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Mario Amato
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POESIE
 
Bello era il tuo viso

Bello era il tuo viso
In quella domenica
Di pioggia grigio
al lucore dei ceri
Votivi
Bello era il tuo viso
giovane
Assorto in pensieri
Ninnati da litanie
Di donne di nero
Da secoli vestite


Mi sono seduto su milioni di panchine

Mi sono seduto su milioni di panchine
Di fronte al albe ed indifferenti tramonti
Ad ascoltare il meditabondo spezzarsi
Del mare e dei miei pensieri su sfuggenti
Scogli

Mi sono fermato in milioni di taverne
Cercando l’antico idioma antico del cuore
Ed un sorriso che la vita scaldasse
Come l’intimo camino delle fiabe

Ho percorso milioni di sentieri
Verso un mondo altro ove
Sempre primavera s’alterna
A primavera

Ho sfiorato milioni di tacite
Vite chiuse ora entro la mia
Piccola vita

Ho lasciato milioni di parole
Su milioni di panchine
Solitarie..


Su una panchina del Nord

Su una panchina del Nord
Ho ascoltato rapito
Di fronte a bianche onde
Il nordico stridío dei gabbiani

Su una panchina d’Oriente
Ho fantasticato fiabe
E mondi a venire

Su una panchina del Sud
Mi ha preso lo struggimento
Infinito di secoli trascorsi

Su una panchina dell’Occidente
Ho sognato di essere Odisseo
Ed ho varcato mille e mille volte
Le colonne d’Ercole
 


 
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David Ballerini
 
A GIOVANNI
 
Dal tuo scarno deserto laggiù, caro
Giovanni, saluti per te, felice
con poco: la sabbia che pesti rena
non è di spiagge

ridenti. Sotto la volta del cielo
quanto piccola morte d’un di noi
senza che nulla risolva; ma fresco
di forno il pane,

ridenti le stelle, l’acqua gelata,
i frutti sui rami per sempre conosci,
lieto Giovanni: la vita in un breve
orto fiorito

sta come l’ape nel cuore del fiore;
ecco, tu porti parole di vita.
Grandine, grandine grande, Giovanni,
invece calpesta

il nostro giardino quassù: solo terra
sconvolta ci resta di quella nicchia
felice —piccola piccola e nostra —
dove fiorimmo

senza sudore né doglia di parto.
La notte è la porta del cielo: l’uomo
felice vive vicino alle stelle;
costellazioni

di lucciole in terra stendon sui campi
un velo di cielo nell’orto concluso:
nell’orto concluso portan gli allegri
bisbigli delle

loro celesti sorelle; vi portano
arcani i fitti disegni del cielo...
E vegliava sopra noi la luna, sopra
la calma piatta

del mare assopito e silente, chiara,
amandoci stretti, sciolti nudi e puri
nel tiepido abbraccio dell’acqua, fino
a che Morte non ci

separi... Ma se un amore, Giovanni,
perde i suoi anelli, cosa vuol dire?
Che il Paradiso perduto è perduto
per sempre, o forse

tutto rinasce da nulla? Rammenti..?
Tu, padre severo, ridente in riva
a quel mare, bagnavi la fronte ai figli,
per prepararli

al gelo più grande dell’acqua. Tu, poi,
partisti. Cambiasti l’odore stucco
del cocco con l’acre negrizia arsa
dal greggio; sabbia

secca di deserto invece che rena
marina: ai pozzi lontano costretto,
in tasca portavi il tuo regno; vivevi,
a vivere i figli,

una vita contratta da zecca. Pieno
ora di buche, Giovanni, è il tuo scarno
deserto: empiamo le buche col sangue
nero. Con fare

di stanco pendolare pellegrino
tra coltre di grigia umida nebbia-
la gente assopita, le teste senza
forza che ciondolano

(sotto l’ispida barba l’occhio
rosso del controllore spia senza
provare pietà quel gran affollarsi
al treno, sì come

di bestie vogliose al macello)- a bere,
tra gli altri suoi pari, Giovanni avanza,
parla senno e dice: gli anelli sono
ruote d’aratro

alla vita del seme; un seme che muore
è un seme che vive, nell’orto concluso.
Ma quest’orto concluso cos’è? Solo
un inganno vecchio

di maghe; un miraggio sempre che fugge
dell’arcobaleno; un laccio, una redine
d’oro per te: mai nessuna siepe,
nessuna chiostra

di monti né riva di mare salva
i semi dell’uomo dal lungo mangiare
e succhiare del tempo. Ma è nel tempo
lieto, fiorito,

che l’orto concluso sempre germoglia
da te: per l’uomo felice nel tempo
di sotto al lento girare gentile
ch’è della pallida

luna, sotto al mormorio stellato
dei cieli, ogni più scarno deserto
è sempre come fertile terra, orto
ovunque fiorito

per te. Adesso le buche son vuote:
Giovanni ha detto parole di vita;
resta il silenzio. Domani un virgulto
germoglierà.


David Ballerini
(1995 circa -2003)

 


 
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Alessandro Adriano
[ adriano@comune.cosenza.it ]
 
IN FORMA DI DIARIO
ad una passione in corso
 
31 dic. 2000 – pomeriggio

Sto ripensando a quanto ci siamo detti questa mattina. Non so se debbo essere arrabbiato con me stesso o deluso per i miei propositi puntualmente mancati le mie teorizzazioni dissolte in questa livida giornata che, pure, promette neve e non mantiene.
E’ vero, ho una motivazione indiscutibile: debbo, voglio dedicarmi di più a mio figlio e tu sei impegnativa, entri dentro ti insinui. Non ti limiti a piacere, ti fai sentire sei presente sempre il desiderio di te riduce di molto la capacità di ragionare distrae dalla quotidianità: e tutte queste cose, belle ricche auspicabili, obbiettivi e speranze della vita di ogni persona, non solo ornamenti di una esteriorità esibita necessari per spiriti vanitosi, tutte queste cose sono incompatibili (quanto?) col rapporto che sto cercando di costruire con mio figlio.
Arrabbiato e deluso perché malgrado le mie convinzioni sull’iniquità di una vita fatta di scelte – e quindi di rinunce – in momenti importanti come questi trascorsi con te diventa tutto inutile tutti gli sforzi fisici (si, fisici come è fisico il dolore procurato dalla rinuncia a qualcosa che si desidera ardentemente) le elaborazioni intellettuali (non ho mai capito se precedono – cercando di provocarla – la passione o se rappresentano tentativi di giustificazione a posteriori dei propri “cedimenti” sentimentali) le incombenze spirituali ( come siamo bravi a dissezionare la nostra anima quando non troviamo altro modo per evitare la sofferenza – anche per questo preferisco la fisicità, non è scomponibile e non ti permette di fingere con te stesso, potrebbe essere interessante mettere a confronto le tecniche di controllo dello spirito e quelle per la sopportazione del dolore), non riescono a deviare dalla sua traiettoria ciò che è stato già deciso (ma da chi se non da te stesso? È inutile cercare responsabili al di fuori di te stesso): rinunciare ad una cosa bella, scegliere tra due cose belle, ma quel che più ti sgretola è che le due cose non sarebbero incompatibili non sono incompatibili, e allora perché scartarne una? (dio che brutto termine eppure è quel che accade: scarti getti nel cestino non quel che non ti serve o non ti piace o ti impedisce di dedicarti ad altro (!?) bensì quel che compete per bellezza con l’altro ma per un motivo inspiegabile non ti è consentito (tu non ti consenti) di goderne), quesito escatologico di un’età che ha abbattuto molti muri confini limiti ma non quelli interiori gli ostacoli che un uomo deve superare per dare senso alla propria vita: e non si dà senso rinunciando al bello a ciò che fa fremere il proprio corpo accendere il proprio intelletto levitare lo spirito, né consola sapere che lo si fa per gli altri finché l’evoluzione del costume della morale delle capacità di pensare rimettendosi sempre in discussione non libererà ognuno di noi dal “giudizio degli altri” catena formidabile della vita sociale (immagino l’obiezione: “non si impostano rapporti sociali se non ci si forma un giudizio degli/sugli altri”, ma è l’emersione del giudizio che incatena portarlo in superficie attraverso un processo di razionalizzazione schemi precostituiti parametri “condivisi” anziché lasciarlo nel territorio delle sensazioni laddove sfuma il limite tra corporeo ed incorporeo laddove diventa insondabile alla ragione a meno di ricorrere alla contaminazione della parola che tutto inquina – o, se il termine ti dà fastidio, trasforma – e che – per colmo d’ironia – può costruire concetti all’infinito affermando e negando contraddicendo continuamente fino a quando – come nella ruota della fortuna – non decidi di fermarla e può non dipendere dalla tua volontà se la fermi sul nero o sul bianco ma dal tuo umore dalla tua cultura dalla tua luna dal tuo stato di salute ecc. ecc., e questo giudizio così emesso/emerso deciderà della vita (ai tuoi occhi) di una persona di un mondo fatto di storia personale di sentimenti di opportunismi magari anche ma comunque di qualcosa non riducibile non semplificabile non comprensibile attraverso “un giudizio”), ma purtroppo non posso farlo da solo farei soffrire troppe persone eppure se non lo faccio non contribuisco alla loro emancipazione (mi dirai che è presunzione pura…), aiutare, intendo, a sprigionare ciò che è compresso dalle convenzioni che legano la nostra ragione e irridono i nostri istinti che non sono mai animaleschi come vogliono far credere tutti quegli ipocriti che inibiscono dall’abbandonarsi ad essi pena chissà quali tormenti infernali mentre è particolarmente denso di significato farlo, rivela di noi stessi molto più di quanto si riesca a capire conducendo un’intera esistenza repressa, rivela combinazioni dei nostri tratti caratteriali delle nostre componenti più raffinate la cui ricerca è stata delegata – confinandola – dal puritanesimo occidentale ai psicanalisti come se esibire i nostri istinti – “soccombere” ad essi, secondo il fariseismo dominante – fosse una malattia, ma l’istinto è una memoria che ha codici di comunicazione misteriosi non è quella reazione irrazionale nel senso di “non umano” e quindi di animale che si vuol far credere (ma anche negli animali è tutt’altro che “irrazionale”), forse incomprensibile, incomprensibile si … ma mi accorgo che sono giunto ad un punto in cui ogni concetto è ovvio banale scontato. Che sia arrivato alla verità?
Eppure ti voglio


Primi di gennaio 2001
inizio millennio? – in barca con amici

Non ti ho chiamata per farti gli auguri di buon anno. E’ segno che non mi sei indifferente. Il tempo non è bello, di tanto in tanto piove, ma la temperatura consente di veleggiare senza coprirsi troppo. Briatico Tropea Capo Vaticano assistono alla navigazione di questo scafo azzurro che sembra non avere meta né fretta. Va avanti e indietro pigramente con persone che a volte parlano a volte tacciono. Io, più spesso, penso. A te. Alle tue mani, alla tua bocca, al tuo corpo che una ritrosia inspiegabile a volte mortifica. Al tuo piacere che mi piace provocare e al mio piacere che trova appagamento completo nella tua disponibilità. Ho qualcosa che mi gira in testa. In questo momento c’è tutta la gamma dei grigi che ci circonda, nuvole basse, il loro riflesso sull’acqua, la costa altre volte brillante di toni rossoverde e adesso indistinta come una pennellata sporca di cenere. Tu non hai nulla di grigio. I tuoi occhi il tuo collo i tuoi seni le tue cosce le natiche morbide nelle linee ma sode al tatto la tua splendida … (come la chiamerebbe un poeta? Bisognerà pur trovare un termine che non suoni volgare – nel senso di nome volgare, comune – ma nemmeno ridicolmente aulico). Ripercorro con la mente i tuoi fremiti il tuo modo di concederti anzi di darti – gli schizzi d’acqua che ogni tanto mi raggiungono non sono freddi – ma ho bisogno di distrarmi la mia eccitazione sta diventando troppo evidente. Cos’è che non vuole uscirmi dalla testa? Vado al timone così la mia assenza è notata meno. Ieri sera abbiamo ormeggiato a Troppa. Abbiamo deciso di cenare su al paese. Li ho lasciati andare tutti avanti. Ho voluto rimanere solo con te. Abbiamo fatto l’amore. E’ stato meno bello del solito. Ho capito finalmente cos’è che mi tormenta: vorrei che fossimo insieme


Roma – fine gennaio compleanno M.

Che meraviglia di città anche con la pioggia se hai una persona a cui pensare non avvertirai mai la solitudine in questa aggregazione di paesi ma se hai la mente libera, vuota di piacevoli sconfinamenti se non hai qualcuno dubitare del quale ti faccia soffrire allora ti sentirai solo come in nessuna altra città.
Festeggiamo al Testaccio in un simpatico locale di musica latinoamericana. Sono trascinato nella folla in un tentativo di ballo subito abortito. Troppa gente. Accetterei soltanto di ballarvi un lento con te stringendo il tuo corpo aderente inalando il profumo della tua pelle sfiorando con le labbra la morbidezza del tuo collo riuscendo a reprimere la voglia di assaggiare la tua lingua succhiare le tue labbra con la certezza di poterti mangiare dopo la festa per tutta la notte di possederti… in questo caso che sia Roma mi sarebbe del tutto indifferente.


2 marzo lo so è il tuo compleanno Cosenza

Non ti ho più chiamata. Neppure per farti gli auguri di buon anno. Mi assalgono sensi di colpa forse non sono stato sufficientemente chiaro avrei voluto accertarmi che ci fossimo intesi bene senza travisamenti non mi va di essere considerato uno stronzo anche perché non lo sono. Ho voglia di chiamarti ma non per questo… si, anche per questo … ho voglia di gustarmi il tuo corpo nudo stringerlo accarezzarlo baciarlo possederti voglio essere preso da te che tu mi desideri che mi chiami per dirmi “oggi voglio essere tua” e un altro giorno “ti voglio, oggi voglio che tu sia mio” continuando una storia nostra solo nostra fuori dal tempo e dallo spazio delle nostre rispettive quotidianità. Perché consegnare ad altri la nostra passione l’intimità del nostro piacere? Non so se ti chiamerò ma non posso sopportare l’idea che tu mi creda insensibile. Non ho smesso di pensarti non ho smesso di desiderarti.
Grazie per avermi telefonato! Spero che i fiori ti abbiano fatto bene come ha fatto bene a me risentire la tua voce dolce. Se mi avessi chiesto di raggiungerti sarei volato da te, ma forse avrei chiesto troppo alla vita.


Pasqua 2001 – Portoferraio in barca

Questa volta ti telefonerò. Non resisto più al bisogno di sentirti ma mi spinge anche il bisogno di “farmi sentire” da te. Il tempo ed i luoghi sono straordinariamente belli e come tutto ciò che è bello ti crea un tale trasporto di sentimenti che devi assolutamente comunicare a qualcuno. Ma in questo caso il mio essere era già ipersensibile e il tuo pensiero immanente già da molto tempo riempie il mio splendido isolamento ma mi manchi tu, da toccare.

Il giorno dopo, anzi la sera.

Navigato con 35 nodi. Vento da nordest. Dopo un inutile tentativo di navigare verso La Spezia cambiamo rotta. Pericoloso provare ad atterrare a Macinaggio, con questo grecale si rischia di non poter nemmeno entrare in porto. Telefono al velaclub di Marciana Marina per accertarmi che lì si possa ormeggiare e facciamo vela col vento al giardinetto. Malgrado il mare grosso mi fido a lasciare M. ed A. al timone e scendo in cabina a riposare un po’. Una grande straorzata e manovre molto rumorose mi consigliano di tornare in coperta. Le condizioni non sono delle più rilassanti ma con i ragazzi ci divertiamo un mondo con lunghe planate. La barca è magnifica. Per entrare in porto dobbiamo effettuare alcune strambate e, anche con la randa terzarolata, bisogna fare molta attenzione. Al pontile ci accolgono con grande rispetto. Siamo i soli ad essere usciti in mare con queste onde e questo vento. Incoscienza calcolata. Dopo la burrasca si apprezza molto di più essere al sicuro, ormeggiati. Anche il cacciucco lo apprezzi di più. Non so se questa è metafora della vita ma se è così, con te il significato è capovolto: vorrei poter navigare di nuovo con te e spero di averti trasmesso questo mio sentimento ieri sera al telefono. Se cambia il vento domani ci riproviamo.


31 DICEMBRE 2001 – UN ANNO ESATTO!

Perché ho lasciato che trascorresse tutto questo tempo senza scriverti? Ho paura di darmi una spiegazione. Di certo non ti ho dimenticata né è diminuito il desiderio di te. A volte mi dicevo che ti avrei telefonato, poi che avrei preferito scriverti, e poi accadeva qualcosa che me lo impediva, e poi… e poi…
Ho trascorso mesi di grande stanchezza. Non sarei stato piacevole né di persona né per iscritto. Adesso mi sto preparando per godermi in piazza con mio figlio quest’ultimo giorno dell’anno. So già che questo mi basterà ma vorrei avere di più e quel “di più” ha la tua materialità e le tue labbra. Il tuo nome: Fra i propositi che si fanno per l’anno nuovo c’è quello di completare questo quadernetto e consegnartelo per il tuo prossimo compleanno. Dovrebbe farti piacere. Ma so già che sarà molto difficile mantenere questo proposito. Il mio lavoro giornaliero ed i miei problemi ordinari mi provocano pigrizia e mi svuotano. E poi mi accade spesso che quando provo a scriverti il tuo desiderio si impossessa di ogni mia facoltà e divento come un bambino balbuziente che davanti ad una forte emozione è incapace di parlare. E’ quel che mi è accaduto quando ti ho vista alla festa del “novello “ a Torano. Salutarti toccandoti sentendo il tuo profumo il sapore della tua pelle e il suono della tua voce mi ha fortemente turbato. Forse non lo hai notato (sono bravo – che stupido! – a trattenere le mie emozioni) ma non ho più preso parte al rito della compagnia. Avrei voluto che noi due ci appartassimo fuori al freddo dietro un albero per fare l’amore come due adolescenti. Invece sono rimasto come uno scemo a chiedermi “chissà cosa pensa della mia apparente indifferenza”. Quella notte credo di essermi masturbato.


