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  registrazione n.94 del 28.2.1972 presso il tribunale di frosinone
direttore responsabile alfonso cardamone
 



 
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Alfonso Cardamone
[ a.cardamone@email.it ]
 
IL CONVIVIO E LA MORTE
 
Agli inizi dunque era un Convivio di Sogni. Non c'è possibilità di dubbio. Anche se a nessuno mai fu dato di conoscere l'inizio degli inizi, sappiamo che fu così, che non poté essere che così.
"L'uomo, indifeso nell'ambiente di natura, povero di mezzi per agire nell'ambiente, si sente circondato da forze inesplicabili, e perciò potenzialmente ostili, visibili o non visibili che esse siano. Tali forze, destano continua angosciante preoccupazione, devono esser conosciute, rese favorevoli, o soggiogate. Dai documenti che etnologia e storia offrono a profusione, risulta che i sogni o le visioni... vengono appunto valutati come mezzi per conoscere queste forze, e rappresentano perciò una fra le più importanti vie per mettersi a contatto con esse ed agire su di esse". (1)
E fra tutte queste forze atroci dell'Inesplicabile, una -sopra tutte- angoscia l'uomo, questo animale infelice e presuntuoso, segnato dalla condanna e dal privilegio (solo fra tutti gli altri animali) di essere dotato di s/ragione (2): la coppia terribile di Potenza che è la Morte ed il Tempo.
Distesa tra essere e non-essere; martoriata dal tripalium inarrestabile del divenire, tormentata senza sosta dall'angoscia che muove dalla (pre o sub) coscienza del non-essere, da sempre l'avventura umana occhieggia con tremore l'invisibile muraglia che ad occhi aperti non scorge, ma che comunque sa collocata in quel prima e in quel dopo, inconcepibile ed infinito anello che circoscrive la miserabile durata. Minaccia ineludibile anche quando (soprattutto quando) è sublimata dall'illusione religiosa della Vita oltre la vita, dalla proiezione verso un paradossale risarcimento oltremondano. E fu uno gnostico, seguace di Valentino, a scoprire (forse involontariamente) le carte truccate del tremendo Gioco, in cui l'uomo può solamente barare con se stesso: "poiché gli esseri umani hanno creato tutto il linguaggio dell'espressione religiosa, l'umanità ha effettivamente creato il mondo divino". (3)
La chiave -miserabile e sublime- è dunque nel Linguaggio. Ma non solo e non tanto nel linguaggio verbale argomentativo, bensì soprattutto in quello (anche verbale) delle immagini e dei simboli e, particolarmente, nel rapporto antico che, sotto la specie del simbolo, agli inizi si era venuto a stabilire tra Linguaggio e Sogno, l'uno metro e paradigma dell'altro. Il Linguaggio anticamente si plasma sul Sogno non meno di come questo su quello. E d'altronde non ha chiarito con sufficiente attendibilità Fromm che il Sogno stesso è la prima chiave del linguaggio simbolico? di quell' "unico linguaggio universale che la specie umana abbia mai creato", linguaggio dimenticato dall'uomo moderno, ma che detta la sua grammatica e la sua sintassi, le medesime, sia ai miti che alle fiabe ed ai sogni, e cioè a quel complesso di creazioni che costituiscono "una delle più importanti fonti di saggezza, cioè il mito", e insieme al pozzo degli "strati più profondi della nostra personalità". (4)
Il Sogno, l'inquietante fantasma del confini, è il dubitoso "ponte gettato sull'infinito" (5) dalla coscienza umana che, contorcendosi ed agitandosi, avvolgendosi e svolgendosi, nella paradossale dimensione notturna si prilla e si traslata, in cieca furia a ricercare -almeno-, come l'antica trottola del dio, un precario punto d'equilibrio.
E non è senza ragione se -agli inizi- mentre si definisce e si circoscrive appunto il Sogno il sistema del Sogno, come sistema fondamentalmente di veggenza, o pre-veggenza della Morte, contemporaneamente nasce e si definisce il sistema della Letteratura. L'ombra che abita l'uomo, e abitandolo lo predetermina fantasma, alle origini della Letteratura si estroflette e si codifica, a futura memoria di tutti i successivi navigatori dell'oceano delle lettere, come metaforica tavola dei segni, registrazione allusiva, per molteplici piste e fantasmatica, di quell'Altra 0mbra che assedia e stringe il tempo umano nelle tenaglie tremende dell'inconcepibile Durata.
All'alba della "civiltà", e forse prima, Kessi il Cacciatore sogna e sognando segna e protende, attraverso i sogni, a futura memoria dell'umanità, i paradigmi degli sviluppi successivi della Letteratura e della Poesia, le labirintiche metafore oniriche della Morte, le fondamentali metafore degli Inizi, che sostanzieranno per sempre la Metafora delle Metafore: la Letteratura che mima l'Universo. (6)
E poca importanza avrebbe (e titanica ed improbabile impresa sarebbe) tentare di sciogliere il nodo se, trattandosi di sogni culturalmente tipici, i sette di Kessi abbiano a monte dei miti che ne costituiscano gli schemi di modellamento o se, viceversa, non appartengano a quella categoria di sogni che "Si proiettano in una serie di narrazioni mitiche". (7) Ciò che conta è rilevare che, come nelle civiltà antiche il sognatore al suo risveglio era condizionato a ricordare un sogno "seguendo modelli narrativi abbastanza convenzionali" (8), così, reversibilmente, poteva accadere che sogni particolari potessero influenzare schemi e modelli narrativi e/o poetici. Decisivo è per noi il fatto che, comunque, sogni del tipo di quelli di Kessi sono strettamente connessi al mito, e che "fu detto con ragione che il mito è il pensiero sognante di un popolo, come il sogno è il mito dell'individuo". (9)
"I sette sogni di Kessi debbono probabilmente venir considerati come tratti da una "lista modello" a cui gli antichi narratori attingevano ogni qualvolta il racconto lo richiedeva". (10)
L'inizio degli inizi, appunto, resta oscuro, confinato nella spessa nebbia della narrazione orale. Ma ciò che ci interessa qui è il limite post quem, non potendoci curare di quello ante.
Ma, prioritariamente, chi era Kessi il Cacciatore e quali i suoi sogni?
Kessi è il protagonista di una antichissima storia ittita (composta oltre quaranta secoli fa), di cui ci sono pervenuti "soltanto la parte iniziale dell'originale ittita e un breve frammento di versione accadica". (11)
Nella parte che è giunta fino a noi è detto che Kessi era un cacciatore così abile nell'arte della caccia che "persino gli dei giunsero a fare affidamento su di lui per il loro cibo quotidiano" (12), ma un bel giorno tutto cambiò. Kessi si innamorò di una fanciulla dagli occhi splendenti e dalla voce melodiosa, Shintalimeni, la più giovane di sette sorelle. E allora, addio caccia! Occhi negli occhi, le giornate trascorrevano negli smemoranti ozi d'amore... Quando infine, spinto dalla madre severa, fece ritorno sulle colline, a caccia, la ruota del destino ormai volgeva in tutt'altro senso per Kessi: "quando un uomo dimentica gli dèi, gli dèi dimenticano lui; e quando Kessi raggiunse le colline, trovò che tutta Ia selvaggina si era nascosta nelle tane e, per quanto egli girasse e si affannasse, le sue fatiche furono vane". (13) Sfuggito a stento alla furia ed ai sollazzi crudeli degli gnomi delle montagne che, mentre egli era addormentato, molto avrebbero gradito farlo a pezzi, ma poi si erano accontentati di rubargli il mantello lasciandolo esposto al gelo notturno, qualche notte dopo "ebbe strani sogni". Sono sette i sogni di Kessi ed ognuno di essi, come commenta Gaster, "ha un significato che la tradizione popolare associa generalmente alla morte, o al regno dei morti". (14) Leggiamoli nella versione di Gaster:
" Dapprima, gli parve di trovarsi dinanzi a un'enorme porta, che tentava disperatamente di aprire; ma, nonostante tutti i suoi sforzi, la porta rimaneva chiusa; poi, gli sembrò di trovarsi nel cortile di una casa, dove le donne stavano accudendo alle faccende domestiche quando, a un tratto, un uccello gigantesco piombava dal cielo e si portava via una delle donne. E ancora, gli parve di star guardando un vasto campo; in distanza, un piccolo gruppo di uomini stava attraversando questo campo, quando un lampo abbagliante, seguito da un bolide infuocato, veniva giù dal cielo e andava a colpire in pieno quel gruppo di uomini. E infine, la scena mutava ancora una volta, e appariva una folta schiera degli antenati di Kessi i quali erano intorno a un fuoco e si affaccendavano per alimentarlo e mantenere alta la fiamma.
Ma non soltanto queste visioni vennero a disturbare Kessi. In un altro sogno, egli si vedeva con le mani legate e i piedi avvinti da catene simili ai monili dei quali si adornano le donne. Quindi si vedeva pronto a partire per la caccia; uscendo di casa, trovava un drago accovacciato a destra della porta e, a sinistra, alcune sozze e orride Arpie
". (15)
Trascurando di trascrivere la conclusione della storia nella ricostruzione (per altro intelligente ed attendibile, ed a cui rimandiamo il lettore eventualmente incuriosito) fattane da Gaster, riteniamo però indispensabile, ai fini del nostro discorso, richiamare che
"chiunque abbia un minimo di familiarità con i meccanismi del racconto popolare, sa che se a un certo punto interviene un sogno, il resto della storia descrive immancabilmente il modo nel quale il sogno si realizza, e che c'è sempre una stretta corrispondenza tra lo svolgimento degli avvenimenti e ciò che era stato sognato; di conseguenza poiché tutto ciò che Kessi aveva veduto in sogno avrebbe dovuto riprodursi nel mondo dell'aldilà, sembra ovvio che il resto della storia altro non sia che una descrizione del suo viaggio in tale regione. Ciò significa che Kessi deve essere partito nuovamente per la montagna, perché soltanto là avrebbe potuto trovare la porta che conduce all'Averno ". (16)
La porta che conduce all'Averno. Tutti i sogni di Kessi, tutta la storia di Kessi ruotano intorno a questa porta che non si può aprire. Essa compare -e, per altro, con caratteristiche molto simili a quella sognata da Kessi- anche nel parimenti antico "Poema di Gilgamesh": si tratta sempre della porta che immette nella galleria sotterranea che il dio del Sole di notte attraversa e che induce al mondo dei morti (il frammento accadico, infatti, riferisce in questo senso, aggiungendo che non può essere varcata da nessun mortale) ed è guardata da esseri mostruosi (nel poema sumerico gli uomini-scorpione, nella storia ittita il drago e le sozze Arpie, che Kessi nel sogno traspone dal mondo dei morti alla porta della propria casa). Ma Kessi sembra avere più titoli dello stesso Gilgamesh per fornire un paradigma al tempo stesso mitico e letterario del mondo dei morti. Se per de Santillana e von Dechend, Gilgamesh è il "misuratore" del mondo, il sovrano del mondo che deve procurare le misure normative valide per la sua età, tuffandosi nel topos dove i tempi hanno principio e fine, prendendovi un nuovo "primo giorno" (17), Kessi a noi sembra essere colui che per sua stessa natura è destinato a dare alla Letteratura le "misure" relative al mondo dei morti. Utnapistim, l'Antico dei Giorni, il viaggiatore dell'Arca che vive immortale nella terra dove il tempo si è fermato, pretende di insegnare a Gilgamesh che l'immortalità è come un sogno ad occhi aperti: "Ma quanto a te, chi per te riunirà gli dèi in assemblea, perché tu possa trovare la vita che cerchi? Orsù, non dormire per sei giorni e sette notti". (18) Inversamente e parallelamente, poiché la coppia mortalità/immortalità non può essere accostata dall'uomo che attraverso le sue facoltà ir/razionali, Kessi insegna a tutti i protagonisti dei poemi a venire, smaniosi di forzare le soglie dell'umano destino, che il regno della Morte non può essere concepito che attraverso il sogno. Così, Kessi dorme e sogna e sognando dà le sue "misure". Il fatto è che Kessi non è altri che una ipostasi di Orione.
"In primo luogo, Kessi è un cacciatore. In secondo luogo, in uno dei suoi sogni, egli si era visto legato e incatenato, e anche questo doveva essere un presagio di ciò che lo attendeva. In terzo luogo, il nome della moglie di Kessi è Shintalimeni e nella lingua degli Hurriti (Horei), alla quale questo nome appartiene, la parola shint significa "sette". Combinando queste indicazioni, ne deriva la seducente possibilità che Kessi altri non fosse che Orione e ciò per le seguenti ragioni: a) Orione era un cacciatore; b) fu incatenato al cielo; c) fu rappresentato nell'atto di inseguire le sette sorelle, e specialmente la più giovane, che divennero poi le Pleiadi.
Se questa identificazione è giusta, è facile trovare la fine della nostra storia. Incapace di ritornare nel mondo dei vivi, il cacciatore fu trasportato tra le stelle e, poiché egli desiderava ardentemente di essere riunito alla propria sposa, anch'essa fu trasportata in cielo assieme alle proprie sorelle: come chiunque può constatare con i propri occhi, in una notte limpida e serena...
" (19)
Fin qui Gaster. Ma l'identificazione Kessi/Orione, che per lo studioso anglosassone è significativa solo al fine di facilitare la ricostruzione della parte mancante della storia, per noi lo è ancor di più per chiarire la natura e la portata dei suoi Sogni, nonché di quei "titoli" cui abbiamo accennato più sopra.
Kessi che come Cacciatore sogna il regno dei morti, in quanto ipostasi di Orione è egli stesso ingresso a quel mondo.
Kessi/Orione... le Pleiadi/"reti da caccia celesti"... tutti segni di morte.
In cielo (insegnano de Santillana e von Dechend), al "piede" di Orione (che è Rigel, cioè beta Orionis, e rigl in arabo significa "piede") si apre il "gorgo", il mitico gorgo che "rappresenta, ovvero è, il collegamento fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti", (20) la porta a cui conduce la via celeste dell'Ade, l'Eridano, "l'umida tomba di Fetonte (che) veniva visto come un fiume stellato che conduceva all'altro mondo". (21) Nel mondo antico, l'osservazione dell'avvenuto spostamento del coluro equinoziale dovuto alla Precessione degli Equinozi avrebbe introdotto sulla scena Eridano, la babilonese "confluenza" dei fiumi dell'oltretomba (e cioè Eridu, la mitica città di Ea, proiezione terrestre della Canopo celeste) a sostituzione della Via Lattea nel ruolo, che questa aveva avuto fin "dai primordi delle civiltà superiori", di "strada che conduceva i morti all'aldilà". (21) Il mito è lo specchio di un rispecchiamento inquietante ed ambiguo: dal cielo, alla terra, all'oceano è un dislocare continuo, che è un continuo ricercare per eludere ed eludere per ricercare, giacché "la carta schematica terrestre venne tratta da quella celeste". (22) Così, il gorgo celeste è anche il Maelstrom oceanico o ancora la galleria solare, il pozzo di Ade che si apre sul fianco della montagna. E la porta è situata ora ad ovest, ora a sud, ora all'estremo settentriore. Ma l'archetipo resta sempre l'enorme porta che non si può aprire sognata da Kessi/Orione. Nel Cacciatore della storia ittita si realizza la duplice natura del sonno, che è al tempo stesso oblio e (pre)veggenza. Oblio della vita che è incubo, e sogno della Morte che è (ci si illude sia) la vera Vita.
Se è vero ciò che scrivono de Santillana e von Dechend, che lo sciamanismo, pur avendo il suo epicentro nell'Asia uralo-altaica, è un complesso fenomeno culturale che può essere ricondotto all'India ed all'Iran, fino a risalire "a molto prima della civiltà indiana o iranica, e cioè al Vicino Oriente più antico" (23), Kessi allora (così come la coppia Gilgamesh/Enkidu) si pone alle radici di questi svolgimenti.
"E una teoria, che fu già propria dell'antico Medio Oriente, del sogno quale viaggio dell'anima o di una sua parte, fuori dal corpo, per recarsi a visitare in qualche modo misterioso i luoghi e le persone o gli dèi che il soggetto vede nel sogno... si trova oggi in Australia oppure fra i Papua Kiwai, nelle Isole Figi, nelle culture sciamanistiche in genere... " (24)
Ma ciò che più sorprende non è tanto il cordone ombelicale che passa tra Kessi, le sue visioni (che certo il testo scritto eredita da precedenti narrazioni orali) e le culture sciamanistiche (fino a quelle ancor oggi operanti), quanto quello che si viene a stringere tra i sogni di Kessi e la successiva Letteratura, sia orientale che occidentale (25), a conferma di due indagate verità: la trasmissione culturale delle immagini oniriche di cui parla E. R. Dodds (26), e la gestazione della poesia già in grembo al mito...
"l'idioma del mito porta con sé l'emergere della poesia... da questa zecca sono usciti tipi ben delineati (sopravvissuti fino ad oggi, per esempio, nei giochi dei bambini, nelle figure degli scacchi e delle carte da gioco) unitamente alle avventure loro destinate; e queste immagini orali sono sopravvissute al sorgere e al cadere di imperi, si sono accordate a nuove civiltà e a nuovi ambienti... " (27)
Esattamente come è accaduto ai tipi ed alle avventure codificate e normalizzate nella tavola dei Sogni di Kessi e che troviamo in tanta parte della Poesia Epica sia coeva che posteriore.
L'enorme porta che non si può aprire e che è guardata da draghi e da altre mostruose creature, nel Poema di Gilgamesh è "un massiccio cancello e il cancello era difeso da creature spaventose e terribili, mezze uomini e mezze scorpioni". (28)
Nell'Iliade sono le "larghe porte dell'Ade" e le Chere odiose e divoratrici. (29)
Nell'Odissea sono le "case putrescenti dell'Ade", che si situano nell'estremo Nord, la nebbiosa terra dei Cimmèrii, ai confini dell' "Oceano corrente profonda", anzi dell' "Oceano gorghi profondi" (30) (ed ecco, questa volta come Maelstrom, riapparire situato in mare, il fatale gorgo celeste di Orione).
Nell'Eneide ritorna la porta dell'Averno, per cui "facilis descensus Averno... sed revocare gradum superasque evadere ad auras, hoc opus, hic labor est", la porta che introduce ai "regna invia vivis", sorvegliati da Gorgoni, Arpie ed altre orride creature:
" Multaque praeterea variarum monstra ferarum, / Centauri in foribus stabulant Scyllaeque biformes / et centumgeminus Briareus ac belus Lernae / horrendum stridens flammisque armata Chimaera, / Gorgones Harpyiaeque et forma tricorporis umbrae ". (31)
Gorgoni o Chere, Uominiscorpione o Centauri, alludano o no questi esseri mostruosi e gli stessi luoghi da loro abitati a Costellazioni di Morte come vorrebbe de Santillana (32), tutti sono riconducibili all'archetipo della porta e delle dee Damnassara (le Arpie) del sogno di Kessi. Né è da dimenticare (e non lo dimentica Gaster) che il Cacciatore è guidato, nel suo terribile viaggio, da Udipsharri (il suocero introdotto nel racconto dal frammento accadico), così come lo saranno in senso lato Ulisse dalla madre Antìclea ed Enea dal padre Anchise, ed in senso più stretto Enea dalla Sibilla Cumana e Dante da Virgilio.
L'analisi del primo e dell'ultimo dei sette sogni di Kessi ci ha portato lontano, ma non è da ritenere che anche i rimanenti non siano della medesima lievitante pasta. Basti ricordare -con Gaster- che il sogno dell'uccello che piomba improvvisamente dal cielo e rapisce un'ancella intenta al lavoro è una visione di morte legata alla credenza, diffusissima non solo nella mitologia mesopotamica (si rinvia ancora al Poema di Gilgamesh), ma anche in quelle iranica e ugro-finnica, che "gli uccelli trasportassero i defunti nel mondo dell'aldilà". (33) Che i divini padri visti nell'atto di attizzare un fuoco non possono non richiamare alla mente il fuoco dell'inferno, la fucina dei fulmini e il mito dei Ciclopi. Che, infine, il sogno della folgore che investe un gruppo di persone è anche esso un sogno di morte, anzi di premonizione di morte, come chiarisce e conferma il sogno analogo con cui Enkidu riceve un primo presagio dell'approssimarsi della morte:
"... ho sognato che il cielo rumoreggiava, e la terra era scossa da un sussulto, e il giorno diventava buio, e cadevano le tenebre, e la folgore fiammeggiava e il fuoco saliva divampando, e scendeva la morte. E poi, d'un tratto, la luce impallidì, il fuoco si spense e le scintille che erano cadute divennero cenere.
Gilgamesh comprese benissimo che il sogno presagiva sventura per il suo amico
"(34).

