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fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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David Ballerini
 
IL GRANDE FANTASMA - 1
Parte Prima
 
Per comprendere cosa realmente ci sia alla radice del fantasmatico, potrebbe forse già bastare anche solo un qualche generico vocabolario: fantasmatico viene infatti dal francese fantasmatique, ed è definito come "Di fantasma, di spettro"; ma anche come "Derivante dalla sensazione, da un'impressione sensoriale"(1): curioso accostamento; curioso o, meglio, interessante…
Per chiarirlo, converrà ricorrere nuovamente al vocabolario: la radice è, ovviamente, la stessa di fantasma; e fantasma allora da dove viene? Fantasma, dunque, pare derivare dal latino phantasma, a sua volta rifatto su un phantásma greco, che voleva dire, sì, anche semplicemente "fantasma", ma anche, guarda caso, "immagine"; oltretutto, parola -questa greca -derivata da phantázein, che significa "mostrare", e, nella forma media, "apparire"(2).
Ciò su cui, insomma, sembra proprio cadere l'accento, è la natura di "immagine" di tutto ciò che è fantasmatico, di manifestazione proprio in quanto immagine che si mostra e che, viceversa, apparisce. Ora, dato che è cosa nota che i fantasmi non possiedono un corpo, potrebbe a prima vista parere ovvio che si insista tanto sulla loro immagine: è in fin dei conti l'unica cosa che possiedono! Eppure la questione non è così semplice. Il problema infatti è: se i fantasmi sono figure così fortemente caratterizzate - e così fortemente caratterizzate proprio perché così paurose, ovvero così fortemente "altre" - è perché rappresentano irruzioni del mondo dei morti nella nostra dimensione? O piuttosto è semplicemente proprio perché sono immagini?
La seconda ipotesi ci pare estremamente affascinante. Del resto, il considerare il fantasmatico principalmente come immagine, e quindi che esso possa mostrarsi (cioè manifestarsi) e/o, viceversa, apparire a (cioè essere percepito da qualcuno), ci rimanda con forza ai regimi dello sguardo. Da questo punto di vista, le due azioni (o condizioni) inverse e contrarie del mostrarsi e dell'apparire a possono allora dare vita, combinandosi differentemente, a tutta una casistica dello sguardo: il fantasma, infatti, potrebbe né mostrarsiapparire (cioè non essere in alcun modo presente); potrebbe mostrarsi senza però essere scorto dagli astanti (cioè senza apparire loro); potrebbe apparire a qualcuno (cioè essere da questo qualcuno in qualche modo percepito), senza però che di fatto si mostri; potrebbe, infine, mostrarsi apertamente ed essere percepito da tutti gli astanti (cioè apparire loro). E allora non è forse vero che proprio una dialettica di vedere e non vedere è ciò che caratterizza l'orrore, il pauroso? Non è forse vero che l'uomo nero nascosto sotto il letto, e il mostro nell'armadio, fanno tanta più paura finché dentro a quell'armadio e sotto il letto non si va a guardare? E questa dialettica di vedere e non vedere (per dirla in "soldoni") non potrebbe essere in fin dei conti una maniera diversa di esprimere quella stessa vicinanza/lontananza, quella stessa familiarità/estraneità del famigerato perturbante freudiano?
Allora, ci verrebbe quasi da pensare che, se al giorno d'oggi apparizioni di fantasmi nel nostro mondo avvengono con minor frequenza che in passato, ciò sia dovuto proprio al fatto che i fantasmi abbiano potuto trovare nel '900 un posto a loro assai più gradito e adatto: cioè, il cinema! Quale miglior regno per l'immagine e per lo sguardo? Potremmo allora dire, precisando meglio, che il fantasmatico possa non rappresentarsi affatto sullo schermo (cioè né mostrarsiapparire); che possa mostrarsi per lo spettatore ma non essere visto dagli altri personaggi (cioè non apparire loro); che possa apparire agli altri personaggi (che però lo vedono fuori campo) senza che con ciò si mostri allo spettatore; che possa trovarsi in campo mostrandosi tanto allo spettatore che agli altri personaggi (cioè apparendo loro). Tutto ciò, ovviamente, all'insegna della suspense… Il considerare più in concreto qualche film, forse potrebbe aiutarci a dimostrare questa tesi.
Ripartiamo dal punto a cui eravamo arrivati in un nostro precedente articolo, La natura selvaggia dello sguardo, pubblicato sul precedente numero di questa rivista: in quell'occasione si era parlato di Shining (The Shining, 1980) di Kubrick, e più specificamente, tra le altre cose, dell'idea di far impersonare alla Steadicam lo sguardo dei fantasmi dell'Overlook Hotel(3): ora, se in Kubrick i risultati di questo connubio di Steadicam e di spettri furono eccezionali, l'idea tuttavia non era nuova. Già con Halloween (idem, 1978) infatti, per la regia di John Carpenter e la fotografia di Dean Cundey, si era aperto un capitolo importante (per quanto spesso di non alta qualità) della fortuna della Steadicam: quello che la vede associata alla presenza (e, quindi, al pdv) di un maniaco (più o meno diabolico). Tuttavia, Halloween stesso, a sua volta, non faceva che variare e sviluppare in direzione di quella forma di maniaco (forse la più frequente tra le varie incarnazioni del male) quell'intuizione che, prima ancora, aveva inizialmente portato all'associazione di Steadicam e Pazuzu nell'Esorcista II (Exorcist II The Heretic, 1977) di John Boorman.
Al riguardo ebbe a dire William Fraker, il direttore della fotografia di quest'ultimo film: "[...] our demon […] is called Pazuzu and he's a demon of the air. Therefore, he moves through things and around them and so forth. John [Boorman] put the Steadicam to use to suggest all this movement"(4). E così, ad es., subito dopo la sequenza dello scampato incendio all'Istituto psichiatrico, Regan (Linda Blair) dorme e sogna, e ci ritroviamo catapultati in Africa (per la precisione in Etiopia), nelle immediate vicinanze di un villaggio: per amor di brevità, sorvoliamo sull'estrema ricchezza visiva di queste immagini, e ci concentriamo direttamente sul movimento particolarissimo della mdp. La mdp, infatti, avanza verso le capanne con un movimento molto lento e fluttuante, simile a quello di una foglia portata dal vento: cambia spesso direzione, ondeggia dolcemente, sale e scende variando la sua altezza da terra; infine, si avvicina alla finestra tonda di una capanna e vi scruta dentro, scoprendovi Max von Sydow, alias padre Merrin giovane. È più che evidente come una simile scena, un simile movimento di macchina, non possano assolutamente passare inosservati allo spettatore: la scena è cioè tanto marcata stilisticamente da chiamare immediatamente in causa la soggettività che di tale sguardo è portatrice; si tratta insomma di una soggettiva stilistica (5). Dunque, chi può mai essere il soggetto portatore di un tale sguardo e di un pdv tanto insolito e fluttuante? Deve inoltre evidentemente trattarsi di un soggetto del tutto incorporeo o quasi, dato che la mdp passa vicinissima alle persone del villaggio, ma nessuno sembra notarne la presenza... La risposta giunge presto: Max von Sydow ricambia lo sguardo del soggetto misterioso, e la mdp, eseguendo in conseguenza una netta inversione di campo, ce ne svela l'identità: una cavalletta, anzi, la cavalletta, cioè (come si potrà in seguito capire) Pazuzu in persona(6).
Discorsi del tutto analoghi potrebbero essere fatti per altre soggettive Steadicam di Pazuzu disseminate nel corso del film: come quella in cui il demone (nella visione della trance ipnotica) porta Richard Burton da Kokumo (ormai grande e capace di sconfiggere il male) in una città Africana dal forte sapore onirico e decadente, che sembra appena uscita da un racconto di certo horror metafisico. Qui la scena è assai più concitata: Pazuzu non si muove inavvertibile come una foglia al vento, bensì furioso come una raffica di vento di tempesta imbottigliata tra gli stretti vicoli e le mura di fango e pietra della città; la gente fugge dinanzi a lui terrorizzata, dando vita a una baraonda di forme e di colori: oggetti e ceste cadono, tuniche e pollame svolazzano per l'inquadratura. Infine, sospinta dalla furia del demone, tutta la gente si raccoglie nella piazzetta antistante la casa di Kokumo, che, intanto varca la soglia della sua porta e si para dinanzi al demone: la mdp continua ad avanzare fino ad inquadrare il primo piano di Kokumo. Kokumo non fugge: anzi, "sputa" un leopardo contro il demone, facendolo fuggire e interrompendo la trance ipnotica.
Eppure, una tale intuizione doveva essere in realtà già ben più vasta e profonda che non semplicemente legata alla natura di spirito dell'aria di Pazuzu, se questo connubio di male e Steadicam si è poi potuto produrre e protrarre anche in forme (come Michael, il maniaco di Halloween) che ben poco (almeno apparentemente) hanno di aeriforme... O forse più semplicemente fortunata, per il consueto intreccio di stile e tecnica che sempre si accompagna alla Steadicam, per semplici questioni economiche, dato che il cinema horror si è affermato soprattutto nell'ambito dei B-movie e delle piccole produzioni indipendenti, e, si sa, la Steadicam fa risparmiare tempo e soldi; o forse anche (e perché no?) per entrambi i motivi... Ad ogni modo, non vi può esser dubbio sul fatto che Halloween, ben più del suo predecessore, costituì di fatto un modello di successo e frequentemente imitato: l'Esorcista II, per varie ragioni, col suo spiccato misticismo, è sempre rimasto un po' un capitolo a sé; e quanto al successivo Shining, siamo a tutto un altro livello. Dunque, si generò alle spalle del film di Carpenter una sorta di rinascita del genere horror, che per lo più continuò sempre a dimostrare il suo debito verso questo film, riutilizzandone gli stilemi di rappresentazione del "mostro". Trattandosi di un film tanto noto, evitiamo di riassumerne la trama; si vorranno solo richiamare brevemente alla memoria i personaggi e gli interpreti principali, affinché poi la trattazione risulti più fluida e snella: tutta l'azione ruota attorno a Michael (prima bambino e poi uomo), figura di maniaco mascherato dai tratti decisamente demoniaci; Michael è sfuggito alla sorveglianza del suo psichiatra, interpretato da Donald Pleasence, l'unico a sapere veramente che razza di mostro sia; vittime deputate di Michael sono tre amiche, tre ragazze del paese di origine di Michael, i cui destini si incroceranno fatalmente nella notte di Halloween (che dà il titolo e l'atmosfera generale del film): di esse, solo Laurie, quella interpretata da Jamie Lee Curtis (qui al suo debutto cinematografico), riuscirà a salvarsi.
Un movimento di macchina (palesemente Steadicam) in avanti (verso una tipica casa della provincia americana), apparentemente del tutto libero ed ancora indecifrabile, apre la prima sequenza del film: ma, quando la mdp giunge ai piedi dell'edificio, il suo spiare attraverso le finestre e il suo modo di muoversi (il suo pdv, insomma) denunciano chiaramente il carattere tutto soggettivo della visione. La narrazione sta dunque iniziando con una lunga soggettiva Steadicam: ma una soggettiva di chi?
La Steadicam si ferma davanti ai gradini che conducono nella veranda e quindi all'ingresso principale: attraverso le tendine del portone a vetri, si intravedono le sagome di due persone che si stanno baciando appassionatamente; chi sono? L'attenzione dello spettatore è su di loro, e può così seguire senza alcuna difficoltà la Steadicam, che, per spiarli meglio mentre si spostano nella stanza accanto, si muove verso destra e svolta l'angolo della casa, per andare a fermarsi (celata dall'oscurità) davanti a una finestra aperta. Qui la Steadicam si ferma e li osserva e li ascolta: si tratta di una coppia di adolescenti, che approfittano dell'assenza dei genitori di lei (a cui appartiene la casa) per amoreggiare indisturbati su un divano. I genitori torneranno solo più tardi, tuttavia non sono completamente soli: da qualche parte ci deve essere Michael. Lo spettatore non sa ancora chi sia Michael, ma evidentemente la sua presenza non deve costituire un problema, visto che la coppia decide di approfittare comunque della disponibilità della camera da letto di lei e salgono di sopra; ciò che più conta però, è che l'accenno a questa terza persona presente-assente riporta l'attenzione dello spettatore sulla misteriosa soggettività di cui sta condividendo il pdv: sulla natura di soggettiva stilistic della ripresa, del resto, non vi possono esser dubbi, ed essa viene ribadita con sempre maggior insistenza. Quando infatti i due scompaiono fuori vista su per le scale, la Steadicam si guarda intorno come per decidere sul da farsi, ritorna decisamente sui suoi passi oltre l'angolo della casa e guarda in alto verso la finestra della camera: lo spegnersi della luce al suo interno (sottolineato dalla colonna sonora) sembra suonare come una conferma, per il misterioso osservatore, di ciò che sta accadendo, il quale ritorna deciso verso il retro della casa. Il quesito sull'identità dell'osservatore si fa sempre più pressante per lo spettatore: un così insistito protrarsi della soggettiva stilistica rende sempre più acuta l'esigenza di una chiarificazione dal punto di vista grammaticale, ovvero l'agognata sostituzione del pdv col personaggio (finalmente in carne ed ossa e visibile per lo spettatore) a cui tale pdv appartiene; un personaggio che diventa tanto più presente ed ingombrante quanto è più assente, e ad una cui eventuale marginalità nella storia non è ormai più possibile credere in alcun modo. Il misterioso osservatore entra in casa attraverso la porta rimasta aperta della cucina e afferra un lungo e minaccioso coltello da un cassetto: dall'inizio della narrazione non c'è ancora stato alcuno stacco di montaggio, e la ripresa continua ancora. Nell'atto di afferrare il coltello, intanto, un indizio viene fornito allo spettatore: la mano che si vede allungarsi nell'inquadratura verso il coltello, è quella esile e delicata di un bambino, o tutt'al più di una ragazza, ma la strana manica che fascia il braccio fa senza dubbio parte di una maschera, di un vestito di carnevale. Sempre in continuità di ripresa, il misterioso osservatore, attraversa altre stanze della casa, si sofferma per gettare uno sguardo al divano su cui prima osservava la coppia, e si avvia verso le scale: la presenza del coltello non lascia presagire nulla di buono, e la suspense è alle stelle; la lentezza del suo spostarsi attraverso la casa enfatizza il tutto (e anche la colonna sonora dà il suo aiuto), e ricorda l'imperturbabile freddezza con cui uno squalo si avvicina alla sua preda. L'osservatore fa appena in tempo a vedersi sfilare davanti (rimanendo lui non visto) il ragazzo che scende velocemente dalle scale: reduce da un incontro amoroso di sconcertante brevità (dovendosi di necessità supporre come coincidenti il tempo dell'azione e quello della rappresentazione), si dilegua dal portone salutando la ragazza, rimasta al piano di sopra, di cui solo si sente la voce. Ancor sempre in continuità di ripresa (quindi ancora in piena soggettiva), l'osservatore misterioso prende a salire su per le scale: il canto distratto e rilassato della ragazza che giunge dal piano superiore, lascia ormai ben pochi dubbi su chi sia la vittima predestinata di quel coltello e quale destino la attenda. Giunto al piano superiore, l'osservatore incappa in una maschera di carnevale, abbandonata in terra dai due andando verso la camera, e, con un gesto inatteso, allunga la solita mano infantile per afferrarla e la indossa(7), costringendo lo spettatore a una visione faticosa attraverso i buchi per gli occhi. La ragazza si spazzola i capelli semi nuda e continua a cantare seduta al tavolino da toilette: il letto disfatto appare al misterioso osservatore come un'ulteriore conferma. Quando finalmente si accorge della presenza sempre più vicina dell'osservatore alle sue spalle, la ragazza si volta sorpresa e spaventata, e, prima di essere barbaramente uccisa a coltellate, ha solo il tempo di guardare in macchina e riconoscere nell'osservatore misterioso quel Michael a cui prima aveva accennato. Con ciò, conferma una congettura (quella per cui, appunto, sia Michael l'osservatore) che lo spettatore ha certamente fatto, ma che in realtà conta per lui ben poco: infatti, cos'è ancora Michael, a questo punto, se non un semplice nome privo di un significato e di un'immagine? Quell'identità (e quindi quella figura) che non sono potute sfuggire alla ragazza nonostante la maschera, neppure nel breve arco di un istante, continuano a negarsi tenacemente allo spettatore: l'immagine dell'osservatore assassino si cela dietro il suo proprio sguardo assai più e meglio che dietro una maschera. Se, da un lato, il fortissimo senso di suspense che lo spettatore prova, oltre che alla lentezza dell'azione, dovrebbe essere attribuito alla condivisione del pdv di chi è il vero motore della storia, quindi di un pdv privilegiato (lo spettatore sa della terza presenza e del coltello, i due ragazzi sono ignari di tutto), dall'altro lato, lo spettatore ha la sensazione altrettanto forte (se non di più) di non riuscire a vedere proprio ciò che è fondamentale: nella durata della ripresa, l'immagine che passa per gli occhi del misterioso osservatore si trasforma da una possibilità privilegiata di vedere ad un'impossibilità, viene sentita dalla spettatore come un ostacolo che gli si para davanti, un velo che si vorrebbe strappare dallo schermo. Dunque, anche a questo può servire una soggettiva, a nascondere il soggetto stesso che sta guardando -e, per inciso, sarà anche opportuno notare come ad un simile uso della soggettiva la Steadicam dia un contributo fondamentale, permettendo di dar vita ad un pdv particolarmente credibile senza limitazioni di durata e di spazio. Lo spettatore deve dunque aspettare ancora che Michael finisca di martoriare il corpo della giovane, torni sul pianerottolo, scenda le scale ed esca dal portone, prima che due adulti (i suoi genitori) gli strappino la maschera dal volto e la mdp (con uno stacco di montaggio che segna la fine della lunga soggettiva) finalmente ne chiarisca l'identità eseguendo una netta inversione di campo: l'identità di un bambinetto di sei anni dall'aria angelica ma senza più un barlume di luce negli occhi, il fratellino della ragazza che ha appena finito di uccidere.