Gennaio 2002

E’ finito il primo mese del nuovo anno e come temevo non è cambiato niente nemmeno la mia pigrizia. Ma sento la necessità di scrivertelo: con la mia anima ci provo ma il prossimo 2 marzo non riuscirò a mantenere la mia promessa. Mi piacerebbe vederti per sapere della tua vita di quest’anno trascorso senza che le mie mani e le mie labbra abbiano più percorso il tuo corpo. Vorrei che me lo permettessi ancora ogni qualvolta tu lo desideri. Ci risiamo, penso ai nostri momenti di godimento al tuo corpo che si inonda di piacere… e non posso più scrivere


Aprile 2002

Stiamo portando giù la barca di un mio amico, da Genova. E come tutte le volte, fuori dai mesi estivi, il mediterraneo è magico, tutti i bei posti lungo i quali facciamo sosta ci si presentano nel loro splendore senza tempo. Recuperiamo la leggerezza della nostra vita e ci chiediamo perché non continuiamo a navigare per i prossimi due mesi. No, non me lo chiedo, ma il mio spirito riprende a volare riflessivo sulla mia vita con prudente distacco (saggio?), sulle cose che l’hanno resa bella e potrebbero ancora renderla bella. Tu – naturalmente – sei fra queste. La mia passione ha un sussulto al pensiero che tu potresti essere qui a rendere tutto ancor più bello, fare l’amore con te nelle notti di navigazione mentre il resto dell’equipaggio è su nel pozzetto a governare la barca tu ed io abbracciati a confondere lo sciabordio delle onde con i nostri gemiti di piacere. Credo che dormiremmo poco… Vorrei guardarti negli occhi per cercare di capire se hai ancora voglia come me di fare l’amore, tu ed io. La prossima volta che ti incontrerò…


Santa Manza – Corsica – agosto 2002

Se ti continuo a pensare qualche ragione ci deve pur essere. Cos’è che mi lega a te? Il ricordo di un breve ma intensissimo periodo in cui abbiamo fatto tutto ciò che una coppia fa nel corso di anni? La passione che sicuramente c’era e certamente c’è ancora (almeno per me)? Un sentimento che si è rivelato dopo troppi anni dal nostri primo incontro? E che nome dare a questo sentimento? Qualunque definizione io provi a dargli mi sembra insoddisfacente. Forse quello che più mi … piace(?) … è “incestuoso” … non arrabbiarti … non ti considero una sorella, mi piace troppo scoparti, né l’amore che provo per te può dirsi fraterno ma non è nemmeno travolgente (è da molto tempo ormai che nulla mi travolge più …), lo è più la passione, ma è purtuttavia un persistente erosivo stimolante pacifico pensiero che si manifesta in momenti importanti ed in altri insignificanti, insomma sei qualcosa che è irreversibilmente dentro di me. Oggi, per esempio (siamo ormeggiati a Santa Manza con vento forte), è accaduto qualcosa che poteva avere conseguenze spiacevoli. Mio nipote facendo kite surf stava finendo sugli scogli insieme a mio figlio che lo assisteva col tender rovesciato dal vento. Per recuperarli ho alato rapidamente le due ancore ( a mano quella di rispetto, risvegliando un vecchio stiramento alla schiena) e, a motore, mi sono precipitato a trainarli col rischio che i fili del kite si attorcigliassero attorno all’elica trascinando anche la barca sugli scogli sottovento a cui ci eravamo pericolosamente avvicinati. E’ andata bene. Ed ora sono qui a scriverti. Questo episodio credo rientri fra quelli importanti, nella categoria “fare esperienza”, sperando che servi davvero l’esperienza, tra noi è servita? Non so darmi risposta, sapevo che mi sarebbe piaciuto prendermi cura del tuo corpo e del tuo erotismo, non pensavo che mi avrebbe così tanto coinvolto, vorrei riprovarci, ormai ci conosciamo bene perché non mettere a frutto l’esperienza? Ci riproviamo? io non sono geloso ed i rapporti totalizzanti mi insospettiscono, quantomeno … diamoci piacere diamoci al piacere siamo maturi per farlo, da parte mia ho lasciato trascorrere anche troppo tempo trascurandolo e ti assicuro che non ne vale la pena, è protervo verso se stessi sottrarsi al piacere è arroganza pensare di poterne fare a meno così come lo è procurarselo irresponsabilmente, noi possiamo farlo senza correre alcuno di questi rischi. Riproviamoci. Il vento continua a soffiare forte, la barca brandeggia ma non mi distrae da te. E le stelle sembrano infischiarsene di qualche nuvola che di tanto in tanto le copre. I ragazzi dormono già da tempo, spossati dalla loro esperienza odierna. Noi non ci faremo spossare dalla nostra, vero?


Porto Vecchio – Corsica – agosto 2002

E’ un brutto carattere quello che non dà stimoli ad ottenere sempre di più dalla vita? Guarda me: sono in uno dei porticcioli più belli del mediterraneo, con una bella barca ed in compagnia di mio figlio. Si potrebbe dire che non posso non essere felice. E in effetti sto bene. Ma è lo stato di chi si fa portare dall’onda. Però, avessi un altro carattere, mi darei da fare per avere di più. Perché so che potrei averlo (è così? …). Naturalmente si tratta di te. So che potrei essere ancor più felice se fossimo insieme: mangiamo del buon pesce insieme beviamo del buon vino insieme ci gustiamo questi bei posti insieme ci isoliamo a leggere un buon libro e poi ci ricongiungiamo e ci stanchiamo in lunghe passeggiate insieme fino a quando non suggelliamo (i cattolici direbbero “santifichiamo”… se non sapessero quello che sto per dire…) tutto questo stare insieme con un sano sudoroso faticoso fantasioso leccoso sempre rinnovato e gioioso AMPLESSO.
Eppure il mio carattere mi dice: “accontentati”, anche se il mio spirito scalpita e vorrebbe pervadermi tutto per spingermi ad ottenere quel che so di desiderare.

Lo so, sto parlando troppo di me stesso, anche se sei tu lo/la “stupefacente”. Ho avuto l’impressione che tu fossi uno scrigno colmo di tesori ma irrimediabilmente chiuso in attesa che qualcuno (non chiunque, beninteso) scoprisse di avere la chiave giusta per aprirti. E nel momento in cui ho creduto di averla io quella chiave ti sei manifestata con bagliori forti quasi accecanti. Riconosco di essermi disorientato. Anche perché la tua volontà di odiare mal si concilia con la tua maturità sessuale. Si, dicono che facciano parte della femminilità gli eccessi dei sentimenti. Vorrei approfondire il concetto, è troppo complesso per liquidarlo con un luogo comune. Ma ho finito il mio tempo. Alla prossima.
P.S. Come mai, pur avendo da molti anni acquisito consapevolezza della preziosità del tempo, non ho fatto nulla non dico per fermarlo ma nemmeno per rallentarlo? Ho creduto di vivere facendo cose importanti o ritenendo che tali sarebbero diventate prima o poi ma faccio fatica a mettere insieme un bilancio che riempia almeno una paginetta di cose che abbiano un loro senso vitale e in cui io abbia avuto almeno qualche merito. Mi consolo dicendomi che non ho memoria.


S. Teresa di Gallura – agosto 2002

Siamo in porto. Da troppo tempo. Dopo una rapida puntata in Corsica siamo rientrati a S. Teresa e trascorriamo le nostre giornate ad attraversare la Sardegna da una costa all’altra. In macchina… Facciamo vita mondana, una noiosissima barbosa inopinata (e costosissima…) vita mondana, ospiti ora di un amico ora di una altro ora restituiamo gli inviti ecc.ecc. Persone piacevoli, care, bendisposte verso di noi. Ma a me piace navigare siamo nel paradiso della vela in posti creati apposta per veleggiare in una barca fatta per veleggiare e che si vede soffrire mortificata a dondolarsi alla banchina mentre le sue sorelle cugine nipoti lasciano gli ormeggi e riempiono le Bocche contribuendo a creare uno spettacolo sempre diverso che corrobora lo spirito ma intristisce chi vorrebbe e potrebbe trovarsi lì con loro. Supero il dispiacere. In fondo mi sto riposando ed è quel che mi serviva. Penso che il rientro sarà ancor più duro del solito. Mi aspettano mesi di intensissimo lavoro, nuovo sindaco nuova amministrazione nuova attività tutta da impostare. Ma soprattutto so già che farò fatica a rimettermi a scrivere e dovrò rimandare ancora il completamento di questo quadernetto e quindi la possibilità di riaverti. Si, perché è una specie di fioretto quello che mi sono imposto: se c’è la possibilità di riprendere un rapporto con te, anche se sporadico ( ma mi piacerebbe almeno frequente…), questa passa per una dimostrazione di attenzione verso di te ma anche mia interiore di convinzione che ti voglio non soltanto col corpo ma anche con la volontà del pensiero e della determinazione. Diciamo pure che mi sono rincoglionito e che in nome di non so più che cosa assumo atteggiamenti masochistici rinunciando ad una donna come te ed esponendomi all’irrisione del tribunale dei Maschi! Troverò la forza di rinsavire?


Cosenza – settembre 2002

Ci siamo. Il bollettino dà profonda depressione sulla terra ferma (ferma perché? Per la fermezza dei propositi no di certo, per l’immobilismo della volontà si purtroppo!) e profondissima è la depressione che blocca tutte le mie facoltà. Vorrei chiamarti per sapere se hai registrato le mie comunicazioni telepatiche, se desideri ancora le mie carezze, se hai trovato chi ti sa far godere come me (meglio di me?), se sentendo la mia voce il tuo corpo si scioglie, se le tue reazioni sono lente o immediate (non so cosa sarebbe più positivo per te…), se la prospettiva di rivedermi ti fa pensare alle piacevolezze dei nostri momenti insieme o se, invece, pensi alle ragioni della mia scomparsa (se tu mi dessi dell’idiota non potrei che essere d’accordo con te). Invece continuo con il darmi assente. Il rinvio, questa sciagurata irrecuperabile dissennata dissipatrice caratteristica umana! Figlia della ragione, anzi no, del ragionamento, di qualcosa cioè che dovrebbe derivare dalla ragione ma che dimostra come l’evoluzione umana porta in se tare diaboliche. Ed io rinvio. Rinvio il momento del tuo incontro, del ritrovarti, del rioffrirti me stesso per un momento un’ora una notte, va bene, ma quanta passione trasporto sintonia erotismo gratificazione piacere in quei momenti! e quanta debolezza nei momenti che adduco a me stesso per giustificare il rinvio: non ho tempo, il lavoro gli impegni gli appuntamenti, le relazioni da scrivere le disposizioni da dare l’organizzazione da garantire le scadenze da rispettare, tutto mi impedisce di chiamarti di invitarti a cena e poi a casa e poi a stare tutta la notte con me a passare ore a cercare nel sapore della tua pelle del tuo ventre del tuo sesso le ragioni della vita. La depressione si approfondisce ancora di più, il barometro scende vertiginosamente il bollettino prevede uragano. So già che non ti chiamerò. Continuerò a riempire questi fogli fino all’ultimo. Che stupido gioco (perché non strappare le pagine che rimangono, scrivere una pagina si ed una no, una ogni tre, finirla qui?…). Spero solo che quando ti avrò consegnato tutto questo inchiostro da leggere, tu…..


Cosenza – fine settembre 2002

Sto lavorando al “PSU” (Programma di Sviluppo Urbano), uno strumento amministrativo per l’utilizzazione dei finanziamenti dell’U.E. Siamo già in ritardo per la sua trasmissione alla Regione. Prevediamo di realizzare opere come il planetario, il completamento del viale-parco, ecc. Opere volute da Giacomo M. Solo ora comincio a riflettere sul significato della sua scomparsa. Sono trascorsi 5 mesi e l’emotività dei primi giorni, delle prime settimane(che se pure non impediva la consapevolezza che era scomparso un grande uomo certo impediva lucidità riflessiva) comincia a lasciare il posto alla razionalità. Sono tentato di giudicare (ma io non ho mai giudicato nessuno…) l’uomo alla luce dei miei rapporti con lui e mi vieni in mente tu: al mio posto lo avresti certamente odiato per come ha interrotto in un preciso momento il suo sentimento di stima nei miei confronti affibbiandomi colpe mai comunicate. Ma tu sai che io non concepisco l’odio e, forse, lo conoscevo così bene che, seppure con grande sofferenza, ho continuato a lavorare per lui con la stessa abnegazione di prima. E credo che questo mi abbia alla fine premiato se alcuni mesi prima di morire ha ritenuto di incontrarmi per dirmi che l’avevamo tirata troppo per le lunghe, che tutt’e due avevamo mostrato troppa intransigenza e stava per spiegarmi il suo comportamento quasi con atteggiamento di scusa,quando l’ho interrotto dicendo che tra noi non c’era bisogno di aggiungere altro e dandogli l’occasione per cambiare discorso chiedendomi notizie di me e di mio figlio.Avevo ritenuto che un uomo come lui per quanto ostico, spesso ingiusto secondo valutazioni standard, non meritasse di mortificarsi neanche con me che pure gli ero stato sempre e comunque devoto. Insomma, anche in queste mie considerazioni sei entrata tu con le tue ossessioni (?) la tua visione passionale della vita il tuo infinito bisogno di dolcezza il tuo manicheismo. Vorrei poterne riparlare con te…


Cosenza – ottobre 2002

Ciò che avevo cominciato a scriverti l’ultima volta doveva servire a dimostrarti quanto fossi impegnato ed il perché ero costretto a ritardare il completamento di questo quadernetto. Poi mi sono lasciato distrarre dal ricordo di G.M. e, soprattutto, dalle tue convinzioni. Sono certo che non ti dispiace l’accostamento, del resto anch’egli ti apprezzava. Non sono tuttavia certo di conoscere come la pensi oggi. E’ così tanto tempo che non parliamo che non so se hai cambiato visione del mondo, la considerazione del tuo prossimo, se sei ancora così poco indulgente con te stessa. Vorrei ascoltarti guardandoti negli occhi ed abbracciandoti stretta per non perdere nulla – né un lampo del tuo sguardo né un palpito del tuo cuore – del tuo complesso modo di comunicare. Però adesso girati. Ho voglia di baciarti la nuca tenere tra le mie mani il tuo ventre ed i tuoi seni sfiorare le tue labbra dolci con le mie dita troppo ruvide per essa. Perché non è più tempo di parlare i nostri corpi sono già oltre l’eco delle parole.


Novembre 2002 – Verona

Una al mese. Almeno una al mese. Se non mantengo almeno questo impegno di scriverti almeno una volta al mese merito di essere sfrattato dalla tua vita. Sono a Verona per una visita al ginocchio. Risonanza magnetica: risultato: escluso lesioni a legamenti e menisco. Suggerito comunque intervento artroscopico da fare il 23 dicembre in hospital day, dato che verrò a trovare mia sorella per le vacanze di natale. Non so perché ti racconto queste cose – te ne importa? Come spesso ti ho scritto, vorrei piuttosto parlare di te. Il fatto è che ho bisogno del contraddittorio. Da solo non riesco a costruire un discorso soddisfacente su di te. Ho bisogno delle tue interruzioni dei tuoi pensieri delle tue impennate caratteriali. Da solo tutto mi diventa artificioso se non frammentario. Del resto non ho la pretesa di conoscerti tanto da pontificare (a parte che non pontificherei mai per niente e per nessuno…). Solo quando possiedo il tuo corpo (parlo al presente perché non ho mai smesso di desiderarti…) sento di conoscere la tua anima, quando provoco il tuo orgasmo quando mi godo i tuoi spasimi di piacere solo allora sono certo che mi stai scoprendo i tuoi sensi metafisici il tuo spirito la tua capacità di comunicare attraverso la pelle. Non smettere. Ti prego


Verona – dic. 2002

Altro che semplice pulizia! Menisco era! e adesso mi tocca stampellare fino a fine gennaio e poi fisioterapia … che naturalmente non farò. In questo stato non completerò il quaderno non ti potrò cercare non ti potrò vedere non ti potrò… Eppure che voglia di. Fumerò antichi toscani leggerò di tutto lavorerò come al solito mi dedicherò ancor più a mio figlio troverò qualcuno che mi scarrozzi da casa al lavoro e dal lavoro a casa mi terrò lontano dal telefonino per resistere alla tentazione di chiamarti o mandarti sms. Eppure si avvicina un altro tuo compleanno. Ce la farò? Sto almeno mantenendo l’impegno di scriverti 1 volta al mese. Ma non vorrei scriverti cazzate tanto per riempire il prima possibile le pagine che ancora restano. E’ importante che la tensione sia come 2 anni fa … 2 anni! non è possibile… ho dovuto riandare alla prima pagina e leggere la data: 31 dic. 2000 pomeriggio!!! lo consideriamo un lungo anno sabbatico? Lungo quanto sarà necessario 365 + 365 + 1, 2, 3, 4, … giorni fino a quando ti telefonerò e ti dirò: Luisa ho qualcosa da darti, qualcosa che ti avevo annunciato un anno fa… Chissà cosa mi risponderai e chissà se lo leggerai o me lo tirerai dietro o forse lo cestinerai semplicemente senza nemmeno dirmelo senza nemmeno farti sentire più lasciandomi nell’eterno dubbio di avere continuato a dissipare il mio tempo senza neppure riscattarmi ai tuoi occhi. O mi chiamerai chiedendomi di vederci subito e ne discuteremo rinnovando nel corso di ore di piacere con i nostri odori mescolati i nostri sensi lentamente appagati…molto lentamente…rinnovando il gusto di possederci l’un l’altra raccontandoci di noi tra una carezza e l’altra sussurrandoci nell’orecchio – io nel tuo destro tu nel mio destro o preferisci il sinistro? – le cose che non possiamo dirci guardandoci negli occhi. Perché poi? invece ce le diremo a voce alta e ci guarderemo negli occhi e sorrideremo…


Fine gennaio 2003 – Cosenza

Cammino di nuovo a due zampe. Ma non salto. Non perché ne sia ancora impedito ma perché non ho motivi per gioire. La vita è più veloce di me, e con essa tutte le cose belle, te compresa. Non riesco a raggiungerti anche se con qualche artificio domani stesso potrei toccarti. Se tu lo volessi. Ma non voglio farvi ricorso. Mi sembra di camminare lungo uno splendido precipizio dal quale potrei allontanarmi adagiandomi su morbidi prati ricchi di colori ma non proverei quel senso di vertigine che acuisce i sensi che fa cogliere la preziosità dei rapporti con persone particolari ti permette di affondare il braccio attraversando la crosta terrestre ed afferrare i minerali rari che nessuna comune saggezza ti consiglierebbe di desiderare per non mettere a repentaglio il docile procedere della morte. Non capiscono, molti, che noi cerchiamo altro quel che avvertiamo in una persona che ci fa sentire leggeri pronti a volare o a bruciarci le nostre ciglia avvicinandoci fino a toccare quella cosa che ci scalda ci attrae col suo calore che è ancora solo un acconto di quel che c’è dentro se sapremo tuffarci perforando lo strato di ninfee che pur belle e invitanti a soffermarti su di esse ti impediscono tuttavia di raggiungere le acque limpide e sorridenti dei tumultuosi torrenti.


Febbraio 2003 – Cosenza

Ahi!
L’ellissi di un grido
va di monte
in monte.
Su dagli ulivi
sarà un arcobaleno nero
sopra la notte azzurra.
Ahi!
Come un arco di viola
il grido ha fatto vibrare
lunghe corde del vento.
Ahi!
(Le genti delle caverne
espongono le loro lampade)
Ahi!


È Garcia Lorca che mi viene in aiuto. S’avvicina un altro tuo compleanno ed io grido. Ahi! Un’altra ricorrenza della mia incapacità di vivere. Ti ho persa? Spero di no. Abbi ancora un po’ di disposizione all’attesa, ti prego. Presto sarò da te. Io ti propongo di goderci la vita. Ci divertiamo insieme. Lasciamo i grandi interrogativi esistenziali fuori dal letto. Facciamo l’amore….. ci riesce molto bene. Se non ci annoiamo perché impedircelo?