NOTE
1) A. Seppilli: Poesia e magia, Torino, 1972.
2) cfr. E. Morin: Il paradigma perduto, Milano, 1974.
3) E. Pagels: I vangeli gnostici, Verona, 1981.
4) E. Fromm: Il linguaggio dimenticato, Milan
 


 
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Zelinda Carloni
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L'UTOPIA DEL DIRITTO IL DIRITTO DELL'UTOPIA
 
Per secoli la società ha coltivato il pensiero rassicurante che l'utopia sia uno splendido ma impossibile sogno, legato appunto alla natura particolare di alcuni "sognatori". Da qui una sospirante, blandente tolleranza nei suoi confronti, profondamente convinti non solo della sua impossibilità, ma anche della sua assenza di pericolosità. È penoso raccogliere i benevoli, sornioni apprezzamenti dell'idea da parte di chi, dal suo mediocre cantuccio, lancia lo sguardo alla fune dove il funambolo scommette col destino la sua vita. Ma nel fondo dell'animo tutti avvertiamo che un motivo ragionevole a fondamento di questi atteggiamenti esiste e risiede nella stesse connotazioni dell' "idea". La storia della filosofia insegna una lunga teoria di "utopie", a partire da Platone attraverso Campanella, Moro fino a Morris (per citarne solo alcuni); a Moro poi, come ognuno saprà, dobbiamo proprio il termine di "utopia". In realtà, se si parte dal termine riferendolo ai casi citati, l'idea espressa dai singoli filosofi è ragionevolmente appellabile come utopia; direi addirittura che è tale nei presupposti.
Il pasticcio (perché pasticcio c'è stato) nasce però a partire da un altro dato: codesti filosofi hanno usato questo espediente formale per tratteggiare, attraverso l'immagine di una condizione ideale e tutta garantita dall'impossibilità, una serie di critiche alla società loro contemporanea o comunque a quella loro nota. Così facendo hanno tormentato una serie di piissime (a volte niente affatto pie) convinzioni circa come si dovesse fare per vivere bene tutti insieme.
Il fatto poi che queste convinzioni così espresse abbiano a volte scatenato le ire del potere, è cosa solo dovuta alla miopia di tale potere e non certo alla possibilità eversiva contenuta in quelle idee.
La cura ed il dettaglio con cui (li chiameremo così) gli utopisti spiegano che cosa accadrebbe nella loro presunta cittadella, infatti, ne renderebbe impossibile ogni realizzazione e, nel caso, addirittura patetica qualunque forma di difesa. Ma gli è che gli utopisti eversori non furono mai e mai lo vollero essere. E ciò è vero certamente ogni qualvolta, parlando di utopia si intenda riferirsi ad una immagine progettata, rifinita fino al dettaglio, prevista nel suo accadere fin dall'inizio.
L'arbitrio e l'abuso che si sono fatti del termine utopia hanno permesso una serie di micidiali ambiguità, appropriazioni gaglioffesche e attribuzioni immotivate, di virtù e di vizi, che hanno reso assai difficile il ginepraio da cui districarsi nel corso degli ultimi due secoli.
È forse necessario premettere che il dato di partenza di ogni utopia è sempre stato quello di un'imprescindibile, ineliminabile aspirazione, insita nell'umanità, ad una sorte felice, ad un vivere armonico, ad un bene individuale e collettivo da poter insieme condividere, anche a dispetto della disperazione che l'esistenza in sé sembra insegnare.
La cialtroneria del garantismo continua a pensare che queste aspirazioni siano tacitabili attraverso formulazioni di canoni ed espedienti formali legati alla costituzione di vari tipi di società, più o meno illuminati, che pretendono di "garantire" giustizia, armonia sociale, libertà. La cosa più paradossale è che la bontà di ciascuna società viene misurata sul suo successo economico, il che equivarrebbe adire che chi vince la guerra ha perciò stesso ragione.
La politica, come disciplina filosofica, si è sempre preoccupata di far seguire immediatamente, all'enunciazione di alcuni principi ritenuti validi, una serie assai più estesa di norme, canoni, suggerimenti operativi, ipotesi dettagliate di forme e modi. Il punto di vista era, mutatis mutandis, sempre lo stesso: preoccuparsi di dire agli altri ciò che sarebbe stato meglio per loro; prevenire bisogni e desideri, anticipare comportamenti anomali (rispetto al sistema prospettato); così di volta in volta ciascuno di noi potrebbe riconoscersi primo artefice in un sistema, reietto in un altro, inesistente in un terzo, e così via.
Ciò che forse è alla base di questo madornale e infausto errore è la pretesa che la politica sia una scienza, un due più due quattro. Mentre in realtà ciò che ha a che vedere con il soddisfacimento dei bisogni individuali e collettivi (che poi è quella, la società) è in realtà una tecnica, un artigianato sapiente ma niente più, e non ha e non dovrebbe avere niente a che fare con la "scienza". È evidente che il demone nascosto di questa concezione "scientifica" della società è in realtà la ricerca, la salvaguardia, I'acquisizione del privilegio: di varia natura a seconda delle esigenze, ma pur sempre privilegio. Platone pensò fossero i filosofi i più dotati a governare: l'idea è tanto originale che si è pronti a giurare che uno stalliere, nelle stesse condizioni, avrebbe caldeggiato il governo degli stallieri.
I sanculotti "mozzarono lo capo a tondo" al re (e fecero bene) per permettere ad un Corso di diventare imperatore (e fecero male). Ma perché poi è necessario tagliare le teste? Che bisogno ce ne sarebbe se fosse vero che basterebbe dire "il re è morto"? La necessità sussiste qualora la società continui a perpetuare le forme di quella che l' ha preceduta, per cui un seggio, un altro seggio, continua ad esistere e a minacciare.
È questa la perpetuazione del disegno secondo il quale la società civile deve essere "strutturata", non si è più in grado di pensare a nessun'altra forma del vivere collettivo che non somigli in qualche modo a quelle che ci hanno tramandato: ed è la perpetuazione dell'errore.
Eppure i sintomi dell'insofferenza del mondo verso questa condizione sono eclatanti: le rivoluzioni che si alternano e si sostituiscono l'un l'altra sono un chiaro segno della insoddisfazione profonda che cova nel fondo degli animi; e che poi queste "rivoluzioni" (ormai si chiamano tutti così i sovvolgimenti politici) non sappiano riconoscere la loro natura e cadano fatalmente in marchiani errori è altra cosa, che ha le sue radici in quella connaturale carenza della politica che si è detto.
A tutto questo viene in soccorso spesso l'utopista di turno che crede finalmente di doverci rivelare, punto per punto, ciò che è meglio per noi.
Carlo Marx, per parte sua, sembra aver fatto un'opera certamente meritoria: lui non era un proletario e ha pensato che fossero i proletari a dover gestire il potere. Intellettualmente più altruista di Platone lo è stato, ma questo non lo assolve dall'errore; ha identificato un nodo centrale del problema (lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, tanto per generalizzare), ma chissà perché ha pensato che se i proletari avevano sofferto questo sfruttamento, il fatto stesso li avrebbe resi abili nell'esercizio del potere. E la maledizione che vive oggi il mondo cosiddetto comunista nasce, a nostro parere, dall'avere proprio mantenuto il concetto e la "struttura" del potere, con tutto il suo inimitabile codazzo di tradimenti, menzogne, arroganze. Se c'è una sofferenza che dovrebbe accomunare gli spiriti liberi in questi tempi, dovrebbe essere la consapevolezza dell'incredibile ricchezza prodotta dalla rivoluzione d'ottobre, così sperperata, dilapidata in virtù di un errore che sembra essere diventato una condanna biblica. Inutile qui recriminare sul fatto che i socialisti anarchici avevano lottato fino alla fine per evitare almeno quello, di errore. Ma sarebbe gravissimo se, al di là di questo, non si fosse in grado di separare il grano dalla crusca e si cadesse in un ineluttabilismo fuori di luogo; non si può nutrire cordoglio per una creatura mai nata.
I "paradisi perduti" possono essere perduti tanto facilmente proprio in quanto non sono mai stati conquistati.
L'aspirazione ad una società umana armonica e "felice" non va confusa con la nostalgia della perfezione primigenia: è piuttosto il desiderio di impadronirsi di un bene che deve essere conquistato dalla coscienza prima ancora che dall'esperienza. Il "paradiso perduto" è l'immagine della fondazione di un mito, è perciò indipendente dalla sua realtà storica; ma in quanto mito esso è parte ineliminabile della natura umana, radice della sua essenza, sostanza imprescindibile dell'universo umano.
La scienza, la storia, la ragione sono i diabolici diaframmi che si interpongono tra l'uomo e il suo desiderio, tra l'umanità e le sue aspirazioni primigenie, tra il sogno e la realtà. Quando del sogno se ne impossessarono la ragione, la storia, la scienza, esso divenne utopia, e continuò a vivere schizofrenicamente nell'uomo come impossibilità dell'ovvio e del naturale, del desiderato e del desiderabile. (Quando l'utopia si fa scienza avviene la metamorfosi cristiana per cui si è indotti a credere che ciò che è buono e bello e piacevole è irreale e quello che è "reale", seppur doloroso e angosciante, è però buono).
La nascita della storia come fenomeno "lineare", e cioè razionale meccanico e progressivo, segna l'inizio della riflessione utopistica: non ci si avvede però che la formulazione delle diverse utopie è assolutamente simile nel criterio e nei presupposti formali a quanto la storia già dà come immagine di sé: l'utopia viene definita, delimitata, circoscritta, ne vengono previsti esiti e forme; paradossalmente l'utopia diventa la bella copia, la buona coscienza, di una storia e di una società che non trova giustificazioni alla sua totale inadeguatezza.
Marcuse chiude "l'uomo ad una dimensione" rifiutandosi di preparare ricette per il male: perché la società non è un organismo malato che bisogna curare con la ricetta miracolosa, ma un organismo che deve trovare una naturale espressione alla sua fisicità, anche se per farlo dovesse prima morire. Le ricette anche le più radicali, che non partano da questo presupposto, terrebbero in vita un orribile e mutilato organismo agonizzante. Le ricette fanno bene ai parenti del malato, tacitano la loro coscienza: ma non bisogna fare "tutto il possibile" perché è proprio l'impossibile che bisogna fare.
Se partiamo dal presupposto che la Storia si autorigenera sulle sue premesse, e che nulla di sé cancella, non possiamo che accettare l'idea che ogni rigenerazione che parta dalla storia non può che somigliare alla precedente.
Parole come evoluzione, sviluppo, arretratezza hanno a che vedere con una concezione storica che dà per scontato che comunque il tempo procede verso la perfezione, ed è una forma paradossale di utopismo, che somiglia straordinariamente al voler agitare davanti agli ignavi il vessillo del paradiso da conquistare, basta vivere abbastanza a lungo.
L'utopia, così come l'organismo cadente e decrepito di cui è figlia, deve morire per poter rinascere.