NOTE
1) Definizione di "Fantasmatico" da Il nuovo Zingarelli.
2) Etimologia di "Fantasma" ancora da Il nuovo Zingarelli e dal Dizionario Etimologico della Lingua Italiana Zanichelli.
3) Cfr. D. Ballerini,
 


 
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David Ballerini
 
IL GRANDE FANTASMA - 2
Parte Seconda
 
Chi volesse addentrarsi in un'analisi approfondita della figura di Michael (e di tanti suoi epigoni cinematografici) si accorgerebbe di che nodo inestricabile lo leghi (anche al di fuori di questa specifica soggettiva iniziale) a tale dialettica di vedere e non vedere (una dialettica tanto esasperata e contraddittoria da far sì, come si diceva, che il pdv più privilegiato sia contemporaneamente il massimo ostacolo alla vista), e quanto profondamente (tanto da potersi considerare una chiave di lettura fondamentale del film); si accorgerebbe di che rapporto particolare leghi una simile creatura all'atto del vedere e del guardare (8). Non essendo però questa la sede adatta ad un'analisi tanto lunga ed approfondita, bisognerà limitarne la trattazione all'indispensabile, a quei caratteri che risultano particolarmente evidenti di per sé senza la necessità di un rigoroso approfondimento. È, ad es., evidente come Michael sia sostanzialmente incapace di comparire nella narrazione agendo in maniera civilmente umana e socialmente equilibrata: se agisce, lo fa in maniera non umana ma selvaggia; ma se invece non sta agendo nella sua maniera selvaggia, allora sta guardando. Michael sembra non conoscere altri modi di essere che questi due, e, se vi si pone attenzione, ci si accorgerà che, contro ogni apparenza, il suo modo prioritario di esistere non è quello di assassino demoniaco (pure a prima vista ovviamente più caratterizzante), bensì l'altro, di osservatore demoniaco: non solo (secondo il racconto dello psichiatra) è stato capace di passare quindici anni fissando il vuoto (cioè guardando senza vedere, con consueta contraddizione), ma, pure nell'attualità della narrazione, il film lo mostra in realtà molto più impegnato (e molto più a lungo) a guardare le sue vittime che non a ucciderle. Non a caso è tanto ricorrente nel film quello stilema che lo mostra come osservatore nel quadro... E tanto quanto lui guarda le sue vittime, altrettante volte ne viene riguardato; ma non si lascia mai guardare (se non nel finale) come si lascerebbe guardare una qualsiasi persona: quella dialettica di vedere e non vedere che sopra è stata individuata, infatti, non lo abbandona mai, neppure quando non è lui a guardare ma viene guardato da qualcun altro. Intanto, la maschera che indossa da adulto pare essere assai più efficace di quella che indossò da bambino: la sua identità di adulto (contrariamente a quanto accadde con sua sorella) resta celata per lo spettatore così come per le sue prossime vittime; anche quando compare sullo schermo, lo spettatore sente di non vedere lui, ma solo una sagoma, una maschera che cela il buio. Ulteriormente a questo dato eminentemente metaforico, poi, si noterà certo un'assai più concreta capacità di apparire a piacimento o non apparire nell'immagine, a favore (o a scapito) degli altri personaggi come dello spettatore: così Michael può apparire improvvisamente a una finestra ed altrettanto improvvisamente sparire (spesso non visto dalla vittima ma visto dallo spettatore, per generare suspense); può decidere di farsi vedere da Laurie (interpretata da Jamie Lee Curtis) ma non dalla sua amica Annie (quella bruna) sparendo dietro una siepe, mentre queste tornano a casa da scuola; può decidere di far scomparire nel nulla il proprio supposto cadavere, così come di apparire da dietro un divano. Può persino decidere di materializzarsi lentamente nel vano buio di una porta come una dissolvenza d'apertura. Se, dunque, in un qualche modo, anche nel suo essere guardato Michael manifesta quella dialettica di vedere e non vedere che si è detta propria di quella sua lunga soggettiva iniziale (e quindi propria del suo guardare), è proprio in questo che risiede la sua capacità di terrorizzare, poiché tale dialettica, in seno al testo filmico, si trasforma in un'ubiquità e in un'onnipotenza; la possibilità di comparire ed attaccare in qualsiasi momento e in qualunque luogo. Ma se è sempre e comunque quella dialettica l'origine del terrore, allora non vi sarà nulla di che stupirsi, se analizzando una sequenza che esemplifica particolarmente bene quanto siamo venuti dicendo (una sequenza, cioè, in cui Michael non guarda ma viene guardato), si noterà che essa è quasi perfettamente simmetrica rispetto a quella prima lunga soggettiva che si è analizzato, e che pure qui la Steadicam svolge una parte tutt'altro che secondaria: in fin dei conti, le due sequenze sono costruite sullo stesso principio.
Il riferimento è a quella sequenza in cui Laurie (Jamie Lee Curtis) si reca nella casa di fronte a quella in cui lei sta facendo la babysitter, per scoprire che fine abbiano fatto le sue amiche, e si scontra con Michael che, intanto, ha provveduto ad eliminarle. Si seguano dunque attentamente le mosse di Laurie: ecco che si noterà come anche questa sequenza (così come la lunga soggettiva d'inizio film) incominci con un avvicinamento a una tipica casa della provincia americana, un giro attorno all'edificio per osservare (attraverso le finestre) le luci del piano superiore, l'ingresso dalla porta posteriore lasciata aperta, l'attraversamento di alcune stanze e la salita su per le scale verso le camere da letto. Anche in questo caso, quasi tutto è Steadicam: tuttavia, non essendo la figura dell'osservatore (qui evidentemente incarnata da Jamie Lee Curtis) a dover essere questa volta nascosta, non tutto ciò che è Steadicam è in soggettiva, né le poche inquadrature non Steadicam presenti sembrano nuocere in alcun modo all'efficacia della sequenza. Quando però la Steadicam svolge, in effetti, la soggettiva dell'osservatore (e cioè di Laurie che si avvicina al fatale incontro e poi ne fugge), ecco, che tale soggettiva, pur non appartenendo a Michael, svolge le stesse funzioni ed ha le stesse caratteristiche di quella prima soggettiva di cui tanto si è detto: sono infatti di nuovo la sensazione di non vedere e di suspense ad aggredire prepotentemente lo spettatore. Differentemente da Laurie, lo spettatore sa quale pericolo si nasconda in quella casa, e la comunque insistente presenza della soggettiva Steadicam nell'avvicinarsi alla casa e, soprattutto, nel salire su per le scale, manifesta chiaramente la natura di percorso visivo dell'episodio: percorso visivo che dovrebbe, secondo ogni ovvietà e probabilità, condurre velocemente alla visione di ciò che è significativo, cioè il pericolo in agguato, cioè Michael. Ma la figura di Michael si nega allo sguardo di Laurie e dello spettatore tenacemente: Laurie può avvicinarsi alla casa, girarvi attorno, entrarvi, perlustrare il pian terreno, avventurarsi al primo piano, addentrarsi sulla scena stessa del delitto senza scorgere traccia di Michael o di una qualsiasi spiegazione dell'accaduto. Di nuovo, ciò che è più significativo si nega tenacemente allo sguardo dello spettatore nonostante le molte soggettive e, addirittura, le molte inquadrature di natura più "oggettiva" . Da questo punto di vista, la sequenza comincia, questa volta, da subito, fin dall'avvicinamento alla casa, a produrre suspense, perché, ora che lo spettatore sa molte più cose, non ha ovviamente bisogno di aspettare l'entrata in scena di un coltello per presagire ciò che sta per succedere… Né le somiglianze si arrestano qui: oltre all'uso di un identico coltello, ad es., troviamo di nuovo, come occupanti occasionali della casa e vittime del mostro, una coppietta di più o meno adolescenti in intimità. Ed ancora a fine di suspense si deve ritenere un semplice ma astuto espediente registico al momento dell'ingresso di Laurie nella camera da letto: tanto Laurie che lo spettatore sanno già che vi troveranno qualcosa all'interno, dato che la luce è accesa, ed è gioco forza che, come di fatto avviene, per manifestare la "scoperta" e sciogliere questo stato di suspense, si scelga di proseguire con la soggettiva di lei; tuttavia, al momento dell'apertura della porta socchiusa, Carpenter opta per interrompere momentaneamente la soggettiva Steadicam di Laurie con un breve pedinamento a precedere, il cui scopo è di mostrare allo spettatore, prima ancora dello spettacolo che si para di fronte a Laurie, la sua espressione, cioè il terrore che tale spettacolo le incute: prima dell'inevitabile effetto di sorpresa al ritorno sulla soggettiva Steadicam di Laurie, Carpenter sceglie cioè di imprimere un'ultima (per il momento) impennata allo stato di attesa e di suspense dello spettatore. Si vorrà inoltre, per inciso, notare l'evidente carattere di messa in scena, di teatralità, di tale scena del delitto, ovvero della camera da letto con i cadaveri delle sue amiche quale compare a Laurie: la composizione del cadavere e della lapide sul letto, la presenza della zucca illuminata, la comparsa smaccatamente a effetto degli altri due cadaveri da dentro gli armadi… Se tutto ciò, nel contesto del racconto, deve essere attribuito all'azione dell'insania di Michael, si vorrà però notare quanto bene ciò consuoni con quel che si è detto della natura di dissolvenza d'apertura della comparsa immediatamente successiva di Michael, nel vano buio della porta accanto a Laurie (non visto da lei ma visto dallo spettatore, con consueto effetto di suspense). Sfuggita fin troppo fortunosamente al colpo del solitamente infallibile mostro, ridiscese le scale precipitando, riuscendo a malapena a fuggire da quella casa, dopo aver tentato inutilmente di chiedere aiuto, Laurie fa appena in tempo a rifugiarsi nella casa da cui proveniva. Ma qui si trova nuovamente a dover affrontare un nemico che può seguirla ovunque senza rendersi visibile: una porta finestra lasciata aperta, una tenda che ondeggia nel vento, servono a dare una patina di credibilità e di realismo alla situazione, ma è fin troppo evidente che Michael non può essere umanamente entrato di lì nel piccolo salotto ed aver isolato il telefono senza essere visto da Laurie e dal bambino lì presenti: se, dunque, Michael fa la sua "comparsa" da dietro il divano, ciò va inteso in senso letterale; un nemico onnipresente e onnipotente che può rendersi invisibile, ha deciso di materializzarsi lì e in quel momento.
Sarebbe ormai, tutto sommato, inutile voler insistere ulteriormente in una simile analisi. In effetti, quanto siamo venuti dicendo sulla dialettica di vedere e non vedere che caratterizza sempre la figura di Michael (sia quando guarda che quando viene guardato), sulla sua capacità di apparire come di non apparire, e, quindi, sulla sua possibilità di giungere ovunque, ci fa prospettare una somiglianza con Pazuzu assai più stretta di quanto non si possa a prima vista ipotizzare, e che va ben oltre al loro semplice essere creature del male. Non è forse Pazuzu, in quanto demone dell'aria, colui che può attraversare tutta l'Africa in un rapido volo, colui che può giungere ovunque, che può manifestarsi ovunque voglia o non manifestarsi? Non è forse anche Pazuzu un'entità che sovente si nasconde dietro il suo stesso sguardo (come nelle soggettive Steadicam che si sono analizzate, nel villaggio etiopico verso padre Merrin e nella città africana alla volta di Kokumo)? Dunque veramente le figure di Pazuzu e di Michael sembrano manifestare uno stretto rapporto, nascondere un'intuizione comune, un filo conduttore sotterraneo: l'aerea incorporeità dell'uno e l'ingombrante corpacciosità dell'altro sembrano contraddittoriamente manifestare (almeno dei confronti della mdp e del testo filmico) uno stesso comportamento, e giustificare l'uso di stilemi analoghi nell'impiego della Steadicam. Ma cosa mai può giustificare una tanto contraddittoria parentela?
Forse tale parentela non è diretta, ma passa per un terzo termine comune. E in fin dei conti, se Michael (o Pazuzu o chi per loro) è legato all'atto del guardare e del vedere in maniera assai particolare, se può apparire come non apparire, se può materializzarsi come una dissolvenza d'apertura, se ciò che lo caratterizza è proprio il suo essere un osservatore, se ha il dono dell'ubiquità e dell'onnipotenza, se può nascondersi dietro il suo proprio sguardo dando origine ad una soggettività di cui non è possibile rintracciare il soggetto, non è forse perché condivide tutte le principali caratteristiche dell'Enunciazione cinematografica?.. Del raccontare cinematograficamente, che può passare istantaneamente e senza sforzo da un luogo all'altro e da un tempo all'altro, attraversare le pareti ed andare ovunque… o far sì che sia il mondo (grazie alla dissolvenza incrociata) a "spostarsi" attorno alla mdp immobile? Allora ecco: quasi senza volere, siamo già passati ben troppo oltre: alla fin fine, è il cinema stesso un grande fantasma!


8) Cfr. D. Ballerini, La natura selvaggia dello sguardo, cit.
 


 
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Giuseppe Panella
 
IL FANTASMA DELLA POLITICA - 1
il Settecento e lo sviluppo della teoria del gusto

Parte Prima
 
"Pregiudizio dei dotti. E' un retto giudizio dei dotti
che in tutti i tempi gli uomini abbiano creduto di
sapere che cosa è buono e cattivo, degno di lode e di
biasimo. Ma è un pregiudizio dei dotti che noi or si
sappia questo meglio
di qualsiasi altro tempo".
(Friedrich Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali)

La questione del gusto e la soggettività
Nel 1966, rispondendo polemicamente e vigorosamente alle accuse di incomprensibilità e di astrattezza sollevate nei suoi confronti dai rappresentanti della "vecchia" critica, Roland Barthes risollevava e risolveva (a suo modo, ovviamente) la questione del gusto come procedimento di lettura criticadella soggettività artistica in divenire:
"Come indicare un insieme di divieti che partecipano indifferentemente della morale e dell'estetica e con cui la critica classica attacca tutti i valori che non pur riportare alla scienza? Chiamiamo "gusto" questo sistema di proibizioni. Che cosa vieta il gusto? di parlare degli oggetti. Trasportato in un discorso razionale, l'oggetto è considerato triviale [...] ciò che il verosimile chiama "concreto" è soltanto, ancora una volta, l'abituale. È l'abituale che regola il gusto del verosimile; per esso la critica non deve essere fatta né di oggetti (sono troppo prosaici),né di idee (sono troppo astratte), ma solo di valori. Qui è molto utile il gusto: al servizio insieme della morale e dell'estetica, il gusto permette una comoda transizione tra il Bello e il Bene, confusi discretamente sotto la specie di una semplice misura. Tuttavia questa misura ha il potere indefinito di un miraggio [...] Il gusto è in realtà un divieto di parola"
(Roland Barthes, Critica e verità, trad. it. di C. Lusignoli e A. Bonomi. Torino, Einaudi,1985, pp.24-25)

La requisitoria di Barthes aveva per oggetto una definizione del gusto come pratica discorsiva che imponeva, di per sé, come tale il proprio intendimento soggettivo e indefinito al posto di un'indagine attenta e precisa dei meccanismi che costituiscono l'oggettività della scrittura, la sua intelaiatura retorica, il suo misurarsi strutturale con la realtà del linguaggio.
Voleva essere, di conseguenza, una rivendicazione del primato oggettivo della critica e della scienza a-valutativa delle costruzioni estetiche e, soprattutto, la costituzione di un orizzonte di concretezza nei confronti delle dissolvenze di senso create dal libero dispiegarsi della soggettività di critici che ambissero a porsi arbitrariamente di fronte al testo (letterario) e al suo tempo (estetico). Si trattava, in sostanza, di ribadire l'istanza di scientificità all'interno dei procedimenti di giudizio e di ricostruzione delle opere d'arte (anche se non va dimenticato come Barthes consideri il proprio orizzonte legato e limitato dalla natura di testo di cir che esamina ­ e ogni testo, è noto, definisce, a sua volta, una scrittura come proprio ambito di riferimento e non c'è nulla di più soggettivo della pratica della propria scrittura).
Ma la questione del gusto è oggi ben lungi dall'essere risolta con la definizione liquidatoria che ne dava Barthes negli anni Sessanta. Se si leggono con attenzione le pagine centrali del libretto di Valeriano Bozal dedicato proprio alla storia e alla ricostruzione di questo concetto centrale nella storia dell'estetica non si pur non convenire che la questione, ben lontana dall'essere stata archiviata, è ancor aperta e determinante, non foss'altro che sotto il profilo della storia delle idee e della cultura estetica.
Scrive, per l'appunto, Bozal:
"Desidero per richiamare l'attenzione su un fatto che, per quanto riguarda il gusto e l'estetica sembra determinante: nel XVIII secolo esso si precisa come argomento di riflessione con una forza e un'intensità che fino ad allora non aveva mai avuto. Non si tratta di un fenomeno casuale o fortuito: esso coincide con quello che alcuni autori hanno chiamato progetto "illuminato" e altri "progetto della modernità", ed è, a mio avviso, consustanziale a quel progetto. Non solo l'attenzione si concentra sul gusto, il che sarebbe già abbastanza, ma se ne studiano i fondamenti e se ne afferma l'autonomia rispetto a tutti i criteri che gli sono estranei"
(Valeriano Bozal, Il gusto, trad. it. di O. Bin, Bologna, Il Mulino, 1996, p.9)

Il punto fondamentale, qui, a mio avviso, è rappresentato dal problema dell'autonomia del gusto come progettualità e come momento ­ filosoficamente definito ­ della costruzione di una 'nuova' soggettività. Il "progetto illuminato" o il "progetto della modernità" hanno senso, come categorie, soltanto in questo contesto. Senza nuovo Soggetto, nuovo orizzonte di significato, nuova individualità definita dalla superiorità del principio del gusto quale sua categoria costitutiva (e fondatrice del suo significante) non si ha progetto che valga. altrimenti, il riferimento di senso andrebbe tutto a ricadere in quel processo e in quella pratica di "estetizzazione diffusa" che Charles Taylor definisce "malaise della modernità" in un suo saggio recente e che è peraltro assai discutibile e sicuramente risulta schiacciato e nella sua pars destruens troppo sbilanciato in rapporto alla questione della post-modernità):
"Ciò emerge in maniera sempre più chiara nel riconoscimento che le esigenze dell'autenticità sono strettamente legate alla dimensione estetica. Questo termine ci è molto familiare e noi tendiamo a pensare che una dimensione estetica sia sempre stata presente nella vita degli uomini o almeno fin da quando essi hanno amato l'arte e la bellezza. Ma non è così. la nozione dell'estetico emerge da un'altra, parallela trasformazione settecentesca nella concezione dell'arte, connessa allo spostamento dei modelli dall'imitazione alla creatività. Quando sia intesa come fondamentalmente una specie di imitazione della realtà, l'arte pur essere definita in termini della realtà raffigurata o della maniera in cui la raffigura. Ma il Settecento assiste a un altro di quegli spostamenti verso il soggetto di cui abbiamo già visto un esempio con la filosofia del senso morale. la specificità dell'arte e della bellezza cessa di esser definita in termini della realtà o della maniera in cui questa viene ritratta e si arriva invece a identificarla mediante il tipo di sensazione ch'esse suscitano in noi: una sensazione sui generis, diversa dal sentimento morale e da ogni altro tipo di piacere" (Charles Taylor, Il disagio della modernità, trad. it. di G. Ferrara degli Uberti, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp.74-75).
Senza tener conto qui della veridicità o della pregnanza delle argomentazioni di Taylor riguardo la natura della richiesta di autenticità e di auto-realizzazione espresse attraverso l'arte dal corso digradante (e in crisi) del processo di costruzione del soggetto nella modernità, va rilevato che proprio quella "sensazione sui generis" cui si allude costituisce il principio cui fa capo il gusto estetico. È il frutto (come Taylor non manca di rilevare) dell'ipotesi articolata da Francis Hutcheson dell'esistenza di un 'senso interno' in grado di accettare e di recepire, in maniera autonoma e a pari livello per tutti gli uomini, l'impatto costituito dalla natura della bellezza. Che poi essa venga apprezzata e compresa seguendo diverse stratigrafie di senso e secondo prospettive digradanti a seconda della loro natura e della loro educazione costituisce l'oggetto di detta ipotesi.
Su questo punto, per evitare di soffermarmi troppo sul tema in questione, non posso che rimandare alla bella analisi di Giorgio Agamben relativa al concetto storico di giudizio di gusto contenuta nel suo L'uomo senza contenuto (Milano, Rizzoli, 1970, pp.31-63) che resta pregnante e precisa nonostante il molto tempo intercorso dal momento in cui è stata formulata.
Ma proprio perché il legame tra apprezzamento estetico e costituzione della soggettività definisce lo statuto specifico del gusto come rapporto tra uomo e mondo e come orizzonte della sua ricostruzione (e ricostituzione) in termini estetici, quest'ultimo non pur essere fatto riverberare sui processi di 'estetizzazione del mondo' che contraddistinguono la modernità (e su cui già Georg Simmel aveva da par suo, con intelligenza e disperazione, richiamato l'attenzione). Non si tratta, a mio avviso, tanto di definire i criteri di autonomia di esso quanto di analizzare e di ricostruire in chiave teorica e storica insieme i suoi legami con la nascita della soggettività storica dea Moderno che lo rendono così importante per la definizione dei progetti di individuazione dei nuovi soggetti che ne contraddistinguono la fase costitutiva.
Enunciato in tal modo, il procedimento risulta certo troppo ambizioso per poterlo esaurire a livello di 'catalogo delle idee' o di dizionario dei concetti ­ mi limiterò a circoscriverlo.
Per attuare (almeno in parte) il mio programma, mi sarà necessario individuare ­ dove tale ricerca sarà praticabile o meritevole di prosecuzione ricostruttiva ­ le intersezioni esistenti tra definizione ed esercizio del gusto come categoria estetica (o in via di sistemazione come tale) e momento politico come rappresentazione (le immagini del sentire) di una nuova soggettività individuata nel suo rapporto con l'educazione e la società.
Si tratta qui, evidentemente, di evocare il fantasma della politica per far materializzare il fantasma di una soggettività che dal Settecento ad oggi non ha cessato di esercitare il proprio diritto a manifestarsi nel momento in cui sembrava necessario fare i conti con una concezione dell'arte e della poesia che volesse fare a meno del suo rapporto con una dimensione sociale specifica cui fare riferimento .legare politica ed estetica mediante il fantasma.di una soggettività in cerca di espressione concreta e stringente è la scommessa teorica della mia presente relazione sul gusto e il suo destino antropologico e storico.