Marzo 2003 – Cosenza

OK. Tutto come previsto. Non ho completato il quaderno ti ho fatto gli auguri ti ho promesso presto un omaggio e tu avrai pensato che sono diventato scemo. Mi piacerebbe vedere la tua nuova abitazione ma non come architetto. Mi interessa conoscere questo aspetto di te, come ti sei organizzato il tuo appartamento da single. Cosa c’è, un ingresso ? Se c’è lo hai di sicuro riempito di specchi. Non per vanità ma hai bisogno di vedere spesso che ci sei, la tua fantasia ti astrae spesso dal luogo in cui ti trovi e vederti ti rassicura. Poi almeno due ambienti giorno: uno per quando sei allegra e l’altro in cui rintanarti quando sei arrabbiata. Poche riviste e pochi libri in vista. Perché? Non pensavo che leggessi poco, o hai deciso di cambiare vita? Non ci sono segni di ragazzi, mantieni ancora un grande controllo sui tuoi figli, non gli consenti di invadere il tuo spazio. Sei brava, io non ci riesco. Le lampade vanno bene. Forse ci sono troppi colori ma sono la manifestazione della tua ricchezza interiore ma anche della tua complessità e, naturalmente, della tua voglia di divertirti. Allora forse posso coltivare ancora qualche speranza. Non sono geloso ma sto pensando agli uomini che ti si sono avvicinati in questi ultimi anni. Ti sei data a qualcuno? Com’è, alto magro biondo, quanto giovane? ama viaggiare apprezza le passeggiate in campagna o in montagna gli piace stare in mezzo alla natura? tenerti addosso distesi in un prato a mescolare il sapore dei tuoi denti con i fili d’erba tagliati accarezzarti la nuca mentre le tue labbra poggiano sul suo collo? E sentire il tuo corpo. Sa baciarti? dappertutto? Cucina efficiente e luminosa. Le stanze dei ragazzi con le porte sempre aperte ed una confusione che stride con l’ordine dei tuoi spazi. La porta della tua stanza da letto invece è chiusa, non riesco a vederla. Potrò entrarci?


Cosenza – aprile 2003-11-17

Comincio ad essere emozionato. Si avvicina la fine del quaderno e l’inizio del mio nuovo rapporto con te(?). Avrai notato che in questi anni non ti ho annoiato con gli avvenimenti politici. La guerra la pace questo inaspettato fenomeno mondiale delle bandiere della pace (ne ho 2 ai miei balconi) il terrorismo questi nostri miserabili governanti truffatori imbonitori mediocri i problemi ambientali i grandi avvenimenti sportivi le religioni. Mi sei molto servita evidentemente a tenere fuori da me tutto ciò che ci deve certo vedere attenti ma che rappresenta una afflizione costante con cui fare i conti. Invece ho te dentro. Ti penso ti scrivo ti desidero ti possiedo nella mia fantasia ti cerco con queste mie righe d’inchiostro. Questa volta ci siamo quasi. Comincio a pensare a come farti avere questo scrigno di un pezzo della mia vita. Lo impacchetterò? e come con quale carta che fiocco userò per legarlo di che colore, dev’essere carta che a stropicciarla fa rumore o similstoffa silenziosa? Ti inviterò a cena per consegnartelo o te lo spedirò per evitare di influenzarti nella lettura con le mie parole. La mia voce dopo tanto scrivere. Ma tu queste ultime pagine non le leggerai subito … o sei come quei lettori che si affrettano a sapere “come va a finire”? Spero di no, anche perché non c’è una fine bensì un invito a ricominciare.


Cosenza – 13 luglio 2003 Forse ci siamo?

Il timore di finire una cosa cominciata anni fa? La voglia di continuare a scriverti immaginandoti mia lettrice attenta (o paziente)? La possibilità di rinnovare un impegno che non so se saprò sostenere? o solo il troppo lavoro, il troppo star dietro a mio figlio (lo so che non è mai troppo il tempo dedicato ai figli)? Il calcolo di consegnarti il quaderno alla vigilia di un lungo periodo di leggerezza obbligata (le vacanze…) che in teoria dovrebbero consentire lunghe ore per una pacifica (!?) lettura e conseguenti riflessioni? Non so dirtelo. Sono troppo stanco troppo spossato dal lunghissimo caldo. Ma ormai debbo chiudere. Anche per il rispetto che ho di te – non posso darti da leggere qualcosa di pensato molto molto tempo fa, no, debbo dartelo adesso che la tensione è sempre molto viva malgrado le lunghe pause -, anche per la voglia che ho di te…………………….. …………………………………………………………………………………………………………
Ho ancora alcune pagine da riempire ma la sera è appena cominciata e dovrò attendere il rientro di mio figlio che avverrà tra alcune ore. Quindi ce la farò!

Eleonora’s falcon

Puoi vederlo passare
Selvaggio e lontano,
seguendo onde ed alberi,
attraversando i mari
fino alla remota Africa
per consumare l’inverno.


Forse è stata la copertina di questo quadernetto … lo spirito dev’essere selvaggio … a darmi la forza di condurre a termine questo mio lungo rapporto solitario con te. Può darsi che mi abbia aiutato a consumare questo inverno di cui tuttavia non vedo ancora la fine. Anche con te era piacevole (di più…) trascorrere le serate fredde e piovose avvertivo che i nostri spiriti insieme diventavano selvaggi e i nostri corpi con essi godevano parlavamo se necessario se necessario tacevamo mentre i nostri corpi godevano e dopo a volte parlavamo a volte tacevamo sempre consapevoli di essere in una nuvola selvaggia soffice e carezzevole barca che ci conduceva lontano dalla folla da tutti quelli che non sapevano e non s’accorgevano e non avevamo bisogno di nient’altro e lasciandoci non ci davamo obbligatori appuntamenti sapendo che ci saremmo ritrovati oltre le onde oltre gli alberi nel cuore sperduto di un’Africa nei cui deserti ci muoviamo senza accorgerci in queste città ricoperte di sabbia che non riesce ad attutire i rumori di tutto ciò che ci allontana pretendendo di unirci da un giorno all’altro scivolosi come gli anni che aumentano dietro di noi e tuttavia non riescono a contenere tanti ricordi quanti sono invece i nostri propositi futuri in una vita che può essere bella se rinunciamo ad ogni utilitarismo se diamo spazio ai nostri spiriti selvaggi se riusciamo a godere del silenzio dopo l’amore delle parole liberate e perse senza rimpianti forti del nostro sentire qui ed ora perché sappiamo che la magia si riprodurrà ogni qualvolta lo vorremo e i fastidiosi rumori delle città insabbiate non riusciranno ad impedircelo come non riescono a coprire il canto dei grilli e delle cicale in questa lunga e caldissima estate in questa ormai notte echeggiante del canto delle cicale e in cui nuovi grilli si sono sostituiti a quelli diurni lotta perenne tra ciò che si ode e ciò che si sente tra una vita da vivere come una lunga calda estate ed una vita da attraversare come un rigido inverno da consumare noi falconi alti e selvaggi distesi in un volo che supera foreste mari in tempesta città sabbiose………………………
 


 
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Massimo Silvestri
[ massimo.silvestri@bms.com ]
 
STATO ZERO
 
non c’era rumore
da nessuna parte.
soltanto il freddo
invisibile
partoriva uniche
distorsioni spaziali
incredule
che da sempre esistono.
deformazioni
rese probabili dalla comparsa
di una pregeometria
che di nascosto affolla
lo spazio e il tempo.
come rovi
come mura
tra i rovi
il tempo passato
e una stella
sola
ombra nel cielo.

stato zero.

gli Angeli in attesa
e Magi pellegrini
re in cammino
 


 
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Mario Amato
[ amatus@libero.it ]
 
IL CAVALLO A DONDOLO
Storia per bambini
 
“Nel piccolo mondo in cui tutti i bambini, comunque vengano educati, vivono la loro vita, non c’è nulla di più sentito e avvertito dell’ingiustizia, anche se si tratta di una ingiustizia di poco conto; ma il bambino è piccolo e piccolo è il suo mondo, e il suo cavallo a dondolo è per lui molto più alto di lui, e lui lo vede e lo considera come un cavallo da caccia irlandese dalle ossa grossa.”
Charles Dickens, Grandi Speranze

Frenzifré non era il suo nome, ma fin dalla nascita così lo avevano chiamato i genitori.
È un nome noto fra i bambini che amano le sue fiabe, ma pochi conoscono la sua storia e l’importanza che in essa ha il suo cavalluccio a dondolo. Si può affermare, senza tema di smentita, che è stata l’amicizia con quel giocattolo a trasformare Frenzifré in un narratore di meravigliose fiabe per bambini. Anche ora il nostro novellatore, ormai avanti con gli anni, a volte usa intrattenersi a lungo con i suoi giocattoli di un tempo e soprattutto con il cavallo a dondolo.
È trascorso molto tempo dal giorno in cui Frenzifré ricevette in dono, per il suo primo anno di vita, il cavalluccio di legno. Appena lo vide, comprese che era davvero un bel regalo, ma gli sembrò troppo grande e provò un poco di timore, sebbene non riuscisse a staccare gli occhi da Tornado. Questo era il nome del cavallo.
Come tutte le sere, la madre preparò la cena. Era proprio un bel quadro di tranquilla e felice vita familiare: padre, madre e figlio intorno attorno al tavolo della cena. Frenzifré tuttavia non mangiava, ma lasciava sentire il suo pianto dall’alto del seggiolone ed i genitori pensarono dapprima che stesse male. Misurarono la febbre, toccarono la fronte, provarono a farlo giocare, ma il bambino continuava a lamentarsi sempre più forte. Finalmente il padre ricordò di aver lasciato Tornado in salotto ed andò a prenderlo. Frenzifré guardò il suo nuovo amico e questi –incredibile a dirsi– rivolse un cenno, impercettibile ai genitori ed a qualsiasi adulto che si fosse trovato nella stanza, ma non al bambino. Ed anche ad altri bambini sarebbe stato chiaro quel segno, ma noi adulti, o almeno la maggior parte di noi, abbiamo dimenticato che solo i cuori ingenui vedono ciò che rende poesia la vita e non siamo disposti a credere ai fanciulli che ci raccontano i loro meravigliosi sogni ad occhi aperti. Questo è veramente strano: crediamo alle bugie di coloro che governano il mondo, crediamo che esistano guerre giuste, e non prestiamo fede ai nostri simili più piccoli e più sinceri. Noi pronunziamo menzogne per scopi meschini e non ci fidiamo di chi non ha interessi materiali, ma possiede una visione più ampia della nostra, perché riesce a vedere l’invisibile e l’incredibile.
Fatto è che Frenzifré si calmò improvvisamente e mangiò di gusto il pasto cucinato con amore dalla mamma. La madre, dopo cena, collocò il bambino a cavallo di Tornado ed egli manifestò la sua gioia con gemiti, risa e sorrisi, tipici di quell’età.
La notte giunse e con essa il sonno, ma verso l’alba Frenzifré si destò, perché aveva sentito qualche lieve sospiro. Guardò i visi di mamma e papà che dormivano tranquillamente. Si calò dal suo lettino e, un po’ gattonando un po’ camminando, si recò da Tornado. Era proprio un bel cavallo: fulvo con piccole macchie nere, con un criniera bionda come la grande coda e con una sella rossa.
Tornado voltò lentamente la testa e parlò: << Frenzifré, sali. È tutta la notte che ti aspetto. Facciamo un giro>>. Si chiamava Tornado e naturalmente, per fedeltà al suo nome, era in grado di galoppare più veloce del vento, ma egli sapeva anche che ora era il cavallo di un bambino e si mosse, quella prima sera, con cautela, raccomandando a Frenzifré di tenersi ben stretto al suo robusto collo.
Dove Tornado portasse Frenzifré quella prima felice alba non è dato di sapere, salvo che uno dei due personaggi non decida un giorno di raccontarlo. Quel che è veramente importante sapere è che durante la cavalcata Tornado raccontava al bambino bellissime storie con voce dolce, come sono le parole delle madri che narrano fiabe, perché è l’amore che parla.
Madre e padre trovarono Frenzifré a cavallo di Tornado: ambedue ondeggiavano lievemente. Essi non sospettarono nulla del viaggio intrapreso dal loro piccolo figlio. E come avrebbero potuto?
Dopo quell’episodio fantastico accadde molte volte che Frenzifré giocasse con il suo nuovo compagno di legno a quattro zampe e andasse in giro. Tornado naturalmente narrava storie.
Il bambino era naturalmente troppo piccolo per comprendere i racconti di Tornado, ma la voce era suadente e lo rassicurava. La maggior parte erano racconti di cavalli famosi che correvano per ogni parte della terra ed anche per le praterie del cielo fra gli astri sfavillanti.
Alla presenza di adulti, però, Tornado non proferiva parola e non si muoveva, ma quasi per un tacito accordo fra i due amici, Frenzifré non si lamentava di questo silenzio e di questo stare completamente immobile del cavalluccio, come se comprendesse che quelle avventure e quei discorsi dovessero restare un segreto.
Iniziò il periodo della parola e Frenzifré poteva ora conversare con Tornado, tanto che durante le scorribande pomeridiane o notturne lo tempestava di domande su ogni luogo della terra e sui nomi delle stelle, ma poi taceva e lasciava che la voce raccontasse altre favole.
Venne il primo giorno di scuola. Frenzifré entrò con timore nell’edificio grigio: c’erano tanti altri bambini e c’era la maestra seduta in alto, ma un sorriso tranquillizzò tutti.
Quante cose avrebbe avuto da raccontare a Tornado!
In quel primo periodo di scuola il bambino non dimenticò il suo amico ed ora era lui a narrare. Tornado ascoltava e rivolgeva domande.
Col tempo però qualcosa cambiò: Frenzifré aveva nuovi amici e sempre meno visitava Tornado.
Il piccolo cavallo a dondolo non era geloso, ma rimpiangeva le notti trascorse con il bambino, il suo sorriso, le sue infinite domande, le gite su boschi, su monti innevati e su città, su deserti e su tetti dorati d’Oriente, vicino all’arcobaleno o accanto alla linea dell’orizzonte. Sebbene sapesse che è destino di tutti i giocattoli essere riposti in soffitta e dimenticati, qualche volta dai suoi grandi occhi sempre aperti scivolava una lacrima.
Per Frenzifré giunse l’adolescenza e giunsero altri sogni: l’amore, nuovi amici.
Tornado fu preso e portato nel sottotetto.
Come è triste un giocattolo che più nessuno usa!
Quel compagno dell’affacciarsi nel mondo non ha chiesto niente in cambio della sua amicizia e del suo amore; non era parte del nostro mondo, ma era il nostro mondo, del tutto ignoto agli adulti.
Frenzifré pensava ogni tanto alla sua infanzia e al cavallo a dondolo e si domandava come avesse potuto essere tanto sciocco da credere che un giocattolo di legno potesse galoppare e trottare sopra i tetti della sua città o per i sentieri della via lattea, per giunta raccontando fiabe! E tuttavia nel suo cuore nasceva, a questo pensiero, un senso di tenerezza ed allora si accorgeva che l’antico affetto per il suo piccolo compagno non era del tutto estinto.
Tornado riposava nel solaio, invecchiato, coperto di polvere, le zampe indebolite dall’inattività, la coda bassa e spelacchiata, la criniera rada, gli occhi tristi.
Frenzifré divenne adulto, si sposò, come tutti gli uomini ebbe piccoli e grandi dolori, piccole e grandi gioie.
Una sera, mentre leggeva al suo piccolo bambino una fiaba, ricordò Tornado. Chiuse il libro e raccontò la storia sua e di Tornado. Il figlioletto si addormentò. Ed anche la sua amata moglie s’addormentò.
Frenzifré in punta di piedi si recò nel lucernaio: bauli, vecchi quadri, soprammobili polverosi, album di fotografie. Tutto era ammassato alla rinfusa. Dov’era Tornado? Lo aveva forse dato via oppure l’aveva gettato nella spazzatura? Lo aveva fatto a pezzi e bruciato durante un freddo inverno? Un tremito lo pervase e lo assalì un pianto incontenibile.
Allora chiamò fra i singulti “Tornado”. Un gemito o un lieve nitrito giunse da qualche luogo della soffitta; l’uomo cominciò a cercare; un lento rumore di zoccoli si udiva provenire da qualche angolo. Finalmente arrivò presso il cavallo: com’era ridotto! Povero Tornado!
Tornado girò la testa verso di lui e sorrise: era lo stesso sorriso di quando s’erano incontrati la prima volta. Ambedue avevano conservato un cuore fanciullo. Frenzifré si chinò, lo abbracciò, gli carezzò l’incanutita criniera, chiese perdono per la sua dimenticanza. Si pentiva di averlo sepolto non solo nella soffitta ma anche nel suo cuore. Domandò di ascoltare le storie di una volta. Tornado rispose che egli era fatto di legno come gli alberi che non dimenticano e acconsentì con felicità. Così trascorsero la notte.
Molte cose accaddero: mentre Tornado raccontava il suo pelo tornava del bel colore d’un tempo e le sue zampe ritrovavano il vigore della giovinezza.
Al mattino, quando il figlioletto di Frenzifré si destò, trovò nella sua camera un bel cavallo a dondolo.
A volte, mentre il bambino gioca con il suo amico di legno, il padre apre senza farsi sentire la porta: li vede che dondolano piano piano, ma egli sa che è soltanto una sua illusione e che essi in realtà galoppano fra le stelle fiammeggianti.
 


 
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Marino Faggella
[ lamorgese@alsia.it ]
 
ORAZIO: IL TEMPO, LA MORTE E L'ETERNITA'
 
Tra i cosiddetti tòpoi della tradizione non mi sembra si sia insistito abbastanza sulla persistenza del concetto tutto oraziano dell’arte, particolarmente quella dei poeti, di eternare l’uomo al di là della sua fisica deperibilità. Quest’idea non certo platonica di assegnare all’attività dei poeti una tale funzione demiurgica si riconosce, si può dire, senza soluzione di continuità in tutta la tradizione letteraria occidentale, come testimonia l’opera degli autori di ogni tempo, anche di quelli le cui tendenze estetico-filosofiche risultano non propriamente omogenee.
Accade, infatti, al di là delle loro specifiche diversità, di ritrovare un tale topos nella Commedia di Dante (si ricordi a tal proposito come vi si insista nel canto XVII del Paradiso) e anche nelle opere di un poeta come il Petrarca, che rappresenta, comunque, un momento nodale di quella tradizione classicistica che com’è noto prende le mosse proprio da Orazio (1).
Il concetto dell’arte quale supervalore è presente inoltre e fondamentalmente nella letteratura romantica, dove non confligge, anzi è esso uno dei punti di maggiore accordo con la concezione dei classicisti, come si può desumere dai Sepolcri del Foscolo, le opere del quale sono lì a testimoniarci, piuttosto che la diversità, una sostanziale sintesi fra le due tradizioni, quella antica e la moderna.
Seguendo il corso storico la ricerca in altre epoche non andrebbe certamente delusa, anzi si troverebbe certamente di fronte ad interessantissime scoperte che ci autorizzano a riconoscere attraverso il confronto critico la presenza dello stesso motivo anche in autori appartenenti all’area culturale del ‘900. Lucienne Deschamps ha riconosciuto “una certa somiglianza” tra la concezione oraziana e quella del romanziere francese Marcel Proust proprio a proposito del rapporto da essi instaurato tra il tempo e l’opera d’arte, che le pare significhino la stessa cosa quando essi ci comunicano la loro scoperta “che l’opera d’arte trasporta le cose fuori del tempo e mediante l’opera d’arte che dà a queste cose forme et realitè esse rimangono sempre vive per sempre”(2).
Premettiamo di condividere, ma solo entro certi limiti, un tale confronto ed in particolare solo la persistenza entro la storia di quel topos, che, probabilmente, se proprio non esclusivamente oraziano ha trovato, tuttavia, nel poeta di Venosa il suo primo e più convinto assertore. Quanto al resto, e particolarmente alla loro concezione del tempo è opportuno fare importanti distinzioni che, prima di tutto appaiono dettate dalla loro differente posizione storica che, condizionata dal pensiero e dalla cultura del loro tempo, ha finito certamente per determinare anche una specifica concezione dell’arte.