Non si può partire dal presupposto che l'utopia sia sinonimo di felicità, bellezza, abbondanza. La distinzione formale tra diverse categorie concettuali deve essere chiara: la felicità appartiene ad una sfera che non compete all'organizzazione umana, così come non le compete né la bellezza né l'abbondanza. Ma quello che più è importante è che nemmeno la sfera morale compete all'organizzazione umana: questo è un elemento centrale, sulla chiarezza del quale poggia il fondamento stesso di qualunque riflessione sull'utopia concreta. Le società prodotte dalla storia hanno eretto a loro fondamento il diritto a gestire il bene e il male, a discriminare il buono dal cattivo, a giudicare, infine, sull'ambito morale.
Non è un caso che tutte le società finora presentatesi nella storia abbiano appoggiato sempre la loro struttura su una religione-guida; la religione è, per eccellenza, la circostanza teorica che più si appropria del diritto a legiferare in ambito morale, ed è proprio questo l'ambito più conteso da coloro che vogliono manovrare una società. Per chi si spaventa di fronte all'asserzione per la quale la società umana non dovrebbe essere retta e governata da leggi morali, e per leggi morali intendiamo anche il diritto, basti pensare che sono vissute e proliferano società in cui il delitto è ammesso, il latrocinio pure e così la violenza sull'uomo e sulla natura.
Spero di non richiedere troppo sforzo di fantasia nell'incoraggiare a controllare le nostre leggi e i nostri ordinamenti.
Perché dall'utopia concreta è inutile aspettarsi la redenzione degli uomini: è l'organismo sociale che deve essere compiutamente armonico, e non è necessario perché questo accada che ogni individuo si trasformi in una specie di asceta.
La nostra morale è incredibilmente simile da migliaia di anni. I mutamenti che ha subito sono stati piuttosto una contorsione sugli stessi perni, che danno per scontato, in ogni caso, che fosse compito della struttura sociale ordinare in materia di morale.
Il diritto è, tra le discipline proclamate a sostegno della società, quella che più marcatamente rende palese la totale mancanza di efficacia delle scienze sociali al fine di evitare le anomalie e i delitti: tutta la disciplina che riguarda la materia penale si limita a scoraggiare pena il castigo il delitto; ma questo metodo, a quanto ci risulta, non ha mai portato ad una scomparsa di delitti: la differenza per i danneggiati dai delitti risiede solo nella magra consolazione che il delinquente, se e quando, sarà punito: ma ciò non lo ha salvato dal subire il crimine. E questo sempre supponendo un comportamento "onesto" dell'istituzione.
Ma è evidente che la società che fonda la sua conservazione sulla moralità dei cittadini deve fornire anche gli apparati che raffigurino l'efficienza di questa tutela: di qui la necessità dell'istituzione giuridica.
La religione, all'interno di uno Stato, si prospetta come il più alto istituto morale: di nuovo la morale è il perno centrale a sostegno dell'esistenza di uno stato. Ma anche uno stato in cui si scelga la formula dell'ateismo non è meno in difetto in quanto a determinare degli ambiti che sono rigidamente di appartenenza della sfera individuale. La religione è una componente dell'universo umano che non può e non deve divenire istituzione, in nessuna forma e per nessuna ragione.
Ciò che è necessario è che venga formulata con chiarezza la distinzione tra gli ambiti individuali che riguardano le sfere sociali e quelli che devono rimanere assolutamente circoscritti alla sfera soggettiva. La dinamica delle società storiche si è sempre appropriata di un presunto diritto all'istituzionalizzazione; questo dovrebbe permettere alla società stessa il perfetto controllo di tutti i fenomeni, individuali e collettivi, di rilevanza appunto sociale. Ebbene questa pratica, purché abbia un inizio, diviene aberrante, e si moltiplica in modo mostruoso fino a tentare di definire, secondo regole e norme, qualunque comportamento o scelta dei cittadini. In realtà il controllo diviene impossibile perché dovrebbe estendersi a tutti gli ennesimi casi possibili in ambito morale, etico, spirituale e così via.
In effetti, la presunta efficienza della società si riduce ad una forsennata attività di moltiplicazione delle sue forme nelle quali in nessun caso potrà far riquadrare tutti i soggetti sociali.
Lo scopo della società, intesa come cooperazione spontanea degli individui al fine di migliorare le condizioni dell'esistenza quotidiana nel mondo, dovrebbe essere esclusivamente ricercato nella sfera oggettiva e mai in quella soggettiva. Nessun uomo sarà mai migliore o più felice perché vive in un ordinamento sociale invece che in un altro: ma dovere accettare un ordinamento invece che un altro può comportare un accumulo di sofferenza, di angoscia e di disperazione evitabili in condizioni diverse.
Ciò che ha sempre comportato un limite intrinseco a molte ipotesi utopistiche è il fatto che la prospettiva di un mondo migliore dovesse reggersi sul presupposto che l'uomo fosse buono, oppure naturalmente disposto alla cooperazione, oppure frutto solo delle condizioni che trovava sulla sua strada. In realtà non si può dover ricercare un presupposto simile come "conditio sine qua non", dal momento che può darsi per scontato che l'uomo non è né buono, né cattivo, né bello, né brutto, né lavoratore, né parassita, né poeta, né mercante, ma è tutto questo insieme a molto altro: che la sua natura è felicemente variegata, fatta di molteplici aspetti e di insondabili misteri. Non si può pensare ad un egualitarismo di natura: chiunque pensi che presupposto di ogni utopia concreta sia l'uguaglianza "interna" degli uomini, o una scientifica prevedibilità di caratteri o di inclinazioni, cade in un errore grossolano. Ogni ipotesi che prospetti una utopia concreta deve partire dal presupposto che gli uomini non sono uguali, non sono prevedibili scientificamente e non rispondono necessariamente alla stessa maniera in determinate circostanze.
È evidente quanto sia scomodo dover accettare questa condizione: ma sarebbe fatale e madornale errore tentare di convincersi del contrario.
L'errore di molti utopisti è stato quello di prefigurare una società "modello", una agiografia di società che, per il fatto stesso di essere agiografica, commuove ma non convince. L'utopia concreta deve poter partire dal presupposto che l'uomo è ciò che è: una mistura indecifrabile, e niente affatto scientificamente definibile, di possibilità, passioni, generosità, meschinità e di tutti quegli attributi che solo la poesia può esplorare, ma nessuna scienza. Lasciarsi convincere che questo presupposto infici ogni possibilità di "altro da questo" è una forma di vigliaccheria intellettuale. Perché è certo che questo dato rende più complessa l'elaborazione di un progetto sociale, ma è falso che ne impedisca del tutto la formulazione. L'anomalia, la perversione, la negazione vanno previste e accettate, anche perché niente e nessuno le potrà mai eliminare.
Ciò che spinge gran parte dell'umanità ad accettare per buone le regole imposte delle diverse società è stata un'intrinseca paura del "diverso", del "criminale", dall'anomalia sociale. È la stessa paura che, in ambito spirituale, fa accettare la religione e le sue pretese garanzie. E le società hanno sempre tuonato in tal senso, assicurandosi garanti di una difesa dell'anomalo: ma osserviamo ciò che accade ed è accaduto nell'ambito della storia proprio a questo riguardo.
Possiamo facilmente osservare come nessuna delle anomalie temute, siano esse di natura criminale -sociale o individuale-, o comportamentale, abbiano risparmiato queste società, che vivono e sono sempre vissute in perfetta convivenza col delitto e la violenza.
Se si cominciasse a pensare che non di perfezione metafisica l'uomo ha bisogno, ma della salvaguardia e del riconoscimento delle sue peculiari caratteristiche ed essenze profonde, si potrebbe forse cominciare ad aspirare ad una società utopica, ma solo nel senso che mai è stato dato all'umanità l'opportunità di sperimentare. È profondamente errato pensare che le caratteristiche umane siano dei difetti: il difetto è un concetto relativo ad una norma o al conseguimento di una finalità specifica: ma le norme e le finalità specifiche non sono condizioni assolute e universali, ma solo soggettive e relative. Supponiamo di dover discutere sulla necessità del lavoro ai fini della sopravvivenza: il concetto di lavoro è relativo allo scopo che si vuole raggiungere: se si persegue l'abbondanza sarà probabilmente necessario molto lavoro.
Ma se ciò che si persegue è il minimo vitale, il lavoro può essere ridotto a livelli minimi.
Ciò sta a significare che l'eremita o il vagabondo hanno pieno diritto di esistere, purché non pretendano un sostegno che gli altri non sono disposti a dare. Se ciò che sono in grado di procacciarsi è loro sufficiente, non esiste motivo al mondo per cui essi non debbano scegliere questa forma di vita. La società morale, che trasuda fariseismo, si porrebbe, in linea di principio il problema di provvedere a loro. E questo sarebbe, oltre che ipocrita, del tutto arbitrario, perché non compete a nessuno sindacare sulle scelte degli altri, dando l'impressione di voler colmare eventuali "lacune" nelle scelte di vita. Ciò che compete ad un progetto di utopia concreta è dare forma sociale al sogno dell'autonomia e dell'indipendenza di tutti e di ciascuno in un quadro di garanzie puramente "oggettive": il valore d'uso assicurato a tutti ed a ciascuno in un sistema di bisogni ridefinito democraticamente (che, nel presente contesto vuoI dire, semplicemente ed ambiziosamente, in maniera socialmente ed individualmente responsabile), al di fuori di ogni inquinamento di valori di scambio (o di mercato che dir si voglia). Ai singoli individui, poi, restando la responsabilità delle connotazioni personali dei propri sogni, se la vita è e rimane, comunque, sogno.

 


 
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Mario Amato
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ASCOLTA
Poesia amichevole
 
Ascolta, amica mia
Come fossimo seduti
E discorressimo in confidenza
Sul margine del mio fiume
E parole fluenti e indolenti
Come stille da sorgente pura
Scorressero
Dall’anima rasserenata
Da brezza lieve di primavera
Heidelberg è per me la città del cuore
Albe inondate dal profumo del pane
Dal suono dello sferragliare delle biciclette
Un tempo sui vicoli di selciati
Trovai l’incanto
Traversare il ponte
Guardare la taverna che leggenda
Altera di paese narra
Ospitale ad antichissimi crociati
Ascolta, amico mio
Come seduti in familiarità
Sulle pietre del castello
A gustare l’amaro della birra
Sulla riva del mio fiume
Inventai la prima fiaba
Scandita dal mormorio
Dalle luci prime della sera
Riflessi tremolanti di desideri
Narrare a te vorrei
L’essenza che muta
Insieme all’ora
Il profumo inebriante dei dolci
Nelle solatie mattine
Acre della senape al meriggio
Immaturo dell’assenzio nelle giovani notti
Santo della vendemmia
Dai vitigni sacri sulle colline
Sparsi
Invasi da canti di donne
Suoni struggenti di sogni

"A lungo ti ho amato, te / la più paesana / di quante vidi città della patria (...)Sul ponte mi prese l'icanto/nell'ora che ci passavo (...) Fontane appresentavi al passeggero" A Heidelberg F. Hölderlin
 


 
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Roberto Miele
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LA TRATTATISTICA DEL SEGRETARIO DI LETTERE TRA CONTESTUALIZZAZIONE E NORMATIVITÀ
Per Speculum in Enigmate: dall’archetipo della corte alla Segreteria modellizzante.
 