Digressione sul tatto e il gusto

Prima di passare, tuttavia, alla disamina del rapporto esistente tra estetica del gusto e politica della soggettività in Edmund Burke e in Joseph Addison (unici due autori ai quali, purtroppo, sarò costretto a circoscrivere un'indagine che meriterebbe, invece, di essere allargata fino a coinvolgere l'intera genealogia cui si può far risalire la tassonomia estetica della riflessione sul gusto),sarà necessario calibrare adeguatamente le categorie mediante le quali parlare della questione e della natura del gusto estetico. Non è un caso, comunque, che il gusto (a differenza di altre categorie 'oggettive' della soggettività giudicante) abbia conservato la matrice materiale della sua nominazione. Rimane, pur sempre, insieme al tatto il più 'materiale' dei cinque sensi e come il tatto è il più 'apprezzato' in chiave gnoseologica e fondativa nel Settecento dei Diderot e dei Condillac; più della vista o dell'udito, esso permette una comparazione e una verifica della verità delle sensazioni. Su questo tema basterà apportare la testimonianza dirimente del Trattato delle sensazioni di Étienne de Condillac (che è del 1754) incrociandola con le affermazioni che rapprendono e costituiscono la sostanza propositiva delle tesi esposte nel Saggio sul gusto che apre l'Inchiesta sul Bello il Sublime di Edmund Burke (la cui dimensione è ovviamente assai meno radicale della proposta di Condillac).
Ciò che cosa sostiene, infatti, il paradigma del sensismo teorico riguardo il rapporto tra i due sensi del tatto e del gusto è fondamentale, infatti, a livello di costituzione della soggettività:

"La nostra Statua, priva dell'olfatto, dell'udito, del gusto, della vista e limitata al senso del tatto, esiste, dapprima, per il sentimento che ha dell'azione reciproca delle parti del suo corpo tra loro, specialmente nel movimento di respirazione: questo è il grado più piccolo di coscienza a cui può ridursi"
(Étienne Bonnot di Condillac Trattato delle sensazioni, trad. it. di A. Carlini, revisione della traduzione e note di P. Salvucci, Roma-Bari, Laterza, 1970, p.97).

Acquisita la possibilità di avere conoscenza dei corpi mediante la coscienza dell'estensione che costituisce il suo proprio corpo, la Statua ­ motore immobile ed exemplum fictum della proposta teorica di Condillac ­ si immerge nella scoperta di se stessa e giunge a definire la realtà in termini quantitativi. Ciò che le permette di assestare la propria soggettività in termini qualitativi è, invece, il rapporto con gli altri organi di senso e con la sintesi superiore che essi compongono una volta individuati tramite il tatto. La bontà e la bellezza subentrano successivamente come conseguenza dell'esercizio dei sensi:

"Le parole bontà e bellezza esprimono qualità per cui le cose contribuiscono ai nostri piaceri: quindi, ogni essere sensibile ha idee d'una bontà e d'una bellezza relativa a lui. Chiamasi infatti buono tutto ciò che piace al gusto o all'olfatto e bello ciò che piace alla vista, all'udito o al tatto. Ma il buono e il bello sono relativi anche alle passioni e allo spirito; ciò che favorisce le passioni è buono; ciò che lo spirito gusta è bello; ciò che piace alle passioni e allo spirito è buono e bello nello stesso tempo"
(Op. cit. , p.203).

Il punto d'approdo della Statua è, dunque, una capacità di cogliere attraverso i sensi una prospettiva di totalizzazione della sensibilità. Il gusto, da puro e semplice organo di senso in riferimento alla nutrizione, accede alla sfera della bellezza mediante l'opera di sollecitazione che le passioni operano sullo spirito. E

"…il giudizio, la riflessione, le passioni, tutte insomma le operazioni dell'anima non sono che la sensazione stessa che si trasforma differentemente... " (Op. cit., p.17).

Per Condillac, il gusto come apprezzamento della bellezza è il frutto dell'azione combinata dei sensi che, articolandosi secondo le leggi di funzionamento delle passioni della Statua, conducono al rovesciamento della passività relativa alle impressioni sensibili. In tal modo, la Statua trasforma se stessa da oggetto patetico delle sensazioni primarie in soggetto in grado di asseverare e di apprezzare il portato di quella stessa originaria sensibilità. Da paziente soggetto alle imposizioni dei sensi si fa soggetto portatore e capace di giudizio sull'attività realizzata mediante quegli stessi sensi. Tale rovesciamento pratico produce, alla lettera, una nuova soggettività.
 


 
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IL FANTASMA DELLA POLITICA - 2
il Settecento e lo sviluppo della teoria del gusto

Parte Seconda
 
Gusto, immaginazione e società: Burke

Allo stesso risultato giunge Burke nella sua analisi del gusto (ovviamente senza individuare il percorso sensistico cui si è fatto riferimento in precedenza). Burke, infatti, tende a conciliare la fisiologia materiale delle sensazioni con una psicologia delle affezioni sensibili:

"Il gusto, dunque, per ciò che riguarda l'immaginazione, si basa su un principio uguale in tutti gli uomini; non v'è nessuna diversità nel modo in cui essi sono commossi, né nelle cause della loro commozione; ma v'è una differenza nel grado che deriva da due principali motivi: o da un più intenso grado di sensibilità naturale o da una più vicina e prolungata attenzione all'oggetto"
(Edmund Burke Inchiesta sul Bello e il Sublime, trad. it. di G. Sertoli e G. Miglietta, Palermo, Aesthetica Edizioni,1985, p.58).

Infatti, una volta abbandonato l'orizzonte della sensibilità oggettivamente e quantitativamente definita (il buon gusto naturale), iniziano a sorgere quei problemi teorici legati alla necessità di introdurre criteri di differenziazione nel giudizio che risulteranno, alla fine, legati all'esigenza di raffinatezza prodotta da una superiore educazione (il buon gusto acquisito e frutto dell'approfondimento dei problemi dell'arte e della bellezza):

"Finché siamo a conoscenza delle qualità sensibili delle cose, ben difficilmente sembra che sia impegnato qualche cosa di più dell'immaginazione; qualcosa di più dell'immaginazione sembra esserlo invece quando vengono rappresentate le passioni, perché, per virtù di una simpatia naturale, esse vengono sentite da tutti senza il concorso della ragione e la loro efficacia è riconosciuta da ognuno. Amore, dolore, timore, ira, gioia, tutte queste passioni hanno a turno colpito l'animo di ognuno e non in modo arbitrario o casuale, ma secondo principi certi, naturali e costanti. Ma poiché molte delle opere dell'immaginazione non si limitano alla rappresentazione degli oggetti sensibili, né allo sforzo della volontà sulle passioni, ma si estendono ai modi, ai caratteri, alle azioni e alle intenzioni degli uomini, ai loro rapporti, alle virtù e ai vizi, entrano nel campo del giudizio, perfezionato dall'attenzione e dall'abitudine al ragionamento"
(Op. cit. , pp.59-60)

Il problema si sposta dall'analisi della sensibilità oggettiva, di pari identificabilità oggettiva, per farsi carico della questione della diversa soggettività del gusto e produrre quelle differenziazioni sociali che permetteranno di individuare il nuovo soggetto emerso nel corso delle trasformazioni storiche che ne individuano la novità e la 'differenza antropologica':

"Vi sono uomini la cui sensibilità è così ottusa, il cui temperamento è così freddo e flemmatico, che difficilmente si può dire siano desti durante l'intero corso della loro vita. Su tali persone, gli oggetti più notevoli producono soltanto un'impressione debole e oscura. Vi sono altri sempre così agitati da piaceri volgari e puramente sensuali o così asserviti alle basse cure dell'avarizia o così infiammati alla caccia di onori e di gloria, che le loro menti, continuamente abituate alla bufera di queste passioni violente e tempestose, difficilmente possono essere impressionate dal gioco delicato e raffinato dell'immaginazione. Questi ultimi, sebbene per un motivo ben diverso, diventano stupidi e insensibili quanto i primi"
(Op. cit. ,pp.60-61)

L'argomentazione di Burke, ripercorrendo e descrivendo la soggettività ancora hobbesiana dei soggetti che descrive, individua un principio di differenza che andrà a costituire il nocciolo della sua (futura) riflessione politica. I detentori del gusto sono coloro i quali risultano in grado di sviluppare la loro immaginazione e la loro educazione estetica in maniera tale che essa non sia assimilabile all'unilateralità dei processi lavorativi legati alla divisione del lavoro (qui gioca un ruolo fondamentale la descrizione che di tali processi si può trovare nell'opera di Adam Smith).

"Come il lavoro comune, che è una forma di dolore," ­ scrive Burke, infatti, nel prosieguo dell'argomentazione ­ "È l'esercizio delle parti più robuste, così una forma di terrore è l'esercizio delle parti più delicate del sistema; e se una certa forma di dolore è di tal natura da influire sulla vista o sull'udito, che sono gli organi più delicati, l'impressione si avvicina di più a quella che ha una causa intellettuale. In tutti questi casi, se il dolore e il terrore sono modificati in modo da non essere realmente nocivi, se il dolore non giunge alla violenza e il terrore non ha a che fare con il pericolo reale di distruzione della persona, poiché queste emozioni liberano le parti, sia le delicate che le robuste, da un ingombro pericoloso e dannoso, sono capaci di produrre diletto; non piacere, ma una forma di dilettoso orrore, una specie di tranquillità tinta di errore; la quale, dal momento che dipende dall'istinto di conservazione, è una delle passioni più forti. Il suo oggetto è il sublime"
(Op. cit., pp.146-147)

Come Tom Furniss si è provato a dimostrare nel suo libro dedicato all'ideologia estetica di Burke (Edmund Burke's Aesthetic Ideology. Language, Gender and Political Economy in Revolution, Cambridge, Cambridge University Press,1993,un saggio che deve molto alla lezione 'althusseriana' di Terry Eagleton e del suo The Ideology of the Aesthetic, Oxford, Blackwell, 1990, ma che dà la possibilità di iniziare un lavoro di scavo in profondità del rapporto tra estetica e politica nel Settecento), il gusto è inserito in un complesso di gerarchie di senso e di comprensione del mondo che variano, appunto, a partire dal gender sessuale e dalla collocazione nel processo sociale e produttivo.
Tale processo (che culmina con l'opera di Burke sul sublime) era in realtà già iniziato nelle ricostruzioni estetiche di Joseph Addison.

Gusto, società e piacere dell'immaginazione: Addison

I piaceri dell'immaginazione (che costituiscono, a tale riguardo, l'opera più importante e rappresentativa nel vastissimo corpus dell'opera di Addison) possono essere letti e analizzati ad un duplice livello: il primo, probabilmente il più semplice, è quello storico e sociologico, sul piano della vicenda del giornalismo in Inghilterra e delle sue implicanze dal punto di vista della dimensione del gusto; il secondo, più intrigante ed intricato (ma certamente, a mio avviso, più coinvolgente ai fini di una ricerca ancora ben lontana all'essere conclusa) è quello della ricostruzione estetica dei concetti, della loro fortuna e del loro legame con la dimensione politica cui è possibile rapportarli.

"Before the profound observers of the present race repose too securely on the consciousness of their superiority to Addison, let them consider his Remarks on Ovid, in which may be found specimens of criticism sufficiently subtle and refined; let them peruse likewise his Essays on 'Wit', and on the 'Pleasures of Imagination', in which he founds art on the base of nature, and draws the principles of invention from dispositions inherent in the mind of man, with skill and elegance, such as his contemners will not easily attain"

Ha scritto di lui Samuel Johnson, Catone ed Alcibiade della letteratura inglese nel XVIII secolo, nel suo libro di ricostruzione biografica che porta il categorico titolo di Lives of the Poets del 1781.
Art on the base of nature è frase illuminante per comprendere il compito che Addison si prefisse sotto il profilo estetico; un tema che aveva ereditato dagli stilemi classici seicenteschi, ma che porterà al calor bianco sottoponendolo allo scrutinio dell'esperienza e della ricostruzione diretta dei processi di costruzione e di individuazione del rationale inerente ed esistente nella nozione di Bello.
Come Addison stesso scrive enunciando il suo programma di ricerca nel II foglio del testo dei Piaceri dell'immaginazione (che, va ricordato, escono sulla rivista The Spectator nei numeri che vanno dal 411 al 421 e che temporalmente sono scaglionati tra il 21 giugno 1712 e il 3 luglio dello stesso anno, in successione rapidissima cioè e come scritti ­ come accadde quasi sicuramente ­ di getto):

"Considererò in primo luogo quei piaceri dell'immaginazione che sorgono dalla visione e dall'esame di oggetti esterni: e questi, credo, provengono tutti dalla vista di ciò che è grande, non comune o bello. Vi può essere, è vero, qualcosa di così terribile o ripugnante che l'orrore o la schifezza dell'oggetto superi il piacere che deriva dalla sua grandezza o novità o bellezza; ma allo stesso disgusto che ci dà, sarà sempre mescolata una certa dose di piacere, quando sia più cospicua e prevalente una qualunque di quelle tre qualità"
(Joseph Addison, "I piaceri dell'immaginazione" in L'estetica dell'empirismo inglese, trad. it. e cura di Mario Manlio Rossi, Firenze, Sansoni,1944, t.I, p.260 ­ la trad. it. utilizzata, sebbene impraticabile non solo a causa dei frequenti refusi ma soprattutto del pregiudizio largamente e diffusamente crociano che la attraversa e che impedisce al suo autore l'ampiezza di veduta storica e critica insieme necessarie all'analisi dei testi, è l'unica (e benemerita) attualmente vigente, in attesa di una mia edizione ancora a venire).

Tra capacità conoscitiva acquisita mediante il gusto ed avvertimento della potenza della forma del Sublime si delinea così l'itinerario estetico del pensiero di Addison. Esso definisce la propria evoluzione e la propria potenza estetica a partire dal "piacevole stupore" che coglie la soggettività 'educata' che guarda e analizza sulla base della nozione di "grandezza":

"Per "grandezza", non intendo soltanto la massa d'un qualunque oggetto singolo ma l'ampiezza d'una veduta completa, considerata come visione unitaria. Tali sono i panorami della campagna aperta, un vasto deserto selvaggio di enormi ammassi di montagne, di rocce eccelse e di precipizi, ovvero una grande distesa di acque, nei quali non ci colpisce la bellezza o la novità della veduta, ma quella rozza magnificenza che si rivela in molte di quelle stupende opere della natura. Alla nostra immaginazione piace venir riempita da un oggetto, tentar di afferrare cose troppo grandi per la sua capacità. Veniamo gettati in un piacevole stupore da visioni così illimitate e quando le percepiamo, sentiamo nell'anima una deliziosa calma attonita. Alla mente umana, per natura sua, dispiace tutto ciò che sembra costringerla e le pare di essere in una prigione quando la vista è rinserrata in brevi confini e limitata da ogni parte dalla vicinanza di muri o di montagne. Un orizzonte spazioso è invece immagine di libertà "
(Op. cit. , pp. 260-261)

In questo sembrerebbe consistere il paradosso addisoniano del piacevole ­ in un'illimitatezza o in un'infinità che pur tuttavia viene percepita da sensi che hanno natura e capacità finite (e non è fuori luogo, a mio avviso, evocare qui altri segnali dell'Infinito e cioè quelli attribuibili alla poetica del Sublime di Giacomo Leopardi). Ma il punto più interessante della ricostruzione degli elementi che costituiscono la natura del piacere legato all'esercizio dinamico dell'immaginazione è legato, tuttavia, alla condivisione che di esso si raggiunge. Come rileva correttamente Bozal, l'immaginazione e i suoi parametri di valutazione della funzione della bellezza sono tali solo in rapporto alla possibilità che essi hanno di essere valutati sulla base di standard attribuibili a cerchie o sfere più ampie di comunità sociali e non a soggetti singoli, a individualità precise, allo sguardo neutro o oggettivato dello spettatore come entità non definita e non collocata nella stratigrafia sociale del consenso di gusto:

"Tuttavia, il soggetto non s'identifica con un singolo individuo, il soggetto dei giudizi di gusto ha, per così dire, un carattere plurale e include tanto le idee e le valutazioni nuove quanto i nuovi procedimenti di diffusione e critica delle opere d'arte[...].
L'esperienza del sublime e del pittoresco non è un'esperienza individuale, per quanto si eserciti individualmente. Solo quando i sistemi di valutazione estetica includono la grandiosità sublime come qualcosa di più che un espediente retorico o stilistico, solo quando la diversità provoca piacere e non rifiuto, solo allora è possibile un'esperienza estetica che contempli il sublime e il pittoresco tra le proprie finalità"
(Valeriano Bozal, op. cit. , pp.40-41)

I "piaceri dell'immaginazione" descritti da Addison individuano, dunque, una soggettività definita dalla sua capacità di accettare i livelli di diversificazione presenti all'interno della sua produttività di senso. Essa, proprio per la natura della sua relazione perspicua con le articolazioni stratificate della sensibilità, esibisce una consapevolezza molto forte dell'esistenza di livelli definiti e differenziati di gusto e della possibilità esibita di una educazione ad esso presente nell'ambito della società.
È sempre Bozal a chiarire questo rapporto:

"Le immagini partecipano in modo energico al processo di formazione dell'identità della comunità, esplicitano i valori in cui essa si riconosce, consolidandoli e diffondendoli. La differenza consiste, ora, nell'assunzione di valori propriamente estetici come valori d'identità[...]. Questo è il punto di partenza del soggetto che chiamiamo moderno e questo è il tratto caratteristico della sua modernità: l'inesistenza di un fondamento dato per lo spazio dal quale rappresentare il mondo, l'ineluttabile necessità di configurarlo per essere. La situazione in cui si trova è radicale, la figura che costruisce di se stesso mentre costruisce quella del mondo non è quella di questo o quello, è la sua stessa identità in quanto soggetto. L'autonomia del gusto è tratto e manifestazione dell'autonomia di questo soggetto che costituisce la comunità di rappresentazione. La comunità non solo rappresenta il mondo come sublime, pittoresco, grottesco, ecc., ma rappresenta anche se stessa come soggetto di quel sublime, di quel pittoresco, di quel grottesco e in questo modo disegna una figura di se stessa e del mondo"
(Op. cit., p.79)

Politica ed educazione del gusto

Ciò risulta tanto più evidente quando le categorie estetiche riferite alla visione e all'ammirazione per la natura e le sue forme di manifestazione oggettive vengono utilizzate per 'analisi e la ricostruzione delle ragioni per le quali l'arte raggiunge il suo obbiettivo nei confronti della soggettività che l'osserva e la giudica. Stabilire quando, in sostanza, un'opera d'arte piaccia o meno: tale è il compito che Addison vuole assolvere.