A questo punto, per andare più a fondo nella questione, mi pare opportuno analizzare quelle fonti del pensiero che in qualche modo hanno influenzato la visione estetica dell’uno e dell’altro. Occorre innanzitutto premettere che l’idea del tempo e la sua entità hanno sempre affascinato artisti, scrittori e filosofi, sicché si potrebbe dire che esistono tante concezioni di esso quanti sono quelli che se ne sono occupati. Per semplificare diremo che due sono le fondamentali nozioni del tempo:quello oggettivo, che riguarda la materia e il mondo che in qualche modo possono essere misurati (questa è la concezione del tempo che partendo dai Greci è arrivata al XVIII secolo); quello soggettivo, che non può essere concepito né tanto meno misurato se non facendo riferimento alla coscienza del soggetto: è questa l’idea del tempo che, intuita da S. Agostino è stata poi laicizzata da Bergson.
Se è vero che appartiene ad Aristotile la distinzione fra un tempo oggettivo, il movimento del quale non dipende dall’anima, e un tempo soggettivo che non può esistere senza l’anima, spetta però ad Agostino la riduzione del tempo assoluto alla coscienza, cui spetta unicamente la facoltà di misurarlo: ”come si assottiglia – dice nelle Confessioni – e si consuma il futuro che ancora non esiste? Come cresce il passato che non c’è più, se non perché nell’anima ci sono tutte e tre le cose, presente, passato e futuro? Essa, infatti, attende, porge attenzione, ricorda; di modo che ciò che aspetta diviene prima oggetto dell’attenzione, poi della memoria” (3).

Tempo perduto e tempo ritrovato


Prendendo in considerazione prima di tutto l’autore della Recherche, senza nulla togliere alla profonda intuizione agostiniana del tempo interiore, occorre dire che il procedimento proustiano del recupero del tempo probabilmente non sarebbe mai nato senza la fondamentale lezione filosofica che Bergson ha comunicato a tanta parte della letteratura del Novecento. Anche Proust, quale allievo del filosofo alla Sorbona, ebbe modo di assorbirne direttamente il pensiero, utilizzandolo poi quale base teorica della sua arte e fondamento essenziale della sua poetica, che, ponendosi sulla linea dell’avanguardia simbolista, si trova agli antipodi rispetto all’estetica naturalista fondata sul metodo dello scientismo.
La filosofia bergsoniana, nata proprio nel clima dell’antipositivismo, ha avuto all’inizio del ‘900 un’influenza enorme su tutto il pensiero del secolo, rivoluzionandone totalmente il metodo della conoscenza, condizionando conseguentemente anche l’idea dell’arte. In pratica Bergson ha sostituito al concetto di fissità delle nostre percezioni e delle nostre sensazioni il concetto di fluidità, per cui tutte le cose apparentemente sembrano stabili, fisse ed immobili, mentre in realtà sono mobili e mutevoli proprio in virtù della durata. Anche per il filosofo francese, analogamente a quanto aveva già affermato Agostino (“non ci sono propriamente parlando tre tempi, il passato, il presente e il futuro ma soltanto tre presenti: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro”(4) ) proprio perché i tempi appartengono all’anima, il passato è presente nel presente in virtù dell’intuizione che, consentendo al soggetto di cogliere il tempo come durata, gli dà la possibilità di riattingere il passato attraverso il recupero dei momenti istintuali sepolti e dimenticati nella coscienza. Ciò sgombrava il campo ad una straordinaria ricchezza spirituale e inventiva. È comprensibile, pertanto, come un artista come Proust, per il quale la conoscenza razionale delle cose risultava oscura e ottusa, rinunziando al semplice procedimento di catalogare gli oggetti con l’applicazione di etichette, accogliesse con entusiasmo il procedimento analogico della durata bergsoniana in quanto gli consentiva non tanto di attingere la forma esterna delle cose ma la loro essenza più profonda, quella che San Tommaso chiamava quidditas. Questa eccezionale disposizione, se da un lato offriva all’artista la superiore capacità di realizzare una sintesi dell’io con il mondo (il simbolismo, come nota Gioanola, significa proprio la “rappresentazione attraverso le figure del mondo dell’intima sostanza psichica o, all’inverso, una dissoluzione della coscienza all’interno delle cose naturali”(4) gli consentiva, dall’altro, di nutrire la suprema speranza di vincere a suo modo la guerra contro il tempo, di operare con la continua riesumazione del passato la resurrezione dell’uomo eterno in quello contingente.

Tale disposizione soteriologia dell’artista che, salvando se stesso, diviene contemporaneamente salvezza del mondo, tale presunzione di eternità, pur presentando qualche analogia, non poteva essere la stessa in un poeta d’altri tempi come Orazio, al quale certamente mancò, per ragioni storico-culturali, quella linearità pacificata della più accomodante tradizione filosofica di matrice agostiniana che vedeva raccolto in un solo momento fondamentale, quello del presente, sia il passato che il futuro. A questa moderna concezione, per così dire lineare (o meglio circolare, se pensiamo alle applicazioni proustiane del metodo bergsoniano) che avrebbe consentito al tempo soggettivo, quello che si misura nella coscienza partendo dal presente, di riattingere con la memoria i momenti privilegiati di un passato mitico, Orazio sostituiva una concezione del tempo come frattura (l’irreversibilità dolorosa del passato) o dissolvimento (l’inesorabile passaggio del tempo come agente di distruzione e di morte) che, pur risultando apparentemente meno complessa, non era meno ricca di risultati poetici.
Egli era convinto, sia per ragioni filosofiche (quasi tutte le scuole di pensiero del suo tempo si erano soffermate sull’analisi del tempo) sia per esperienza di vita vissuta che il tempo dell’uomo, procedente in modo inesorabile verso la distruzione di sé, doveva fare i conti con un’altra dimensione del tempo, quello cosmico delle stagioni, che, soggetto ad un ciclico ritorno, non faceva che sottolineare con la sua durata il contrasto esistente fra la caducità della vita dell’uomo e l’eternità del tempo esterno. Non si riscontra, infatti, nella visione oraziana, come nota La Penna, identificazione alcuna tra la “temporalità dell’uomo con quella della natura”, esiste al contrario un abisso insondabile che separa tempo assoluto e tempo vissuto, in quanto le vicende della natura procedono secondo leggi che sono diverse da quelle umane: l’uomo è differente dalla natura, in quanto il suo tempo mena alla distruzione, la legge dell’eterno ritorno non è quella dell’inesorabile morte alla quale egli soggiace come tutte le creature viventi. Che cosa avrebbe mai potuto arrestare l’invisibile dissoluzione dell’ uomo e delle cose?
Se è vero che il tempo soggettivo si manifesta al poeta soprattutto come irreversibilità e frattura, se anche il tempo cosmico non gli appartiene del tutto a causa della sua insondabile profondità, c’è però qualcosa che è suo e che gli appartiene completamente come a tutta l’umanità, il miracolo della poesia e dell’arte che affidandosi alla parola è in grado di ricucire le lacerazioni del tempo, di sanare lo strappo esistente fra tempo assoluto e tempo vissuto, dandoci l’illusione di sopravvivere oltre la morte. Solo in questo Orazio e Proust si danno la mano, a queste condizioni, coincidendo la loro visione, è possibile realizzare un confronto fra il poeta antico e l’artista moderno, ma sarà inevitabile e necessario per noi sottolineare anche le differenze che li separano.

La “recherche” di Orazio


A questo punto, riprendendo il confronto, mi pare opportuno aggiungere le seguenti considerazioni che in qualche modo servono anche chiarire la natura dell’arte oraziana. Occorre dire subito che la poesia del Venosino, in linea con quella dei Greci, ebbe una sua specifica peculiarità non solo a causa di originali ragioni costruttive, ma anche per il modo della sua germinazione che non può essere certamente assimilata a quella dei moderni. Giustamente A. La Penna ha sottolineato le distanze che separano la poesia simbolista, caratterizzata da voluto ermetismo, dalla lirica di Orazio aperta piuttosto al dialogo a alla comunicazione tanto che il poeta, per dirla con le stesse parole del critico, quasi sempre è solito rivolgere le sue odi “ad un interlocutore esplicitamente nominato, o ad un pubblico” (5). Ma vi sono altre ragioni che allontanano Orazio dalla concezione lirica dei moderni, e dalla visione proustiana, che in qualche modo si potrebbe avvicinare ad essa a causa del procedimento del recupero memoriale del passato. Cercheremo di dimostrarlo proprio riprendendo l’idea oraziana del tempo, aggiungendo a proposito di quest’ultima qualche altro e più specifico riferimento.
Si è detto che il tempo oggettivo esterno è diverso, anzi ha poco o nulla a che fare con il tempo umano: le stagioni ritornano, dice Orazio, la vita nostra non mai. Di fronte a questa visione traumatica della irreversibile frattura della nostra esistenza, che è stata avvertita con uguale drammaticità in ogni tempo, si evidenziano più chiaramente sia le analogie ma anche le distanze intercorrenti tra il poeta antico e i moderni, siano essi romantici o decadenti, in quanto costoro prospettano diversi rimedi. Per superare lo “choc” del pensiero, che ha scoperto svelandolo il mistero tragico della consunzione della vita, essi, pur avendo in comune la fede nell’arte, seguono diversi procedimenti.
Certamente Orazio, sia per ragioni di sensibilità sia di cultura, non avrebbe potuto utilizzare il criterio di rifugiarsi nella memoria del passato, come accade ai poeti più recenti che molte volte fanno scaturire proprio di lì la loro arte. Egli non è un moderno, e proprio per questo non può conoscere né il procedimento memoriale di Leopardi, né tanto meno quello di Proust. Per lui la memoria del tempo passato, l’andare a ritroso della vita non produce l’arte, l’idea della sua lirica, insieme con la sua realizzazione, risultano completamente diverse da quella dei moderni, Proust compreso: né il procedimento della memoria involontaria, né l’originale criterio della sensazione che fa scattare il ricordo possono essere in assoluto forieri dell’arte per il poeta augusteo. Né del resto poteva essere altrimenti, data anche la dinamica visione del tempo di Orazio, drammaticamente oscillante tra un labile presente, pronto consumarsi e a vanire sempre, ed un improbabile futuro che comunque si aspetta e nell’attesa può impedirci di godere contribuendo a dissolvere delle gioie trascorse anche il ricordo.
Non c’è spazio, pertanto, nella visione di un poeta come il nostro, disposto a condividere una visione generalmente edonistica della vita, per questa ulteriore dimensione del tempo. Questo spiega perché nella poesia di Orazio il passato si configuri esclusivamente come rimpianto delle cose e dei piaceri perduti ma non è mai, come nei romantici, poetica nostalgia. Può essere illuminante, a proposito della riduttiva presenza del ricordo in Orazio, la seguente considerazione di Ramous :”la memoria ha il sostanziale difetto di farci riflettere su ciò che avrebbe potuto essere e invece non è stato: ancora una volta una facoltà che, oltre alla funzione di mantenere vivo il piacere delle gioie trascorse, ha in sé il dato negativo del rimpianto. In ogni caso la memoria nell’ambito esistenziale ha breve corso e in quello proiettato oltre che può promettere la poesia, se si toglie l’appagamento del proprio orgoglio, non è conoscibile” (7).

La morte e l’eterno


Orazio, come del resto tutti gli antichi, non fu certamente insensibile di fronte al problema del tempo che anzi fu concetto da essi indagato costantemente col sostegno delle varie scuole filosofiche, ma occorre sottolineare anche che il tempo, concepito soprattutto come fluire, fu avvertito in modo più particolare dalla sensibilità dei poeti, i quali proprio per questo hanno cantato, con il senso della caducità delle cose e della vita umana, l’incombente pensiero della morte. Questi temi ritornano frequentemente nei classici. Prima di pensare ad Orazio e alla tradizione che da lui si diparte per approdare fino a Petrarca, trasferendosi successivamente da quest’ultimo nelle pagine dei poeti del classicismo moderno, è il caso di ricordare un greco, Mimnermo, che per intima e profonda consonanza ebbe in comune con Orazio soprattutto il fatto di non poter guardare con serenità alla vita umana che, come tutte le cose belle, ha lo stesso destino di un fiore: quanto più presto nasce tanto più rapidamente appassisce. Chi non ricorda la tristezza dolorosa dei versi di Mimnermo dove i fiori della nostra esistenza, pronti a declinare, sono assimilati alla generazione delle foglie che germogliano nella stagione fiorita della primavera, sulle quali, analogamente a quella dei viventi, si stenderà dopo la paurosa vecchiaia il velo nero della morte.
È questo il motivo che, pur essendo presente nelle altre raccolte, ricorre varie volte e con particolare insistenza soprattutto nelle odi, dove a più riprese Orazio ritorna sul fatto che il tempo umano corre in modo irreversibile verso la distruzione, niente è destinato a durare nella vita, tutto è soggetto ad immutabile cambiamento tranne la morte che è stata, è e sarà per sempre definitiva. Anche nella costruzione poetica sia la scelta delle parole sia la loro stessa collocazione nel sapiente tessuto del verso risponde spesso al bisogno del poeta di insistere, di rincalzare la medesima idea: i giorni sono detti volucres, gli anni scorrono e sono fugaces; l’inarrestabile loro corsa, con un’espressione che forse meglio di ogni altra designa il passare del tempo, è potentemente richiamata nella solenne ode 30 del terzo libro: innumerabilis annorum series et fuga temporum. Ma se c’è un luogo che merita prima di tutto di essere ricordato sono i vv. 7-8 dell’ode I, 11 (“Dum loquimur, fugerit invida / aetas“) dove la voluta e particolare scelta temporale del futuro anteriore, che è per La Penna”di un’espressività mirabile”, accostato al presente, che inizialmente invita il lettore a fermare l’attenzione sul discorso spensierato dei due amanti, concorrendovi in modo straordinario e rincalzandolo, è li a ricordarci in modo icastico l’immagine centrale dell’irrefrenabile e fugace trascorrere dei giorni e della sua corsa verso la morte.
Si sa che la virtù è la qualità più importante dell’uomo virile, sicché nelle Tuscolane Cicerone diceva: “il coraggio disprezza la morte”. Poiché inevitabilmente la morte verrà e a nessuno è dato di sfuggirle, la cosa migliore è imparare a morire rifugiandosi nella filosofia e nell’arte. E’ la soluzione indicata dal sapiente: da Orazio a Seneca a Montaigne. Proprio per questo, pur in presenza dell’impasse della ragione, giunta ad una tale tragica intuizione, il poeta trovava una mirabile soluzione facendo scaturire, come si è detto, da questa lacerazione, dall’abisso di una tale frattura il miracolo della poesia, l’unico oggetto di nostra creazione che, è in grado di salvarci dalla dissoluzione, dandoci l’illusione di sopravvivere oltre morte.
Non c’è da credere, tuttavia, che un tale destino sia riservato ad ogni forma d’arte o contenuto della storia, ma solo a quelli che rispondevano all’idea storico-filosofica del monumento. Quando componeva il suo Exegi monumentum, pur senza respingerla del tutto, ritenendo probabilmente inadatta allo scopo di durare e di eternarsi una parte non cospicua della sua poesia precedente, quella che la tenuis camena gli aveva ispirato, Orazio pensava che la gloria gli sarebbe venuta piuttosto dalla musa sublime che ora gli dettava di cantare non in tono dimesso e per sé solo, ma solennemente e in modo dispiegato della grandezza epica di Augusto e dell’impero, quella grandezza che anche con i suoi versi egli, era convinto, contribuiva a far durare. Solo a condizione di poter edificare un monumentum egli era disposto ad aver fede nel futuro: sia che si trattasse dell’arte (che per essere veramente tale non poteva essere improvvisata ma organicamente ed armonicamente perfetta, cioè faticosamente condotta a compimento tanto da risultare compiuta, perfetta appunto) sia che si discutesse della costruzione storica dell’impero, anch’esso edificato tra mille difficoltà, ma ugualmente caratterizzato dalla perfezione e per questo destinato a durare per sempre nei secoli, come la vera opera d’arte poetica.
Queste ultime considerazioni ci fanno meglio intendere anche le ragioni della scelta oraziana della cosiddetta “poesia civile”, che dovrebbe, comunque, vedersi non in antagonismo con la poesia più leggera e meno impegnata, ritenuta da più parte, e secondo noi a torto, come la più vera ed autentica poesia di Orazio.

NOTE
1) Ciò è sottolineato, ad esempio, da A.Borgese nel suo giovanile e fortunato libro Storia della critica romantica in Italia
2) L. DESCHAMPS, Il tempo in Orazio, ossia dal “tempo perduto al tempo ritrovato”, in Orazio da Venosa, Venosa 1983, p. 66.
3) AGOSTINO, Confessioni, XI,
4) AGOSTINO, Confessioni, 20.
5) E. GIOANOLA, Il Decadentismo, Roma 1977, p.55.
6) A. LA PENNA, Orazio e la morale mondana europea, p. 111.
7) M. RAMOUS, Pref. ad, Orazio-Opere, p. XXXI
 


 
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Mario Amato
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DISCORSO RIVOLTO AD UN POETA
(Ad Alfonso Cardamone)
 
Una lunga poesia vorrei
Scrivere
Come un discorso fra amici
Ascolta
Sono forse ignaro di rime
E solo parole consuete
Conosco
Ma ho compiuto mille e mille
E più passi
Su terre straniere che amai
Tutte come patrie
Ho cercato voci di lingue
Sommerse
Per i miei canti sommessi
Ho attraversato ponti
Mosso dalla vaghezza
Della sponda nuova
Ho recitato con la memoria
Del cuore
I versi tuoi e di altri mille e mille
E più poeti
Ascolta
Forse non conosco i segreti
Della musica del comporre
Ma ho sfogliato con amore
In mille e mille e più luoghi
Volumi di odi, poesie, poemi
E brillano ancora gli astri
Nel firmamento della nostalgia
 


 
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Mario Amato
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ERA UN SETTEMBRE
 
Era un settembre di un azzurro
Indicibile
E tutti lo dicevano
Passeggiavamo nel dedalo dei vicoli
Di paese medioevale
Mi persi allora nel labirinto
Delle striature della tua iride
Parlavamo di Heine e Goethe
E Hölderlin
Hai studiato poesia nei giorni di scuola
Nelle mie passate esistenze
Il verso che ti commosse …

Era un settembre di un azzurro
Indicibile
E tutti lo dicevano
Sedemmo su una panchina
Sulla riva del nostro fiume
Ad ascoltare voci recate
Dal fluire eterno delle acque
E il riverbero dell’arcobaleno
E cigni che disegnavano
Intrighi di arabeschi
Mi persi allora nel labirinto
Delle striature della tua iride
Parlavamo di fiabe e leggende
E di chi amoroso le raccolse
Seppi allora di essere amanuense
Che copia fiabe lettera per lettera
Dai tuoi occhi …
 


 
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Biagio Salmeri
[ biagiosalmeri@virgilio.it ]
 
TESTI
 
(da “Icone della pace e del dissenso”, in press, Passigli Editori)



Cumuli di cose ordinate,
libri su libri, frutti nelle ceste, pile di bicchieri, piatti, lenzuola,
rotoli di carta,
i trenta piani di un grattacielo, con tutta la mobilia e l'umanità che vi abita,
l'orbita precisa dei corpi celesti, i defunti incolonnati nelle pareti dei cimiteri,
il nesso logico delle parole,
senza tutto questo,
dinanzi a scarpe e calze spaiate, all'anarchia degli asteroidi e dei tumori, alle onde anomale e ai pensieri originali, al mutamento costante di batteri e virus,
dinanzi all'infrangersi dei termometri e al mercurio libero,
ai fumi dell'alcool, alle aritmie del cuore, alle passioni senza freni,
si invocherebbero, a furor di popolo, più controllori, vigili e tiranni,
affinché, fra previsioni del tempo, lettura della mano ed esperti di borsa, non sia
del tutto casuale, ma congruo e conseguente,
l'evento in sé caotico
della propria morte.