Il rapporto fra l’uomo di cultura e la corte, emblematico microcosmo di uno iato sempre meno coniugabile tra intellettuali e potere, la cui possibilità di definizione si era dissolta, come nota Mario Rosa (1), alle soglie degli anni ’90 del Cinquecento, e la cui eredità è da individuarsi, oltre che nella trattatistica e nella letteratura quattro-cinquecentesca sulla corte(2) - che sancisce l’ennesimo approfondimento del tema della dissimulazione, individuata non più nella prudenza della vita cortigiana bensì nella doppiezza (3) quotidiana -, anche nella coeva riflessione politico-morale invigorita dalla ragion di Stato del Botero e dai “contributi ideologici” di Scipione Ammirato, affonda le sue radici nella spaccatura politica e culturale inauguratasi nell’ultimo trentennio del XIV secolo -contrassegnato, storicamente, dal tramonto delle prospettive di una azione imperiale (4) e di una restaurazione del papato in Roma, e scandito dallo scisma d’Occidente -, e culmina nell’implacabile opera di ricomposizione organica dell’imperialismo papale nell’età postridentina e controriformistica.
Per quanto «un’immagine del mondo intellettuale italiano scandita in momenti schematicamente contrapposti e diacronicamente evidenziati secondo una successione che non ha riscontro effettuale nella realtà» (5), possa risultare anacronistica, nella misura in cui una lettura del genere è imputabile a chissà quali paradigmi filo-storicistici presumibilmente caduti in disuso, potrebbe comunque risultare non del tutto fuorviante un tentativo, almeno iniziale - da assurgersi, quindi, non quale mera ipotesi di lettura, bensì come strumento di ricerca -, di storicizzazione, o meglio di contestualizzazione, finalizzato, in parte, proprio al recupero di quegli elementi o nella fattispecie, dati, che potrebbero risultare indiziatici per una pur sempre generica e approssimativa comprensione della condizione dell’intellettuale nei suoi mutevoli rapporti con il potere, e, in parte, per inaugurare una prospettiva di natura solo vagamente ermeneutica, e pure interrogativa, aperta, che, rintombando sul primo degli obiettivi qui esposti, ne esplori ogni possibile funzionale variante, per chiarirne, alfine, un eventuale grado di incidenza.
Tale procedimento à rebours, fosse anche votato alla più implicita delle contestualizzazioni, non può dunque astenersi dall’individuare, nella breve parentesi romana di Urbano V seguita dal ritorno ad Avignone, nella politica aggressiva inaugurata da Gregorio XI, dopo la morte dell’Albornoz e culminata nel conflitto fiorentino-pontificio, nell’apertura dello scisma d’Occidente (6), nonché, all’interno degli stati italiani, nel rafforzamento progressivo dei regimi principeschi, i prodromi di quel «processo di laicizzazione culturale» che, investendo la penisola italiana agli albori del secolo XIV, inaugura la problematica politico-culturale caratterizzante il ruolo degli intellettuali (7).
La riflessione degli umanisti, concernente i loro rapporti con il potere, e sviluppatasi su tre livelli complementari (8) - il cui primo in particolare, quello della “discussione sulla nobiltà”, vede progressivamente lo slittamento del nesso di partenza, ricchezza di nascita-virtù, al nesso nobiltà-virtù, fino ad identificarsi in quello più discriminante dotto-ignorante -, affermando il valore autonomo e autosufficiente degli studia humanitatis, e marcando la differenza di questi nei confronti delle così dette discipline «strumentali», non a caso è stata interpretata come disperato tentativo di legittimazione civile e culturale non corrispondente né alla civiltà delle corti (luogo per antonomasia della materializzazione del potere, della sostanziale precarietà legata alla natura discrezionale e arbitraria del potere (9), e «topos d’affabulazione mitica proteso ad una restaurazione edenica» (10), ma, anche, talora sottovalutato, centro di aggregazione) né alla vita civile in generale (11), e, quindi, come una riflessione, tutto sommato, idealizzata e idealizzante - emblematico, in questo senso, il mito mediceo-, «nel tentativo di essere vezzeggiati e sponsorizzati dal potere e di godere i benefici di una servitù volontaria» (12), e, non a caso, della letteratura quattrocinquecentesca sulle corti si può dire che «fu, generalmente, una letteratura di denunzia dialetticamente contrappuntante la necessità di affermazione sociale dell’intellettuale» (13).
La crisi della libertà italiana alla fine del ‘400 e nei primi decenni del ‘500, non solo sentita come crisi di una cultura e delle strutture sulle quali essa si basava, nella misura in cui stentava a produrre, nonostante una inedita e inaudita fecondità, istituzioni o politiche di coesione civile, aveva quanto meno generato e perpetrato, come nota Gaeta, «la continuità di una tradizione, pur nel mutamento dei dati obiettivi in cui gli intellettuali si trovarono ad operare: vale a dire la continuità dello sforzo di elaborare un modello in cui l’intellettuale trovasse un suo posto preciso e una sua funzione specifica. Poiché era diventata impossibile la costruzione di concreti modelli di stato, lo sforzo si concentrò nell’elaborazione di modelli di corte, e dal momento che il corso politico generale non consentiva più di elaborare modelli di “cittadino”, era logico che la nuova modellistica dovesse concernere le nuove figure che andavano emergendo nella società» (14).
Sotto quest’aspetto, l’incubazione della crisi politica di fine secolo è da ascrivere ai mutamenti di una società, quella costituentesi a partire dal XV secolo, che, cambiando, registra la progressiva affermazione di nuove gerarchie sociali, sia di natura economica, derivante dalla progressiva frantumazione dell’economia medievale e dal conseguente allargamento dei mercati, e quindi civile, con l’emergere delle città, quali centri di produzione e di scambio, nonché di propulsione culturale, e la grande ripresa demografica dopo la peste del 1348, sia di natura culturale, derivante dalla rottura dell’unità cristiana, per mezzo della riforma protestante, e tanto rinnovata quanto reazionaria risposta controriformista della chiesa cattolica.
In tale contesto, il pensiero politico è teleologicamente teso al ridimensionamento della gestione del potere interno, in parte perché la scoperta del nuovo mondo impone una consapevolezza diversa degli eventuali modelli di riferimento, nonché dei criteri assiologici di partenza, per quanto votati, questi ultimi, all’integrazione del “nuovo” nella cultura e nella società europea, in parte perché gli scontri tra riforma protestante e controriforma cattolica “ispirano”, inevitabilmente, le riflessioni sul concetto di tolleranza.
Considerando, inoltre, il carattere composito delle monarchie a venire, costituite inizialmente da un piccolo nucleo territoriale e poi espanse per mezzo dei matrimoni dinastici e delle guerre di conquista, fino a diventare degli stati, la cui burocrazia è “congegnata” per governare, e il cui esercito nazionale risulta necessario per la difesa degli interessi del sovrano, e sottolineando la complementarità fondante il nuovo modello politico delle monarchie assolute, tra queste e l’aristocrazia, per la quale il governo risulta un potere esclusivo e discriminante, proprio in virtù della rete clientelare utile al sovrano, non è un caso che il concetto, e quindi la tematizzazione concernentevi le pratiche, della ragion di Stato (15), si sia sviluppato a partire dal 1523, con il dialogo Del reggimento di Firenze, di Francesco Guicciardini (16), e consolidato nelle scritture successive (17), fino alla prima compiuta elaborazione teorica del progetto reazionario della ragion di Stato (18), individuabile nell’opera di Giovanni Botero, del 1589, Della Ragione di Stato, sulla lunghezza d’onda delle considerazioni contrarie alla politica considerata come sfera autonoma, nell’intento di criticare, appunto, «l’approdo estremo della ragione empia della politica nella fase della crisi estrema della civiltà rinascimentale, appunto quella ragion di Stato che nelle regioni italiane e in Europa impone il proprio dominio operando in modo disgiunto dai precetti della morale cristiana; eppure, in questa critica resta implicito il riconoscimento della separazione ormai avvenuta tra il piano delle norme morali, naturali e divine, e la sfera d’azione della politica» (19).
Il tema della ragion di Stato «diverrà poi centrale nella cultura italiana della Controriforma, allorquando la preoccupazione delle politiche dei diversi Stati italiani - ed innanzitutto della chiesa di Roma - rispetto alle nuove concentrazioni di potere nelle diverse regioni europee spinge alla ricerca di una positiva risposta di difesa e di conservazione degli interessi particolari dei poteri locali. Non a caso la contestazione - che ha preso forma esplicita nelle scritture prodotte dalla curia romana, dal Possevino fino al Bellarmino - del fenomeno nuovo e pericoloso della sovranità nazionale in Francia ed in Inghilterra si lega, sul piano dello scontro ideologico, alla necessità di trovare un antidoto efficace a tutte le forme di machiavellismo, cioè a quelle pratiche politiche - ispirate diabolicamente dagli scritti del segretario fiorentino - che pretendono di procedere con la presunzione di potere fare a meno del sostegno della morale cattolica» (20).
Nel su citato processo di sviluppo delle monarchie, un altro aspetto importante è da individuarsi nel ruolo svolto dalle corti, centri di produzione e aggregazione culturale senz’altro, ma, sopra tutto, dimore del principe, luoghi del potere, dell’organizzazione del suo consenso e della sua giustificazione.
Proprio in quest’ottica, il ruolo dell’intellettuale risulta tanto più necessario al principe quanto meno delegittimante è il potere della sua penna, sì come quello di tutti i cortigiani che gravitano attorno alla corte, la cui progressivamente idealizzata cortigianeria, grammatica del buon vivere dell’antico regime, e sillabata, se pur come una nenia, fino alla fine del XVIII secolo, avrebbe dovuto evidenziarne, per quanto speciosa, e per questo tacciabile di anti-naturalezza, la magnificenza.
L’impresa di Carlo VIII, sceso in Italia nel 1494 per avanzare delle pretese sul regno di Napoli, e l’arrivo degli spagnoli, inaugurando il lungo periodo di dominazione straniera, durato fino al 1800, mette in crisi il sistema vigente di stati principeschi - la cui politica di difesa era pur sempre una politica di equilibrio -, cui fa da contrappunto solo la ripresa ecclesiastica, che, dopo il ritorno del papato in Italia, e specialmente a scisma ultimato, crea un polo di attrazione clericale per gli uomini di cultura, soprattutto perché «le rinunce per poter godere di benefici ecclesiastici erano indubbiamente minori rispetto a quelle cui doveva sottoporsi un intellettuale che volesse affidarsi alla precarietà del beneficio laico dipendente dalla volontà del signore, e la tolleranza romana era indubbiamente più larga di quella civile» (21) e perché «per la stragrande maggioranza degli intellettuali, nei confronti della Chiesa esisteva una problematica di riforma, non di ortodossia. Era d’altra parte evidente che, letterato o ministro, l’intellettuale poteva trovare gratificante la propria posizione solo in quanto essa fosse in qualche modo collegata con un potere che traesse forma e disciplina dai suoi ammaestramenti, ma che fosse un potere reale. Da ciò, il clericalizzarsi dei quadri intellettuali italiani (…) che tuttavia non escludeva la rievocazione di una società politico-intellettuale laica, quale si presentava nelle pagine del Cortegiano» (22).
La soluzione «cortigiana», la cui novità, nota ancora Gaeta, «stava nell’essere un libro sul cortigiano: una figura che aveva un carattere inedito dopo quelle del “cittadino” e del “principe” e che però rispondeva all’antica aspirazione di una direzione del potere da parte degli intellettuali e d’una conduzione della politica da parte degli uomini “intelligenti”, anzi che ribadiva e rafforzava questa prospettiva» (23), e il cui successo andrebbe ricercato proprio nella «riaffermazione della funzione dell’intellettuale nel centro stesso del potere come funzione di chiarimento razionale dell’azione del principe» (24), la soluzione «cortigiana», si diceva, resta valida fino al Sacco di Roma, vera e propria svolta, in una storia degli intellettuali italiani, che sancisce la fine della rinascita umanistico-cortigiana presso la corte pontificia, l’instaurazione del principato mediceo a Firenze - cui è ascrivibile una accentuazione della crisi presso larghi strati di intellettuali italiani, laici ed ecclesiastici, «in quanto eredi di una problematica religiosa, accentuata a fine Quattrocento dal neoplatonismo ficiniano, poi dalla Riforma e dal messaggio di liberà cristiana di Lutero, e insieme legati ad un retaggio ideale e politico il cui riferimento è la “libertà” delle città-stato comunali e rinascimentali, mentre incominciano a prevalere gli ordinamenti del principato e dell’assolutismo monarchico» (25)-, e la riorganizzazione dell’Inquisizione romana (1542) (26), oltre modo agevolata dalla diplomazia del pontificato farnesiano, dalla crisi dell’evangelismo, dalla dispersione del circolo valdesiano di Napoli, a seguito della morte del Valdés (27).
Così, partire dal 1530 (28), stabilizzatesi le condizioni generali dell’Italia nell’impotenza, dopo il fallimento della politica di Clemente VII (29), e, a livello europeo, impostasi, con Augusta, «una frattura religiosa che sommava i suoi effetti a quelli del duello franco-asburgico» (30), per la generalità degli intellettuali ciò che la situazione richiedeva non era più un modello umano com’era stato quello di Castiglione, bensì un codice di comportamento che illustrasse le arti necessarie all’esercizio di una professione e fornisse precetti a dei reali social-climbers: «le “lettere” e i “letterati” erano senza scampo: il loro destino era segnato dal fatto che il confronto tra le forze in campo stava diventando un conflitto che richiedeva una generale mobilitazione di parte, alla quale si poteva sfuggire unicamente attraverso la strada dell’utopia e dell’avventura della penna. Nel suo rapporto con le istituzioni, il letterato era destinato a trasformarsi in circospetto segretario, in ministro fedele, in accademico: la parabola era quella da cortigiano a gentilhuomo» (31).
Il decennio successivo, d’altronde, inaugurato dall’assedio di Firenze, non fa che accentuare una situazione già critica e contraddittoria, in cui l’intellettuale umanista, cortigiano o cittadino, cerca asilo sempre più frequentemente nelle istituzioni politico-religiose del tempo, e non può non dedicarsi ad una riflessione sul potere che, in una distesa trattatistica, mira, anzi tutto, a ricomporre il suo status, nell’illusione di ritrovarvi, infine, una smarrita identità.
Proprio nell’ambito di un sempre più esasperato tentativo di non ritrovarsi esclusi dai gangli del potere, di appartenervi ancora, matura la consapevolezza della scissione insanabile che via via si andava concretizzando (32). Per queste vie, su due ipotetici e niente affatto speculari fronti semantici, uno per così dire “esterno” alla corte, l’altro “interno” maturano e si esasperano, fino al dissolvimento, i motivi dominanti della trattatistica cortigiana.
Dalle riflessioni di Giovanni Andrea Gilio e di Giambattista Girali Cinzio alla “pazienza” del Rosello, dalla prudenza alla doppiezza, dalla “civile conversatione” alla vera e propria arte della dissimulazione (33) (e “L’arte de’ cenni” di Giovanni Bonifacio, del 1616, non può non essere considerata, in questo senso, paradigmatica) (34), alla segretezza degli Arcana Imperii, si celebra l’idealizzazione del modello dell’uomo di corte, il passaggio da modello reale a “ideale culturale”, dall’esemplarità del principe alla «banda di palazzo» (35), da Cortigiano a Segretario, da viso a maschera (36), da funzione a finzione.