"Sarebbe vano ricercare se la capacità di immaginare vivacemente derivi da maggior perfezione dell'anima o da tessuti più delicati nel cervello d'un uomo in confronto ad un altro. Ma è ben certo che uno scrittore elevato deve possedere di nascita questa facoltà nella sua piena forza e vigoria in modo da esser capace di ricevere idee vivaci dagli oggetti esterni, di conservarle a lungo, di combinarle insieme, quando è necessario, nelle figure e rappresentazioni più adatte a colpire la fantasia del lettore. Un poeta deve studiarsi di educare la propria immaginazione quanto un filosofo si affanna per coltivare il proprio intelletto"
(Joseph Addison, "I piaceri dell'immaginazione" in L'estetica dell'empirismo inglese" cit., p.285).

Il principio dell'educazione dell'immaginazione (e, di conseguenza, del gusto) investe sia l'autore che lo spettatore: entrambi debbono trovare nel loro rapporto intersoggettivo la prospettiva estetica che ne individui i parametri condivisi (e condivisibili) per ottenere il piacere perseguito dall'attività creativa. La verifica di questo procedimento permette di valutare la qualità dell'opera d'arte (nel caso in questione, delle modalità artistiche della scrittura):

"La grande arte dello scrittore si rivela nella scelta di allusioni piacevoli che devono di solito venir tratte da opere di natura e d'arte belle o grandiose: benché infatti cose nuove e non comuni dilettino l'immaginazione, le allusioni (che hanno per scopo principale quello di illustrare e spiegare certi passi) devono sempre venir prese da cose più note e più comuni dei passi stessi che vanno spiegati"
(Op. cit., p.303)

Di conseguenza: le allusioni troppo raffinate dei dotti risultano incomprensibili, le allusioni troppo familiari o dozzinali dei politici di professione non elevano e educano la mente e il gusto. Il criterio da adottare, allora, per adeguarsi allo standard della comunità di appartenenza e alla sua capacità di comprensione delle similitudini e delle metafore è quello di adattarne il livello di comunicazione:

"È ben vero che si possono trovare allusioni svariatissime e molto piacevoli tanto nel genere dotto che in quello triviale; ma le più piacevoli si trovano, in generale, in cose della natura che sono ovvie per gente di ogni educazione e più gradite di quelle che si posson trovare nelle arti e nelle scienze. È questa capacità di colpire l'immaginazione che abbellisce il buon senso e rende gli scritti di uno più piacevoli di quelli d'un altro"
(Op. cit., pp.304-305)

È nella trasformazione della dimensione artificiale dell'arte in natura comune agli uomini che consiste la funzione dell'educazione del gusto. Ed essa consiste e trova il proprio inveramento nel dare la possibilità alle facoltà latenti nella natura umana di venire alla luce. Come aveva scritto in un saggio del 6 novembre 1711 dedicato all'educazione dei sentimenti:

"Considero un'anima umana senza educazione come il marmo nella cava, che non mostra nessuna delle bellezze che gli sono proprie finché l'abilità di chi lo pulisce fa apparire i colori, fa brillare la superficie e scopre ogni venatura, ogni macchia e ogni striatura ornamentale che corre per il suo corpo. Nello stesso modo l'educazione, quando opera su una mente nobile, mette in evidenza ogni virtù e ogni perfezione nascosta, che senza tale aiuto non possono mai fare la loro comparsa".
(Joseph Addison Dallo "Spettatore", trad. it. e note di C. Revelli, Torino UTET, 1957, p.209)

La capacità del gusto a produrre una piattaforma condivisa di educazione della soggettività e a costituirne i parametri relativi e in grado di realizzarla è legata alla sua capacità di costruzione di un livello articolato del discorso e del sentire comuni. Nello specificarne i caratteri e le passioni individuali alla luce del loro funzionamento generalizzato consiste, invece, la sua funzione politica conclamata e la sua diffusa condizione di categoria unificatrice della ragione e dei sentimenti, delle passioni e degli interessi della società delle individualità che esprime.
La funzione della politica diventa, allora, quella di far emergere i fantasmi della soggettività storica e unificarla in un progetto di lettura e di descrizione delle sue prospettive. Unificare i soggetti sulla base del loro apprezzamento della bellezza producendo un'opera di stratificazione della capacità immaginativa ad essi inerente è, invece, il compito dell'estetica e della sua soluzione sulla base del principio di valore del gusto. Legare politica ed estetica attraverso il primato del giudizio di gusto è stato il grande merito storico di Joseph Addison. Il fantasma della soggettività da lui evocata e legata a questa alleanza sociale tra politica ed educazione estetica è qualcosa che continua ad abitare ancora le stanze semivuote del castello della Modernità al suo tramonto.
 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Alfonso Cardamone
[ a.cardamone@email.it ]
 
CITTÀ FANTASMATICHE
 
Partiamo da una considerazione non certo originale, ma sicuramente ineludibile e fondamentale, e dando per scontato tutto quanto c'è e c'è stato di elaborazione teorica e di dibattito dietro la definizione feticistica della merce e, con essa, della città.
A partire dall'esposizione di Londra del 1851, la feticizzazione dell'oggetto operata dalla merce diventa evidente soprattutto nelle Esposizioni Universali, che acutamente W. Benjamin (come ricordato Giorgio Agamben in un memorabile saggio del 1972 inteso come "Contributo allo studio delle origini della poesia moderna") definisce "luoghi di pellegrinaggio al feticcio-merce".
Nell'Esposizione Universale si celebra per la prima volta l'epifania dell'inafferrabile, la trasfigurazione della merce in "oggetto d'incantesimo". Ora, se ciò, grazie soprattutto a Baudelaire, saggista d'eccezione dell'Esposizione parigina del 1855, si poté trasformare anche in una revisione della concezione stessa dell'opera d'arte (argomento interessantissimo ed ovviamente anche contestabile, ma che non attiene a questa sede), mette conto qui invece rilevare -con Agamben- come già la costruzione della tour Eiffel, in occasione dell'Esposizione Universale del 1889, abbia contribuito a "trasformare la città intera in una merce consumabile con un semplice colpo d'occhio. La merce più preziosa in mostra nell'Esposizione del 1889 era la città stessa". Cominciava il processo della trasformazione della città in merce!

Ed i poeti?
Potremmo dire parafrasando Neuro Bonifazi (su cui torneremo citando Campana) che quell'ossessione nuova della città europea che, fin dall'inizio della rivoluzione industriale dell' Ottocento, aveva catturato i poeti e gli scrittori di tutto il mondo, e che è possibile rintracciare già nella poesia simbolista europea, da Rimbaud (Ouvriers … La città, con i suoi fumi ed i suoi dei mestieri, ecc.; I ponti: Un bizzarro disegno di ponti ecc.) a Verhaeren (per tanti versi simile a Campana… specie nelle sue "Città tentacolari", e in particolare nella poesia "La folla"), difficilmente è rinvenibile con la stessa intensità e consapevolezza nella poesia italiana contemporanea, almeno fino a Dino Campana, che ne fa, comunque, "una situazione personale e italiana, trasportandola nelle sue città del passato e del mistero e ordinandola e superandola nel suo stile".

I poeti cittadini per eccellenza sono, in Italia, nel secondo Ottocento, gli Scapigliati. Ed infatti in essi si coglie un primo, interessante rapporto con la città. Ma di quale tipo? Cominciamo con Emilio Praga.
Con Il corso all'alba, il poeta si pone di fronte alla città come di fronte alla mappa di una specie di "monopoli" disegnato sui luoghi tipici della nuova realtà urbana caratteristica della seconda metà dell'Ottocento. L'approccio che ne risulta è fortemente denotativo, ma al tempo stesso astratto e, in conclusione, moralistico (anche se non manca una impressionante denuncia ecologista avant la lettre! ).
Troviamo il Corso, coi filari dei "platani" e la teoria dei "tetti" in fuga, dove, al tramonto, "fra splendidi / cocchi e noti destrieri", risuonano i "cembali" e "s'esercita / la boria cittadina", fatta di "dame e cavalieri" … E dove, in un mondo rovesciato, all'alba, quando i "palazzi" signorili si sono fatti muti e deserti i "balconi", da cui, di giorno "sorridono / le matrone galanti", la città diviene altra cosa. Innanzi tutto teatro delle scorribande dei poeti: lo scintillante corso del tramonto si tramuta nello "sporco lastrico", e, "al soffio / dell'aura mattutina", quando ormai "in bando / è l'alta società", si fa "il campo" di prova dei poeti in canto. Ma non solo, l'ora è magica, e la città disvela la sua mappa, i suoi topoi da gioco del monopoli: il "dazio", la "dogana", le chiese con le "campane vigili", che "già suonano a distesa", le "officine stridule" persino nei sobborghi, e, al posto degli splendidi cocchi, lo scalpitìo delle "cavalle / che trottano in città". E' una fervente umanità minore che, come i segnalini del monopoli, si dispone e si muove sulle precostituite caselle, un'umanità fatta di "lattai", di "bifolchi", di "serve" e "servitori", di "villici". La città, nell'alternanza diuturna del tempo, si rivela spaccata in due, specchio di una radicale e manichea opposizione e polarizzazione sociale. All'alba, è una città ancora, in qualche maniera, confusa con la campagna, se i villici lungo il corso si mischiano alle belanti "capre" ed ai mandriani queruli. Ma comunque dal poeta già avvertita e vissuta, nella sua diversità dalla campagna, come un rischio e un male, una minaccia, se l'aria è perniciosa e l' "afa cittadina" opposta alla "molle auretta" dei colli. La città già (o ancora) s'identifica con i rifiuti e la sporcizia: con il "nostro limo / cresciuto in libertà".
La città torna a farsi viva nella composizione "Notte di Carnevale" e questa volta è immensa, "l'immensa città". Ma in realtà, si tratta di un immenso palcoscenico, di una città- palcoscenico, con le sue quinte e i suoi fondali ("E' notte: azzurro il ciel, tonda la luna / che disegna sul lastrico i ritratti / dei comignoli", mentre le "note gronde" sono attraversate dai gatti che "sospirano d'amor come i poeti / dell'Arcadia"); una città-teatro con le sue orchestre (non solo quelle che "nei teatri / fremono melodie", ma anche quelle che rompono la quiete di piazze sonnecchianti con il "rombo di qualche carretto / che si perde nei vicoli lontani", o con il canto che s'innalza improvviso da un uomo che arriva " al muro brancicando").

In "Armonie della sera", la città è la "negra città", ma è proprio all'aggettivo "negra" che il poeta affida il compito di un impercettibile quanto inesorabile slittamento di senso: dalla condizione di oscurità che la pervade, la città, come un palcoscenico s'accende di colpo di mille "fiammelle", e si definisce come una successione di scene rappresentate da luoghi deputati (gli archi delle porte, l'ospedale, le chiese, le caserme, i "vicoli oscuri", l' "ermo manier", i "turpi ridotti"), che si riempiono progressivamente successivamente drammaticamente di comparse (le serve che ridono allegre, la Morte che ascende "furtiva", i baciapile, i giovani imberbi, igiocatori), mentre il timbro sonoro è sostenuto dal rullare dei tamburi.
In definitiva, e confermando la vena profonda che attraversa l'intera poetica del Praga, la città altro non è che "madre di inganni e toschi" (citiamo dall'ode "A Enrico Junk), a cui è necessario sottrarsi, e, al tempo stesso, occasione di "vita frivola", finzione appunto e menzogna da obliare ed a cui opporre l' "alma nudità del vero", che si identifica ancora e sempre con la natura naturans.

Addirittura fantasmatica è la città nelle poesie del Camerana. E' una geografia urbana segnata dall'assenza, dalla rarefazione. Se non si tratta di personalissime "strane città, fantasticate", di misteriose "azzurre oasi" della fantasia, come in "Rovine", le città sono semplici qualificativi peggiorativi: la "pomposa città" di "Natura e pensiero", la "città peccatrice" di "A Emilio Praga", la "città prava" di "Eli! lamma sabacthani!…". O se il riferimento ad una città fisicamente riconoscibile è dichiarato, come per la Verona di "Dante in Verona", la denotazione interviene prontamente ad identificarla attraverso la non-identificazione, la deficienza, la mancanza: l'athalassia è il connotato che definisce Verona, città "che non ha il mare", città athalattica, che è , come a dire, città priva di azzurro, al contrario delle città fantasticate!

Su Carducci e sulla sua visione della Città potremmo quasi sorvolare, troppo ancorato il poeta-artiere alla visione del passato, vuoi classica vuoi medioevale. Eppure qualche notazione interessante può venire fuori da un'analisi comparata dei luoghi della sua poesia in cui la Città proietti la sua ombra. Sarà allora possibile rilevare una opposizione bipolare che non sarà senza retaggi né discendenze nella vicenda della poesia italiana moderna e contemporanea: da una parte una rappresentazione cupa, statica, quadrata; dall'altra una visione brumosa, o aerea, sempre mobile, a volte addirittura equorea e liquida.
Così, se in "Mattutino e notturno", la città è marmorea e tacente ("Quando ammirò da i poggi ermi la luna /A la città marmorea tacente / Dir le malinconie de l'infinito."); poco prima (sempre in "Rime Nuove"), era spettrale nella nebbia ("spettral ne la nebbia alza i giganti / Templi la tua città, Dante Alighieri."). E se ancora è nera di tetti in "Classicismo e Romanticismo", dove un mesto autunno "de la città fra i neri tetti / Un sua raggio disvia"; nel pulviscolo luminoso del "fulgente meriggio" appare invece dissolta nell' ode a Vittore Hugo.
Ancora quadrata è la città di "Dinanzi alle terme di Caracalla", in "Odi barbare", e turrite sono le città di "Miramar"; ma nella medesima raccolta, da "Fuori alla Certosa di Bologna", ecco emergere dal "mare superbo di fremiti e d'onde: / ville, città, castelli … com'isole".
E per Carducci siano sufficienti questi brevi sprazzi.

Passando a Giovanni Pascoli, e limitando la nostra indagine alle raccolte di "Myricae" e "Primi Poemetti", rileviamo che l'impatto con la città è solo un'occasione in più per dare corpo alla vocazione ed all'esercizio delle "parole che velano, e perciò incupiscono il loro significato…", un'occasione in più per mettere alla prova la sfida di inventare - come è stato detto- "una lingua capace di precisione massima nella descrizione delle "cose" su uno sfondo indeterminato della massima imprecisione": di quello sfondo le città pascoliane sono chiamate a fare parte. Così non meraviglierà se esse si risolvono e si sciolgono in un incanto di suoni ovvero in una magia di colori. Sono città-suono (come "la città sonora", appunto, o la "città dai mille campanili" di "Dialogo"), città tremebonde sotto il martello assordante delle campane nel poemetto "Le armi"; oppure città-tavolozza, dove i colori sono il bianco ("la città fumida e bianca" che integra la "città sonora" di "Dialogo", o la città dalle "chiare brecce" di "L'asino"), il nero (la "città nera" di "Povero dono"), il verde ed il ceruleo ("la verde muraglia della mia città" di "La siepe", o le sciamanti città avvolte in un velo di "aria cerula" di "Solitudine", dove, addirittura, in una vertigine di geometrica esaustività, il poeta definisce il paradigma del proprio rapporto con la città attraverso la lucida e sfuggente figura del richiamo chiasmatico: "Sono città che parlano tra loro, città nell'aria cerula lontane", in un verso, "città nell'aria cerula lontane; tumultuanti d'un vocìo sonoro", nel successivo).

All'alba del nuovo secolo, Gozzano, uno dei nostri poeti più cittadini, dimostra un rapporto ironico e sfuggente con la città. Se non è celebrata, ancora e secondo un cliché abusato, per le sue attrattive peccaminose, da città tentacolare e tentatrice ("la città risplende / in Novembre di faci lusinghiere: / e molli chiome ecc." leggiamo in "Domani"; e "Torino" è celebrata ed invocata come "città favorevole ai piaceri!"), la città è distanziata, collocata in una dimensione di lontananza spregiata o dimensionata sulla dis-misura del sogno o della rappresentazione artistica: in "L'analfabeta" leggiamo sia "non amava le città lontane", che "una città fittizia / quali si vedon nelle vecchie stampe", oppure leggiamo di "città vedute nei miei primi sogni". In "L'esperimento", infine, l'immagine della città è risolta in pura effigie e decorazione: "Oh! La collana di città!", "…e al collo una collana di musaici / effigianti le città d'Italia", quasi un'elegante teoria di immagini da catologo o sa depliaqnt di agenzia turistica: "Viaggio / lungo la filza grave di musaici"!