*

La casa è fredda.
L'intera famiglia raccolta accanto al camino,
in una coesione da dipinto. O da preistoriche caverne.
Il bronzetto di una donna gravida riflette
la luce della fiamma sul suo ventre prominente.
Come un'antica dea madre.
In un quadro simile, due bisogni si impongono:
di legna, che occorre perché il fuoco non si estingua; e di bambini,
perché non si estingua la specie.

*

Si è animati da fruscii, di ombre
che scorrono sull'erba alta.
Quando solerti si accosta l'orecchio al rantolo del moribondo.
E già da tempo si percepisce un pallore profondo, l'inclinarsi
al suolo delle fronti più alte, le parole spaziose che incurvano
come vecchi solai in legno.
Allora si pensa all'odore appena colto dei mandarini.
Al fischio prolungato del silenzio.
Alle dita indolori che spengono il cero.
Al braccio del grammofono che crepita sul vinile,
come se un fuoco ardesse nella voce.
All'uovo cotto nella cenere.
Piccole cose che sia consentito portare via.
Come sassi levigati dal mare.
Una scatola colma di chiavi inutili.
Scampoli di stoffa dalla forma improponibile.
Il cuore pronto, cavo come una tasca.
La moneta per traghettare riposta sotto la lingua.


(da “Il cumulo”)



Poiché al buio nelle travi del soffitto
si sentono scavare i tarli, e il cane all’improvviso sbava e digrigna
i denti colto da una strana rabbia, e il bambino della casa accanto
vaga sonnambulo sul muro divisorio, c’è più di un motivo per vegliare sui morti conosciuti che tornano a distendersi accanto a noi sul letto, col travaglio
della materia, sponda per non cadere, limite da non passare,
cosa che non tutti,
per quanti codici morali esistano e crisi di coscienza,
rifletti
su quanti uomini stanno a bocca aperta sotto l’albero di fico,
sul giorno spensierato appena trascorso, sulle corazze rimboccate,
il freddo del fuoco che distrugge, le sepolture
che hanno invaso animo e mente, sulla troppa immondizia
che non si può smaltire, e chiamano
stress ssssh…. fate silenzio per pudicizia in coro
o luminari.

*

Il tramonto è improvviso.
Come si spegne una luce, si chiude un'imposta. Alla cieca, con le mani protese, i disorientati cercano un riferimento, i rapaci notturni lanciano grida acute, allo scoperto strisciano
le forme di vita più vulnerabili.
Nella scala dei bisogni, il gradino più alto serve a farla finita.
Il modello è stanco, muove la testa, sgranchisce le gambe, si alza e sparisce.
Il disegno incompiuto, tuttavia, cresce, lavora, si accoppia, prolifica, assume sedativi.
I tratti mancanti sanguinano, gli fanno male. Dorme sopraffatto dalla voglia di cancellarsi.
Si scioglie in lacrime dinanzi alla bellezza
e non prova sollievo,
se il solo senso esistenziale plausibile
è di saper ricominciare, volta per volta, individuo dopo individuo, specie dopo specie, civiltà dopo civiltà, barbarie dopo barbarie.


*

Per vedere in trasparenza viene chiesta la parola segreta.
E' stato anagrammato il silenzio.
Un popolo di nomadi si sposta con tutti i propri morti.
Attonita la civetta scruta i dormienti.
Sprazzano i bagliori delle origini, il fuoco della grotta, la selce acuminata,
la preghiera al sole.
Iole in riva al mare,
impressa nello sguardo come un graffito preistorico.
Un andare a lei e un trattenersi, un accenno di onde,
un possibile giaciglio di sabbia, assaporando solo il desiderio,
madonna della visione,
senza pietà o dolore, lontana dal figlio.
L'uomo si prosciuga nel contemplarla,
le stalattiti dei suoi umori, gli affetti infranti, imbrattati, raccolti
come dai caduti le spoglie belliche,
la ruvida lima dell'acqua, passione come sale, amore
sommerso, indurito, barriera dei fondali,
rosso corallo.
Iole, e lo stallo
dell'aquila in volo, il resto della vita
un lento planare, un tendere declinando, polo
fatale d'attrazione, la mano sulla forma di pane,
il bicchiere di vino sorseggiato, un cenno, un saluto, lei
che già volge le spalle, s'incammina, sbiadisce,
e il cuore tocca terra come un aquilone
col filo spezzato.
 


 
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Mario Amato
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DONO A FRANCESCO
 
Bambino che amo come figlio
Sebbene padre non fui
Bambino che hai reso amore
Fiabe che forse solo tu conoscerai
Questo dono posso rendere
Al tuo puro radioso sorriso
Oggi vergine di dolori
Domani colmo forse di nostalgia

Offerta mi diede il giorno
O la notte natia lontana
Di narrare storie
 


 
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Andrea Carbonari
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IL VELOCIPEDE DI NATALE
 
Quello fu l'ultimo Natale trascorso insieme. Io non potevo certo immaginarlo, mentre lui, mio padre, lo sentiva, lo percepiva.
Gli affari andavano di male in peggio; non riusciva a gestire il negozio e il fallimento era alle porte, poi la guerra, le deportazioni, la paura.
Il suo cuore aveva già ceduto una volta e sicuramente se si era ripreso, era perché voleva mantenere quella promessa:
«A Natale ti regalerò un bel velocipede, vedrai» mi aveva detto quando ancora il cuore malato lo costringeva ad una inoperosità che per noi significava immani ristrettezze - «E sarà un velocipede con le ali. Così, almeno tu, potrai volare via da questa terra e da questo tempo. »
La bicicletta, che mio padre chiamava fieramente velocipede, era il mio sogno. Sebbene bambino, capivo perfettamente che sarebbe rimasto un sogno, perché giorno dopo giorno assistevo alla rovina economica a cui si andava incontro.
Proprio prima di Natale giunsero dei signori tutti vestiti di nero a pignorarci anche i mobili di casa.
Ma il giorno di Natale il sogno si avverò:
«Allora è vero! » urlai vedendo la bicicletta nuova e fiammeggiante di un rosso vivo, accanto al tavolo da cui pendeva il cartellino affisso dagli uomini della legge.
«Dài su, provalo il velocipede! » fece mio padre con chissà quale dolore nei percorsi della mente e tra i rivoli del cuore, ma pieno di gioia in quegli occhi ridenti.
Immediatamente balzai in groppa al cavallo di ferro e mi precipitai giù al corso. Perugia risplendeva di un azzurro così luminoso e folgorante da ferirne gli occhi, mentre il manto bianco di neve rifletteva l'incanto di quel giorno.
Non c'era gelo che potesse fermarmi e pedalai trafelato sorpassando schiere di stivali neri che marciavano ed altra gente che scappava. Pedalavo al vento di quell'aria bianca e celeste verso la terrazza che, alla fine del corso, s'invola sull'infinito.
Quello fu il suo ultimo Natale, la bicicletta il suo ultimo regalo. Poi le ali di un velocipede nero lo accompagnarono fuori dalla storia, dal tempo e dalle sofferenze, in un infinito oltre l'infinito alla fine del corso.
 


 
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Mario Amato
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EQUITAN DI MARIE DE FRANCE
 
Marie de France, poetessa contemporanea di Chrètien de Troyes (XII secolo), autrice di una raccolta di dodici lais, cioè di racconti e novelle in versi (lai è termine celtico che designa una canzone). La materia di questi lais è bretone: uno di essi, il Lanval, è arturiano, un altro fa invece capo alla leggenda di Tristano (Tristan).


Marie de France
Lais

(traduzione e commento di Mario Amato)

Chiunque ottiene da Dio la sapienza
E l’abilità di parlare, l’eloquenza,
non dovrebbe tacere e nasconderlo;
No; quella persona dovrebbe con gioia farne mostra.
Quando ognuno ascolta qualche grande bene
Questo fiorisce come deve;
quando l’elogio della gente è molto,
allora il bene è in piena fioritura.
Era tradizione fra gli antichi
(Su questo punto possiamo citare Priscian [1])

Quando essi scrissero i loro libri negli antichi giorni
Ciò che avevano da dire, essi in modo oscuro lo dissero.
Essi sapevano che un giorno altri sarebbero venuti
E sarebbe stato necessario sapere ciò che essi avevano scritto;
Questi lettori venuti dopo glossarono le lettere,
ed il loro vero migliorò il libro.
Questi filosofi, saggi e buoni,
compresero da soli che
l’umanità, anche quella futura,
avrebbe esteso il senso nascosto
senza uscire dai confini del senso
delle parole e andare oltre.

Chiunque vuole essere salvato dal vizio
Deve studiare ed imparare (tenete a mente il monito)
Ed accettare il difficile compito;
Allora il travaglio è un lontano vicino-
Da grandi tristezze uno può fuggire.
Questa mia idea cominciò a prendere forma:
Trovai qualche buona storia o canto
Da tradurre dal latino nel mio idioma;
Ma qual era il premio della fatica?
Molti altri avevano già provato [2].
Allora pensai ai lais che avevo udito [3],
non dubitai, ero sicura
che erano stati composti per la memoria
di reali avventure, senza errori.
Si ascoltava il racconto, si componeva il canto,
veniva mandato tra la gente. Non era sbagliato.
Avrei rimorso se li lasciassi andare, se permettessi
Che il popolo dimenticasse.
Per questo li ho messi in rima e li ho scritti in modo conforme a giustizia.
Spesso la mia candela brucia la notte.

Sul tuo onore, nobile Sire [4],
al quale per potere e cortesia il mondo fa cerchio-
Tutte le gioie fluiscono da Voi ed intorno a Voi procedono,
per il cui cuore di questi lais assunsi la fatica
di metterli insieme, in rima, in questo libro.
Nel mio cuore intendevo
Di questo farVi dono.
Grande gioia sarà al mio cuore
Se accetterete la mia offerta.
Sarò felice un giorno e per sempre.
Vi prego di non pensare che per vanità
Io parli –l’orgoglio non è il mio peccato.
Ascoltate dunque ed io inizierò.

I
Equitan


In verità essi erano nobili, quei baroni,
i Signori Bretoni, i Britanni.

I Bretoni, per valore, in quei giorni,
per cortesia, e per nobili modi,
ebbero avventure che poi si udirono
raccontare da così tanti uomini-
Allora, per ricordarle, le misero in strofe
Affinché gli uomini non le dimenticassero, per vantaggio della memoria.
Una c’è che io ho udito narrare
Della quale non ho dimenticato nemmeno una parola
Che parla di Equitan che era molto cortese,
Signore, giudice e Re nella Contea di Nancy.

Equitan era il più ammirato
Ed il più amato nella sua terra.
Egli amava i diporti ed il diporto d’amore-
Questo perché era un cavaliere cortese.
Lunga vita non è la ricompensa
Dell’amore senza misura e senno;
Ma l’amore stesso è la ricompensa
Dell’amore; la ragione non può essere imprigionata dall’amore.

Equitan aveva un siniscalco,
un buon cavaliere, valoroso, leale,
amministratore dei suoi beni,
suo intendente e magistrato.
Eccezion fatta per la guerra, nessun compito,
nessuna emergenza- avrebbe fatto indietreggiare
il Re dalla caccia e dai suoi piaceri
e dalla gioia e dai piaceri.
Il siniscalco aveva preso una sposa
Che più tardi portò male alla terra.
Essa era terribilmente bella,
ben educata e rispettabile,
con un bel corpo, una bella figura.
Era un capolavoro della natura.
Occhi glauchi in un viso amabile,
amabile la bocca, naso nel giusto posto.
Le sue lodi raggiunsero le orecchie del Re.
Spesso l’avrebbe mandata a salutare
Con doni portati dai suoi uomini.
Più presto che poteva, voleva incontrarla.
La desiderava senza ancora averla vista.
Andò nella campagna per diporto,
per il piacere della caccia.
Nell’abitazione del suo siniscalco,
il castello dove la dama stava,
il Re si riparò al crepuscolo;
aveva necessità di riposare, tanto duramente aveva giocato.
Ora le può parlare, appartato,
rivelare il suo valore, mostrare a lei il suo cuore.
Egli la trova cortese, saggia, giusta,
bella nel volto e nella figura,
gentile, vivace, troppo, non fredda.
Amore lo avvince nella sua casa.
E il desiderio è immenso.
La freccia d’amore ha colpito nella sua direzione
Ed il desiderio è immenso.
Ha colpito il suo cuore; questa malattia
Non avverte di essere prudenti.
L’assalto d’amore di donna è senza pietà.
Egli diviene triste, pensoso, sommesso.
Ora egli mette sé stesso alla prova,
non offre resistenza o diniego:
quella notte non ha riposo nel letto,
ma rimprovera sé stesso e si dà colpa.
“Ahimè” dice “Cosa ha macchinato il fato,
conducendomi in aperta campagna?
Ho visto questa signora; ora una freccia
Agonizzante ha percosso il mio cuore.
Agita e fa tremare il mio corpo,
Penso di amarla veramente.
Se l’amo, sono in torto, in tutto:
è la moglie del mio siniscalco.
Devo tener fede a lui
Come lo voglio a me fedele.
Se con qualche destrezza egli capirà,
so che lo infastidirà molto.
Eppure, non sarebbe un peccato
Se per lui diventassi folle.
La così avvenente Signora, sarei triste
Se essa non avesse amore, se non avesse chi la ama.
Che beni sono i suoi modi cortesi
Se essa non impara i giochi d’amore?
Sotto il cielo, ogni uomo, se lei lo amasse,
migliorerebbe in maniera terribile.
Il siniscalco non ne avrebbe fastidio
Se non potesse averla per sé stesso.
In verità, voglio condividere la sua abbondanza.
Così diceva, e sospirava molto profondamente,
poi giacque pensoso, senza dormire,
poi parlò e disse “Ora, che cosa è
questo travaglio in me? Sono così preoccupato, ma
non ho ancora provato a scoprire
se lei mi prenderà come amante.
Lo proverò, lo giuro!
Se sente ciò che io sento
La mia tristezza potrà cominciare a guarire.
Dio! C’è ancora lungo tempo al giorno!
Non avrò riposo in questa lunga
Notte- non mi sono coricato.”
Egli giacque sveglio fino all’alba,
si alzò, uscì per la caccia,
ma presto, esausto, tornò.
Non si sentiva bene, disse:
andò nella sua camera, a letto.
Il siniscalco è ignaro:
non sa quale male serpeggia
e trema e freme nel re.
Sua moglie è la causa di tutto.
Per divertirsi e consolarsi
Chiacchiera con lei nella sua camera.
Apre il suo cuore e l’anima,
le racconta che per lei è vicino a morire.
Essa soltanto può concedere conforto,
altrimenti è vicino a morire.
“Mio Signore” dice la donna,
“ho bisogno di pensare su quanto dite.
Questa prima volta, Voi capite,
non ho pensato e pianificato.
Voi siete il più nobile dei Re;
non sono ricca, me misera,
non dovete pensare di me in tal modo,
come un amante o una compagna di giochi d’amori.
Se Voi fate ciò volete con me,
sono certa che al più presto
mi lascerete qui,
ed io sarò peggiore per costumi.
Se accade che io vi ami,
e che io Vi dia ciò che chiedete,
ancora non sarà un eguale spartizione;
quali amanti, non saremo uguali.
Da quando siete un Re di regale potenza
E mio marito Vi deve rispetto
Potete pensare, mi aspetto,
di riscuotere amore come diritto di tributo.
Amore senza valore e senza corrispondenza.
Migliore la lealtà di un uomo povero
Se il senno ed il valore sono in tal uomo;
e questo amore dà più grande gioia
che quello di un principe o di un re,
se nel cuore di questi non c’è lealtà.
Se uno ama più intensamente
Delle ricchezze a cui aspira,
allora ha paura di ogni cosa.
L’uomo ricco teme, da parte sua,
che qualcuno possa rubare il cuore della sua donna,
e chi la vuole e proprio il suo re.”
La risposta di Equitan non si fece attendere
“Donna, non dite questo, vi prego!
Questi non sono uomini o donne cortesi,
no, è un contratto da borghesi,
se per abbondanza o rispetto feudale
essi si adoperano tanto duramente verso un basso obiettivo.
Non c’è donna sotto il cielo, saggia e gentile,
cortese, e nobile di cuore, che ami a prezzo
di non cambiare amante-
così povera, che il suo mantello è tutto il suo patrimonio,
ma un ricco principe in un castello reale
non dovrebbe soffrire per lei, ed attendere,
ed amarla, ed essere leale.
Amanti incostanti, che pensano di essere astuti,
sono sempre pronti a qualche sotterfugio,
ed ingannano sé stessi- perdendo la faccia.
Lo vediamo in molte vicende.
Se perdono, non c’è da sorprendersi.
Cara Signora, tutto mi do a Voi!
Non pensate a me come al Vostro Re:
chiamatemi Vostro amico e servitore!
Vi giuro, lo dico con sicurezza,
che farò tutto ciò che direte.
Non lasciate che muoia oggi per Voi!
Voi siete la Signora, io il servitore qui;
ascoltate la preghiera d’un medicante!”
Il Re parlò ancora e ancora, e la pregò
Tanto di avere misericordia che la convinse
Della verità del suo amore,
così ella gli concesse il suo corpo, troppo.
Si impegnarono, scambiandosi gli anelli,
per eterna fedeltà- ognuno sovrano dell’altro.
Furono fedeli, come amanti e amici;
morirono per questo, andarono incontro alla loro fine.

Per lungo tempo il loro amore durò,
e mai nessuno ne udì una parola.
Quando veniva il tempo per loro di incontrarsi,
di parlare, il re discretamente mandava il messaggio
che doveva privatamente riflettere.
Poi le porte della camera da letto venivano chiuse.
Non si sarebbe trovato un uomo tanto audace,
a meno che non fosse incaricato dal Re,
che per qualcosa sarebbe entrato.
Il siniscalco agiva quale magistrato,
giudicava casi, ascoltava dibattiti.
Il Re amava tanto questa donna
Che nessun altra desiderava.
Una sposa, un matrimonio, egli non lo desiderava;
mai si lasciava scappare una parola di ciò.
Il popolo pensava che ciò fosse male;
anche la moglie del siniscalco
lo udì, spesso; lo prese in considerazione
ed ebbe timore di perdere il suo amante.
Quando parlava da sola con lui
(Era contenta di farlo felice,
abbracciarlo, carezzare il suo collo,
baciarlo, e fare giochi d’amore con lui)
gemeva e versava lacrime.
Il Re si meravigliava – cosa accade,
diceva, perché piangi?
La donna diventava triste e rispondeva
“Mio Signore, è per il vostro amore.
L’amore si muta in dolore.
Prenderete moglie, figlia di un Re,
e mi lascerete per sempre.
Ho udito discorsi, so che sono veri.
Ahimè! Che cosa farò?
Per voi vorrei semplicemente morire—
Non ho altro conforto, io!
Il Re parlava con amore “ Mia cara,
amorevole fanciulla, non temete!
In verità, non voglio prendere una sposa,
o lasciarvi per una strada sconosciuta.
Ascoltate la verità, credete a ciò che dico:
se non ci fosse vostro marito sulla strada,
mia moglie, la Regina, sareste Voi-
nessuno mi fermerebbe!”
La donna lo ringraziò per queste parole;
era veramente tutta colma di gratitudine,
egli l’avrebbe amata o sposata,
e pensò, con la più grande rapidità,
che suo marito potesse morire.
Questo poteva facilmente compiuto
Con il suo aiuto – e non desidererà egli
Aiutarla? Egli ripose sì, lo farà;
non c’era niente che ella potesse dire
che egli non avrebbe fatto, se avesse potuto-
Follia o saggezza, male o bene!
“Signore” ella cominciò “sembrerà bene
che voi andiate a caccia nella foresta
dove io vivo, in quella landa.
Nel castello di mio marito
Ci sarò; siate prudente; dite
Che siete uso avere un bagno il terzo giorno.
Mio signore, avrete sangue, troppo,
e prolungherete il bagno;
non tenetelo fuori, ditegli
che deve tenervi compagnia.
Ed io vi scalderò l’acqua
Ed ordinate altri due tini.
Questo bagno sarà caldo, bollente.
Sotto il cielo non c’è uomo
Che potrebbe sopravvivere alla morte bollente
Prima di sedersi in questo bagno.
Quando sarà morto, completamente bollito,
chiamate i vostri uomini; provate loro,
mostrate loro come egli morì all’improvviso
nel bagno proprio allora”.
Il re fu d’accordo su tutto.
Egli l’avrebbe fatto.