NOTE
1) M. Rosa, «Scena» e «segreto»: l’antinomia del potere e il ruolo dell’uomo di lettere, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Vol. I, Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino 1998, p. 299.
2) «La letteratura quattrocentesca sulle corti fu, generalmente, una letteratura di denunzia dialetticamente contrappuntante la necessità di affermazione sociale dell’intellettuale», cfr. F. Gaeta, Dal comune alla corte rinascimentale (cfr. ivi, p. 241).
3) «(…) ormai lecita ed emblematicamente rappresentata nella letteratura delle imprese dall’immagine del Giano bifronte» (cfr. ivi, p. 299).
4) Ibidem.
5) ivi, p. 249.
6) «I prodromi di tale spaccatura sarebbero da individuarsi già nel 1378, anno in cui il Sacro Collegio, sotto la spinta sempre più pressante delle fazioni francese e antifrancese, elesse due papi, parimenti legittimi: l’uno per la sede di Roma, riconosciuto dall’Inghilterra e dalla maggior parte della Germania, l’altro per la sede di Avignone, riconosciuto dai francesi e dai loro sostenitori, inaugurando così una divisione che si perpetuò per oltre quarant’anni. Spaccatura incrinata ulteriormente dagli esiti del concilio di Pisa, tenutosi nel 1409, e dallo scioglimento del concilio di Basilea, nel 1449» (cfr. Palmer R. - Colton J., Storia del mondo moderno. Dalla nascita dell’Europa alla Rivoluzione francese, Editori Riuniti, Roma 1985).
7) Oltre al su citato testo di F. Gaeta, cfr. G. Benzoni, Gli affanni della cultura, Intellettuali e potere nell’Italia della Controriforma e barocca, Feltrinelli, Milano 1978.
8) «La discussione sulla nobiltà, la problematica della dignità dell’uomo e il giudizio sulla storia di Roma» (cfr. F. Gaeta, op. cit. , p. 299).
9) «(…) La corte era il luogo della corruzione, di una sostanziale inciviltà, di una degenerazione umana (personale e collettiva) quando in essa (e ciò avveniva – stando a sentire i letterati – assai spesso, se non sempre) la cultura non trovava un suo luogo privilegiato. Il principe ideale e la corte ideale avevano scarso riscontro con la realtà, che era una realtà di abiezione» (cfr. F. Gaeta, op. cit. , pag. 241).
10) C. Ossola, Dal «Cortegiano» all’«Uomo di mondo», Einaudi, Torino 1987, pp. 102.
11) «La vita civile (che era una delle articolazioni della vita attiva) lasciava margini sempre più ristretti alla libertà del singolo e ampliava progressivamente i confini della “servitù”, sicché l’emarginazione degli intellettuali dalle istanze di decisione dava luogo ad un riflusso nel privato che significava opposizione e protesta» (cfr. F. Gaeta, op. cit. , p. 243).
12) Ivi, pag. 237.
13) Ibidem.
14) Ivi, p. 244.
15) La ragion di Stato è forma complessa di discorso e di pratica della politica: oltre l'esplicito riferimento all'esercizio della forza, il governo per «ragion di Stato» propone la conversione dell'uso diretto della violenza in codici di dispositivi particolari che debbono essere finalizzati alla conservazione del potere politico ed alla produzione di disciplina e di obbedienza da parte dei sudditi (cfr. G. Borrelli, Ragion di Stato. L'arte italiana della prudenza politica, consultabile al sito www.filosofia.unina.it/ragiondistato/rdis.html).
16) In realtà, F. Guicciardini «utilizzata un'espressione lievemente differente, “ragione degli Stati”, per significare quella ragione poco cristiana e poco umana che governa nell'ambito degli affari politici» (ibidem).
17) «in particolare nelle Orazioni per la Lega composte da Della Casa per incitare i Veneziani a partecipare alla lega armata contro lo stesso Carlo V, l'autore assumerà un'esposizione retorica differente distinguendo la persona dell'imperatore dalla politica imperiale, separando quindi il giudizio sulla moralità indiscutibile dell'uomo dalla considerazione della politica inevitabilmente oppressiva ed accentratrice dell'imperatore: “dico questo solo, che l'ufficio, e il magistrato, che egli ha, richiede che esso presuma di potere con ragione comandare ad ognuno, e che a ciascuno si convenga a lui dichiararsi, ed a' suoi comandamenti”» (ibidem).
18) «Botero definisce in partenza con estrema chiarezza la finalità del modello conservativo: “Stato è un dominio fermo sopra popoli; e Ragione di Stato è notizia di mezzi atti a fondare, conservare, e ampliare un Dominio così fatto. Egli è vero che, se bene, assolutamente parlando, ella si stende alle tre parti suddette, nondimeno pare, che più strettamente abbracci la conservatione, che l'altre; e dell'altre più l'ampliatione, che la fondatione”» (ibidem).
19) Ibidem.
20) Ibidem.
21) F. Gaeta, op. cit. , p. 246.
22) Ivi, pp. 246-249.
23) Ivi, p.246-247
24) Ivi
25) M. Rosa, op. cit. , p. 260.
26) Avviata dalla crisi dell’evangelismo, dopo Ratisbona, e dalle vicende del Tridentino.
27) «È a questo periodo che si chiarisce e si rafforza l’azione della curia romana, che si potenziano i quadri dell’organizzazione regolare italiana per le “riforme” interne degli ordini, il controllo su predicatori e religiosi sospetti, la costituzione di nuove congregazioni di chierici regolari, e che insieme di fanno più definiti i contrasti fra posizioni ortodosse e orientamenti ereticali, e l’obiettiva convergenza di interessi fra il potere politico e la Chiesa romana» (cfr. M. Rosa, op. cit. , p. 262).
28) «Da un lato la centralità delle vicende italiane tra il Sacco di Roma e l’assedio di Firenze, quale sigla di una stagione che si conclude con la catastrofe politica, e dall’altro le molteplici preoccupazioni di ordine religioso che con prepotente vitalità, e con segno diverso, si intrecciano ai momenti politici, tra l’esplosione della Riforma, la diffusione di atteggiamenti di protesta ereticale e di dissenso, la maturazione e il compimento dell’età tridentina» (ibidem).
29) «L’Oratione della pace di Claudio Tolomei (1534) e dedicata a Clemente VII segna il passaggio dal più largo ideale erasmiano di pacificazione della cristianità sconvolta ad una più ripiegata, ma profonda esigenza di «quiete», emblema del generale ripiegamento degli intellettuali del tempo, nonché di una nuova e più forte solidarietà di gruppi intellettuali e di ceti cittadini, oligarchici e popolari, intorno alla consapevolezza che si era aperta una fase assolutamente diversa, un processo, la cui vastità andava misurata sul piano dell’intera penisola e in un quadro europeo» (ivi pp. 263-264).
30) F. Gaeta, op. cit. , p. 251.
31) Ibidem.
32) Cfr. R. Villari, Elogio della dissimulazione, Laterza, Bari 1987.
33) «Una delle chiavi più importanti e più adatte a decifrare la realtà complessiva della politica barocca è il grande rilievo che ebbe la teoria (e la pratica) della dissimulazione. Affrontata dal pensiero classico e medievale come un problema eterno dell’uomo, del rapporto tra apparenza e realtà, tra menzogna e verità, esso fu considerata nel tardo Cinquecento e nel secolo successivo soprattutto come un aspetto specifico della vita politica e del costume di quel tempo (…) Sebbene circondata di riserve e cautele, la teoria della legittimità della dissimulazione – intesa come parte fondamentale del complesso di norme che dovevano garantire la stabilità e la difesa dell’ordine – fu infatti largamente sostenuta anche dalla letteratura politica che si proponeva di permeare di spirito cristiano la ragion di Stato» (cfr. R. Villari, op. cit. , p. 19).
34) Cfr. T. Paba, Il “segreto” come fondamento del saper vivere nell’Oráculo Manual di Baltasar Grácian, in (a cura di) U. Floris - M. Virdis, Il Segreto, Bulzoni, Roma 2000, pp. 357-372.
35)Cfr. C. Ossola, Dal «Cortegiano» all’«Uomo di mondo», Einaudi, Torino 1995, p. 133.
36) «Io porto una maschera, et sono costretto a portarla, perché senza di essa nessuno può vivere sicuro in Itali», scriveva Paolo Sarpi, nella citazione riportata in F. Meinecke, L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 96.
 


 
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Roberto Miele
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IL SEGRETARIO DI LETTERE NELLA SEGRETEZZA DEL SUO UFFICIO
 
Nell’ultimo ventennio del Cinquecento, durante il consolidamento dell’assolutismo monarchico e principesco, e fino al primo ventennio del secolo successivo, la riflessione sui nuovi rapporti configurantesi tra l’intellettuale e potere - perduta progressivamente la fiducia nel ruolo e nell’immagine della Corte offerta dal Castiglione, e dunque, sindetico, in cerca di una nuova collocazione nell’ambito del rinnovato vigore controriformistico di Roma (che da Pio V a Clemente VIII riuscirà progressivamente a sbarazzarsi, con le pratiche vessatorie dell’Inquisizione, di tutti quegli orientamenti di pensiero estranei agli schemi aristotelici e scolastici, soffocando l’eresia popolare, fronteggiando i turchi a Oriente e riorganizzando l’intera struttura ecclesiastica) -, trova, sulla scia della trattatistica politica di ascendenza tacitista del Guicciardini, in Della Casa prima e nel Tasso e poi, gli ultimi ereditieri di una resistenza polemica di tipo rinascimentale, per poi concentrarsi, quando non sfociando nel filone della letteratura utopistica, sui postulati degli arcana imperii e della ragion di Stato (1).
Se nel giro di un cinquantennio “Il libro del Cortegiano” di Baldasarre Castiglione (2), pubblicato, a ridosso del Sacco di Roma, nel 1528, ha lentamente dissolto la funzione attribuitagli, non a torto, di archetipo della trattatistica sul comportamento, è, dunque, perché la sua “architettura”, «tutta misurata sulla grande metafora dell’epoca: (…)exemplum di una legittimazione estetica della morale»(3), ha esaurito ogni possibilità ideologica e culturale, ma soprattutto perché, mai come in questi anni, la frattura fra il potere di ascendenza feudale (4) ereditato dalla corte e una non ancora ben definita modernità diventa incolmabile.
Di là della trattatistica politica, invece, ai confini del subgenere letterario, dalla più generale raccomandazione alla «prudenza», da quella sophrosyne greca, cui fa eco la temperanti dei latini (5), si sviluppano, in questo clima di incertezza e sospetto irreali, i postulati della «segretezza» e della «simulazione», tanto meno cortigiani (6) quanto più risolti nella possibilità di dissimulare la stessa arte della prudenza, tanto più che la rovina della corte trascinava con sé anche quella “conversation politique” della quale era stata, fino ad allora, il luogo privilegiato.
Così, se «il ruolo, lo spazio del cortigiano si situa, dalla propria origine, nell’alone di un potere che la parola rimuove e invoca, nell’esercizio di una simulazione (nel suo senso tecnico - e non ancora etico - di “rappresentazione in assenza”) e di una dissimulazione (nel nascondimento, e quasi revoca nella conversazione, di quella distanza), esattamente “sì come ne le pitture - chioserà il Tasso - con l’ombre s’accennano alcune parti lontane» (7), il ruolo e lo spazio del Segretario, la cui unica relazione con il mondo esterno è dettata dalla distanza, oltre che formale, ontologica che il segreto professionale, da lui custodito, gli impone, non è più, o non può limitarsi ad essere, quello di consumare il mondo stesso nella prudenza, nella simulazione e nella dissimulazione, bensì quello, ben più oneroso, di inventare il mondo.
In quest’ottica, la proposta formulata da Francesco Patrizi nel Segretario «di un’élite neoplatonizzante al disopra della Controriforma, di un modello di cortigiano che concentrasse in sé una pluralità di funzioni» (8), per quanto arcaica, anticipa di circa un ventennio il malumore diffuso tra i segretari e gli uomini di cultura in genere derivante dalla consapevolezza di un conflitto sempre meno risolvibile tra il modello e la prâksis.
Per quanto discontinua possa apparire una retta tra i punti di intersezione dell’esemplarità letteraria di questa trattatistica, ampiamente dilagata nello scorcio del Cinquecento, con la reale condizione di subalternità del ruolo di Segretario, di mero facitore di epistole, amanuense in esilio; e per quanto ardua si verifichi ogni impresa di ricondurre tale letteratura ad una sorta di metalinguaggio che fa, proprio del ripiegamento su se stesso, - mediante il ripiegamento in essa dei suoi autori, che in questa precettistica inventano, appunto, una “costante del comportamento” al fine di ritrovare, oltre che una funzione ormai perduta, una pur sempre convenzionale socialità -, il superamento di un codice ormai caduto in disuso (9) (per mezzo di uno di quei rovesciamenti niente affatto paradossali cari al Talleyrand, per il quale la funzione del linguaggio sarebbe non quella di esprimere il pensiero ma quella di mascherarlo); non risulterà comunque infondato il sospetto per il quale la “segretezza” e la “fedeltà”, motivi dominanti nel trattatoDel buon segretario di Angelo Ingegneri (10), si traducono, alfine, negli unici mezzi a disposizione del Segretario per godere di una autonomia culturale quotidianamente minacciata.
Proprio nella celebrazione dell’allontanamento dal potere dell’intellettuale di tradizione umanistica, cui pure appartiene, con le dovute cautele, il modello del Cortegiano (11), subentra il postulato del segreto (12), la sua fenomenologia, che recupera, nel corso della trattatistica del segretario, tutta la connotazione semantica positiva che lo contraddistingue, oltre che «come sorgente di vergogna per qualcosa che deve essere tenuto nascosto»(13), quale segno di un sapere dissimulatorio «negato all’altro, che implica un controllo di sé e della propria individualità»(14) e che, esteso ad un’élite di pochi adepti, “interiorizza” il suo senso sociologico (15).
Così come la menzogna, il segreto che si impone, quello che non viene scoperto, è «un mezzo per mettere in atto una superiorità spirituale (…) è un diritto spirituale del più forte» (16), ma, a differenza della menzogna, che è una forma di simulazione, il segreto è «le savoir de la chose, et non la chose elle même» (17) che «anche se può ricorrere per celarsi alla simulazione (…) si distingue dalla simulazione. Il segreto, come non manifestare, non dire, non far sembrare quello che è, è diverso dal dire quello che non è, come nell’errore, e dal far sembrare quello che non è come nel falso, nell’inganno e nella menzogna» (18). E se la menzogna «in quanto costruzione linguistica, è in ogni momento minacciata dalla verità che il più piccolo lapsus può riportare a galla» (19), il segreto, in quanto negazione linguistica, “secondo mondo accanto a quello manifesto” (20), può essere minato solo da un atto intrusivo, e in quanto tale, il suo disvelamento implica, in accordo con Simmel, una violazione della personalità di colui che lo custodisce (21).
Così, dal Secretaire, il mobile in cui sono custodite a chiave le carte, prende nome il Segretario, l’aiutante, «come Theut con il Faraone nell’aneddoto egiziano del Fedro, o forse come Fedro medesimo, che nasconde il discorso di Lisia sotto la veste (…). Ma per analogia con “sillabario”, “segretario” potrebbe anche essere un catalogo, persino una iconografia o un portaolio, o più esattamente una icnografia in cui si raccolgono, scrivono o descrivono delle tracce, cioè in fondo dei segreti» (22).
Il Segretario, dunque, è il testimone, oltre che il custode, di un segreto, è colui che attesta la presenza di un segreto senza rivelarlo, «di attestare - per citare già Blanchot - l’assenza di attestazione, il fatto che l’attestazione non sia possibile (…). L’impegno a serbare il segreto è una testimonianza. Il segreto presuppone non solo che ci siano dei testimoni, come minimo quelli che, come si dice, lo condividono: presuppone che la testimonianza non consista semplicemente nel conoscere un segreto, nel condividerlo, bensì nell’impegnarsi, implicitamente o esplicitamente, a serbarlo. Di modo che l’esperienza del segreto è, per quanto contraddittorio possa apparire, un’esperienza testimoniale» (23). Non a caso, Domenico Giorgio, sottolinea quanto paradossale sembri la posizione assunta per necessità dal segretario di lettere nell’applicazione della strategia del segreto: «egli è, per antonomasia, il funzionario della parola scritta volutamente celata; ma la scrittura possiede, per sua natura, l’intima caratteristica di essere refrattaria a ogni tipo di segretezza, e in particolare la lettera, la cui elaborazione segna inequivocabilmente la superiorità intellettuale dello scrivente, ma ha la possibilità di offrire, più del parlato (…) la chiara oggettività di un contenuto e contemporaneamente la volontà di tacere o di omettere ciò che non si vuole affermare, ponendo così in evidenza l’ambiguità di più interpretazioni insite nel linguaggio epistolare che, in contrasto con la sua originaria chiarezza espositiva, può divenire sede dei fraintendimenti» (24).
Il Segretario come “scrigno” e “stomaco”, «contenitore del segreto del suo principe (…) è gravato dal dovere di conservare ermeticamente chiusi tutti quei segreti che possano ledere gli interessi del suo principe, anche a rischio della vita» (25). L’analogia con Proteo (26) (cara all’abate Benvenga) (27) - figlio di Poseidone, la cui facoltà di conoscere i segreti degli dei, di nasconderli o tacerli, e di cangiare forma «pur di sottrarsi alle domande sugli accadimenti futuri che gli venivano rivolte» (28), era menomata nel sonno o quando si ritrovava incatenato -, costretto, da Aristeo, in catene, a tradire il principio della testimonianza a lui solo nota, o con la statua di Arpocrates, il dio egizio del silenzio, il cui dito premuto fortemente sulla bocca, mediatrice tra interno ed esterno, ammoniva alla discrezione e alla gelosa segretezza (29), è evidente: «la natura arpocratica del silenzio, utile alla conservazione dei secreta, intesa come strumento di comunicazione e arma di difesa nei confronti della società civile, felicemente si coniuga con simulazione e dissimulazione, reticente ed omissioni atte a svolgere il delicato compito di mettere al riparo, dall’inganno operato dalle istituzioni, l’individuo» (30).
Apologeta del silenzio, il funzionario di Segreteria «addetto alle missive e ai codici cifrati delle cancellerie» (31), il cui ufficio poggiava quindi sul segreto e sulla segretezza, è colui che sa che il silenzio consegnatogli «dipende solo in parte dalla deliberata volontà di non dire, di conservare un segreto come un fatto compiuto» (32) poiché «il silenzio, o la reticenza, adempiono alla funzione dissimulatoria di “tacere dicendo”, con la debita conseguenza di contrassegnare un atto linguistico» (33).
Così, “segretamente”, tra “lo spiegar concetti in forma di lettera”, anima di tale professione, e «la necessità di conquistarsi la fiducia del signore, nel lavoro e con la pratica della scrittura» (34), si consumava la “mondanità” del segretario: «un vero e proprio atto angelico, nella misura in cui bisognava che il segretario mettesse in lingua e traducesse sulla carta in “lineatura d’inchiostro” la “prima radice”, il “midollo” e i “concetti” non suoi ma del divino padrone (…). Sicuramente “gentiluomo”, per meriti di “fede” e “sapere”, il segretario o “dicitor di penna” era alla fine “esecutore dell’altrui volontà” e “segno fedele” del padrone cui era “ordinato”» (35).
Celato di là del suo ufficio, in conformità al modello classico offerto da Tiberio, Sallustio e Tacito, quasi segreto a sé stesso, “una mano della volontà del principe e uno strumento del su governo” (36), scriba di Dio, custode della verità (37) e “mago della parola”, «del segretario non si dava ritratto. Né era possibile darlo. Corpo, gesti, abbigliamento e pronuncia, venivano progettati per lui in modo da sospingerlo nell’ombra: nell’inevidenza, nel conformismo, nell’anonimato; e in una scelta di solitudine» (38), sicché della sua funzione, della sua “aritigianeria” legittimante del potere, non possono che testimoniare la pleiade di trattati sul segretario e le lettere “messaggere”, simili, queste ultime, al collo di colomba «quel misto di viole e di rose che (…) rimirato da una parte l’adorna e dall’altra sparisce» a simboleggiare «i riflessi dell’amicizia nella candidezza de’ fogli» (39) nei cui colori il segretario si congeda, come nota Nigro, dal mondo barocco.