Per rimanere nell'ambito del Crepuscolarismo, mi piace ricordare che con "L'ultimo sogno" di Corazzini questa tendenza all'estraneazione della città nella sfera del sogno sembra raggiungere uno dei massimi vertici: tutto è deserto, tutto è silenzio, non ci sono risposte, non ci sono domande, solo il canto "senza ritornelli" delle fontane.

Abbiamo accennato, all'inizio della nostra conversazione, alla poesia di Dino Campana ed al suo particolare rapporto con la tematica della città. Non c'è dubbio che molti modi campaniani presentino significative analogie con tutta una serie di espressioni 'manieristiche' presenti "nella letteratura e nelle arti dell'Ottocento e del primo Novecento in Italia e in Europa: dalla tematica del paesaggio urbano inaugurata da Baudelaire e Rimbaud allo spazio contratto di certa pittura cubista" (Galimberti)
Per la prima tematica, abbiamo già accennato come quell' "ossessione nuova della città europea - che dall'inizio della rivoluzione industriale dell'Ottocento aveva preso i poeti e gli scrittori di tutto il mondo", e che si trova nella poesia simbolista europea, da Rimbaud a Verhaeren, si ritrovi viva in Campana, che ne fa però "una situazione personale e italiana, trasportandola nelle sue città del passato e del mistero e ordinandola e superandola nel suo stile" (Bonifazi).
Innanzi tutto, l'attacco del poemetto in prosa "NOTTE": "Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell'Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo". E' chiaro che la vicenda poetica si svolge in un tempo e in uno spazio irreali, volutamente indeterminati, in una dimensione di spazio-tempo dichiaratamente memoriale, che favorisce l'emersione di un vero e proprio "paesaggio di sogno" (né rompe con la tradizione pascoliana: le qualificazioni della città sono principalmente cromatiche…).
Per la seconda tematica, voglio ricordare come il suggello della modernità di Campana non sia solo in quella sua rielaborazione degli elementi costitutivi del linguaggio che sembra preludere alla formazione degli stilemi ermetici, o in quello "sforzo di investire il linguaggio di una vera funzione spirituale" (M. Luzi), di cui egli è partecipe con Rebora, Ungaretti e Montale, ma anche nello sforzo di adeguare le sue ricerche espressive a quelle analoghe che la pittura contemporanea -cubista e futurista- andava sperimentando in ordine alla scomposizione delle immagini e degli elementi spaziali, e basti pensare appunto a quanto ha fatto su Genova, dove i piani si accavallano e le immagini della città vengono frazionate come per un effetto caleidoscopico:

"dentro il vico marino in alto sale
dentro il vico che rosse in alto sale
marino l'ali rosse dei fanali
che nel vico marino in alto sale"

Ora, sarà anche vero, come vuole il Parronchi, che questi frazionamenti e accavallamenti di piani siano spie di un'attenzione di Campana alle ricerche espressive dei futuristi, ma quello che a noi colpisce (e stupisce) è proprio il frazionamento dell'immagine relativa alla città in quanto tale.

Venendo ai nostri giorni, infatti, e per citare il mio amico Beppe Panella, il passaggio si è consumato ormai dalla Metropoli come mutazione organica della città borghese al 'luogo senza luoghi' della Metropoli esplosa sul e nel territorio, della città contemporanea senza centro e senza periferia. La "città come spettacolo", già intuita, incredibilmente, dai poeti del secondo Ottocento, si è trasformata da epicentro della soggettività dello spettatore, alla dislocazione oggettiva e fuggente (nomadica, a-centrata) della coscienza spettatrice che non esiste se non all'interno dell'evento cui partecipa, travolto e sur-determinato dal suo carattere di feticcio. Lo stesso tempo esistenziale ne viene infettato. Ed al poeta non resta altro che aprire smagliature e fratture, negli oggetti che si sfaldano, e disarmato cogliere vendemmie sterili di eventi.
Per citare, in conclusione e immodestamente me stesso:

ballata (della città)
(come a dire: il tempo della città)

ed è dunque del tempo che si tratta
dell'indicibile arrogante tempo coltello
che scava sottotraccia e verga indifferente
d'Aronne
che scioglie le montagne e scambia
le sorgenti e gli occhi che ci diedero
sgomento (illusoriamente uguali nel ricordo) di
impercettibili brividi attraversa incessantemente
differenti
ma il tempo non sappiamo
se sia solo un fatto
personale noi provammo
a smontare le città e a risalire alle
matrici delle macchine e tra mani
ritrovammo parvenze ingiustificabili parvenze su
cui la luce gioca i girotondi e la decisione viene solamente
a mutare i piani precarie forme suggerendo
d'illusoria consistenza
eppure inserirsi è sufficiente nelle maglie
del tempo che scorre ciclopico
prigione
deridente e alle fratture
che sfaldano gli oggetti puntare l'occhio disarmato a cogliere
vendemmie sterili
d'eventi
 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Anna Di Meglio
 
IL LUPO DELLA STEPPA
E
IL GIOCO DELLE PERLE DI VETRO
variazioni sul genere romanzesco
 
La natura dei rapporti che intercorrono tra i diversi generi letterari e le singole opere è sempre complessa. Anche quando un'opera "disobbedisce" al genere letterario, cui per sua natura dovrebbe appartenere, quest'ultimo diventa inevitabilmente il punto di riferimento a partire dal quale è possibile recepire l'opera come innovativa. E' il confronto (voluto o non voluto, cosciente o non cosciente) con il genere, noto e codificato, che permette di definire, per sottrazione, il nuovo linguaggio.
Il genere letterario diventa in tal modo matrice di nuovi sistemi e registri narrativi. Per Ferdinand Brunetière, che mette a fondamento dei suoi studi sui generi letterari la teoria darwiniana dell'evoluzione, … la differenziazione dei generi si attua nella storia come quella della specie nella natura, progressivamente, per transizione dall'uno al molteplice, dal semplice al complesso, dall'omogeneo all'eterogeneo, grazie al principio detto della divergenza dei caratteri…(1).
La capacità di disobbedire al genere letterario è spesso per lo scrittore un punto di arrivo, il segno di una maturità artistica che emerge per la sua originalità e modernità. Tutto il Novecento cresce artisticamente sotto il segno dello sconvolgimento dei generi artistici classici, i quali si consumano, si disgregano, esplodono fino alla apparente scomparsa, tanto che oggi molti critici, come Maurice Blanchot, ne hanno decretato la fine: Il libro solo importa, così com'è, fuori dai generi, dalle rubriche, prosa, poesia, romanzo, testimonianza, in cui rifiuta d'incasellarsi, negandogli il potere di fissare quale sia il suo posto e di determinare la sua forma. (2)
In realtà, più che di disintegrazione o scomparsa dei generi, sarebbe più corretto parlare di trasformazione o di evoluzione, come voleva Brunetière, dei generi vecchi in generi nuovi, sulla scia di mutamenti storici e sociali. Ogni genere letterario è una codificazione o istituzionalizzazione, che fa riferimento alla ideologia della società in cui esso nasce (3). Lo scrittore, come il lettore (ma quest'ultimo il più delle volte in modo inconsapevole), deve fare i conti con quei codici letterari che la tradizione, l'uso, la consuetudine automaticamente stabiliscono, anche quando, come nel caso delle Avanguardie, ci si vuole porre in contrasto con essi.
E' estremamente stimolante osservare come lo scrittore si muova all'interno di tali codici letterari, come ne sia influenzato e come li manipoli, per creare la propria personale ed unica espressione artistica, mettendo in moto un meccanismo di spinte e controspinte in un gioco di scambi che è sempre unico ed originale.
Il confronto tra due romanzi di Hermann Hesse offre l'occasione per mettere in luce non solo lo stretto rapporto che intercorre tra strutture narrative e storia, ma anche quanto le variazioni all'interno di uno stesso genere letterario siano strumento espressivo di primaria importanza per lo scrittore.
Tra la stesura del Lupo della steppa, opera apparsa nel 1927, e del Gioco delle perle di vetro, del 1943, intercorrono anni densi di avvenimenti storici. Sullo sfondo della profonda crisi economica, che dal '29 attanagliava l'Europa, e della temibile avanzata del nazionalsocialismo, Hesse viveva il suo secondo, doloroso divorzio nella solitudine del volontario esilio svizzero che si era imposto dal '23 come protesta contro le manovre antidemocratiche del governo tedesco, mentre la galoppante inflazione rendeva difficile la quotidiana sopravvivenza.
Il lupo della steppa, che racconta la crisi di un uomo sulla soglia dei cinquant'anni, diventa metafora della crisi dell'intellettuale che, nell'era dello sviluppo del capitalismo e dell'avvento della società di massa, si sente non solo spossessato del suo ruolo di guida spirituale della società, ma persino della sua dignità di uomo, schiacciata dai meccanismi della produzione industriale (4). Nel romanzo l'autoanalisi, consueta nelle opere di Hesse, si apre, nel tentativo di presentare i problemi del singolo, come modello generalizzato di un'epoca in crisi.
Questa posizione, determinata senza dubbio dalla prima catastrofe bellica, che di colpo aveva distrutto il senso di sicurezza di cui, tutto sommato, godeva l'intellettuale nella società borghese, spinge Hesse a cercare una soluzione ad un problema che non è più solo personale, che non riguarda più solo il rapporto tra il singolo e il mondo, ma coinvolge tutto il genere umano, messo in pericolo dai catastrofici eventi storici di quegli anni. Benché la scrittura hessiana nel suo complesso non oltrepassi di molto le strutture narrative classiche, nel Lupo della steppa per la prima volta vengono adottati schemi narrativi innovativi. Il lupo della steppa sorprese i lettori di Hesse, abituati alla pacata atmosfera delle opere precedenti, rassicurati dalla serena beatitudine del Siddharta e dalla garbata narrazione di La cura. Attraverso la narrazione della dolorosa e triste vita di Harry Haller, Hesse urlava la sua protesta contro il mondo e contro gli uomini, dimostrando che il giovane Siddharta non aveva raggiunto la sua meta, ma solo una stazione intermedia.
La struttura narrativa del Lupo della steppa è apparentemente frammentaria, così come in molti romanzi dell'epoca. E' assente la suddivisione in capitoli, manca un narratore unico, il lettore è messo di fronte ad un continuo susseguirsi di eventi, che si dispiegano all'interno di racconti organizzati in cornici concentriche, da cui emergono tre piani narrativi diversi (l'introduzione scritta da un "curatore delle memorie di Haller", lo scritto autobiografico di Haller e il Teatro Magico), attraverso i quali si snoda il percorso interiore del protagonista del romanzo, l'uomo-lupo, simbolo della emarginazione cui sono condannati coloro che non riescono ad amalgamarsi con la società borghese in crescente evoluzione. Haller abbandona la società di cui fa parte, rifiutandone gli schemi, il lavoro, la famiglia, i ritmi di vita frenetici, ma nello stesso tempo è ossessionato dal desiderio di farne parte. Giunto sull'orlo del suicidio, riesce a risalire la china, a ritrovare se stesso e a riconquistare una nuova dimensione di vita, che gli permette di affrontare la delicata questione della sopravvivenza dell'outsider nella società moderna.
Nell'ultima parte del romanzo, che si svolge su un piano strettamente simbolico, il famoso Teatro Magico, viene descritto il processo di superamento della condizione di disadattamento del singolo, che consiste in una progressiva risocializzazione, il cui presupposto è il riconoscimento della negatività della condizione di emarginazione e dell'uso della tradizione umanistica come contrappeso positivo alla dilagante decadenza dei tempi
"… Il lupo della steppa (…) non è la storia di una rovina, ma di una crisi e della salvezza (…), il lupo della steppa non è un decadente, ma un uomo capace di vivere." (5)
La struttura del romanzo, apparentemente frammentario e caotico, rivela ad una più attenta analisi un non casuale intreccio di situazioni, creato per un preciso scopo, mettere in evidenza la crisi di un singolo individuo come riflesso della crisi di un'epoca. Struttura e contenuto assumono nel romanzo i loro tratti specifici in virtù dello specifico momento storico-sociale in cui entrambe vengono prodotte. Mutate le condizioni, sia storiche che psicologiche, mutano i contenuti e quindi la struttura narrativa.
Il problema della struttura del testo poetico è stato ampiamente trattato da J. Lotman (6), il quale afferma che nell'opera poetica tutto è sistematico, niente è causale, tutto ha uno scopo. L'arte è portatrice di informazione, essa si serve della lingua naturale come materiale per simulare il suo contenuto. Nella sua natura di organismo che unisce elemento reale ed elemento di finzione, prosegue Lotman, l'arte, e quindi il testo narrativo, diventa punto di intersezione di diversi sistemi di segni, il suo grado di entropia, cioè di informazione, è tanto maggiore quanti più sono i legami extratestuali che essa è in grado di elaborare. La polisemia del testo letterario risiede nella sua capacità di collaborare con l'ambiente esterno. Tutto ciò viene reso nella struttura, che viene quindi semantizzata. Ogni parte del testo ha, dunque, la sua funzione e non può essere compresa fuori dal testo.
Il riconoscimento dello stretto legame esistente tra l'opera letteraria e la realtà storico-sociale, diventa ancor più interessante nel caso di uno scrittore come Hermann Hesse, che per tutta la vita ha sottolineato la sua lontananza ed estraneità ai fenomeni politici e sociali, ritirandosi a vivere lontano dalla vita pubblica:
"E io rimango dell'opinione che lo stare in questa posizione di outsider e di senza partito sia il mio posto, quello dove posso mostrare un po' di umanità e di spirito cristiano … marxista non lo sono mai stato … ma sono altrettanto poco un sostenitore del capitalismo e un portavoce degli interessi della classe dominante: … la mia posizione è apolitica fino al fanatismo."(7)
Nel passaggio al Gioco delle perle di vetro, opera della maturità che idealmente, ma non cronologicamente, segue Il lupo della steppa (nel '33 Hesse pubblicò Narciso e Boccadoro), risulta evidente come lo scrittore, in diverse condizioni storiche, rielabori le strutture del genere romanzesco per scopi diversi.
L'apparente caos del Lupo della steppa, specchio di una condizione di crisi, diventa una stazione intermedia, un gradino nel cammino percorso dall'individuo per recuperare la sua dignità nel conformismo della società di massa, un ponte di passaggio verso i contenuti della grande opera della maturità, con cui Hesse tenta di ricondurre l'uomo occidentale fuori dal processo di imbarbarimento spirituale prodotto dall'era tecnologica.
Dopo aver negato, nel Lupo della steppa, la legittimità dei valori dell'umanesimo borghese, Hesse ritiene essenziale la fondazione di una nuova Humanitas, ma di segno diverso, attraverso un processo quasi alchemico tra la polarità della psiche umana, che porti fino alla pura interiorità del singolo, intesa come cifra della interiorità del mondo.
Questo processo non prevede più il ritorno alla mitica innocenza romantica, ma una discesa nella profondità del tempo storico, un proseguire nella colpa, così come fa Haller, fino al punto in cui non esistono più norme né opposizioni polari.
L'itinerario di Haller, moderno percorso di "Bildung", porta al riconoscimento delle molteplici forme dell'io, all'accettazione degli istinti primordiali e al superamento delle inibizioni dettate dalla società borghese. Si tratta in sostanza di recuperare tutti quegli aspetti della psiche umana che sono incompatibili con la società civile e, quindi, confinati nell'area della amoralità. Di fronte alla crisi dell'individuo, determinata dai tragici eventi storici del dopoguerra, l'arte, la cultura assumono, come osserva Ernesto De Martino nel suo incompiuto La fine del mondo (8), la funzione di "ethos ordinante", tentano cioè di salvare il mondo che precipita nel caos, ma solo dopo aver permesso all'uomo di toccare il fondo, di scendere agli inferi (9), ossia alla radice più profonda della crisi. Nel mondo contemporaneo l'uomo è ossessionato da un senso di "perdita del mondo". La tecnica, la scienza, la vita civile comunicano all'uomo un messaggio che annuncia l'imminente catastrofe (10).
Attraverso l'arte l'uomo può tentare un recupero dei valori perduti, può tentare una risalita verso la ricostruzione dell'ordine nuovo.
In tale prospettiva, che permette di interpretare l'arte contemporanea, pur proiettata verso visioni nichilistiche, secondo una angolatura diversa, persino ottimistica, si colloca l'umanesimo hessiano del Gioco delle perle di vetro, opera in cui le dissonanze e i toni tragici del Lupo della steppa si placano alla ricerca di una nuova armonia che è "discordia concors" delle contraddizioni, tensione verso la saggezza, volontà di servire la vita senza diritti o pretese.
Leggendo Il gioco delle perle di vetro subito dopo aver letto Il lupo della steppa, si ha l'impressione di entrare in un calmo lago dopo avere attraversato le rapide di un fiume. Il jazz, i bar affollati, le rumorose automobili, il graffiante suono del grammofono, simboli di un'era alla quale Haller non sapeva adeguarsi (11), spariscono come d'incanto nel mondo di Castalia, in cui regna un'atmosfera idilliaca. Qui, lontano dal caos del mondo industriale, l'individuo ritrova quella dimensione umana che gli era stata negata e può dedicarsi al processo di ricostruzione di una nuova Humanitas.
Non più atto di ribellione verso la società, la scrittura hessiana diventa qui tentativo di scoprire le radici del proliferare di una forza politica distruttiva - quella del nazismo - e nello stesso tempo ricerca di una alternativa che non poteva trovare spazio né nel passato (la regressione romantica è ormai impraticabile), né nell'orribile presente, ma si situa in un ipotetico futuro e prende la forma di un territorio, Castalia, in cui l'uomo può rigenerare le proprie forze per ritornare ad una nuova vita, un'isola culturale in cui all'uomo è consentito di ritrovare se stesso.
Attraverso la biografia di Joseph Knecht, l'uomo che dedica tutto se stesso ("Knecht" in tedesco significa "servo") al culto del gioco delle perle di vetro, ideale "summa" di tutto lo scibile umano, Hesse descrive, ancora una volta seguendo la struttura del "Bildungsroman", le tappe del progressivo riavvicinarsi dell'uomo ad un mondo armonico e naturale.
Prescindendo dal finale del romanzo, su cui la defezione di Knecht dal mondo di Castalia e la sua successiva morte gettano un'ombra di pessimismo, benché anche questo con risvolti positivi sulla effettiva possibilità di recuperare tale armonia, non va dimenticato come in quest'opera il contenuto sia legato alla forma non in modo casuale, ma del tutto mirato a fornire un preciso messaggio.
Lo stile narrativo del romanzo, che ricorda quello degli Anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meister di Goethe, è prolisso, dominato dal gusto per l'arabesco, per le locuzioni cerimoniose, che richiamano una dignità patriarcale e sacra, ma non offrono molta informazione al lettore. Il tono asciutto di tutta l'opera è in parte dovuto alla pretesa scientificità del testo, che si propone al lettore come "saggio biografico". Tutto ciò colloca Il gioco delle perle di vetro lontano dal romanzo realistico di formazione, benché ne ricalchi il modello (12).
Tecnicamente la lentezza narrativa deriva anche dalla preferenza data alla descrizione di scene piuttosto che al riassunto, forma più spesso usata nei romanzi scritti in terza persona, e alla presenza di lunghi dialoghi. Manca qualsiasi ostacolo alla lettura e qualsiasi tensione narrativa. La biografia di Knecht scorre lenta, e lo scopo di Hesse non è certamente creare una trama d'intrigo che tenga il lettore con il fiato sospeso.
Il romanzo rispetta canoni narrativi tradizionali: narrazione in terza persona, uso del passato remoto, ampio spazio per l'analisi interiore del protagonista. Tuttavia la veste "classica" non corrisponde al contenuto ideologico di appropriazione della realtà, tipico della società borghese, di cui il romanzo è il prodotto, come genere letterario, negli anni dello sviluppo del capitalismo.
Il genere romanzesco produce la verosimiglianza letteraria, ossia la capacità di far passare il falso per vero, come specchio della convinzione, tipicamente borghese, che i propri valori abbiano validità universale. L'uso del passato remoto presuppone infatti un demiurgo ordinatore, lo scrittore, che comunica il senso di dominio della realtà, la quale è vista come chiara ed ordinabile, così come la terza persona è una convenzione che fornisce la sicurezza di un racconto credibile, anche se espresso come falso.
Nell'era dei monopoli industriali questi presupposti non sono più validi, perché è tramontata l'ideologia che li aveva prodotti. Nel XX secolo, dopo l'esperienza realista, che per molti è un'arte meccanica, di convenzione, gli scrittori tentano di recuperare la freschezza originaria del linguaggio, facendo saltare ogni convenzione letteraria. Secondo Roland Barthes (13) in tal modo si innesca un processo che porta al silenzio della scrittura. Questo rischio può essere evitato ricorrendo ad una scrittura "innocente", libera da ogni schiavitù, una scrittura "al grado zero", uno stile dell'assenza, in cui i caratteri sociali si annullano e viene meno la dipendenza dalla ideologia.
In realtà questa è l'utopia del linguaggio adamitico, poiché lo scrittore non può tracciare una parola senza assumere l'atteggiamento particolare di un linguaggio già in uso.
La scrittura regolare, apparentemente classica, usata da Hesse nel Gioco delle perle di vetro, romanzo con cui egli intendeva estraniarsi da una realtà divenuta soffocante, ma nello stesso tempo esprime una protesta, ha il valore di una "scrittura innocente", utopia del linguaggio e nello stesso tempo campanello d'allarme per una civiltà in degrado.
Le forme dell'espressione letteraria, che il tempo e l'uso codificano in quelle caselle chiamate "generi" e che potrebbero anche essere definiti "modelli" soggetti al flusso del tempo che li rende desueti, non sono una semplice veste che lo scrittore sfrutta per rendere comunicabile il suo messaggio, sono bensì esse stesse portatrici di significato.
Secondo R. Wellek e R. Warren (14) il testo letterario è punto centrale di un'ampia costellazione, che comprende non solo l'autore e la sua personalità, ma anche la sua collocazione in un ambito storico, filosofico e sociologico, oltre che biografico ed ambientale.
La letteratura non può essere considerata solo un prodotto della coscienza umana. Ciò significherebbe non tener conto dei rapporti esistenti tra letteratura e realtà, tra immaginario e base materiale (15), i quali sussistono anche se la letteratura conserva la sua indiscussa autonomia.
Lo stretto rapporto che intercorre tra opera letteraria e realtà storico-sociale è visibile e tangibile persino in uno scrittore come Hesse, che per tutta la vita ha sottolineato la sua estraneità ai fenomeni politici e sociali, ritirandosi a vivere lontano dalla vita pubblica. Ma le sue scelte artistiche lo inseriscono pienamente nell'epoca di appartenenza, all'interno di quel movimento di avanguardia che nel XX secolo, in seguito allo sconvolgimento dei rapporti tra arte ed ideologia dominante, metteva in crisi i codici artistici convenzionali e sgretolava i canoni narrativi tradizionali del romanzo, in un atto di sfida contro una tradizione sorpassata.
La scrittura complessa ed imprevedibile del Lupo della steppa, con cui Hesse aderisce più chiaramente a tale "rivoluzione" narrativa, si trasforma nel Gioco delle perle di vetro in una forma più pacata, sintomo del distacco totale e definitivo da una realtà storica divenuta insopportabile.