Lasciate trascorrere tre mesi, e conducete
Nella landa il re a caccia,
egli è deciso, si sente cattivo,
e con lui è il suo siniscalco
e il re gli dice che vuole un bagno, il terzo giorno;
“Avrete il Vostro bagno” dice “insieme a me”.
Il siniscalco risponde “D’accordo”.
La signora ha scaldato l’acqua,
ed ha portato due catini da sola.
Nel letto non avevano cambiato le loro trame.
Essa ha preparato i due catini d’acqua.
L’acqua bollente la versò interamente
Nel catino per il siniscalco.
Il buon uomo si agita;
per compiacere sé stesso, si agita.
La signora va a parlare al Re;
egli la attrae nell’intimità;
giacciono nel letto del marito,
divertendosi con tutti i giochi d’amore,
in quel luogo giacciono insieme,
proprio vicino al catino d’acqua.
La porta era sorvegliata e vigilata-
C’era una fanciulla a guardia.
Il siniscalco tornò in fretta;
bussò; la fanciulla serrò subito la porta;
poi egli colpì con tale furia
che i suoi colpi la costrinsero infine ad aprire.
Egli trova là in quel luogo il Re
Accoppiato con sua moglie in uno stretto abbraccio.
Il Re alzò lo sguardo; vide lo stato di quello.
Per coprire il suo vile, basso, codardo peccato
Saltò nel catino d’acqua
Ed egli era a ventre nudo, spogliato;
scottato là egli morì.
Sicuro e sano stava colui che doveva essere la vittima.
La sua malvagia trama si ritorse contro di lui.
Il siniscalco guardò tutto
Ciò che era accaduto, il catino, l’acqua bollente, il re.
Prese la moglie e le ficcò la testa nel catino.
Così essi incontrarono la morte, questi due:
chi vuole ascoltare la ragione
può trovare qui una morale per ogni stagione:
colui che cerca il male per il suo vicino
sarà la vittima della sua stessa trama.

Questo accadde proprio come io ho detto.
I Bretoni fecero una strofa per dire
Come Equitan finì la sua nobile vita
E come tanto quella l’amò, quella moglie.


Commento di Mario Amato

Il prologo di Marie de France è una difesa della funzione poesia: essa ha virtù consolatorie e morali. Nel discorso d’apertura della poetessa si legge anche la preoccupazione per la salvaguardia dei significati simbolici della scrittura e per questo si richiama alle Metamorfosi di Ovidio, segno questo di grande cultura e di consapevolezza dell’importanza del mito.
Marie de France tuttavia non si richiama, come il suo più famoso contemporaneo Crethien de Troyes, alle auctoritates solite nei testi medioevali, bensì alle tradizioni orali bretoni.
Vi sono però punti d’accordo con le idee di Crethien de Troyes. Nel primo di questi lais è evidente la critica al potere centrale. L’amore che il Re Equitan prova per la moglie del suo siniscalco non è semplicemente una passione d’amore, ma è un arbitrio contro la piccola nobiltà, arbitrii che non dovevano essere rari in quel tempo.
Nella cultura di Marie de France il Re è qui il malvagio. Il potere centrale cercava di limitare il più possibile quello della piccola nobiltà.
La stessa collocazione del castello del siniscalco è segno della sua autonomia: il maniero si trova in una foresta, isolato e lontano. Vi sono elementi che avvalorano la tesi di un potere assai ridotto di questo siniscalco: non appare servitù, anzi è la moglie del siniscalco che scalda l’acqua, che sarà l’arma scelta dai due amanti per la loro orribile trama.
Sappiamo quanto la scrittura medioevale amasse i simboli: l’acqua è segno di rigenerazione, di una nuova vita. La morte del Re e della moglie del siniscalco può significare la nascita di una nuova società fondata su valori diversi da quelli di un’antica cavalleria, dedita soltanto alla caccia, ad atti violenti ed a peccaminosi piaceri d’amori. La figura della moglie del siniscalco fa ancora parte dell’antico mondo: essa non fa nulla per difendersi dalle più che esplicite richieste del Re ed è lei stessa ad ideare l’assassinio del marito. Non c’è alcun pudore in lei, che anche dopo la presunta morte del marito giace ancora con il suo amante. Si noti che la poetessa insiste sull’espressione “giochi d’amore” quasi a sottolineare la crudeltà dei due amanti.
La morte orribile della moglie del siniscalco appare più come la sentenza di un tribunale (non va dimenticato che il siniscalco è un giudice) che come un assassinio.


1) Un famoso grammatico bizantino
2) Marie allude alle Metamorfosi di Ovidio, che nel Medioevo era uso tradurre in vernacolo come esercitazione.
3) I “lais” uditi da Marie appartengono alla tradizione orale
4) Probabilmente Enrico II il Plantegeneta (1133-1189)
 


 
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Andrea Carbonari
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MENTRE TI GUARDO CRESCERE
(del Giullare alla figlia)
 
Mentre ti guardo crescere io penso
a quel nulla di senso che t’ aspetta
al vuoto che s’affretta a render vana
questa volta, la mano una parola
che ti colora gioia di sorrisi
nei campi elisi su cui leggera corri
e discorri col vento, i frutti e i fiori
di ogni cosa ignori fine certa
ritmi marini intrecci ora alla luna
nessuna felicità maggiore è data
e alla tua giornata la mia s’adagia
sí che senso avrebbe morte presta.

(giugno 2006)
 


 
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Alfonso Cardamone
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LA FILOSOFIA DEL TRAMONTO NELLA PIÙ RECENTE OPERA DI MARCELLO CARLINO
 
Nel prendere in mano questo libro e nell’accingersi a sfogliarlo, il Lettore eventuale farà sicuramente bene a seguire l’ordine sequenziale dei capitoli, così come per lui li predispose, con provvida sagacia, l’ Autore. Magari chiedendosi, di tanto in tanto, il Lettore, nel processo di avanzamento e approfondimento della lettura, il senso di quel titolo, Ciociaria quella terra di viaggi che non dico, che è una promessa e al tempo stesso pare una ritrosìa.

Ma altra strada, alla prima opposta, sarà opportuno che il Recensore segua, rovesciando, e poi rimescolando l’ordine dei capitoli, incignando il ragionamento a partire dall’ultimo, Un giorno, in uno scompartimento del treno.
E non solo perché qui si parla apertamente di viaggi, e di viaggi attraverso la Ciociaria, che portano pendolarmente da Frosinone all’ Urbe e viceversa, ma soprattutto perché qui è il rinvio, implicito ma trasparente, del titolo del libro all’universo poetico gozzaniano, che generosamente fornisce la chiave di lettura, la cifra fondamentale per penetrare l’affascinante gioco combinatorio messo in atto da Marcello Carlino con questo che lui chiama, con signorile modestia e garbata civetteria, il mio libriccino, il mio saggetto.

La Ciociaria, quella terra di viaggi che non dico, sta a Marcello Carlino come il Canavese, quel dolce paese che non dico, sta a Guido Gustavo Gozzano, il poeta del Novecento tanto amato da Marcello quanto da chi scrive queste note (una passione in comune, e non la sola, che ci avvicina, come l’altra che per brevi citazioni pur tracima dalle pagine del libro, per Dino Campana, di cui ritornano le espressioni e del tempo fu sospeso il corso; e la notte delle varie immagini, quest’ultima presa in prestito a sottolineare l’ingannevole scenario di una piazzetta di Casalvieri, magistralmente interpretata).
La memoria di Gozzano richiama “al senso plurimo delle cose, alla relatività delle esperienze e alla attenuazione anche ironica, alla ‘perplessità’ crepuscolari”.
E, intanto, confessando questa intenzionalità di sostrato, l’ Autore chiarisce anche il senso del suo personale viaggio e del libro, che non sarà, per sua scelta, una guida né un saggio storico o sociologico. Niente ricerche documentarie particolari e approfondimenti eruditi, alla base del testo, ma una tessitura di ricordi e di rimuginii personali, per restituire una Ciociaria secondo me, secondo “la mia scala di valori, secondo il mio sistema di idee e le mie scelte, secondo le mie speranze”.

Speranze, già. Speranze per il mondo a venire delle nuove generazioni. E sì, perché il libro di Carlino è anche un progetto politico, oltre a tante altre cose. Oltre, per esempio, ad una sorprendente metafora del viaggio.
Si prova a dire, l’ Autore, che viaggia “in una terra il cui proprio può essere rintracciato nel viaggio”. E, a beneficio del lettore specifica: “Viaggio degli emigranti, viaggio di chi è venuto a popolare questa provincia, viaggio alla ricerca di una identità, viaggio come incontro con l’altro. Viaggio che può essere una ricchezza, una risorsa per il futuro”.

Sì, il libro di Marcello Carlino è tutto questo. E molto altro ancora, ponendosi come un libro stratigrafico, di una stratigrafia particolare ovviamente, letteraria, in cui a livelli diversi si incontrano, e pur si mescolano, felicemente contaminandosi e aprendosi ad echi di risonanze profonde, filoni di ispirazione differenti.

Ma Gozzano, allora, in tutto questo?
In questo libro si riesce a fare un uso politico della poetica di Gozzano, un trascinamento di alto valore speculativo del suo ironico reducismo dalla Morte.
In realtà il verso gozzaniano, nella sua intierezza, recita: Reduce dall’ Amore e dalla Morte, reduce cioè dalle due cose belle che mentirono al poeta. Ma non è questo che conta. Conta invece, e molto, l’operazione che Carlino compie a partire dalla reductio ad unum del binomio. È il sentirsi gozzanianamente reduci dalla morte che fonda quella “coscienza del crepuscolo, della fine” (la fine che è poi “il fine a cui tendono inesorabilmente le opere e i giorni dell’uomo”), su cui può depositarsi l’ironia, il disincanto, lo straniamento e, infine, la possibilità stessa di autocoscienza e di umana saggezza.
Marcello la chiama “filosofia del tramonto” e pindaricamente la incrocia con l’esperienza degli ineguagliabili tramonti che è possibile godere dalle balconate di Frosinone. “Mai altrove ho visto –egli ci dice- spettacoli di pre-crepuscolo più stupefacenti di quello che s’accende sullo schermo della finestra del mio studio”.
E, voglio dire, è esperienza questa, quotidiana, che può appartenere a ciascuno che abbia frequentato i panorami frusinati. Ma Marcello va oltre e, oltre a Gozzano, chiama in causa il Benjamin della teoria dei panorami, che “interseca l’allegoria” e “collude con essa”, talché, per esempio, alla sua sensibilità coltivata, Fermentino e Anagni, osservate da lontano, con zoom panoramico, vengono confuse alla vista, indistinguibili nei confini, e si fanno, ai suoi occhi, simbolo di una cultura dello spaesamento, che non nega le differenze, ed anzi le afferma necessarie e produttive, ma le stesse spinge a convergere proficuamente. E questa è già occasione per una critica dell’ideologia della globalizzazione, che tutto rende uniforme e normativo, e per un rafforzamento, al contrario, della virtù dello straniamento dell’osservazione, dello sguardo deviato, perché ogni terra non è riducibile ad un senso unico, ma è definita sempre da una “pluralità di aspetti, un fascio di relazioni, un ampio polisenso”. E le differenze ci sono –abbiamo detto- e hanno diritto a esserci, le difformità si presentano, ma possono coesistere e contribuire a creare l’immagine di una realtà altra, solidale, che non sia il semplice prodotto della loro giustapposizione.
Tale chiave interpretativa si applica con spontanea evidenza alla Ciociaria, terra che anche geograficamente non consiste in una identità fissa e inamovibile, coincidente con un territorio definito da confini fisici che la racchiudano in una dimensione identitaria inappellabile. Né è riducibile esclusivamente al territorio politico-amministrativo di una provincia. Ci si può approssimare alla Ciociaria solo attraverso una “pluralità di aspetti, un fascio di relazioni, un campo polisenso”, appunto. E qui Carlino dà prova di una sintesi bruciante: la Ciociaria è contemporaneamente “sottosuolo e superficie, preesistenza e innovazione, caducità e durata, attestazione e rimozione, presenza e assenza, rivendicazione e abiura, resa all’effimero e progetto, vita e pulsione di morte, polluzione e bellezza”.
Così procedendo per termini oppositivi, gli stessi che già avevano fatto capolino dalle prime pagine del suo densissimo “libriccino”, là dove, trattando di Ceprano e di Fregellae, e di Ripi e del suo effimero sogno di petrolio, aveva cominciato a svelare la trama binaria del tracciato che intendeva percorrere, o, per meglio dire, la metodologia di opposizioni binarie che sottostà al dipanarsi della trama.

Dall’ Archeologia pensata a strati, di preesistenza in preesistenza, scendendo giù giù fino al pozzo senza fondo del pre-paleontologico della geologia pura, all’eruzione in superficie del petrolio, alla terra che, impastata delle profondità insondabili del sottosuolo, pure trasuda, erompe in superficie.
Sottosuolo/Superficie, primaria opposizione fondante. E poi Superficie come erba che l’uomo calpesta e Sottosuolo come petrolio che dal Sottosuolo erompe.
Uno scenario di campagna toscana, la campagna di Ripi, oniricamente costellata di pozzi abbandonati, di inquietanti macchine estrattrici inattive, come dormienti: ecco definito in questo gioco di allegorie binarie il sogno ricorrente, e ricorrentemente deluso, di Ripi. Un’immagine di potente forza allegorica si staglia: “Una donna con due brocche, a raccogliere l’acqua con l’una e il petrolio con l’altra”.
Acqua e Petrolio, Tradizione e Innovazione, in perpetuo inseguimento e contrasto a definire la Ciociaria. Fiuggi e Ripi, Natura e Tecnica, Natura e Scienza, come in un vecchio depliant turistico che invitava a visitare la Ciociaria.
E ancora, il moto oscillatorio perpetuo tra Disperazione e Speranza, Attesa e Delusione. E, ancora, Campagna e Città, Radici e Altrove, come “luoghi del pensiero”, in un continuo andirivieni, come nel “migrante di ritorno” dei Mari del Sud di Cesare Pavese.

E seFumone è sinteticamente riassunto e rappresentato dal contrasto brutale tra il Castello, al sommo del colle, e la guglia del gigantesco ripetitore televisivo che lo affianca come “un luttuoso, decerebrato, inamovibile monumento alla civiltà odierna”; Fermentino celebra nella sua acropoli, e nel castello medievale ancor più evidenzia, l’ambigua doppiezza del potere, che da sempre accompagna l’uomo nello svolgersi della storia. Il potere nella sua rappresentazione urbanistica, come una “madre piovra”, al tempo stesso benevola, perché pronta alla protezione del popolo da attacchi esterni, e rapace, perché istituzionalmente votato a coartare, sfruttare, asservire, rapinare e costringere quello stesso popolo, come attestato dall’esibizione delle strutture alla sua (del Potere) persistenza necessarie: carceri, mercato, luoghi di culto, deposito militare.

Ecco allora che la Ciociaria, questa terra che geograficamente non c’è, e che pure è territorio sperimentalmente realissimo, questa terra in cui coincidono paradossalmente esistenza e non-esistenza, si fa paradigma di una possibilità di riscatto, pegno di un futuro differente e migliore, “insegnandoci che una terra può, forse deve pensarsi in un sistema più ampio di relazioni, di interferenze, senza confini che la costringano”.
In questa chiave, ancora, la paradossale compresenza di esserci e non esserci, di cui ci parlano i suoi stupefacenti tramonti, richiama e si proietta su quella filosofia del tramonto, su quella gozzaniana “perplessità crepuscolare”, che è contrasto forte e demistificante di ogni monumentalizzazione autoreferenziale del potere, di ogni smania fondamentalistica e totalizzante per il sacro, viatico per il recupero del senso della temporalità, della cultura del relativismo come connaturale all’essere.

La Ciociaria -e questo è in definitiva il messaggio forte del libro-, relativa com’è financo nel suo “statuto di terra che non c’è”, entità mobile e scentrata, impastata di una storia di contrasti e contraddizioni, fatta sì di distruzioni, sofferenze, emarginazioni, che l’hanno portata più volte ad attraversare la morte, ma anche di fertili incontri (in tutto ciò è il senso della terra di viaggi che non dico), è pur sempre terra che ha più volte attraversato la morte e, gloriosa di sempre rinnovati incredibili tramonti e, dunque, della loro formidabile simbologia, insegna la fede laica nell’utopia concreta del “superamento in viaggio dei confini”, dell’apertura alla filosofia del tramonto, al recupero collaborativo delle preesistenze, all’arte “di chi guarda alla vita con gli occhi della morte”.

luglio 2007


Marcello Carlino: “CIOCIARIA quella terra di viaggi che non dico”, Guida, Napoli 2007.
 