NOTE
1) «Lasciando da parte la questione generale della diffusione del dibattito politico, qui va notato il legame che con essa ebbero il mutamento e l’ampliamento dell’idea di legittimità della dissimulazione, che della ricerca sulla ragion di Stato e della teoria politica fu allora elemento rilevante. Teorici e moralisti si preoccupavano di distinguere nettamente, nell’enunciazione dei loro precetti, tra pubblico e privato, tra i doveri dei sudditi e quelli del principe. Ma la distinzione era destinata a perdere il suo rigore per il fatto stesso che quei principi e quei precetti si diffondevano e diventavano popolari» (cfr. R. Villari, op. cit., p. 29).
2) B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, (a cura di) W. Barberis, Torino, Einaudi 1998.
3) In merito ai problemi critici scaturiti da questa tradizione interpretativa cfr. G. Patrizi, «Il libro del Cortegiano» e la trattatistica sul comportamento, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, III/2, Le forme del testo, La prosa, Torino, Einaudi 1984, pp. 855-890.
4) «La “corte” chiude quindi e compendia, nella prima e premeva delle sue occorrenze, tra “vassallo” e “sbirraglia”, una serie di legami personali e servaggi, dopo i quali, nel corteggio saturnino – e prima di Giove -, troveranno posto solo più i nomi della consunzione o del nascondimento, il macerarsi nella “pallidezza, smorto, squallore, squallido, lividore, macero, exhausto”, ma anche il ripiegarsi nelle “tristizie, stanchezza, malinconia, spelonche, nascondimenti, celato, occulto, coverto, secreto, secretario”, entro cui – in un rinvio non coperto dall’arte di governo – si chiudono i nomi di Saturno, per dar luogo a quelli sovrani di Giove. La corte poi “in vece della famiglia del Podestà o del Bargello” testimonia la tenace durata delle sue origini feudali, la secolare gerarchia che serra il “soggetto, suddito” intorno al “vassallo”, attraverso la core appunto del “famiglio, fante, valletto, paggio, ragazzo, scudiere”, e lo sottopone alla forza esecutiva del proprio diritto attraverso quell’altra “famiglia” che è il birro, la “sbirraglia”. La corte dunque perdura nella sua funzione di epifania dell’autorità quanto di paradigma dei modi rituali del “servaggio”. Non a caso lo stesso Castiglione ammetteva “che la principale e vera professione del cortegiano debba essere quella dell’arme; la qual sopra tutto voglio ch egli faccia vivamente e sia conosciuto tra gli altri per ardito e sforzato e fidele a chi serve”» (cfr. C. Ossola, op. cit. , p. 102).
5) Non a caso, Baltasar Gracián, nell’aforisma 179 del suo Oracolo, in cui l’arte della prudenza è attribuita all’uomo attento, scrive «Nell’intima temperanza consiste la perfetta salute della prudenza» (cfr. B. Gracian, Oracolo manuale e arte di prudenza, (a cura di) Antonio Gasparetti, Tea Due, Torino 1997, p. 114).
6) Se “far corte” equivale, per dirla con le parole di Pietro Bembo, a «corteggiare, cioè accompagnare Principe e Signore per onore o per debito, o per altro», è sintomatico, allora, che in questa ridefinizione dei rapporti tra intellettuali e potere, degli intellettuali di ieri e del potere di domani, la cortigianerie risulti, per quanto preferibile, inattuale (cfr. Dini V., La prudenza da virtù a regola di comportamento: tra ricerca del fondamento ed osservazione empirica, in V. Dini - G. Stabile (a cura di), Saggezza e prudenza. Studi per la ricostruzione di un'antropologia in prima età moderna, Napoli, Liguori 1983).
7) Cfr. C. Ossola, op. cit., p. 133.
8)Cfr. M. Rosa, op. cit. , p. 301
9) Cfr. L. Bolzoni, Il volto segreto della scrittura. Immagini della ricezione tra Cinque e Seicento, op. cit. , pp. 335-356.
10) A. Ingegneri, Del buon segretario, Roma, Faciotti 1594.
11) Cfr. C. Scarpati, Dire la verità al principe, Ricerche sulla letteratura del Rinascimento, Pubblicazioni della Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 1987.
12) «Il termine segreto proviene da secretus, participio passato del verbo latino secernere che significa separare, dividere; il prefisso se indica più specificamente il concetto di scartare, distinguere, mettere da parte. Il primo significato, sul quale l’autore [Arnaud Lévy] insiste finendo col privilegiarlo, è quello legato al linguaggio agricolo che tende a designare l’antica operazione di setacciare il grano mediante lo strumento del setaccio (in latino, cribum e crible in francese) che ha appunto il compito di separare la parte buona da quella cattiva. In senso figurato secernere assume anche il significato di giudicare, discernere, distinguere il vero dal falso, il buono dal cattivo. Con il prefisso ex, il verbo cernere assume meglio il significato di vagliare, purgare (evacuare in termine medico). Senza che sia menzionato da Lévy, il verbo greco da cui proviene cernere è κρίνω, che ha lo stesso senso, oltre che di giudicare, distinguere, secernere, la cui radice indoeuropea è (s)q(e)rei, da cui il termine greco di confronto σκωρ (dal sanscrito, ava-s-kara), che significa escremento, lordura; quindi excrementum da quod excernitur, con il senso sia di vagliatura che di escrezione. Dunque, secerno, “qui signifie séparer, mettre à part, a donné deux termes françes: secretion et secret”» (cfr. D. Giorgio, Per una letteratura del segreot, in Critica letteraria, XXVIII, 108, Loffredo, Napoli 2000, pp. 493-494.
13) Ibidem.
14) Ivi, p. 495.
15) «Finché l’essere, l’agire e l’avere di un individuo sussiste come segreto, il significato sociologico generale di questo è l’isolamento, l’antitesi, l’idividualizzazione egoistica. Qui il senso sociologico del segreto è esteriore: è un rapporto di colui che possiede il segreto con chi lo possiede. Ma non appena un gruppo in quanto tale assume il segreto come la sua forma di esistenza, il senso sociologico di questo diventa interiore: esso determina le relazioni reciproche di coloro che posseggono in comune il segreto» (cfr. G. Simmel, The Sociology of Secrecy and of Secret Societies, [trad. it.] Il Segreto e la società segreta, in Sociologia, Edizioni di Comunità, Torino 1998, p. 296).
16) Ivi, p. 296.
17) «Tout secret est un savoir et rien qu’un savoir» (cfr. A. Lévy, Evaluation étymologique et semantique du mot «secret», Du Secret, «Nouvelle Revue de Psycanalyse», 14 (1976), p. 120).
18) Cfr. M. A. Bonfantini - A. Ponzio, Il dialogo della menzogna, in Menzogna e Simulazione (a cura di) M. A. Bonfantini, C. Castelfranchi, A. Martone, I. Poggi, J. Vincent, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997, p. 13.
19) Cfr. M. Lavagetto, La cicatrice di Montaigne, Sulla bugia in letteratura, Einaudi, Torino 1992, p. Ix.
20) «Il segreto, come tale, non potrebbe esistere, d’altronde, senza una società. Robinson Crusoe, nell'omonimo romanzo di Defoe, non ha segreti per nessuno, perché è solo. Comincia ad averne solo quando arriva Venerdì» (cfr. M. Ferraris, Che cosa è un segreto? , consultabile al sito www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=121).
21) Nella misura in cui nascondere un segreto significa difendere sé stessi e in qualche modo non mettersi a nudo davanti agli altri (Ibidem).
22) J. Derrida e M. Ferraris, «Il gusto del segreto», Laterza, Bari 1997.
23) Ivi, p. 66.
24) Cfr. D. Giorgio, op. cit., p. 34.
25) Ibidem.
26) «La natura proteica che contraddistingue atteggiamenti e comportamenti dell’uomo di lettere, del segretario di un Principe o di un qualsiasi uomo di corte del tardo Rinascimento e agli albori della civiltà barocca italiana ed europea risulta essere la cifra emblematica di un habitus mentale, oltre che prettamente comportamentale, di un’intera epoca segnata da profonde trasformazioni politiche e morali». Cfr. D. Giorgio, Nel segno di Proteo, in S. Ammirato, Della segretezza, (a cura di) D. Giorgio, Edizioni Magna Graecia, Napoli 2001, p. 11.
27) L’accostamento operato con maggior efficacia in questa direzione, è da attribuirsi all’abate Michele Benvenga che nel Proteo segretario indica il segretario come colui che «si trasforma negli effetti molteplici del suo signore» vestendosne «senza spogliare il padrone», quale nuovo Proteo che «varia le voci non potendo il soggetto et, a guisa di cristalli in più pezzi, moltiplica l’apparenze in più guise». Cfr. T. Costo - M. Benvenga, Il segretario di lettere, (a cura di) S. S. Nigro, Sellerio, Palermo 1991.
28) D. Giorgio, op. cit,, p. 11.
29) «E proprio questo un buon segretario o cortigiano devono evitare, di svelare, cioè, anche se costretti e impediti dall’inganno e dall’astuzia altrui, i segreti e le nascoste intenzioni del loro principe e padrone, cercando di mutarsi all’infinito in caleidoscopiche immagini, in atteggiamenti dissimulatori, di nascondersi dietro ingannevoli maschere» (ivi, p. 12).
30) Ivi, p. 37.
31) S. S. Nigro, Il Segretario, in AA.VV., L’uomo barocco, (a cura di) R. Villari, Laterza, Bari 1998.
32) Cfr. D. Giorgio, op. cit., pp. 36-37.
33) Ibidem.
34) Cfr. S. S. Nigro, op. cit. , p. 95.
35) Ibidem.
36) Nell’atto pratico dello scriver lettere, «se il “che” era del committente e ispiratore, il “modo” era tutto del segretario». Ivi, p.98.
37) «Il nostro termine “verità” proviene dal latino veritas. Anche il termine greco alètheia viene tradotto con “verità”. Si tratta realmente dello stesso concetto espresso con due parole di origine diversa o dietro questa duplicità di forme c'è una differenza di significati? Da qualche tempo mi vado occupando, anche etimologicamente, di queste cose. Quando vado a tradurre Platone trovo il termine “alètheia”, che è il termine con cui gli antichi intendevano la verità. Andando poi al fondo a vedere la cosa, trovo tradotto “alètheia” con “veritas”, cominciando da Cicerone e dai traduttori latini. Mi sono reso conto che, se Platone li avesse sentiti, si sarebbe arrabbiato moltissimo.. Infatti il nostro termine “veritas” non vuol dire affatto quello che era, per i greci, la verità. Alètheia, senza voler fare nessun accenno ad Heidegger, viene da lanthano che vuol dire "coprire". Da lanthano proviene Lete, che è il fiume dell'oblio, il fiume che copre. Alètheia, con l'alfa privativo, è il contrario di ciò che si copre: è ciò che si scopre nel giudizio. Nel nostro ambito latino, veritas è un termine che proviene dalla zona balcanica e dalla zona slava, e vuol dire tutt'altro che verità. Vuol dire, in origine, "fede"; fede nel significato più ampio della parola, tant'è vero che in russo ad esempio vara vuol dire fede. Tutti noi sappiamo benissimo che l'anello della fede si chiama anche la vera, proprio perché questa origine balcanica, slava è penetrata fino da noi: la vera è la fede. Andando avanti nello studio, ci si rende conto che ci troviamo di fronte ad una doppia verità. In ciò che diceva Averroè, che parlava di "doppia verità", vi è una sottilissima visione storica e critico-filologica del significato di verità. Qual è la doppia verità? Da un lato la verità di fatto è ciò in cui ho fede, per cui l'assumo come vera senza nessuna riflessione critica: questa è la nostra veritas. L'altra verità è quella che Leibniz - altrettanto dotto - aveva chiamato la "verità di ragione", per la quale sufficit la ragione; la ragion sufficiente, distinta dalla verità di fatto. Ecco le due verità: l'una è una fede, che è una cosa, e quindi dovrebbe entrare in tutto un altro ambito; l’altra è quella logica che scaturisce attraverso il saper pensare: si scopre la condizione che permette di definire la cosa e quindi questa diventa vera nel giudizio, nel logos, nel ragionamento che la viene determinando» (cfr. F. Adorno, dall’intervista Parole chiave della filosofia greca - Napoli, Biblioteca Marotta, martedì 31 maggio 1998, e consultabile al sito http://www.emsf.rai.it/aforismi/aforismi.asp?d=303).
38) Ivi, p. 96.
39) T. Costo - M. Benvenga, Il Segretario di lettere, op. cit. , p. 99.
 