NOTE
(1) F. Brunetière, L'evoluzione dei generi nella storia della letteratura, Parma, 1980, p.52
(2) M. Blanchot, Le livre à venir, Paris, Gallimard, 1959, trad. it. Il libro a venire, Torino, Einaudi, 1969,
 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Romolo Runcini
 
IL LINGUAGGIO FANTASMATICO
DELLA RIFORMA PROTESTANTE
 
La Riforma luterana ha compiuto e rappresentato un così grande salto di prospettiva in campo religioso, coinvolgendo tali problemi morali, storici, artistici in tutta l'Europa cristiana da offrire sempre, ancor oggi, forti occasioni di analisi per coglierne i complessi motivi e valori di fondo che hanno forgiato una nuova Weltanschauung per l'uomo occidentale. Il libro di Matheson affronta questa prospettiva rivoluzionaria da un piano insolito e, per così dire, elementare: il linguaggio dei riformisti.
L'importanza metodologica assegnata attualmente da varie discipline (linguistica, estetica, sociologia della letteratura) al rapporto codificante/connettivo della comunicazione - come fattore informativo e ermeneutico - mentre testimonia l'azione interattiva del discorso parlato e scritto rivela senza dubbio il crescente interesse per la funzione mediatrice e talora creativa del lettore nei confronti di un testo. Bene dunque ha fatto Matheson a scegliere il linguaggio dei riformisti e le sue aree di interscambio, convenute o casuali, al fine di comprendere il senso e la direzione di quei testi sovversivi in un ambiente cattolico assai chiuso, ordinato, ecumenico.
Ora questo ordine universale dell'Europa cristianizzata appariva però insidiato non solo dall'esterno, dalla pressione dell'imperialismo ottomano, bensì anche dall'interno, dalle nuove istanze di identità e libertà nazionale. Agli inizi del XVI° secolo allorchè l'umanesimo rinascimentale italiano si espande nei vari paesi europei portandovi una chiara impronta di pensiero critico e di laicismo, i vecchi valori universalistici entrano in crisi, per un verso di fronte all'inarrestabile processo di erosione del feudalesimo avviato dalle grandi monarchie (Spagna, Francia, Inghilterra) determinate al dominio assoluto dei propri stati, per altro verso a causa dell'insostenibile primato della Chiesa romana che mirava con la sua potenza spirituale e politica - sempre più arrogante e corrotta - a tenere unite e a controllare le strutture e le anime della molto articolata compagine europea. Specchio rivelatore di questa crisi religiosa e sociale erano l'Elogio della follia (1509) di Erasmo da Rotterdam e Utopia di Tommaso Moro. Queste sono certamente le premesse storiche sottintese nel discorso di Matheson sopra il linguaggio accusatorio dei riformisti, le cui dirette (ma non uniche) motivazioni di fondo partivano dalle 95 tesi (proposizioni) esposte alla fine di ottobre del 1517 sul portale della chiesa di Wittenberg dal monaco agostiniano Martin Lutero contro il perverso sistema delle indulgenze - salvezza dell'anima in cambio di denaro - fortemente sostenuto dal papa Leone X°, il quale scomunicherà l'eretico tedesco nel 1520 con la bolla "Exsurge Domine".
Come fu possibile formulare e diffondere quelle idee sovversive in così vasto raggio d'azione da investire i diversi territori tedeschi del vecchio Sacro Romano Impero (e di lì per tutta l'Europa del Nord) entrando con forza e in tempi brevi nel mondo tradizionalista e largamente analfabeta dei contadini, nella vivace mentalità empirica e utilitarista dei mercanti e in quella razionalista e cerimoniale degli aristocratici? In che modo Lutero e i suoi discepoli (dal fedelissimo F. Melantone, a A. Karlstadt il laico, alla appassionata Argula von Grumbach) riuscirono a conquistare il cuore del popolo tedesco, convertendo la gente ai nuovi ideali cristiani della purezza e della libertà interiore e spaccando così definitivamente l'Europa in due, fra protestanti del Nord e cattolici del Sud?
La risposta a tali quesiti Matheson la fornisce mettendo subito in rilievo l'importanza del nuovo mezzo di comunicazione editoriale, il pamphlet, un opuscolo di poche pagine scritto in una lingua semplice e chiara assai prossima all'espressione orale. Esso consentiva di fatto occasioni di facile lettura presentandosi tipograficamente in veste leggera con caratteri fortemente marcati il cui contenuto esponeva spunti di riflessione e d'intrattenimento. Nel mondo contadino e artigiano le persone un po' acculturate leggevano questi opuscoli a voce alta nei ritrovi abituali e nelle riunioni festive di gruppo, portando tutti a conoscenza degli attacchi dei riformisti alla Corte vaticana corrotta e oppressiva, diffondendo la necessità di una lettura personale dei Libri sacri, i consigli utili per la vita dei campi, alcune storielle, fiabe, e così via. I borghesi trovavano anch'essi spunti di meditazione nell'appello alla interiorità della fede e nell'importanza di sentirsi tedeschi liberi dal servaggio romano. I nobili, da parte loro, comprendevano assai bene che distaccandosi dalla Chiesa del Papa e dalla sua politica universalistica avrebbero guadagnato prestigio e potere nei propri feudi regionali.
Ora il pamphlet, strutturato nella forma interlocutoria di un dialogo col lettore, diffondeva questi messaggi non già nella veste propagandistica di una verità affermata da accettarsi a occhi chiusi bensì come proposte ideali che la gente doveva interpretare e far sue. La violenza apocalittica e anticlericale del discorso riformista poggiando sui semplici canoni della oralità - ossia su contrasti radicali fra bene e male: Dio e Satana, Lutero e il Papa, la verità della fede e la falsità della Chiesa etc. - costituiva la via più breve al coinvolgimento del lettore nella conoscenza diretta della situazione politica e religiosa in corso e dunque sollecitava una forte volontà di partecipazione alla crescita del nuovo mondo cristiano. L'azione era l'obiettivo primario di questo discorso inteso a condurre socraticamente, attraverso il dialogo, alla presa di coscienza di sé come persona e come iniziato alla nuova teologia della salvezza per sola fede.
Nasce così la prima grande utopia popolare che traduceva sul piano antropologico del vissuto quotidiano le idee carnevalesche - spesso Lutero si atteggiava a buffone - di un mondo alla rovescia, di un Paese di Cuccagna idealizzato nel mito di riscatto di un popolo. Il netto rifiuto della delega al primato vaticano per la presa di coscienza di una verità da conquistare individualmente nella lotta contro l'ipocrisia e la corruzione dava a ogni iniziato evangelico un forte senso di dedizione alla causa, una ferma disciplina interiore, un impegno religioso e sociale che spinsero masse di analfabeti ad acculturarsi nelle scuole per poter apprendere direttamente la parola della Bibbia, appena tradotta da Lutero in basso-tedesco orientale, un dialetto franco di larga parlata in Germania. Non a caso la Bibbia é stata il primo bestseller della Storia.
Matheson intravvede giustamente nella grandiosa opera di gestazione e diffusione delle idee riformiste - fornendo anche un ben articolato quadro grafico sulla formazione dell'opinione pubblica del tempo (pp 38-9) - una tenace e larga prospettiva utopica ma anche un'ideologia di potenza per il popolo tedesco: "Access to information was access to power (p. 25)". Di fatto la questione della necessità di una riforma radicale delle pratiche liturgiche e dei principi teologali della Chiesa romana, ormai visibilmente compromessa nella gestione corrotta di un potere estraniato dalla realtà, era un problema comune. Erasmo e, più tardi, Ignazio de Loyola (fondatore della compagnia di Gesù) tenteranno dall'interno del cattolicesimo una ripresa degli ideali cristiani nel nome di una forte e responsabile spiritualità dell'uomo moderno. Erasmo, razionalista e moderato, mirava a colpire alto, con sottigliezza, alla testa dei prelati, per convincerli; Lutero, mistico e apocalittico colpiva in basso, con rudezza, per abbatterli. Ubi Erasmus innuit, ibi Lutherus irruit. La retorica escatologica era più diretta e comprensibile della dialettica umanistica, e conquistò le masse insieme ai loro Signori.
 


 
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Amedeo Di Sora
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LA CONDIZIONE OUROBORICA
 
Il serpente circolare, inteso come drago originario che si morde la coda, l'ouroboros (ourà. "coda", boròs: "divorante"), è un simbolo molto antico. Ancestrale potenzialità, il drago circonda l'intero cosmo con le sue spire: come nelle raffigurazioni degli antichi geografi, non di rado lo si rinviene, appunto, in forma di enorme serpente circolare.
Nella tradizione ermetica, la figura dell'ouroboros simboleggia l'unione del fisso con il volatile, del corpo con lo spirito. Inoltre, nella sua circolarità, rappresenta l'infinito, l'eternità, ed anche l'unità, poiché tutti i punti della circonferenza sono equidistanti dal centro ed in stretto contatto gli uni con gli altri. Esso è la sostanza delle sostanze, ovvero il vuoto, animato pur se tenebroso e di essenza caotica.
Questo primordiale inizio, il disco nero, da cui tutto è scaturito, questo "sonno senza sogni" di cui non possiamo né potremo mai avere coscienza, sfugge a qualsivoglia "rappresentazione", contiene tutto ciò che non si esprime: non può essere conosciuto né compreso. Il tentativo dis-umano di colmare questo vuoto della mente riconduce ogni suono verbale all'originario sapienziale silenzio.
Il simbolo del drago, nella sua polivalenza semantica, può esserci d'aiuto nel momento terribile in cui lo sguardo s'inabissa nella visione del nulla, nella percezione di uno spazio senza orizzonti, di un tempo privo di limiti. D'altronde, per il pensiero tradizionale cinese il Drago ed il Serpente incarnano i simboli del flusso e del riflusso esistenziale.
Sostiene G. Durand (1) che l'ouroboros "è per la coscienza mitica il grande simbolo del ciclo temporale". Figura femminile e maschile, datrice di vita e custode di morte, "il serpente che si morde la coda - secondo G. Bachelard -non è un semplice anello di carne, è la dialettica materiale della vita e della morte, la morte che esce dalla vita e la vita che esce dalla morte, non come i contrari della logica platonica, ma come una inversione senza fine della materia di morte o della materia di vita" (2).
Il cerchio è farmaco ed è contemporaneamente veleno, cioè potenza di attrazione e di dissolvimento, principio dominante e principio dominato, maschile e femminile. "Uroboro, - per citare ancora Durand - principio ermafrodito di fecondità, il serpente sarà infine avvalorato come custode della perennità ancestrale e soprattutto come temibile custode del mistero ultimo del tempo: della morte" (3). È il t'ai chi cinese che contiene in sé nero e bianco, giorno e notte, cielo e terra. È il grande ermafrodito, l'elemento creatore iniziale, perfetto nella sua autosufficienza.
Gli antichi alchimisti consideravano l'unità della materia (serpente che si morde la coda) come la base da cui partire per avviare la serie delle trasmutazioni. Presupposto fondamentale per la riuscita dell'opus doveva essere la corrispondenza, nelle diverse fasi, dei processi interni con quelli esterni. Il processo di trasmutazione dei metalli vili, riconoscibile nella successione all'interno del vas alchemicum dei tre colori principali: nero, bianco e rosso (rispettivamente la fase della putrefazione-nigredo, della dissoluzione-albedo, della liberazione-resurrezione- rubedo riguardante la materia), doveva coincidere con il processo di trasmutazione interiore dell'alchimista che, passando da una fase iniziale di sofferenza (un vero e proprio descensus ad inferos, durante il quale nascita e morte si compenetrano) perveniva ad una "rinascita" integrale.
Uno degli ultimi alchimisti, l'enigmatico Fulcanelli, trattando del Castello di Dampierre-sur-Boutonne nel secondo volume de Le dimore filosofali, descrive in particolare il soffitto della Galleria alta decorato da immagini bizzarre. Nel terzo cassettone della seconda serie "sul capitello di una elegante colonna si drizza l'immagine del serpente Ouroboros. Questo strano bassorilievo è segnato dall'assioma: .NOSCE. TE. IPSUM. Traduzione latina dell'iscrizione greca che compariva sul frontone del celebre tempio di Delfi: GNOTHI SEAYTON, conosci te stesso (...) 'Voi che volete conoscere la pietra, conoscete voi stessi e la conoscerete'. Questa è l'affermazione della legge analogica che dà, in effetti, la 'chiave' del mistero".
Ancora nella stessa opera Fulcanelli, a proposito dell' l' ouroboros, dichiara: "Data l'impostazione di questo emblema -esso è, insieme con il Sigillo di Salomone, il segno distintivo della Grande Opera-, il suo significato resta suscettibile di interpretazioni differenti, Geroglifico dell'unione assoluta, dell'indissolubilità dei quattro elementi e dei due principî ricondotti all'unità nella pietra filosofale, questa universalità ne permette l'uso e l'attribuzione alle diverse fasi dell'Opera, poiché tutte mirano allo stesso scopo e sono orientate verso l'unione, l'omogeneità delle nature prime, il cambiamento della loro nativa antipatia in solida e stabile amicizia" (4).
Gli gnostici, situandosi fra i cristiani, che consideravano il serpente come diabolos, e gli egiziani, i greci e i persiani che ne esaltavano i tratti ctonî positivi, vollero conciliare le due contrastanti concezioni individuando nell'ouroboros l'esistenza di una bipolarità divaricante, funzionale alla loro dottrina, capace di esprimere da una parte il caos tenebroso, dall'altra il Tempo infinito: visione che rimanda, in ogni caso, al limite circolare del mondo umano.