 
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Andrea Carbonari
[ nc-carbonan@netcologne.de ]
 
MOMENTI DI PRE-SENTIMENTI OTTOBRINI NEL CORSO DEI TEMPI
 
Dei momenti (che il giullare non sa)

Non chiedermi dove finiscano
i momenti che attraversiamo
quando ci guardiamo o ci diamo la mano
per quante volte e quante
lo stesso gesto eppure
mai lo stesso;
presenze di una retta muta
che i piani del nulla incurva
in volti tratteggiati
inquieti voli di rondini
che si infrangono e si disperdono
in qualche punto dell'universo.

ottobre 2003

Leggero e irraggiungibile (del giullare al passare)

Leggero e irraggiungibile il tuo passo
di quelli già partiti in qualche dove
dispersi nei misteri dei passaggi
rapiti al consumarsi delle ore
prima che le Moire e anche dopo
ne facciano lo scempio che sappiamo....
.......................................
per questo ti stringo forte la mano
al passo leggero e irraggiungibile
del divagare tuo di sasso in sasso.

ottobre 2007
 


 
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Ugo Fracassa
[ ugofrcs@virgilio.it ]
 
“IL PATHOS DELLA DISTANZA”
LE LONTANANZE CIOCIARE DI MARCELLO CARLINO
 
I contemporaneisti versati in letteratura al toponimo Ciociaria associano ormai, per riflesso pavloviano, i nomi di De Libero e Landolfi – desideroso il primo, riottoso il secondo nel dirsi ciociaro; allo scopo di introdurre il volume “Ciociaria, quella terra di viaggi che non dico” di Marcello Carlino, però, il nome di Sandro Penna, autore di un “Viaggio in Ciociaria” alla fine degli anni 30, si fa preferire: “ La valle era là sotto [Frosinone] immensa e buia, coi lumi addormentati a fior dei colli, come in un sonno ad occhi aperti”, “Il paesaggio che da quell’altezza si scopriva [Veroli] era ancora più vasto e più bello dell’altro visto a Frosinone”. Le due citazioni dal poeta perugino bastano a dire l’inesorabilità del paesaggio ciociaro, la distanza magnetica che lancia lo sguardo nel vuoto a caccia di orizzonte. Carlino, al cospetto di un simile scenario, giunge al paragone col paesaggio toscano: “Ho sempre guardato a questa come a una porzione di campagna toscana”. Sarà appena il caso di notare che, nonostante l’apparentamento, siamo lontani, da queste parti, dall’ipotesi di un decalogo che richiami quello promosso da Alberto Asor Rosa per il paesaggio della Val d’Orcia.
Ma, per tornare agli “interminati spazi”, la morfologia del nostro territorio configura ciò che l’autore definisce una “conca ovoidale” ed esclude perciò il “guardo” dall’ultimo orizzonte – Leopardi, in effetti, è nell’aria e spunta a pagina 29 evocato dai “volani di infinito” e dalle “indeterminate risonanze” – orizzonte di cui resta inappagato il desiderio, di là dai Lepini, come di un mare disteso e longinquo : “oltre, sul versante a solatio dei Lepini, non visibile da me ma prossimo (il petrolio arrivato fino a Ripi ne è conferma) il mare”.
È il filtro della distanza, il diaframma costantemente frapposto da Carlino fra retina e panorama, distanza che, mai come in queste pagine rima con disianza , quel desiderio che in inglese è connaturato alla lontananza (longing / to long for) come, fino a ieri, sapevano bene i ciociari di Supino, digiuni forse d’inglese - salvo impararlo sul campo una volta emigrati - ma esperti in “lontananze”. Tale sostantivo, soltanto al plurale e nella locuzione “fare le l.” sottende un desiderio, erotico per lo più, epperò, in senso lato, conoscitivo. Ebbene Carlino fa le lontananze alla Ciociaria come chi la frequenti ma non la possieda (di tale distanza, tra l’altro, il testo dispiega un lessico speciale che va a pescare fino nell’astronomia, per esempio con l’uso del termine: elongazione )
Ma la distanza fisica, nello spazio, gemina e suscita l’altra, temporale, giusta la teoria benjaminiana dei panorami che, “per effetto di distanza, trattengono nel presente un mostrarsi del già stato”: (a pagina 20, guardando Ferentino) “e la vista da lontano, ora che hai messo a fuoco restringendo il campo, non diresti si discosti dalla memoria che hai”. Il secondo tema del libro, infatti, a fare il paio col tema della distanza, è quello della memoria, la memoria dell’infanzia: (a pagina 16) “le mie vacanze, da bambino, […] erano meravigliose come tutte le vacanze dell’infanzia che ricordiamo da lontano nel tempo ammaliati dal pathos della distanza”.
Ciò che accende l’orizzonte di questi panorami è il tramonto (“pre-crepuscolo”, per la precisione poiché il tramonto si consuma e si compie di là dai monti), l’esperienza del quale diventa sostanza di una filosofia, crepuscolare, appunto, di cui ha già detto Alfonso Cardamone, richiamando Gozzano, all’atto della presentazione del volume. Al reducismo gozzaniano e alla teoria dei panorami di Benjamin come fonti del tramontismo carlinesco aggiungerei, infine, l’ “arte crepuscolare” secondo Dino Campana (altro poeta già evocato da Cardamone e carissimo a Marcello). Questa la definizione che ne dava il poeta di Marradi e che il nostro ha trascritto in un saggio del 2005: “arte crepuscolare […] tutto si affaccia e si confonde […] tutto è evanescente e tutto naufraga”. Ebbene, la si confronti con la seguente dichiarazione tratta da “Ciociaria. Quella terra di viaggi che non dico”: “in una panoramica, quel che ti appariva unitario e coeso si smaglia, si decostruisce, si perde” e si avrà un’idea del grado di affinità tra le due poetiche.
Il volume, inanellato in collana coi ritratti di città di Goethe, Dickens e Ungaretti, si apre (e termina, con studiata circolarità) su un dialogo ed è geneticamente dialogico, nascendo da una commissione (come risulta dall’ultimo paragrafo) e intrattenendo costantemente un colloquio col lettore sul metro del tu (a pagina 92: “diciamo a te, ipotetico lettore”). La teoria della letteratura, disciplina accademicamente recente ma antichissima, ha provato a stanare il lettore, volta a volta qualificandolo di empirico, ideale, modello; quello ospitato nelle pagine del nostro partecipa delle tre qualità in quanto dedicatario competente e spesso identificabile, nome e cognome nella cerchia di amici e conoscenti dell’autore (alcuni nomi sono esplicitati nella nota finale). Per una volta, infatti, il Carlino docente universitario, affronta una materia che non governa naturalmente e sulla quale dichiara di non essersi documentato; una materia cioè genealogicamente più prossima a chi, verosimilmente lo leggerà e può vantare un’appartenenza meglio radicata. Ecco perciò l’azzeramento della distanza che solitamente si avvantaggia di specialismi lessicali e competenze inusitate ai più. Quel tu, poi, è bidirezionale, gli ritorna come apostrofe già a pagina 7, la prima, dove al suo iniziale: “Vediamo se indovino” corrisponde un: “hai saputo orientarti bene”, proferito da un interlocutore presumibilmente locale. Lo stesso pronome personale di seconda persona singolare può essere pronunciato tra sé e sé, come, significativamente, quando, a proposito del ripetitore che svetta su Fumone, si legge: “un enigma ti appariva un tempo”. In questo caso è il Carlino ciociaro pour cause ad apostrofare l’altro, ciociaro per caso (così a pagina 59: “Quando si abita un luogo, seppure vi si sia capitati come per forza del destino, o vi si sia costretti…”).
Ma è tempo di venire alla dimensione politica del “libriccino”; intanto essa va intesa etimologicamente, come relativa alla polis. Frosinone, nella perifrasi d’autore: “quel che si definisce il capoluogo della Ciociaria”, condivide ormai lo statuto cittadino con Sora e Cassino ma, per meriti storico artistici, con Veroli, Anagni , Ferentino, Alatri, Arpino ecc . La sfida consiste, secondo Carlino, nello sfuggire alla morsa metropolitana che l’equidistanza da Napoli e Roma fa stringente, disseminando l’aura della cittadinanza tra gli abitanti dell’intera regione (ciò che a pagina 84 è definito: “urbanistica di area”). Chiediamoci però: quale idea di città? La risposta si trova, declinata a chiare lettere a pagina 72:”nel quartiere in cui abito mi sento di casa”.
Particolarmente se paragonata al caotico calderone capitolino, Frosinone pare propaggine del domicilio: le quattro pareti dello studio – cellula abitativa cruciale nel testo – infatti, si estendono al quartiere, alla biblioteca comunale con bar attiguo ma, più oltre, al centro storico dei paesi circonvicini. Andare a Isola Liri, insomma, come si passa nel tinello di casa; starsene sull’agorà anagnina intitolata a papa Bonifacio VIII come in un vasto e austero salone. D’altra parte, l’intera geografia locale – circa 4.000 km2 – è rappresentata indoor, situata com’è nella conca naturale circoscritta dagli spalti montuosi di Ernici, Lepini, Aurunci e Ausoni (in una pagina che pare la schermata di Google Earth, Carlino dispiega il suo talento di cartografo visionario e imbandisce una mappatura in 3d, con tanto di isoipse e curve di livello). Hortus conclusus, il macrocosmo ciociaro risulta come irradiato dal nucleo domestico dello studiolo frusinate: nella fattispecie le pagine 26-27 ne chiariscono nel dettaglio le coordinate spaziali. La scrivania, presumibilmente camera gestazionale del saggetto, risulta orientata, parallelamente alla finestra – che a sua volta replica l’esposizione della balconata naturale di Frosinone – sull’ovest, verso l’aperto, mentre volge le spalle, come il muro della stanza e il lato meno affacciato dell’appartamento, a sud est. L’assonometria casalinga propaga all’esterno le dimensioni vivibili di un habitat a misura d’uomo e di cittadino.
Un sentimento della residenza così fondato non esclude, anzi suscita, considerazioni politiche su più vasta scala, storicamente e socialmente connotate. Queste riguardano la difesa dell’ambiente, la regolamentazione urbanistica, un’industrializzazione integrata e non tacciono i nomi dei responsabili, a vario titolo, del pluridecennale degrado. Allo stesso modo la coscienza di classe degli operai già attivi nelle cartiere di isola Liri come pure l’insuperato esempio del gruppo di Comunità facente capo a Adriano Olivetti, rappresentano palesemente nel libro un modello di sviluppo alternativo e praticabile.
Il libro che, per dirne una, si apre e si chiude su un dialogo, vanta un’architettura solidissima, l’autore stesso informa che l’opera si regge su una “struttura organica, compatta”, ben lungi dalle caratteristiche della produzione seriale e anonima del genere “guida turistica”. A riprova di una simile compattezza, proviamo a rileggere l’attacco e vi scorgeremo, col senno di poi, una portata programmatica. Le prime parole suonano: “Vediamo se indovino”, come a dire che lo spaesamento vale più del radicamento nativo per descrivere una terra come la Ciociaria.

aprile 2008

Marcello Carlino: “CIOCIARIA quella terra di viaggi che non dico”, Guida, Napoli 2007.
 


 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
TRACCE DI VITA
 
Una scala scavata nella roccia e nella terra s’inerpicava tra castagni e querce, non diritta e non agevole, ma sinuosa e con alti gradini e terminava dinanzi ad un cancello dal quale si accedeva ad un bellissimo campo da tennis in terra battuta.

Se questo fosse un romanzo, caro lettore, ti direi che quel campo da tennis lo aveva costruito un medico tornato dalla prigionia in Australia dopo la seconda guerra mondiale e ti direi ancora del suo matrimonio e dei suoi figli, uno di nome Filippo e l’altro di nome Mario, e ancora ti narrerei che il primo fu un discreto campione di tennis e l’altro un buon praticante; purtroppo il primo passò all’altra vita in circostanze oscure ancora in giovane età.

Questo tuttavia non è un romanzo, ma una piccola storia in cui si mescolano realtà e fantasia, ma quale sia la parte fantastica e quale quella reale è difficile da dire pesino per colui che racconta.

Chi si avventurava a passeggio nel bosco sentiva i colpi delle racchette che colpivano la pallina e spesso si fermava a guardare i giocatori. Intorno, sui magnifici alberi saltavano gli scoiattoli.

Mario, perduto il fratello e il padre, ora giocava sempre con l’amico Aldo. Erano partite lunghe, infinite ed erano mille conversazioni tra due inseparabili amici. Perfino quando il sole stava per tramontare e la luce scemava, i due amici si sedevano e restavano a parlare e a guardare i giochi dei piccoli scoiattoli tra i verdi rami.

E così passavano gli anni.

Un giorno Mario si presentò sul campo da tennis con un nuovo amico: un piccolo cane bianco che somigliava a un fiocco di neve o a un batuffolo di lana. Era un cucciolo di pastore maremmano, cui fu dato il nome di un dio germanico: Thor.

Con le zampe ancora piccole Thor arrancava sulla impervia scala e saltava da un gradino all’altro prendendo la rincorsa, ma mostrava di essere felice in quell’ambiente salubre e gioioso. Così crebbe Thor e divenne un magnifico cane.

Tutto cambia. Aldo andò lontano e Mario non aveva più amici con cui giocare a tennis, ma spesso si recava con Thor al campo da tennis, si accomodava su una sedia e parlava con il suo cane o leggeva un libro portato da casa.

Tutto cambia. Venne il tempo in cui Mario non fu più in grado di salire fino al magnifico campo. Thor spesso dal giardino di casa guardava verso il bosco con gli occhi pieni di nostalgia, sentimento che condivideva con Mario.

Venne a casa di Mario una donna dall’est di nome Anna e tra Thor e lei fu una grande amicizia. Ora Thor poteva ancora andare a passeggio nel bosco, poteva correre tra gli alberi ed essere felice. Ma anch’egli invecchiò e sempre più malvolentieri saliva per l’antica scala. Venne anche un altro cucciolo di pastore maremmano, al quale fu dato il nome di Gary e Thor lo accolse con amicizia. Sempre di più Thor sentiva il peso degli anni, per la qual cosa egli stava costantemente dinanzi alla porta di casa, guardando verso il bosco.

Tutto cambia. Venne il triste giorno della dipartita del vecchio cane. Non solo Anna, Mario e Gary furono tristi, ma sembrò che tutto il bosco si fosse fatto silenzioso per il mesto evento.

Tutto cambia, ma nulla scompare per sempre.

Il lettore certo si meraviglierà del seguito della storia, sebbene sia stato già in tempo avvertito della mescolanza di realtà e fantasia.

Thor rinacque lontano, ma questa volta sottoforma umana. Rinacque nella lontana Australia, in una bellissima fattoria tra animali e campi da tennis. Naturalmente non si chiamava più Thor e non aveva più memoria della sua precedente esistenza canina, ma il lettore può dargli il nome che preferisce, anche se noi continueremo a chiamarlo Thor.

Mentre Thor cresceva e imparava a giocare a tennis, pratica che gli riusciva con naturalezza come se avesse già visto migliaia di partite, Aldo e Mario invecchiavano e fino al loro trapasso non si rividero mai.

Tutto cambia, ma nulla scompare per sempre.

Aldo e Mario rinacquero, ma questa volta sottoforma di cuccioli di pastore maremmano. Rinacquero in Australia e qualcuno li abbandonò dinanzi alla fattoria di Thor, che con pietà e gioia li raccolse. Ado e Mario scodinzolando accompagnavano Thor a giocare a tennis, e non solo! Spesso, quando Thor s’allenava da solo, sembravano indicare al loro padrone il punto dove doveva mandare la pallina gialla.

Thor divenne un campione di tennis ed ogni volta che vinceva un torneo, anche a migliaia di chilometri di distanza, anche in altre parti del mondo, Aldo e Mario correvano al campo da tennis e correvano felici.
 


 
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Alessandro Liburdi
 
E' DIFFICILE PARLARE DI POESIA
 
È difficile parlare di poesia, oggi, nel 2009, tempo d’internet e di globalizzazione. E ancor più difficile è il farla. Ma certo, se ancora ci sono i poeti, se ancora esistono (e resistono) vuol dire che per loro c’è ancora una missione. Anche se qualcuno (la grande maggioranza in verità) vuole etichettarli come antiquati ciarlatani disadattati, evitando così di leggerli e di aprire interrogativi nelle loro vite imborghesite e perbeniste. Quei tanti signor qualcuno non immaginano, al contrario, che la poesia oggi sopravvive e che di essa c’è uno smisurato bisogno. Parole e immagini - quelle autentiche e sofferte intendo – possono essere le pacifiche armi che sanno graffiare l’insensibilità e l’indifferenza che purtroppo la società ci ha insegnato.
Fare delle generalizzazioni è sempre rischioso, ma sembra che il post-moderno (parlo di storia, non di letteratura) abbia relegato la poesia, più di ogni altro genere letterario e artistico, in una sfera di minimalismo: in un campo di esperienze ristretto fatto di angoli, di ritagli, di scampoli. La poesia ha perso il suo alone di mito, di classico intramontabile ed è diventata un modesto canzoniere compilato dietro il giardino di casa, un’oziosa canzonetta da salotto, o un aspro pamphlet registrato nei vicoli o nelle periferie delle metropoli avvelenate.
Un ruolo marginale, dunque. In un’epoca come la nostra bombardata ogni giorno da strilli di informazioni e controinformazioni; dove tutto è sintetizzato e impacchettato in scatoline da archiviare; dove non c’è più intimità ma un’ansia di prostituzione in nome del successo. Dietro questo meccanismo si cela un ulteriore paradosso: nel mondo globale – e globalizzato – ognuno pensa al suo “particulare” e tira l’acqua al suo mulino, per rinverdire la sua erba e competere col vicino. Guccini direbbe che «ognuno vive dentro i suoi egoismi/vestiti di sofismi». Ecco allora che la poetica del frammento – che annovera tra i primi Gozzano, Rebora, Boine, Sbarbaro e poi Montale – diventa un punto di vista privilegiato, diventa poetica dell’attimo scampato alla frenesia di tutti i giorni, poetica del momento rubato alla monotonia sociale. E in questo modo, anche se da un punto di vista personale, la poesia può tornare a restituirci uno “scampolo di purezza”, perché unisce la concretezza spesso buia del reale allo scatto liberatorio della fantasia.
Secondo me, questa purezza non è, né deve essere, purismo: deve esimersi dal diventare un esperimento troppo rarefatto. Invece penso che per raggiungere la purezza auspicata, la poesia debba “contaminarsi”, cioè mescolare il degrado con la bellezza, i pieni con i vuoti, il buio con la luce, la spazzatura con i fiori (e qui De Andrè forse sarebbe stato d’accordo: «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior»). Così la poesia sarà sintesi dei contrasti del mondo o dell’uomo, e avrà raggiunto una sua prima missione: sarà diventata “spazzaPURA”.
E la poesia deve pretendere da sé stessa un altro tentativo, certo più arduo ma comunque necessario: farsi insieme critica della realtà e musa auspicatrice di un futuro più umano, dove il dolore non sia più vuota commozione e i valori divengano anche prassi. Ecco che così la poesia riacquisterebbe il senso antico del passato e darebbe una fisionomia attiva a questo presente magmatico e sfuggente, in vista di un futuro meno bestializzato e meno disumano.

giugno 2009
 


 
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Renzo Scasseddu
[ r.scasseddu@fastwebnet.it ]
 