 
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LA TRATTATISTICA SUL SEGRETARIO
 
La fortunate vicende della letteratura e della manualistica fiorite attorno alla figura del Segretario, ennesima drammatica riflessione di quella trattatistica fiorita appena nella metà del Cinquecento sulla corte del principe e sul ruolo dell’uomo di lettere in rapporto alla ridefinizione in corso dei centri di potere nel clima postridentina e controriformistico - letteratura, questa del segretario, in cui si compie il fondamentale glissement dalla consapevolezza di essere appartenuti in qualche modo al potere e la coscienza di non potervi più prendere parte se non come “ombre” del principe o del signore -, sono da imputare, in certa misura, alla comunione del sentimento sofferta dai segretari del tempo, e dagli intellettuali in genere, di appartenere ad una “comunità”, ma sarebbe meno azzardato parlare di condizione, quella degli uomini di cultura appunto, socialmente debitrice di un potere cui presta servizio senza ricavarne riconoscimenti di sorta.
Tale sentimento condiviso, tale condizione fondata, quasi a sigillarne l’irrevocabilità, sul segreto degli “atti di ufficio” in genere, commisto all’evidente impossibilità di perpetuare il modello cortigiano offerto dal Castiglione, è, senza dubbio, una delle ragioni principali che hanno disarcionato la trattatistica sul segretario dalla condanna di subgenere letterario, per offrirle una scena di più ampio respiro all’interno del panorama europeo, e quindi anche di là del territorio italiano, in cui pure la situazione politica, nel quarantennio a cavallo tra Cinquecento e Seicento, non dava adito a prospettive di reale miglioramento, a quella apocalisse, a quella rivelazione tanto esaltata (quanto più auspicata) (1) qualche anno addietro.
Formalizzato il segreto, nella sfera politico-sociale, la trattatistica relativa alla ragion di Stato che sviluppa la tematica degli Arcana imperii considera non solo legittimo conservare una distinzione tra dimensione privata e dimensione pubblica per fini di utilità collettiva (2), ma anche, secondo la famosa espressione di Scipione Ammirato «ragion di stato altro non essere che contraventione di ragione ordinaria per rispetto di publico beneficio, overo per rispetto di magiore e piu universale ragione» (3).
Le riflessioni del nicodemita Lucio Paolo Rosello, cui, per certi versi, è ascrivibile un primo passo verso la trattatistica sul segretario, nella misura in cui ne De la vita de cortigiani, intitolato la patientia (4) (1549), individua proprio nella «pazienza» e nella «dissimulazione» degli auspicabili strumenti di sopravvivenza al principe, la convivenza con il quale non è più possibile con le sole armi della cortigianeria; quelle del fabrianese Giovanni Andrea Gilio (1564), che diversamente dal Rosello, auspica un «servizio honorato» (5); e quelle di Giambattista Giraldi Cinzio, le cui conclusioni, nel Discorso intorno a quello che si conviene a giovane nobile e ben creato nel servire un gran principe (1569), tanto disincantate quanto “nostalgiche”, suggeriscono, quale unica forma di sopravvivenza possibile dell’intellettuale a corte, la partecipazione disinteressata, il silenzio, la «simolatione», nell’impossibilità di individuarne, appunto, un rapporto meno effimero; tali riflessioni, si diceva, segnano una prima incrinatura tra il sempre meno pregnante modello del cortigiano e le possibili alternative “civili” nel rapporto con il potere (6).
Proprio tale ripiegamento dell’intellettuale, «nella constatazione dell’impossibilità di un “corretto” servizio a corte e di un corretto rapporto con il potere, nello scarto sempre più trasparente, a livello di coscienza, tra un ideale e una ben più difficile realtà» (7), si presenta, alla fine del secolo e ai primi decenni di quello successivo, come il testamento di una condizione, anzi tutto civile, ma, si è detto più ampiamente “ontologica” e “fenomenologica”, ineludibile.
Prendendo spunto dai testi su citati, il τόπος della corte si amplifica e si abusa, non senza approfondimenti tanto specifici da far intravedere, per ogni autore impegnato con l’argomento, una cifra nuova della riflessione: così Pio Rossi, Traiano Boccalini, Carlo Innocenzo Frugoni, Antonio de Guevara, Cesare Caporali e le definizioni della corte come «officina», «scena», «palazzo del mondo», «labirinto», se bene proprio il tema della «dissimulazione», enfatizzato non più nella «prudenza» - il cui testamento, l’Oracolo manuale e arte di Prudenza (8) del gesuita spagnolo Baltasar Gracián, è da considerarsi, in un certo senso, già postumo, vedendo la luce solo nel 1647 -, bensì nella «doppiezza» e nella «segretezza», si presenti quale “inesplorato” motivo dominante, sfociante nella tematica degli arcana imperii in cui l’arte de’ cenni (9) l’agire simulato, si rivela indispensabile alla vita di corte prima, di palazzo poi.
Non sembrerà più solo un caso isolato, dunque, quello del segretario “neoplatonico” Querenghi, afflitto dalle difficoltà della sua condizione reale in contrasto con il modello tardo rinascimentale (10), tanto meno infondata la definizione di “segretario burattino” data dal Gramigna, segretario del cardinale Scipione Cobelluzzi (11).
Emerge, in questa ampia fioritura trattatistica, Il secretario et il primo volume delle lettere familiari di Torquato Tasso (1588)(12), in cui il tipo del «nostro segretario [che] scrive come figliuolo de l’ubidienza, e come amico de la servitù», viene contrapposto, come ha notato M. Rosa, al più famoso esempio di Cicerone, pur conservando, a suo parere, quelle qualità politiche capaci di aprirgli la strada «a tutti gli honori» delle corti.
Inaugurata nel 1564 con Il Segretario di Francesco Sansovino, ed esauritasi nel 1689 con il Proteo Segretario di Michele Benvenga, tale trattatistica, comunque sempre contrassegnata dal modello dell’“arcicorte” romana che veicola (13), presenta non poche contraddizioni interne e tutte le difficoltà interpretative del caso, sia per l’estrema diversificazione topologica dei testi stessi, sommariamente riconducibili al genere del trattato, del discorso, del dialogo, e del «libro di lettere» volgari, sia per gli anomali sviluppi, tutti ipertestuali, e di gravosa collocazione storiografica. In effetti, se autori del calibro del su citato Sansovino, e del poco successivo Capaccio possono considerarsi, non del tutto a torto, di “frontiera”, è pur vero che i loro contemporanei, tutti tardo-cinquecenteschi, riescono per primi a divincolarsi definitivamente dalla tradizione del secolo cui appartengono, per inaugurare la breve stagione del Segretario in fieri. Breve se si considera che, nel secolo in cui la trattatistica del Segretario si è sviluppata, solo all’Ingegneri, al Guarini e al Costo è attribuibile il merito di aver dato asilo, non solo letterario, al nuovo ministro del principe, che invece, già a partire dal Pucci, e quindi nei primi anni del seicento, sembra minacciato da un irredimibile, acquiescente smembratura professionale.
Dopo il Pucci, autori del calibro di Bartolomeo Zucchi e Gabriele Zinano, di Lorenzo Honesti e di Vincenzo Gramigna, e di Michele Benvenga, nonché tutta la fitta schiera di segretari “minori”, o meglio di autori “manieristi” che occupano il panorama del primo quarantennio del secolo XVII, celebrano indolenti il ripiegamento di tale letteratura su se stessa e del Segretario sul suo segreto, dilavando quella “costante del comportamento” atta a fare della “segretezza” e della “fedeltà” i mezzi di superiorità spirituale di cui avrebbe dovuto disporre il Segretario per godere di una dignità civile altrimenti distante e inenarrabile.

NOTE

1) Una famosa storia di Hegel racconta di quando Pompeo Magno, arrivato a Gerusalemme, andò nel tempio di Salomone, dirigendosi verso il Sancta Sanctorum, coperto da un velo (l’oggetto più grande e più segreto degli ebrei). Tolto il velo, Pompeo non vi trovò nulla dietro. E quindi sembrava che tutto il potere sacrale emanato dalla vicenda del velo, stesse nel velo stesso, nient’altro che nel velo. Una storia, questa, paragonabile, per certi versi, all’esempio proposto da Leibniz, quando afferma che l’individuo, come una cipolla, si può continuare a pelare, togliendo tutte gli strati della polpa per poi arrivare a scoprire, alla fine, che non c’è niente in fondo (cfr. M. Ferraris, Che cosa è un segreto? , consultabile al sito www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=121).
2) Cfr. G. Borrelli, Ragion di Stato. L'arte italiana della prudenza politica, catalogo della Mostra bibliografica dell’Istituto Italiano per gli Studi filosofici e dell'Archivio della Ragion di Stato, Napoli 1994.
3) G. Borrelli, nella Prefazione a S. Ammirato, Della Segretezza, (a cura di) D. Giorgio, Edizioni Magna Graecia, Napoli 2001, p. 7.
4) L. P. Rosello, Due dialoghi, Comin da Trino, Venezia 1549.
5) G. A. Gilio, Due dialoghi, Gioioso, Camerino 1564.
6) G. Giraldi Cinzio, Discorso intorno a quello che si conviene a giovane nobile e ben creato nel servire un gran principe, Bartoli, Pavia 1569.
7) M. Rosa, «Scena» e «segreto»: l’antinomia del potere e il ruolo dell’uomo di lettere, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Vol. I, Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino 1998, p. 298.
8) B. Gracián, Oracolo manual y arte de prudencia (1647), [trad. it.], Oracolo manuale e arte di prudenza, (a cura di) A. Gasparetti, Tea Due, Milano 1997.
9) G. Bonifacio, L’arte de’ cenni, Grossi, Vicenza 1616.
10) Cfr. L. Bulzoni, Il segretario neoplatonico (F. Patrizi, A. Querenghi, V. Gramigna) , in A. Prosperi (a cura di), La corte e il «cortegiano», II, Un modello europeo, Bulzoni, Roma, 1980, pp. 141-162.
11) Ibidem.
12) T. Tasso, Il secretario et il primo volume delle lettere familiari, Vincenti, Venezia 1588.
13) Cfr. S. Iucci, La trattatistica del Segretario tra la fine del Cinquecento e il primo ventennio del Seicento, in «Roma Moderna e Contemporanea», III, 1, gennaio-aprile 1995.
 