NOTE
1) G. Durand, Le strutture antropologiche dell'immaginario, Bari, Dedalo, 1972, p. 317.
2) G. Bachelard, in G. Durand, op. cit., p. 317.
3) G. Durand, op. cit., p. 319.
4) Fulcanelli, Le dimore fil
 


 
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Gabriella Varvazzo
 
IL PROFILO FANTASTICO DI "1984" - 1
Parte Prima
 
Fin dalla sua pubblicazione, il romanzo "1984" di George Orwell, ha interessato la critica letteraria italiana per il suo specifico carattere apocalittico.
Anche se Eric Arthur Blair, vero nome dell'autore, aveva espresso nel suo testamento la volontà di non gradire biografie, la critica italiana, dopo quella straniera, si mise subito all'opera, manifestando per l'autore e per il suo romanzo un interesse sempre crescente, ancora vivo nei nostri giorni.
Gli anni che hanno visto l'evolversi dell'interesse della critica letteraria sul romanzo in questione, sono stati testimoni del succedersi di differenti chiavi di lettura, scelte per l'interpretazione e la collocazione del testo in più di uno specifico ambito letterario.
All'indomani della pubblicazione, durante il periodo immediatamente successivo alle due guerre mondiali, "1984" è stato considerato come un romanzo politico, ovvero la proiezione deformata della situazione politica mondiale nel 1948.
In tale periodo emersero sentimenti di sconforto e di disillusione da parte di coloro che, come Orwell, avevano creduto e sperato invano in un sentimento nazionale e patriottico puro e sincero. La visione del mondo che Orwell offriva era comune a molti altri uomini di quel tempo: una visione pessimistica, scaturita principalmente da una serie di esperienze personali dell'autore.
La linea interpretativa suggerita inizialmente dai critici degli anni '50 e '70 è prevalentemente basata sulle vicende biografiche dell'autore, evidenziando la sua partecipazione attiva di Partigiano alla Guerra in Spagna del 1937 (1).
Questo ventennio in particolare, è pervaso dalla generale tendenza a sottolineare il carattere "profetico" o "avveniristico" di "1984" e contemporaneamente di opporlo al genere utopico (2) .
Quest'ultimo è stato rivalutato durante gli anni '70 grazie alle nuove tendenze politiche di sinistra, stimolando uno studio più approfondito sia del concetto di Utopia, inteso come "progetto storico", sia della sua applicazione in campo letterario. L'opera di Orwell è stata, dunque, opportunamente distinta da quelle di Moro, Campanella, Platone e definita come "Utopia negativa" o "anti-utopica", finché poi, negli anni '80, non fu definitivamente adottato il termine Distopia (3) per indicare tutti quei romanzi che descrivevano una società ben organizzata, ma, proprio per questo, decisamente non augurabile e quindi da evitare.
Nel 1984, che è stato ribattezzato l'anno "orwelliano", si sono succeduti in Italia numerosi convegni ed incontri letterari frutto di nuovi studi su romanzo, ma anche sull'etimologia e sulla storiografia di Utopia e Distopia, sia come concetti che come generi letterari (4).
Non più incentrata esclusivamente sull'aspetto politico e sulle vicende biografiche dell'autore, l'attenzione della critica si sposta sul testo letterario, sui suoi contenuti semantici e formali, nonché sulla funzione della lingua: il linguaggio inteso come codice di trasmissione di messaggi e le modalità in cui tale codice viene assimilato dalla società e infine usato da l potere politico per manipolare ed assoggettare le masse (5). La funzione del romanzo, sulla quale sono ormai concordi tutti i critici letterari, è dunque quella di denuncia di ciò che era accaduto e, nello stesso tempo, di "Warning", ovvero di avvertire il lettore di ciò che potrebbe accadere: la necessaria valutazione di tutte le possibili conseguenze di un progetto sociale eviterebbe che il futuro invece di "un paradiso", come in modo ottimistico propone l'Utopia, si riveli "un inferno".
Le varie interpretazioni critiche sul romanzo di Orwell denotano il notevole successo e l'importanza che "1984" ha avuto e continua ad avere in ambito letterario e culturale. Se si considerano il valore sociologico del romanzo e il suo specifico carattere apocalittico, si potrà avanzare l'ipotesi di un'ulteriore chiave di lettura di tutti gli elementi, testuali e non, che, rivisitati alla luce delle argomentazioni enunciate dai critici letterari, potrebbero risultare determinanti per individuare un profilo Fantastico di "1984".
Nel definire tale genere, gli studiosi concordano, più o meno, sul concetto di trasgressione del reale da parte di un evento o di una situazione, di un fatto inquietante, inspiegabile, creando una condizione di squilibrio nel mondo normale (6).
G. Orwell, con il suo romanzo "1984", introduce il lettore in una società apocalittica i cui tratti essenziali non risultano come semplice frutto di espedienti letterari o dell'immaginazione pura, ma vengono riconosciuti dal lettore come possibili nella loro "realizzazione."
Lo stato di "smarrimento"(7), "di esitazione" (8), oppure "il dubbio"(9), in cui il lettore viene a cadere nel giudicare la realtà, evidentemente incomprensibile, diventa una necessaria condizione perché il fantastico esplichi la sua funzione pedagogica: il dubbio disorienta il lettore ma è espressione dell'ansia di conoscenza e rappresenta la certezza, per l'individuo, di sentirsi, di essere vivo.
Lo stato di inquietudine che il lettore avverte nel constatare l'incertezza della realtà fenomenica e nell'immedesimarsi con il personaggio/eroe che fallisce la sua lotta, nel tentativo di sovvertire l'ordine delle cose, rimane inalterato anche dopo aver terminato la sua lettura.
Il problema del Fantastico, non è quello di definire solamente gli espedienti e le tecniche di scrittura utilizzate dall'autore, ma di considerare anche quell'eterno rapporto scrittore - pubblico, che ogni opera artistica presuppone come atto di comunicazione, ed in quanto tale, non si può non prescindere dal considerare l'impatto dell'opera sull'immaginario sociale, la dinamica testo/conteso (10).
Ciò consente all'autore di trasferire dall'eroe al lettore quell'impegno e quel dovere,
( o forse la speranza) di conservare intatte le umane facoltà critiche e creative che consentono all'individuo di continuare ad essere un soggetto sociale.
Nel tentativo di valutare il rapporto ideologico instaurato dall'opera letteraria tra "coscienza possibile" e "coscienza reale", tra immaginario dell'autore e del lettore, si potrebbe affermare che: "Nell'epoca moderna la crisi irreversibile della condizione umana, divisa tra primato del fare e negazione dell'essere, ha generato una dicotomia insanabile tra razionale ed irrazionale, desacralizzando il sogno, inteso ormai come riflesso di una vitalità affievolita in rapporto alla veglia, sinonimo di produttività umana"(11). In nome del Positivismo più sfrenato, che mortifica fino ad annullare la potenza creatrice dell'immaginazione, la società perde sempre più la sua valenza di portatrice di cultura e di tradizione in cui il popolo, e con esso l'individuo, si identifica e si da un nome.
L'opera artistica, dunque, si pone come ostinata testimonianza di quella facoltà umana che impone, attraverso la creazione di nuove realtà possibili, la conservazione di quei miti e di quelle esperienze che hanno contribuito a dare identità ad un popolo.
Lì dove il progresso della civiltà tecnologica ha condotto alla schematizzazione delle funzioni e dei ruoli operativi della produzione di senso, lì dove la telematica ha schiacciato l'operatività dell'immaginazione, ecco che il ruolo dell'artista non è più rivolto alla difesa ad oltranza dell'individuo contro la società massificata, ma si sforza di cercare un rapporto di forze sul piano socio - culturale, percorrendo gli spazi incogniti, irrazionali della nostra esistenza.
Orwell aveva individuato, nella sua società del suo tempo, una progressiva riduzione dell'area esperienziale, l'espropriazione dei valori umani operata dall'apparato tecnocratico che li assoggetta e li condiziona ai suoi fini.
L'immobilità del tessuto sociale e lo svuotamento culturale sono dunque il risultato della spersonalizzazione del potere e del tramonto dell'individuo come eroe ed arbitro del suo destino. Il dramma viene individuato da Orwell non già nel naturale mutamento sociale, ma nell'annientamento totale di quei principi sui quali si fonda la società e nella rinuncia sul piano spirituale dei sui stessi diritti.
L'opera avveniristica si oppone, dunque, alla realizzazione del tanto sognato "mondo migliore" e non per assumere una semplice posizione disfattista, ma per la realistica constatazione che la società, inebriata e assopita nel torpore della remissività, ha raggiunto la falsa consapevolezza che, coloro che essa stessa ha delegato "a pensare", siano nel giusto.
La protesta, ed insieme il valore distopico del romanzo si configura sotto la specie di un 'apparente riscatto della ragione, sia nel tentativo di recuperare i diritti assoluti dell'individuo , sia come denuncia di un mondo disumanizzato dall'anonimo potere dell'organizzazione.
Nel romanzo "1984", la società orwelliana non appartiene né al 1948, l'anno della pubblicazione, né al nostro passato trascorso da quindici anni : essa si è secolarizzata portando con sé, in ogni momento, la testimonianza, e l'avvertimento di ciò che è realmente accaduto. La funzione del romanzo, lungi dal profetizzare, è quella di svegliare la coscienza del lettore dal torpore della consuetudine e della banalità quotidiana, lasciandolo in uno stato di paura affinché si prepari "al peggio" e che sia pronto ad evitarlo.
Ai livelli di scrittura, realistico (fabula) e immaginario (narrazione), corrisponde una duplice dimensione del fantastico: la prima si rifletterà sul piano dell'immaginario collettivo (la società descritta); la seconda dimensione riguarda l'immaginario individuale (lettore - eroe - autore) (12).
Sul piano realistico, il narratore (onnisciente) guida il lettore nell'universo della fabula, indicandogli la trama, le prospettive e le opportune focalizzazioni del dramma. Già dalla prima pagina il lettore è indotto a provare l'esitazione todoroviana nel giudicare come reale la società da incubo che Orwell gli descrive. Nella prima frase compare un elemento che turba il lettore: gli orologi battono tredici colpi ed egli sa bene che non esiste in nessun orologio al mondo la tredicesima ora (13). È il primo segnale di avvertimento sul fatto che anche la più stabile delle convenzioni, quella temporale, può essere manipolata da chi detiene il potere.
Quest'ultimo coincide con la figura di un uomo rappresentato in un poster che ossessivamente appare in ogni angolo delle strade; la sua minacciosa onnipresenza e il suo incessante controllo sono esplicitamente dichiarati nella scritta in basso al poster: "Il Grande Fratello vi guarda".
Al lettore viene dunque presentato il mondo totalitario dello stato di Oceania, dove il controllo ossessivo e senza scampo del Partito, della Psicopolizia e delle telecamere ricetrasmittenti, lasciano intuire la mancanza di libertà non solo d'espressione, ma anche di movimenti, di sentimenti e di pensieri.
L'approccio è con un mondo alla rovescia, dove si è costretti a concepire per normali le cose più inaudite. La continua distorsione dei valori umani, la contraffazione quotidiana della realtà e della storia, l'incessante lavaggio del cervello, compiuto dalla voce gracchiante che fuoriesce dagli altoparlanti posizionati ovunque, infine il timore di commettere "crimine di pensiero" e " crimine sessuale", hanno ridotto la società in un ammasso di miserabili automi, alienati ed ammaestrati al punto da essere disposti a credere che "2+2 fanno 5", se solo lo dice il Partito.
In questo contesto acquistano un senso gli slogan patriottici " la guerra è pace", "la libertà è schiavitù", "l'ignoranza è forza". La validità semantica di questi ossimori è dovuta alla contraffazione sistematica e disorientante del nuovo linguaggio creato all'occasione dal Partito: la Neolingua. Attraverso quest'ultima, proponendo la riduzione degli elementi lessicali, il Partito mira alla diminuzione dei concetti che la lingua esprime, riducendo le stesse facoltà mentali adatte a questa funzione.
Il lettore si ritrova, a questo punto, in una prima dimensione fantastica, specificamente legata al livello di fabula: egli è scosso, inquietato da quel tipo di società che gli viene presentata.
Se inizialmente egli era disposto ad accettare un invenzione letteraria, ora si ritrova, invece, davanti al proprio universo, in cui tutti gli elementi sono stati solo opportunamente deformati, come se fossero stati il frutto di una visione onirica, di un'allucinazione, come di fronte ad un quadro di Picasso.
Il lettore non ha più ormai le necessarie conoscenze per distinguere il vero dal falso ed è convinto di non essere stato confuso da un'illusione letteraria perché è cosciente di vivere quella realtà possibile: il mondo che inizialmente gli appariva "estraneo" è invece paurosamente molto vicino e simile al suo.
Quando, infatti, la narrazione ingloba anche le implicazioni sociali, psicologiche e storiche dell'immaginario collettivo, il lettore viene prima turbato dalla storia superficiale (quella che narra dei fatti inauditi) e successivamente da quella più profonda e significativa, che non è mai stata direttamente raccontata, ma che si svela nella mente di chi legge.
La storia fantastica può essere definita come racconto "narrato due volte o narrazione a doppio significato". Al lettore non possono sfuggire gli elementi referenziali dell'universo fantastico: essi appartengono alla sua realtà e gli viene chiesta la sensibilità di avvertire che essa cela situazioni ai margini del possibile. Ciò che colpisce il lettore non è la fantasia allo stato puro, ma la possibilità della realizzazione: egli "crede perché ritiene realizzabile ciò che legge (14)
Il fantastico in generale, ed il nostro romanzo in particolare, sono disseminati di elementi del dejà-vù, di quel qualcosa di familiare che qualsiasi lettore riconosce come tali, durante l'evolversi della narrazione.
La descrizione del Grande Fratello ricorda la figura di Stalin; le telecamere ricetrasmittenti sono quelle a circuito chiuso delle nostre carceri, delle banche, dei supermercati e delle ville facoltose. La Neolingua somiglia a quella utilizzata dagli spot televisivi o al linguaggio telematico dei computer (di internet specialmente); la divisione del mondo in zone di influenza è rappresentata dai mega - stati e dai loro colossi societari che governano il mercato mondiale. L'ossimoro " la guerra è pace", per esempio ,non appare più tanto assurdo, se si considera il recentissimo attacco bellico da parte della Nato, volto a frenare i genocidi del governo serbo di Milosevic sulla popolazione kosovara. Alle soglie del duemila, fallita l'azione diplomatica mondiale, per fermare un nuovo Grande Fratello e ristabilire la Pace è paradossalmente necessaria la Guerra.
La lista delle coincidenze tra il mondo oceanico e il mondo del lettore potrebbe continuare man mano che egli procede nella lettura del romanzo.
Il fantastico si pone in sostituzione delle certezze del realismo, con le sue sfide all'irrazionale: niente è più strano della vita reale; essa stessa è fantastica e la letteratura non fa che confermarlo. Il fantastico non ci offre soluzioni ma ci pone nuove domande, arricchisce la nostra coscienza mostrandoci un nuovo rapporto con il mondo, costruito com'è, non soltanto da oggetti concreti o eventi reali ma fatto anche di pluralità di immagini, difficili a volte da esprimere a parole o da raccontare.
È questa la situazione che vive lo stesso protagonista del nostro romanzo.
Siamo nel secondo livello di scrittura che riguarda il Diario a cui Winston Smith affida le sue confessioni più segrete. Egli è un membro del Partito Esterno ed al Ministero della Verità il suo lavoro consiste nell'aggiornare i vecchi articoli del Times, che altrimenti costituirebbero prove d'accusa inconfutabili contro le menzogne quotidiane del Partito.
Winston viene descritto fisicamente in maniera antitetica ed in posizione di antagonismo con il Grande Fratello. Quest'ultimo è forte, dai lineamenti rudi ma non sgradevoli, dalla faccia enorme e dai lunghi baffi neri, mentre Winston è magro gracile, marchiato nel fisico (un' ulcera varicosa alla caviglia destra) e nell'animo (un trauma infantile).
Contemporaneamente alla descrizione della società oceanica, il lettore scopre che Winston è vittima di un senso di colpa nei confronti della madre e della sorella morte prima dell'arrivo del Grande Fratello.
Questo sentimento lo spinge all'autoanalisi nel tentativo di ricostruire il proprio passato. Questa operazione gli risulta difficile, in quanto il condizionamento da parte del Potere è tale che le facoltà mentali di ogni individuo sono ridotte al minimo, soprattutto quelle che riguardano la memoria.
Winston conserva ancora un barlume di lucidità proprio grazie al trauma subito durante la sua infanzia e che la sua coscienza aveva rimosso trasformandolo in "segreto". Quest'ultimo rappresenta un sapere nascosto agli altri, che diventa il simbolo riassuntivo della storia dell'individuo e nello stesso tempo, il timbro della sua identità. Ciò che conta, non è tanto il contenuto del segreto, ma la sua funzione che consiste nel salvaguardare la coesione dell'organizzazione psichica: se l'individuo rivela il suo segreto, verrà espropriato della propria identità. La detenzione di segreti, dunque, non è di per sé un sintomo nevrotico: al contrario, essa è costitutiva della soggettività. L'io, infatti è tale solo nella misura in cui si divide, si separa dagli altri ("segreto" deriva etimologicamente da secretum, ovvero secernere che vuol dire dividere, separare dagli altri).
Nel suo approccio con la realtà l'individuo attraversa delle fasi ben distinte, la cui dinamica viene offerta dallo psicologo francese Andrè Virel in Histoire de notre image, Mont-Blanc, Genève, 1965 (p.46): "Nel corso della prima fase l'essere è relativamente indifferenziato rispetto al mondo che lo circonda. (...) Questa fase originaria viene chiamata cosmogenica" . Il rapporto è del tipo Io-Io, simile a quello del bambino nei primi mesi di vita, durante il quale la conoscenza sarà di tipo sincretico. "Sopravviene la fase seconda nel corso della quale l'essere si separa dal mondo. Non è ancora la differenziazione, ma è dualismo, la separazione in quanto opposizione all'ambiente. E' la fase schizogenica ed ha come sua caratteristica la discontinuità." Il rapporto sarà del tipo Io-Tu e la conoscenza sarà del tipo analitico. "Infine la terza fase, al termine della serie riproduce una nuova fase di continuità. Ma mentre l'essere appariva inizialmente indifferenziato rispetto all'ambiente, ora esso è differenziato (...). Nel corso di questa fase, che noi chiamiamo autogenica, l'essere si genera da sé, esiste per se stesso. Egli è un mondo autonomo. Il dualismo schizogenico lascia il posto alla relazione dinamica tra l'essere e il mondo". Stabilendo, dunque, un nuovo rapporto del tipo Io-Esso l'individuo si differenzia dall'altro da sé, e con esso si confronta continuamente mediante l'uso di una conoscenza di tipo sintetico.
Ora, siccome l'Io, si è detto, è costituito anche da segreti, conoscenze nascoste agli altri, l'individuo può allentare i vincoli con l'altro da sé, mediante la creazione di menzogne o di mondi irreali.
La scoperta del potere creativo dell'immaginazione rende consapevole l'individuo di poter custodire i propri segreti, sentirsi soggetto integro ed autonomo.
La detenzione dei segreti diventa patologica quando non si manifesta come facoltà di scegliere liberamente i pensieri da comunicare e quelli da non comunicare, bensì diventa una custodia ossessiva del segreto, dal quale il soggetto fa dipendere tutta la sua vita. Tale custodia ha in questo caso un ruolo statico e regressivo, perché tutela sì l'integrità dell'Io, ma la vincola ad un passato al di là del quale egli non sa andare (15).
In "1984" esistono entrambe le valenze della detenzione del segreto, quella normale e quella patologica, generando in Winston un conflitto della personalità, contrapponendo ciò che egli vorrebbe essere a ciò che effettivamente è.
Il tema del segreto si presenta nel romanzo, in primo luogo come ricerca di spazi chiusi in cui Winston si nasconde per cercarsi un po' di autonomia: la nicchia del muro nel soggiorno di casa sua (l'unico punto che sfugge alla telecamera); la radura nel bosco dove incontrerà Julia per la prima volta, con la quale instaurerà una relazione sessuale; la stanza che Winston prenderà in affitto da un robivecchi nel quartiere dei Prolet.
Non a caso la solitudine è anatema in Oceania: ogni possibilità di privacy è preclusa come pure i segreti che limiterebbero il controllo totale della massa da parte del Partito. Winston inizialmente può opporre solo il suo Diario: un esercizio solitario che acquista per lui la stessa funzione della menzogna per il bambino.
Ciò che egli nasconde nelle pagine del Diario è il suo pensiero segreto, separato e contrapposto a quello del Partit: la prima cosa che scrive in maniera frettolosa, caotica ed incoerente è: "Abbasso il Grande Fratello" .
Rivelando una personalità schizofrenica, la scrittura di Winston appare fortemente condizionata ed impedita dalla mancanza di libertà e dalla paura di essere colto in fallo dal teleschermo.
Il Diario rappresenta un atto di gravità inaudita in Oceania: esso è " crimine di pensiero" e pertanto punibile dal Partito con la Morte. Consapevole della sua colpa, Winston continua la sua attività di scrittura, dando inizio così alla sua rivolta personale. Nella ritrovata intimità rompe gli schemi precostituiti, l'ordine stabilito e lo sovverte opponendogli il suo mondo.
Con la stesura del Diario, l'individualità di Winston può iniziare a ricomporsi, recuperando il passato e proiettandosi verso il futuro. Egli comincia ad interrogarsi sulla propria origine sulla propria infanzia, sulla madre, sulla sorella ed infine sulla Londra di una volta. Inconsapevolmente egli ritrova a fatica non solo la memoria individuale, ma anche quella collettiva; il suo passato è anche storia.
Memoria e storia sono proprio le componenti umane che il Partito vuole cancellare perché esse rappresentano tutto quanto si è sedimentato nel soggetto, ne ha strutturato la psiche e ne articola l'affettività.
La segretezza è anche forma originaria del rifiuto e della dissidenza: Winston diventa l'outsider, il ribelle, il trasgressore, solo contro tutti.
"La dimensione del disordine trasgressivo del Fantastico è puramente individuale le loro manifestazioni si esplicano nel privato, lontano da ogni forma di comunità" (16). La natura fortemente individuale di questa dimensione svela l'intento di "insegnare ad ascoltare, a vedere, a pensare e a vivere da soli, sregolando e denormalizzando l'individuo. (...) La società preferisce sempre chi la rassicura e conferma la sua buona coscienza rinviandole allo specchio l'immagine statisticamente dominante"(17).