MARCELLO CARLINO: CIOCIARIA - QUELLA TERRA DI VIAGGI CHE NON DICO
 
Cosa è questo libro?
Quali gli argomenti?
Come è scritto?
Perché questo libro?
Innanzitutto mi preme dire che questa opera è un gesto d’amore, di rispetto per questa Terra di Ciociaria.
Il libro è una presentazione particolare, molto soggettiva (tanto soggettiva quanto coinvolgente, intrigante), che fa parte di una preziosa collana letteraria di particolare valore, dedicata ad immagini di varie città e territori. Un libro, un testo, un tessuto della Nostra Terra Ciociara, quindi.
Naturalmente, vi sono nomi concreti che descrivono la Geografia, altri che raccontano la Historia; vi sono richiami alla politica, alla economia di questo Territorio; vi sono pagine di viaggi (M. Carlino è la concreta ipostasi e nobilissima del ‘camminante’, che arricchisce la propria esperienza – umana e culturale – con i viaggi), pagine di paesi, pagine di acque e di pietre, pagine di paesaggi e di tramonti…
Eppure, non è il solito vademecum turistico, non è il solito volume da ‘strenna’…
No, è un’opera pe(n)sata, tanto sul piano della costruzione formale, quanto su quello, sostanziale, del pensiero, appunto, dell’invito alla riflessione, al memento. Un libro piccolo, un manuale, giusto del tipo che – etimologicamente e concretamente – io amo chiamare e)gxeiri/dion, un «pugnale», che con la sua punta lucente e acuminata penetra nelle pieghe più profonde della Nostra Ciociaria, ce ne fa conoscere e ri-conoscere i lati più significativi, più ricchi di suggestioni.
Gli argomenti sanno di terra ciociara, evidentemente, ma ‘viaggiata’ non come al solito, né oleograficamente descritta: dal petrolio (più o meno ‘fatuo’) di Ripi, agli ‘strani’, misteriosi orologi di Picinisco; dai suggestivi tramonti di Patrica, al castello di Morolo (con le sue storie inquietanti), dalle mura (ciclopiche, un tempo, oggi, molto molto meno) d’Alatri, Ferentino, Arpino alle chiese d’Anagni, Ceccano, Guarcino; ma anche le… pietre, quelle restaurate da anime nobili in borghi dal fascino discreto e silenzioso.
Ancora, il libro parla di acque: dalla scrosciante cascata di Isola del Liri, al procedere nobile, lento del Fibreno, e al correre (una volta) dei torrenti di Capofiume; dal Sacco ridotto ad un… sacco di inquinamenti, al Cosa, ch’ è ormai davvero povera… cosa; dai serbatoi ai lavatoi, questi ultimi con le loro storie semplici ma intriganti…
… dalla Terra di Campagna, fino a ‘sconfinare’ in territorio di “Marittima”, dal ‘magico’ Circeo al maestoso tempio di Giove in Terracina; e, ancora, in una Ciociaria abruzzese, molisana, campana… in questo senso – quello dei confini geografici – una Ciociaria che fa riflettere, sulla sua identità e su ciò che in ogni ambito ne consegue.
Il tutto detto, raccontato con sapida sagacia e analisi lucida: detto, raccontato così, concretamente, perché concretamente vissuto. Marcello Carlino ha doti rarissime di comunicazione, tanto orale (ed è xruso/stomoj, quanto scritta (ed è xruso/stuloj).
Lo stile, infatti, pur presentando segni evidenti del mestiere consumato di raffinato filologo e critico letterario –sostenuto, quindi (basti osservare la scelta di un lessico prezioso, ma sempre concreto e puntuale, contestuale, «consustanziale» per dirla con M. Carlino) –, si rende accessibile per la chiarezza, la trasparenza e l’agilità della scrittura, per la gioia del raccontare, tutta spontanea, congeniale (il ‘nostro liceale’ Gennaro Perrotta direbbe «jonica», come quella di Hom e/o di Hdt).
La costruzione è anch’essa dettata da naturale abilità creativa, compositiva e da… Sapienza universitaria. Un esempio concreto è la Ringkomposition delle pagine in cui è presente il dialogo, più o meno diretto: esso, infatti, è presente sia nel primo sia nell’ultimo capitolo; esattamente e analogamente come la presenza concreta e particolare degli Amici.
Ancora, questa struttura, ben tessuta e compatta, risulta evidente anche dall’ accostamento, sapiente ed equilibrato fra le sue parti descrittive, diegetiche e quelle, misurate e lucide, acute, talora anche ‘acuminate’ (ri-eccolo l’e)gxeiri/dion!) della riflessione che le accompagnano, a mo’ di binario, giusto come il binario di un treno, quello del viaggio, viaggio come questo in … Ciociaria, Terra di viaggi che non dico ma che M. Carlino ben dice.
Tutto ciò va rilevato non solo sul piano formale (che non è poco) ma soprattutto sul piano etico, nel senso del peso, della ‘cifra’ che M. Carlino attribuisce alla Parola (Le parole sono ‘pietre’ – diceva con felice e robusta espressione C. Levi), Parola pe(n)sante, dunque, Parola alta, scelta, pregnante, qualificante… Nel senso che la Parola è legata alla Categoria, al Valore della Responsabilità, sia nei confronti del Lettore, sia verso il tema trattato – in questo caso la Sua, la Nostra Ciociaria – sia pensando al Suo ruolo di Docente, di Uomo impegnato nella vita politica e sociale di questo (e non solo questo) Territorio.
In un mondo (più appropriato ormai è dire (etimologicamente e realisticamente) ‘pianeta’ = ‘errante’), in cui la parola sta diventando sempre più sciatta, diselegante, approssimata, mercificata, vuota ormai, rispettare il senso e il ruolo della Parola significa rivalutare il senso profondo, ineludibile, necessario, vitale della Comunicazione tra gli Uomini.
Questa, credo – come uomo di Lettere, anch’io – sia la stupenda, meravigliosa idea, il ‘Credo’, profondo, il Memento, convinto, di M. Carlino, cioè l’alto ruolo civile, morale, educativo, nonché politico (nel valore originario, greco della parola) della Letteratura…
E questo libro è di Alta Letteratura
Il Viaggio, come da sottotitolo.
L’amore per il viaggio fa di M. Carlino un convinto difensore, profondamente innamorato ed egli stesso epigono dì un genere in via d’estinzione, quello già su accennato del ‘camminante’. Il quale ‘viaggia’ il proprio Spazio, senza lottare col Tempo, quello materialmente e quindi riduttivamente produttivo, ma è in armonia profonda con il Tempo Creativo.
Spazio e Tempo anch’essi in armonia, concordi, al servizio l’uno dell’altro, come camminanti sullo stesso… binario. Pensiamo al Tempo binario dei due orologi di Picinisco con due ore differenti: uno segna il Tempo dell’anima, della poesia, della fantasia, della riflessione, l’altro, quello regolare, rintocca le ore della prosa, della quotidianità…
Il nostro Autore preferisce viaggiare, da pendolare sui generis, senza assilli, tra Frosinone e Roma (dove insegna, all’Ateneo «La Sapienza», con entusiasmo ‘interattivo’ con i suoi studenti – il sunagwni/zesqai del dra=ma, della rappresentazione teatrale greca, espressione letteraria suprema: interazione tra Attore e Coro, come dire tra Poeta e Polis), per non perdere occasione di fare incontri, di conoscere persone e ‘cose’, di parlare, leggere, studiare, osservare, immaginare, fantasticare, e ha scelto, convinto, di risiedere in Provincia (la Ciociaria, appunto), per usare, vivere la quotidianità del giornalaio, del negozio del quartiere, del caffè vicino la Biblioteca Comunale, del droghiere, di fare la spesa con oculatezza e competenza (M. Carlino è un esteta – e non astratto – dell’arte culinaria); per conversare, per frequentare la convivialità degli Amici…
Un libro che fa riflettere… continuamente…
A proposito di tramonto, leggete (e rileggete) il cap. «La filosofia del tramonto», per riflettere, per pensare, per guardare alla stessa Ciociaria come a una Terra di tramonto, di nostalgia, di abbandono, ma con la energia rinascente di ricominciare, così rispondendo – comite crepuscolar Gozzano – agli atti e parole d’onnipotenza debordante che politici e chierici d’ogni dove urlano con il loro delirante ed escrescente bubbone di potere.
Il tramonto che rappresenta, ben sì, la fine della giornata ma anche il fine; il tramonto che fa pensare alla morte ma ci rende anche «reduci dalla morte», come dice l’Autore, e ci fa pronti per un nuovo giorno, per la Vita, per una Vita Nova, quella che M. Carlino, osservando un tramonto ciociaro, augura alla ‘Sua’ Ciociaria.
In una società in cui, da più parti, anche molto importanti, visibili, si parla di relativismo come disvalore, M. Carlino, provocatorio – sempre comite Gozzano – ma tutt’affatto convinto, (e, devo dire, convincente) ri-assegna un ruolo positivo, un Valore particolare e profondo al Relativismo, a quel mondo fatto anche di ‘piccole cose’ ma che ci conducono alla autocoscienza, alla criticità, ce ne ri(s)velano l’importanza e la bellezza: al tutto, ce ne suggeriscono, concreto, l’esercizio. Questo, il memento del nostro Autore, quello del recupero di ciò che è stato nella/per la Ciociaria, al «… riuso… delle preesistenze. L’arte di chi guarda la vita con gli occhi della morte».
Questa la sua e, perché no?, la nostra «filosofia del tramonto».
Nel cap. «Altre marche identitarie», l’Autore parla (supra) di una Ciociaria senza confini, senza identità, così come si confonde con/in altre Province... e ci porta ad altre riflessioni… Ad es., io credo che proprio questo carattere-non carattere ne segni, ne caratterizzi, quindi, e ne arricchisca la creatività, la generosità, pur nella contraddittorietà di una provincia senza «marche identitarie» territoriali.
Dicevamo prima, in altro ‘scorcio’, del primo e dell’ultimo capitolo. Bene, quest’ultimo è quello che amo di più: arrivateci, numerosi lettori, all’ultimo capitolo, dove il nostro viaggiatore dialoga con una giovane laureata, già sua candidata, in cerca di una mèta, di un ruolo, di un futuro, un po’ come quello, ‘indefinito’, della Ciociaria. Il dialogo (in cui si parla anche di questo libro) è tanto serrato quanto scorrevole, pacato; eppure io vi leggo una nota struggente di malinconia, di velata pur se controllata tristezza nelle parole amare della giovane ancora senza mèta, la quale però trova nell’espressione ‘paterna’ del suo attento interlocutore un appoggio ed un sostegno che sanno di solidarietà, di affetto, di speranza e di augurio, credo proprio con lo spessore di quegli stessi sentimenti con cui M. Carlino guarda alla ‘Sua’ Ciociaria.
Perché questo libro, dicevamo.
I motivi sono tanti e significativi. Qualcuno è venuto già fuori, intrecciandosi con altre analisi.
Provo a dirne qualcun altro… e mi viene in mente il rispetto, l’amore, l’orgoglio dell’appartenenza… l’amore per la sua Terra d’elezione, per il Viaggio, per gli Amici.
Ciò è dimostrato anche da uno scopo particolare, che attesta il valore profondo dei motivi, delle cause, del perché questo libro: i proventi delle vendite sono destinati alla Associazione per la Vita «Carlo Donfrancesco», che opera, in campo medico, nel sul per con questa Nostra Ciociaria, a testimonianza della fattiva, concreta ma discreta, attività nel Volontariato esercitata senza clangori inutili da Marcello Carlino, insieme agli Amici di cui – in particolare e in generale – Egli parla in questo suo libro.

Prima ho accennato al verbo sunagwni/zesqai… Bene, questa è un’altra bellissima caratteristica di M. Carlino quella di coinvolgere, di appassionare, essere simpatetico (anche qui, alla lettera, alla… Parola – pa/qoj, che vuol dire, come vox media, «partecipazione, sentimento»), di interagire con i suoi interlocutori, qui con i suoi lettori. Infatti, questo è un libro ben detto per tutti noi e benedetto da tutti noi, un libro che bene dice della Ciociaria e benedice la Ciociaria. E noi tutti, tutti Ciociari, benediciamo Marcello Carlino, lo ringraziamo per questo dono sentito, sincero, semplicemente bello, che Egli ha offerto a noi tutti ed alla Ciociaria intera.

Grazie, Marcello carissimo.

Marcello Carlino,
Ciociaria - Quella terra di viaggi che non dico
Ed. Guida NA 2007
 


 
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Igor Traboni
 
TUTTO
 
Nascono già eterni
Certi sentimenti.
Poi l’amicizia può tutto.
 


 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
PICCOLE GRANDI BATTAGLIE
 
Al pellegrino che si reca in visita a Verdun, dove fu combattuta la più lunga e sanguinosa battaglia della prima guerra mondiale, appaiono dapprima croci sparse qua e là, poi, pian piano che si avanza in quello che fu il teatro degli scontri, la vista si perde in un mare di croci e tutto è avvolto da un silenzio quasi religioso o meglio sepolcrale. Il museo presente in questo luogo di morte, monumento alla malvagità e alla stupidità umana, è stato costruito su una trincea, che il visitatore vede ovviamente secca, ma la si può immaginare com’era dal 21 febbraio 1916, data dell’inizio della battaglia, fino al 21 dicembre dello stesso anno, quando lo scontro terminò. Nel museo ci si aggira fra fucili, granate, medaglie, divise, ma chiuso nelle vetrine insieme a questi strumenti di morte c’è un oggetto singolare: una piccola scacchiera spezzata in due da una bomba e la sua storia è davvero insolita.
Cominciò su un treno: Rainer Grossgrün, ufficiale dell’esercito austro-ungarico, in una sera del 1913 salì a Trieste, la sua città, su un treno diretto in Ungheria per una breve vacanza. Sistemò il leggero bagaglio, appese il cappello, perché era in abiti civili, si sedette comodamente e aprì il giornale in italiano (ne aveva un altro in tedesco). Era contento di trovarsi completamente solo, ma questa sua felicità durò un tempo brevissimo, poiché un signore distinto aprì la porta e chiese cortesemente di poter entrare. “Tutti i posti sono liberi” precisò Rainer Grossgrün. Il signore in questione era Marius Mati, professore di storia italiana all’università di Trieste. Egli era un irredentista convinto, sebbene non facesse parte di alcuna organizzazione; le sue erano appunto soltanto convinzioni; certo in quel momento non immaginava di trovarsi in compagnia di un ufficiale asburgico così come quest’ultimo non supponeva di avere dinanzi un futuro nemico. Spesso nelle lezioni che il professor Mati teneva ai suoi studenti, in tedesco o italiano, immetteva qualche accenno al diritto dell’Italia ad avere Trieste e le altre terre. Di opinioni del tutto opposte era il sottotenente Rainer Grossgrün, il quale riteneva l’Impero austro-ungarico un caposaldo delle civiltà e dell’Europa, eppure i due avevano qualcosa che li accomunava: la passione per il gioco degli scacchi! Ambedue avevano una piccola collezione di scacchi artistici: la scacchiera preferita di Marius Mati era un piccolo gioiello in cui i pezzi erano composti da soldati garibaldini e soldati dell’Impero asburgico; naturalmente gli alfieri reggevano la bandiera tricolore da una parte e quella della austroungarica dall’altra, mentre la scacchiera prediletta di Rainer Grossgrün era quella i cui pezzi riproducevano da una parte i soldati di Solimano I il Magnifico, il quale assediò Vienna nel 1529, e dall’altra i militi austriaci. Naturalmente entrambi usavano raramente questi piccoli gioielli, perché, come tutti i giocatori di scacchi, essi preferivano la versione Staunton.
Questi due uomini stavano in silenzio l’uno di fronte all’altro, mentre il rumore monotono del treno accompagnava la lettura dei rispettivi giornali e i loro pensieri, finché il sottotenente si rivolse gentilmente al suo sconosciuto compagno di viaggio: «Mi perdoni l’invadenza, Lei gioca a scacchi?»; «Sì, gioco a scacchi» rispose il professore; «Ho una piccola scacchiera con me. Vorrebbe fare una partita? Il viaggio è ancora lungo»; «Volentieri». Rainer Grossgrün vinse i bianchi e la partita cominciò, ma egli non immaginava di combattere con un così degno avversario. In genere i neri sono i pezzi destinati alla strenua difesa, invece Mati attaccava su ogni lato della scacchiera: per lui la bandiera tricolore sventolava su quel quadrato bianco e nero e ogni casa era una terra conquistata dall’Italia; Grossgrün difendeva Vienna dall’assedio dei mussulmani, difendeva l’Europa e la sua civiltà.
La partita fu vinta dal professore, ma il sottotenente chiese la rivincita e vinse. I
Il treno rallentò: stavano entrando nella stazione di Budapest. Presero i rispettivi bagagli, si salutarono senza tuttavia scambiarsi gli indirizzi, scesero dal treno e si persero tra la folla. Avevano trascorso ore insieme, senza sapere niente l’uno dell’altro, senza conoscere i rispettivi nomi. Erano stati semplicemente due giocatori di scacchi, nient’altro. Non si rividero fino al 1916. Venne quella terribile data segnata sui libri di storia, 28 giugno 1914, quando i due colpi di pistola sparati da Gavrilo Princip echeggiarono in tutta Europa. “Sarajevo”, scrisse più tardi Joseph Roth, “non dovrebbe essere una città, dovrebbe essere un monumento a terribile monito per tutti” (1). E la guerra scoppiò.
Sui treni non si giocava a scacchi, non si facevano conoscenze, giovani e meno giovani viaggiavano verso i campi di battaglia; austriaci, ungheresi, tedeschi, italiani, serbi, francesi viaggiavano verso la morte, con le loro divise, che presto sarebbero state sudice e maleodoranti come i loro sogni di gloria.
Il sottotenente Rainer Grossgrün nel 1916 fu inviato sul fronte francese insieme al suo reggimento per dar manforte all’esercito tedesco.
All’inizio della guerra il professor Mati era partito alla volta dell’Italia, convinto che l’Italia sarebbe entrata subito in guerra contro l’odiata Austria-Ungheria, ma la nazione temporeggiava, mentre egli era ansioso di lottare, non più su una scacchiera ma sui veri campi di battaglia; allora si era recato in Francia e si era arruolato come soldato semplice nell’esercito francese: un fucile in più fa sempre comodo.
Nel 1916 il professor Marius Mati e il sottotenente Rainer Grossgrün si trovavano a Verdun. Quei due uomini, che avevano trascorso alcune piacevoli ore insieme giocando con innocenza due partite a scacchi, erano pronti a uccidersi. Spesso essi avevano pensato a quell’incontro e si erano rammaricati di non essersi scambiati gli indirizzi, di non essersi presentati, ma quell’assurda guerra avrebbe fatto in modo di metterli ancora una volta, forse l’ultima, l’uno di fronte all’altro.
Era una sera di marzo, o forse d’aprile dell’anno del Signore, o forse del diavolo 1916, nel campo di Verdun tutto taceva, dall’una e dall’altra parte si attendeva l’attacco. Nel campo tedesco il sottotenente Rainer Grossgrün stava istruendo gli ultimi arrivati sulle incursioni nel campo nemico, quando ebbe l’idea di dare una dimostrazione pratica a quei giovani; scelse una piccola pattuglia, prese la sacca con le granate e ordinò di avventurarsi in campo aperto; dalla parte francese il comandante decise che bisognava attaccare e fra i prescelti c’era il professor Marius Mati. Prima strisciando, poi correndo, i due piccoli drappelli avanzavano finché si videro in quella notte e iniziarono a sparare: fu un terribile scontro in cui morirono tutti, ad eccezione del sottotenente e del professore. Stavano l’uno di fronte all’altro, come in quella notte sul treno, con il fucile puntato, pronti a fare fuoco, quando un fulmine, uno strano fulmine in quella notte serena, illuminò i loro volti. Si riconobbero ed esitarono: amici per una notte, nemici per sempre. Una lacrima scese sui loro volti, Rainer Grossgrün fu il primo ad abbassare il fucile; poi anche Marius Mati pose a terra l’arma; il sottotenente si sedette a gambe incrociate e altrettanto fece il professore. Grossgrün ricordò che nella sacca aveva la piccola scacchiera, perché forse la portava con sé come portafortuna; senza una parola la tirò fuori e la pose per terra, su quella terra di morte.
Tutto taceva, giocavano un’assurda partita, dimentichi del luogo in cui si trovavano, delle loro convinzioni politiche, dei cadaveri intorno a loro, quando una granata, lanciata dall’uno o dall’altro campo, esplose vicino a loro: schegge spezzarono quelle due vite e spezzarono la scacchiera.
Se vi recate in visita a Verdun, guardate la piccola scacchiera nella vetrina del museo e dite una preghiera affinché quei due soldati possano ancora giocare, ovunque si trovino ora…

1)Roth Joseph, Frankfurter Zeitung, 1927