 
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Francesco Mati
 
IL VERO GIORNO DEL GIUDIZIO
 
Era un pigro pomeriggio di Settembre quando tutto ebbe inizio con un suono che pareva provenire da tutte le parti. Una sola unica nota che sembrava prodotta da milioni di trombe. Il suono all’inizio fu avvertito da persone dotate di un particolare udito, poi pian piano crebbe d’intensità fino a diventare limpido come il canto dell’acqua che ruscella. La gente stupita si guardava attorno per cercare di capirne la fonte e non fece in tempo a chiedersi se fosse una nuova trovata pubblicitaria quando apparvero nel cielo terso milioni di cherubini che impugnavano trombe dorate. Al centro di quella incredibile schiera stava l’Arcangelo Gabriele che in poco tempo discese, ben visibile da chiunque nel raggio di chilometri, in un campo di granturco, nella pianura Padana, vicino a Parma. L’Arcangelo Gabriele era alto almeno trenta metri ed abbagliava con uno splendore divino. Indossava una calzamaglia blu cobalto che lo fasciava mostrandone il corpo possente, sulle spalle un mantello rosso rubino, perennemente mosso dal vento tanto che sembrava fatto di stoffa più leggera dell’aria. Nell’enorme mano destra brandiva una spada fiammeggiante al calor bianco, talmente brillante da accecare.
Rimase lì immobile in una posa statuaria d’inimmaginabile bellezza e drammaticità. Migliaia di persone deliranti si recarono in prossimità del campo per pregare in quelle che temevano essere le loro ultime preghiere.
Dopo solo un’ora di caos totale l’area brulicava di persone impugnanti rosari, crocifissi, icone, santini, tutte inginocchiate a pregare, a distanza di sicurezza. Una massa di persone con un grande foro, al centro del quale troneggiava l’angelo con le ali aperte.
La voce che ad un tratto si levò nelle loro teste fece esplodere in loro emozioni come fuochi d’artificio, estasiati ed intimoriti al tempo stesso aspettavano un segno di compiacimento per la loro fede.
“Fra sette giorni esatti il Divino sarà qui”.
Non aggiunse altro, tornando ad assumere una magnifica posa statuaria per la gioia di migliaia di fotografi e cameramen accorsi nel frattempo. Dopo diverse ore calò la notte, o almeno avrebbe dovuto calare se la spada non avesse emesso così tanta luce da illuminare a giorno un’ampia porzione della pianura.
Tutto rimase immobile fino all’alba, la gente guardava estasiata i cherubini schierati in cielo e godeva per la bellezza dell’Arcangelo. Nel mezzo ad una folla crescente di devoti c’erano persone che prendevano foto di particolari delle ali, del vestiario. C’era chi disegnava bozzetti da stilista, chi modellava creta in vista di un calco per produrre in serie l’Arcangelo Gabriele o un cherubino, in scala 1:100.
All’alba i cherubini si mossero, rompendo le righe dello schieramento divino calarono accanto all’Arcangelo dando vita ad un ammasso di forma cilindrica di dimensioni inimmaginabili. Come rapaci iniziarono a volare in cerchio, brulicando nella forma per poi, all’improvviso, puntare in alto e tornare a schierarsi. Un boato d’emozione esplose fra i campi, dove prima volteggiavano i cherubini adesso torreggiava un’incredibile cilindro di candido marmo, alto almeno trecento metri e largo cento. Dapprima sembra privo di qualunque apertura o finestra, una perfetta forma tridimensionale, liscia e lucida come la pelle di un bambino. Poi videro la porta. Una piccola apertura alta non più di un metro e sessanta per un metro di larghezza, piccola e sproporzionata, una strana nota in tutta quella perfezione divina. Poi qualcuno capì, ci si doveva inchinare per entrare al cospetto del Creatore, ma chi sarebbe entrato? Nei giorni seguenti le televisioni di tutto il mondo si posero questo interrogativo interpellando teologi, monsignori, monaci buddisti, rabbini e sciamani. Unanime fu la decisione di far entrare il Papa per primo, nonostante qualcuno protestasse per essere stato eletto popolo divino. Il fatto che però l’Arcangelo Gabriele non avesse fornito precise istruzioni in merito loro, li fece passare in secondo piano. Dopo l’episodio della torre tutto rimase perfettamente immobile per i giorni successivi, l’Arcangelo in posa, i cherubini allineati, con i loro strumenti dai riflessi dorati. La tensione crebbe come il numero di venditori ambulanti piovuti come rapaci nella zona. Avevano già di tutto: magliette con la foto dell’Arcangelo in posa, bandane con cherubini, cd musicali dove erano incise musiche New Age basate su quell’unica nota prodotta, il giorno in cui tutto era iniziato. E poi panini con la porchetta, piadine, salcicce e cipolle, l’aria era pervasa di mistico e cibo grasso.
Finalmente arrivò l’alba del settimo giorno, anche se qualcuno aveva il timore che stesse per accadere la profezia dell’Armageddon. Per fortuna non erano stati segnalati casi di resurrezione e questo fu usato da molti come giustificazione a stare tranquilli. Alle sette in punto la folla si aprì davanti al passaggio dell’Audi papale, un enorme mezzo bianco alimentato ad idrogeno con cui il Papa si spostava. La folla esplose al passaggio di Giovanni XXIV, il primo Papa filippino della storia. Lui fiero, dall’alto del suo trono impartiva benedizioni.
Discese dall’auto scortato da quattro persone che però liquidò subito con un gesto solenne. Poi, solo, intraprese il cammino nei trecento metri che lo separavano dalla porta d’ingresso della torre divina. L’arcangelo Gabriele immobile illuminava il suo cammino mentre nubi grigie oscuravano il cielo annunciando un possibile temporale settembrino.
Nessuno seppe mai cosa pensasse Giovanni XXIV durante quel tragitto, non potevano certo immaginare il terrore che lui provava senza osare manifestarlo. Le gambe molli, il cuore che pulsava nelle tempie ma non si arrestava, passo dopo passo giunse alla sacra soglia. S’inchinò solennemente mentre la folla reprimeva un boato d’incoraggiamento da stadio. Fu tutto. Una grande delusione perché la piccola porta restò chiusa ed il Papa all’improvviso apparve solo come un piccolo uomo vestito in modo buffo. Le telecamere di tutto il mondo ripresero quell’evento triste, la trasformazione di una divinità in terra in un misero essere umano, nudo di fronte a se stesso. A New York ed in gran parte del mondo occidentale, il popolo eletto esultò. Partirono milioni di telefonate e dopo solo venti minuti una grossa Mercedes nera, con i vetri neri, traversò la folla sbigottita. Il Rabbino di Parma, Abramo Ferrara, scese dall’auto e fiero si diresse verso la torre, le mani rivolte in avanti, le braccia allargate verso l’esterno, a testa alta. Un forte brusio scosse la folla, molti di loro iniziarono ad andarsene mentre nuove auto giungevano nei campi, da ognuna delle quali scendevano cinque persone con la Kippà, la papalina ebraica. Con loro anche bancarelle con dolciumi, carne, pane azimo, rigorosamente kasher. Il Rabbino, giunto a cinquanta metri dalla torre si fermò ad osservare l’imponente Arcangelo Gabriele che troneggiava, seppur piccolo se paragonato alla torre divina. Aprì ancor di più le braccia, come ad incoraggiare un dialogo che non ci fu. Incurante di questo fatto proseguì fino alla porta davanti alla quale s’inchinò profondamente ottenendo lo stesso risultato del suo predecessore. Provò e riprovò, si mise ad urlare, a bussare incessantemente. Infine, dopo penosi tentativi che non facevano altro che mettere in ridicolo la natura umana davanti all’inevitabile, si accasciò a terra stremato. Poco dopo si rialzò, si girò verso la colonna ed a bassa voce pronunciò una terribile bestemmia. Forse fu per le dimensioni sproporzionate della torre, forse per il materiale che la componeva o forse ancora per una semplice vendetta divina che la sua voce fu amplificata all’inverosimile e tutti sentirono. Il Rabbino ebbe un malore e fu portato via in tutta fretta da quattro persone. Aveva capito che era stata trasmessa in mondovisione e che in quel momento almeno tre miliardi di persone, se non di più, sapevano che lui l’aveva pronunciata. Un brutto modo per passare alla storia, non lo stesso sognato fino a soli pochi minuti prima.
La folla era confusa e s’interrogava su questi incredibili eventi. Dalla folla spuntò un uomo vestito con una tunica ed un boato esplose nelle campagne “Inshallah!”. L’uomo si gettò a terra, sottomesso, e si mise a strisciare gridando versi del corano. Era Ruhollah Khomeini III, l’āyatollāh di Parma. Impiegò quasi un’ora per arrivare davanti alla soglia, ignorando l’immobile Arcangelo e la sua luminosa spada. Dopo essersi inginocchiato ed aver recitato il corano, con mani sanguinanti cercò di aprire la porta, invano. Un grido di orrore pervase la folla, molte persone si erano uccise alla vista di quell’ orrendo diniego.
Durante tutta la giornata ci fu un susseguirsi di personaggi che tentarono l’ingresso, testimoni di Geova, Mormoni, Avventisti, Battisti, persino i cultori di Rà, i Massoni di ogni ordine, addirittura Templari e Indù. Niente e nessuno smuovevano l’Arcangelo o la porta. La giornata trascorse con delusione e sgomento crescenti fra la folla, cosa sarebbe accaduto? Chi sarebbe entrato? Perché una torre così grande? Perché l’Arcangelo Gabriele sembrava trasformato in un’enorme scultura da quanto era immobile?
Il sole stava per tramontare arrossando grosse nubi sparse nel cielo e la schiera dei cherubini immobili. Nel mondo ormai non si contavano più le trasmissioni dove scienziati e teologi si affannavano per trovare una spiegazione logica a questi sconcertanti avvenimenti. Qualcuno parlò di differenza temporale, se sei immortale una settimana può essere paragonata ad un miliardesimo di miliardesimo di secondo, come spiegazione a tutta questa immobilità. Altri cercarono invano un riferimento nelle antiche scritture di ogni grande civiltà. Il mondo intero si era fermato in attesa che accadesse qualcosa e qualcosa finalmente accadde quando il sole iniziò a tramontare. Senza alcun preavviso l’Arcangelo Gabriele si mosse provocando un sussulto nella folla che circondava la Torre Divina. Si inginocchiò a terra e chinò il capo, tenendo alta la spada che mai aveva smesso di fiammeggiare. Dalla folla, molto lentamente, un vecchio, zoppicante e vestito di stracci, si mosse verso la torre. Ci fu chi urlò qualcosa ma fu subito zittito dalle persone vicine intimorite dalla reazione dell’Arcangelo Gabriele. A testa bassa il vecchio continuò il suo lento cammino fermandosi solo una volta, giunto in prossimità del gigante alato. Questo inchinò ancor di più il capo quando il vecchio, con non poca fatica alzò il braccio destro in quello che sembra un saluto. Qualcuno giurò di averlo visto parlare ma la distanza era troppa perché si potesse sentire qualcosa. Il vecchio zoppicante proseguì il suo cammino e quando fu giunto a pochi metri dall’immenso edificio tutti udirono il suono di una porta antica che si spalancava. Subito dopo fu luce ovunque. Quando dopo alcuni minuti tornarono a vedere l’Arcangelo era nella sua originale posizione e la porta era nuovamente chiusa. Ma qualcosa stava accadendo, due bambini, piccolissimi, stavano camminando, per mano, in direzione dell’Arcangelo Gabriele. La folla dapprima rimase sbigottita, poi qualcuno gridò: “Fermateli!”. L’Arcangelo fece roteare quasi minaccioso la spada fiammeggiante producendo il suono di mille roghi davanti al quale tutti si azzittirono. Con passo traballante ma con andatura decisa i due piccini raggiunsero la porta che nuovamente si spalancò abbagliando tutto e tutti. Un istante dopo i cherubini planarono sulla torre ripetendo la danza volteggiante della settimana precedente. L’Arcangelo Gabriele, dopo essersi accertato che anche l’ultimo dei cherubini fosse rientrato nei celestiali ranghi, spiccò il volo e scomparve, con loro, in cielo, al suono di milioni di trombe che emettevano la stessa nota. Tutto si era concluso con rapidità, lasciando sbigottita la folla che si aspettava qualcosa di clamorosamente divino e che invece aveva assistito a qualcosa d’incomprensibile. Lentamente ed in silenzio la gente iniziò a tornare verso le proprie case.
Erano passate poche ore ed in tutte le televisioni della terra era andato in onda uno spettacolo a cui nessuno riusciva a dare una spiegazione logica.
In una piccola televisione privata quattro persone discutevano animatamente su quanto accaduto. Dopo ore di discussione si aggiunse un vecchio al dibattito. Era un professore di filosofia in pensione, si sedette su di una poltroncina ed attese paziente che gli altri ospiti finissero con le loro congetture.
“Come ha detto il Papa nell’Omelia di questo pomeriggio la spiegazione è semplice, non era il nostro Dio ma semplicemente qualcos’altro. Dio è misericordioso e non avrebbe mai permesso che il suo rappresentante in terra, che sempre ha vissuto nel Dogma, venisse così umiliato, davanti a miliardi di persone.”
“Come Ebreo posso assicurarvi che quello che abbiamo visto non può essere conducibile a Colui che ci ha scelti come popolo eletto. Forse si è trattato di una divinità minore o semplicemente di un fenomeno d’isteria collettiva.”
“Allah è grande! Nessuno dei profeti aveva previsto questo episodio quindi non può essere dovuto all’Essere Supremo, al Misericordioso. No! Non è possibile! Con molta probabilità si è trattato di Satana in persona che ci ha ingannati perché peccatori.”
“Se fosse stato Geova ci avrebbe condotti in paradiso, lasciandovi qui a soffrire le pene dell’inferno scatenato dall’Armageddon. No, anche secondo me era Satana che si è preso gioco di noi e della nostra semplicità di peccatori.”
Finalmente la parola andò al vecchio filosofo, prima di parlare scosse la testa, poi disse: “Sono un povero vecchio, i sensi forse m’ingannano ma la mente è ancora sveglia ed in grado di capire ciò che vedo. Sicuramente mi sbaglio ed hanno ragione gli altri ospiti ma io ho visto, ho visto molto davvero.” Fece una pausa che lasciò tutti col fiato sospeso in attesa di sapere che cosa volesse dire.
“Ho visto quanto siamo piccoli, noi umani, davanti al divino. Quanto siamo accecati dalla nostra stessa immagine. Ho visto la fine di molte menzogne costruite dall’uomo per l’uomo. Una cosa però più delle altre, quel vecchio. Quel povero vecchio straccione è uscito dalla folla e si è diretto verso la torre. Che cos’ha detto l’Arcangelo Gabriele all’inizio? Fra sette giorni il Divino sarà qui. Qui! Ma non capite? È sempre stato fra noi!”.
Tutti si aggiustarono imbarazzati sulle proprie poltroncine protestando a bassa voce finché qualcuno non disse: “E i bambini allora?”.
Il vecchio sorrise: “E’ tutto così chiaro, così semplice che non riuscite a capirlo. Due bambini, un maschio ed una femmina. Qualcuno con cui iniziare quello che con noi ha finito.”.
Quella sera, mentre in tutto il mondo si continuava a discutere sulla falsariga di quanto avevano dichiarato i presenti, solo nel piccolo studio televisivo, ricavato in un vecchio magazzino alimentare, era calato un pesante silenzio.

settembre 2006
 


 
il principe e il convivio 
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Mario Amato
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LA VITA E LA MORTE IN BIANCO E NERO
 
Più che difficile, raccontare una o più partite a scacchi, è noioso, soprattutto per chi non conosce questo gioco, che in realtà è molto più di un gioco. Esso fu avversato dalla Chiesa, perché distraeva da pensieri più alti, non fu amato da Goethe, che riteneva che impegnare la mente in un semplice gioco significava sciupare energie cerebrali inutilmente; anche in una bellissima poesia di Pessoa troviamo la descrizione di due giocatori talmente impegnati in una partita da non avvedersi che intorno a loro è scoppiata la guerra, le case bruciano, i figli vengono deportati, le mogli uccise..
In questi giudizi negativi è tuttavia insita la grandezza del gioco degli scacchi, simile alla guerra e alla vita, come ben ci spiegano alcuni grandi scrittori. Ne “La novella degli scacchi” di Stefan Zweig (1), sua ultima opera prima del suicidio avvenuto il 22 febbraio 1922, il dottor B. incontra, durante un viaggio in nave, il campione mondiale di scacchi, che è un uomo rozzo ed ignorante, ma insuperabile in quel gioco, e riesce a tenergli testa. Come può accadere? Il dottor B.. racconta la sua storia: arrestato dai nazisti, egli viene torturato, ma non fisicamente, bensì nell’anima. È imprigionato per giorni, forse per mesi, in una stanza completamente vuota, non può parlare con nessuno, non può scrivere né leggere e di tanto in tanto viene condotto in un ufficio, ma nessuno lo interroga; egli siede per ore, ancora in silenzio, e poi, sempre in silenzio, ricondotto nella stanza vuota. La speranza, egli confessa, era che qualcuno lo interrogasse, addirittura lo torturasse, per poter urlare, per poter accorgersi di essere vivo.
Questa terribile speranza ci immette in un orrore che solo chi ha provato il male assoluto può descrivere: gridare di dolore per sentirsi vivi! Trovarsi di fronte al proprio nemico per sapere di essere ancora un uomo! Quale disperazione maggiore si può immaginare? Il niente assoluto è simile al male assoluto. Tale niente assoluto lo ha ben narrato Elie Wiesel, sopravvissuto al Lager di Buchenwald, nel romanzo “Il quinto figlio”(2), in cui uno scrittore viene incarcerato e interrogato; qui siamo però nella Russia sovietica e staliniana. Il KGB cerca di sapere nomi dei dissidenti, senza successo, finché lo lascia solo nella sua stanza, ma mette sul tavolo carta e penna. Dopo lungo tempo, lo scrittore cede alla tentazione e scrive le sue memorie.
Da una parte abbiamo una stanza vuota, dall’altra delle pagine bianche. Il dottor B. si salva dalla pazzia grazie ad un libro, il quinto figlio cade nella trappola. Ambedue i libri parlano di tirannia e di dolore, dolore non fisico ma spirituale, perché ogni dittatura ha lo scopo di spezzare gli uomini nell’anima.
Al dolore è legato il primo romanzo di Paul Mauresing La variante di Lunebürg”(3), storia di una rivalità fra due esseri umani, iniziata sui banchi di scuola delle scuole elementari e protrattasi per tutta la vita. La rivalità si gioca sulla scacchiera e leggendo il libro si comprende perché nessun giocatore di scacchi userebbe mai l’espressione “giocare una partita”, ma piuttosto “fare una partita”.
Sia il libro di Zweig che il libro di Mauresing non sono narrazioni sul gioco degli scacchi, ma su ciò che è essenziale nella vita, e sulla sua vicinanza alla morte. Gli scacchi rappresentano, nell’uno e nell’altro caso, la lotta eterna fra il bene ed il male, come forse era nell’intenzione dello sconosciuto inventore di questo gioco. È – dice il narratore de “La variante di Lunebürg – lo sport più crudele che esista. Tale crudeltà è ben evidente in un racconto di Arrigo Boito del 1862 intitolato “L’alfiere nero”, in cui un uomo bianco, George Andersen, e un uomo di colore, ex schiavo, si sfidano in una partita che dura un’intera notte. La partita ed il racconto hanno un tragico epilogo.
In tutte queste narrazioni l’argomento non è il gioco, ma la vita, che mette a volte di fronte a situazioni inimmaginabili, a emozioni, paure, speranze, memorie. Gli scacchi, ha detto un mio amico, buon giocatore, sono uno stato d’animo. Fernando Pessoa e Johann Goethe lo sapevano, ma forse avevano torto: nel museo di Verdun, teatro della più sanguinosa battaglia della prima guerra mondiale, c’è una piccola scacchiera spezzata a metà da una granata; i due soldati che fecero qualche partita dimenticarono per un piccolo lasso di tempo la morte e la follia intorno a loro e forse si riappacificarono con la vita.

1) Zweig, Stefan, La novella degli scacchi, Garzanti, 2004
2) Wiesel, Elie,Il quinto figlio, Giuntina, 1993
3) Mauresing, Paul, La variante di Lüneburg, Adelphi, 1993