in alto con il corpo e contemporaneamente utilizzò la sua seconda proboscide per aspirare l'acqua che si era ristagnata e gettarla lontano. Fu così che riuscì a non far affogare il bimbo.
In ultimo, utilizzando ambedue le proboscidi, riuscì a metterlo definitivamente in salvo sul suo collo, proprio dietro le orecchie.
Il bambino piangeva, ma piangeva di felicità e così come lui tutti i parenti che erano finalmente venuti a soccorrerlo.
Le gesta dell'elefantino superarono i muri dello zoo, di tutta la città e dell'intero paese.
Bambini di ogni dove si recarono da lui sempre più numerosi portandogli fieni ricercati, noccioline e quanto più di buono potesse gradire.
Tutti gli mostrarono riconoscenza, gratitudine ed affetto. Anzi, lo elessero miglior compagno dei loro giochi. Lui era sempre attento a non ferire nessuno e sempre pronto a schizzare a sorpresa acqua su tutti.
Aveva finalmente ritrovato se stesso, la voglia di vivere e la libertà: sì, la libertà di poter dare agli altri quanto di più bello avesse in sé.