NOTA BIBLIOGRAFICA
(1) Si vedano le interpretazioni di:
Astaldi M.L. - "G. Orwell, critico e saggista" in Letture Inglesi - Neri Pozza, Venezia 1953; Cecchi
E. "La fattoria degli animali" e "Conversazioni con Orwell" in <
 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Gabriella Varvazzo
 
IL PROFILO FANTASTICO DI "1984" - 2
Parte Seconda
 
Il lettore dunque segue l'eroe, lo sostiene nella sua lotta antinomica, si identifica in lui e gli affida il compito di cambiare il mondo. La sua follia pura è sintomo di esperienza conoscitiva, ansia di conoscenza, spinta oltre la trasgressione dei limiti dell'umano. Winston è il solo, in tutto lo stato di Oceania ad usare il buon senso, a cercare di riappropriarsi della sua vita istintuale e sentimentale, ad esprimersi in termini ben riconoscibili.
Ma anche quando egli scopre una fantomatica organizzazione di opposizione interna al Partito (la Fratellanza) e ne diviene membro attivo, stabilendo un rapporto di amicizia con il suo capo, O'Brien, Winston rimarrà sempre un eroe vittima, inficiato dal suo trauma infantile. Esso rimane seppellito nel suo inconscio, costituendo sia il deterrente per una completa integrazione nella realtà sociale, sia agendo come spinta verso la conoscenza del sé.
Il trauma di cui Winston è vittima riguarda" il segreto dei topi" (18): la loro immagine ricorre ad intermittenza nel romanzo ma solo alla fine risulterà evidente che essi rappresentano il segreto coatto e nello stesso tempo il perno della sua organizzazione psichica, il nodo in cui i traumi del passato si congiungono agli incubi del presente. Winston e Julia verranno alla fine arrestati dalla Psicopolizia, condotti nella stanza 101 e sottoposti a tortura mentale e fisica. Essi scoprono di essere stati sempre spiati: tutti i loro comportamenti, i loro pensieri, il Diario di Winston e persino i suoi sogni sono stati inconsciamente indotti dal Partito.
E' lo stesso O'Brien, rivelatosi membro del Partito Interno, a torturare Winston nella stanza 101. Ma durante la tortura Winston difende bene il suo segreto, cercando di non tradire Julia.
Il significato che i topi hanno per Winston non é possibile saperlo, ma non c'è dubbio che esso rimanda allo scenario dell'infanzia e che allude ad una colpa avvenuta all'interno di quello stesso scenario. I topi sono qualcosa che egli occulta perché incompatibile con l'immagine di sé, che egli vorrebbe realizzare.
Il Grande Fratello deve però essere non solo accettato, ma anche amato:per adempiere a questo obbligo, Julia deve necessariamente cessare di esistere nel cuore di Winston; inoltre è necessario estirpare dalla radice ciò che gli consente di credersi e di porsi come identità diversa da quella del Partito.
Vi è un episodio della sua infanzia che egli racconta a Julia: era l'inizio della guerra nucleare negli anni '50 ed un giorno la madre di Winston divise una tavoletta di cioccolata tra lui e la sorellina; ma Winston strappò dalle mani della sorella anche la sua porzione. Prima di fuggire, voltandosi indietro, egli aveva visto la madre e la sorella abbracciate in una posizione che spesso ritornò nei suoi incubi più ricorrenti. Al suo ritorno a casa non le ritrovò più: il suo gesto aveva avuto come effetto la morte della madre e della sorella e la vergogna che aveva provato subito dopo essere fuggito, si era trasformata, col passare degli anni, in un senso di colpa. Come i topi si nutrono assalendo i bambini incautamente abbandonati, così Winston, durante la guerra potè sfamarsi divorando (il cibo del) la sorellina.
Egli, dunque è vissuto sulla morte della sorella così come, alla fine, spererà ancora di vivere sulla morte di Julia. Quando, durante la tortura, O'Brien gli pone sul viso la gabbia dei topi, Winston cadra in preda ad un profondo panico e griderà: "Fatelo a Julia, non a me, a Julia".
L'orrore e il panico di Winston nel vedere i topi coincidono con quello che Freud ha teorizzato come "il Perturbante" (das Unheimliche) riprendendo una terminologia reperibile nei saggi di Ernest Jentsch del 1906 (E. Jentsch Sulla Psicologia dell'unheimliche, trad. di G. Goggi, Nistri-Listri, Pisa 1983).
Egli identificò nel "perturbante" un genere di spavento che si riferisce a cose da lungo tempo conosciute e familiari, ovvero qualcosa di rimosso che si ripresenta all'improvviso. Freud allargò le valenze semantiche del termine Unheimlichkeit traducendolo come "mancanza di orientamento", ma anche come "ciò che non viene rivelato".
Esso dunque diventa la componente essenziale del Fantastico, essendo "l'insurrezione dell'inconscio a generare il senso di spaesamento proprio della letteratura fantastica"(19). Ponendosi tra conosciuto e ignoto, tra determinato e indeterminato, il Fantastico trasforma l'usuale, il quotidiano in strano ed inquietante. Il sentimento d'inquietudine, emergente dall'improvvisa manifestazione del rimosso è dunque "l'effetto di un incontro improvviso del soggetto con l'altro, ossia un confronto violento, simultaneo di sistemi di rappresentazione e di comunicazione diversi, da cui il soggetto può uscire fortificato nella sua identità o bloccarsi e perdere ogni controllo sulla realtà esterna " (20).
Considerando la paura come elemento rilevante dell'immaginario individuale e collettivo, Runcini ha dedicato uno studio approfondito sugli effetti della Paura sul comportamento umano. Di fronte all'elemento ignoto, la Paura attiva nell'individuo dei meccanismi naturali di difesa (riflessione, stimolo, mobilitazione dei centri nervosi, attività) e delle reazioni patologiche (rifiuto della realtà, blocco,paralisi dei centri nervosi). Il primo tipo di reazione è positivo in quanto "riflette lo stato di allarme istintivo di un individuo che nell'esperienza oggettiva del pericolo provvede a misurarsi con esso associando, a livello superiore della coscienza, gli elementi interni ed esterni del reale, atti a controllare la minaccia e le sue conseguenze"(21).
Il secondo tipo di reazione è invece negativa in quanto blocca il soggetto di fronte alla minaccia, il quale perde il contatto con la realtà subendone le conseguenze.
La distinzione operata dall'autore tra "ansia " e "paura", ci permette di riconoscere la reazione di Winston di fronte al trauma dei topi. L'ansia, ovvero timore dell'ignoto genera uno stato di allerta normale in cui esso viene atteso e anticipato da una riflessione ; l'anormalità è invece rappresentata nell'assolutizzazione dell'ignoto da parte del soggetto che cade in uno stato di delirio e di smarrimento.
La paura invece è definita come timore del noto che stimola nell'individuo due tipi di reazione: l'una è il tentativo di ricomposizione dell'io per affrontare il pericolo, l'altra è la rimozione costante del soggetto stesso, che invece di sfidare e confrontarsi con la realtà si chiude in un blocco autistico.
In Winston l'ansia è rappresentata dall'indeterminatezza della società in cui vive: la segretezza è la strategia adottata anche dal Partito. Il "Miniluv" non ha finestre, è proibito entrarvi o avvicinarvisi. I membri del Partito Interno non si conoscono, ed il Grande Fratello è anch'egli un mistero: non si sa se esista davvero. La reazione di Winston è ambigua: è combattuto tra l'affrontare gli eventi, oppure convincersi che è tutto frutto della sua immaginazione.
L'ansia, però, si trasforma in paura quando l'oggetto atteso si materializza e diventa noto. Nel momento in cui Winston attraverso la ricostruzione proustiana del suo passato prende coscienza della realtà, egli reagisce positivamente intraprendendo la lotta contro il leviatano del potere. La sua reazione però, cambia e diventa patologica allor quando di fronte all'evento "perturbante" della tortura dei topi, Winston cade in uno stato di delirio e di panico. Spogliato del proprio segreto, perduta la sua identità, egli è ormai parte del partito.
Ma la paura si riflette anche sull'immaginario collettivo come crisi per la perdita di un identità culturale. Ad ogni mutamento sociale, corrisponde nella società il timore per la perdita di un mondo noto e l'ansia per l'avvento di un mondo non ancora ben definito. Il risultato è quello che Durkheim ha definito con il principio "anomia", la mancanza di legge che interviene come fattore destabilizzante dei gruppi sociali.
"Gli stimoli alla difesa o il blocco motorio costituiscono anche qui quella polarità di comportamento propria dello stato pauroso, che si estrinseca fenomenologicamente dal singolo alla collettività come alternativa pratica/ideale fra sopravvivenza e catastrofe"(22).
E' ciò che accade al lettore nell'immedesimarsi con l'eroe del racconto : quando Winston, dopo la tortura è ormai ridotto a docile strumento del Partito, il lettore si fa carico della sua esperienza e trasferisce nella realtà il suo insegnamento.
"Abituato ad accettare convenzionalmente in narrativa il verosimile dal vero ,con il fantastico il lettore si trova a dover mettere in dubbio la stessa veridicità dell'immaginario"(23).
Se con A Bioy Casares, affermiamo che "tutta la letteratura è fantastica" (24), potremmo concludere attribuendo al genere l'appellativo di letteratura della menzogna, volta "a dirci la verità su noi stessi, raccontando bugie su persone e mondi mai esistiti"(25).
La narrazione di questo genere specifico riesce a svelare quelle verità storiche che spesso la società preferisce far passare sotto silenzio, rivelando la sua funzione di denuncia e di avvertimento a coloro che vogliono ancora esperire la realtà che sta dentro le cose.
Il saggio di Salman Rushdie, Fiction are lies that tell the truth, contenuto nella rivista inglese " The Listener" del 27 giugno 1985, afferma il concetto basilare che i romanzi sono tutti bugie che dicono la verità e che, in un epoca in cui, coloro che dovrebbero essere deputati a formare le opinioni della gente, inventano finzioni, diventa un dovere dello scrittore Fantastico raccontare la verità attraverso i sogni, i desideri, le fantasie, quelle molteplici realtà che a volte l'individuo rifugge dall'accettare.
Orwell e con lui 1984 si pongono come ricostruzione del passato raccogliendo, sulla pagina, le schegge di una memoria collettiva ed individuale, che afferma con forza il proprio diritto a lanciare un segnale di vita, a dare testimonianza di sé, a futura memoria.
Egli sottolineò più volte il carattere memorabile di un testo e la capacità insita in un opera importante di imprimersi in modo indelebile nella mente di chi legge.
La sopravvivenza dei libri è di fondamentale importanza : senza di essi la conoscenza diventa arbitraria, le verità rimangono prive di correlazione e la memoria cede. I ricordi possono essere manipolati, ma mai cancellati; se ricordare significa pensare, il pensiero dunque diventa "volontà di sapere".
Come Winston alla fine, non amerà più Julia, però, di lei si ricorderà per sempre, così il lettore, sopravvissuto al 1984, ricorderà il passato grazie a quanti come Winston/Orwell, attraverso la voce dei ricordi e l'invenzione letteraria, hanno affermato l'estremo diritto di una testimonianza altrettanto duratura della violenza che ha annientato il loro spirito e il loro corpo, espropriati della storia come della vita.

(18) Freud S.,Cinque casi clinici (l'uomo dei topi) , a cura di C. L. Musatti, Boringhieri, Torino 1967.
(19) Albertazzi S. 1993 p. 25.
(20) Runcini R. 1995 p. 20.
(21) Runcini R. 1995 p.8.
(22) Runcini R. 1995 p.11.
(23) Albe
 


 
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Giulio Dello Buono
 
UNA NOTA SU TERRORE E ORRORE
come tecniche narrative e fatti sociali
 
I. - La paura, a livello individuale, scaturisce da un incontro inaspettato con l'altro ed é indice di un rapporto conflittuale con la realtà che ci circonda, concepita come minacciosa per il nostro equilibrio e, infine, per la nostra esistenza. L'esperienza perturbante, come nel celebre saggio di Freud, non é necessariamente l'incontro con l'altro da sé in uno scenario ignoto, ma può anche interpretarsi come la proiezione, da parte del soggetto, di paure profonde, e perché tali rimosse, sullo sfondo di uno scenario noto, un ribaltamento, dunque, così come la particella "un" anteposta all'aggettivo "heimlich" (confortevole, da "heim", casa) lo trasforma in "unheimlich" (perturbante), "quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci é noto da lungo tempo, a ciò che ci é familiare"(1).
L'esperienza della paura non può essere considerata solo in senso negativo, bensì anche come fattore della perfettibilità umana, una prova del nostro equilibrio nel rapporto con noi stessi e con il mondo che ci circonda; e allora la paura può essere una esperienza essenziale del vivere umano, quando essa ha la capacità di "mobilitare i nostri centri nervosi"(2) e spingerci all'azione, ad un superamento della situazione paurosa verso il raggiungimento di un nuovo equilibrio, oppure costituisce una subitanea rottura dell'equilibrio che ci paralizza e ci annichilisce. Siamo di fronte alla dicotomia tra 'paura primaria' e 'paura secondaria', laddove la prima stimola l'individuo a reagire controllando ed infine superando la minaccia, mentre la seconda individua una situazione di paralisi del soggetto, con conseguente passività di fronte all'altro. Queste due tipologie della paura non attengono al fatto pauroso in sé, quanto alle diverse reazioni (anche di fronte allo stesso evento perturbante) del soggetto, dovute sia alla sua situazione interiore sia al suo rapporto col mondo esterno. Di fronte all'evento pauroso, é in gioco l'identità del soggetto, la sua riaffermazione (anche modificata dall'esperienza) o la sua perdita (sopraffatta dall'altro da sé).
Paura primaria e paura secondaria entrano nella sfera artistica soprattutto nella letteratura fantastica, nei racconti del terrore e dell'orrore. Questi due sostantivi sono spesso considerati sinonimi. Nel dizionario Garzanti si legge: "Terrore: sentimento di forte sgomento, di intensa paura [sinonimo: orrore]; Orrore: sentimento di forte paura e di ribrezzo [sinonimo: terrore]". L'elemento distintivo é quel "ribrezzo", che accosta l'orrore ad una situazione più strettamente fisiologica: il terrore viene visto come prevalentemente psicologico, l'orrore stimolerebbe in più reazioni fisiologiche (disgusto-ribrezzo-vomito). Sulla stessa linea le definizioni dell'Oxford English Dictionary: "Terror: great fear; an instance of great fear. Horror: a powerful feeling caused by a great fear mixed with disgust". Più utili ci sembrano le definizioni dello Zingarelli: "Terrore: grande paura, forte spavento, timore che sconvolge; Orrore: violenta sensazione di ribrezzo, ripugnanza o raccapriccio; timore profondo e quasi incontrollabile". Queste ultime definizioni ricalcano le precedenti, riconducendo l'orrore alla fisicità, ma introducono quel "quasi incontrollabile", legato all'orrore, che ci aiuta a distinguere tra i due. Il terrore ci sembra più l'amplificazione di quella paura primaria che forza l'individuo alla reazione; l'orrore appare più legato alla paura secondaria, che annichilisce l'individuo, il quale non riesce più a controllare le sue reazioni, subisce l'evento e compie il primo passo verso la follia. L'esperienza dell'orrore ci sembra esemplificata dell'episodio di Giovanni Castorp nella sezione intitolata "Neve" in La Montagna Incantata di Thomas Mann:
"Due femmine grigie, mezze nude, dai capelli arruffati, coi seni pendenti da streghe e i capezzoli lunghi un dito, erano intente, fra recipienti di fiamma, ad una crudele bisogna. Esse straziavano sopra una bacinella il corpo di un bambino, lo squarciavano con la mani, in un silenzio selvaggio (Giovanni Castorp vide tenui fili biondi misti a sangue) e ne inghiottivano i pezzi, così che le ossa scricchiolavano nella loro bocca dalle cui labbra orrende gocciolava il sangue. Un gelido orrore teneva legato Giovanni Castorp. Egli avrebbe voluto fuggire, ma gli sembrava di essere inchiodato al suolo"(3).
Castorp é soverchiato dall'orrore e, anche se in sogno, non riesce a fuggire; soccombe, e il risultato é una 'rottura di livello': manca a sé stesso e passa, sconfitto, dal sogno alla veglia.
Nell'ambito della letteratura fantastica, terrore e orrore rinviano da una parte a specifiche tecniche narrative (strategie della paura), dall'altra a due differenti tipologie del rapporto tra scrittore e società. La paura é sì un fatto individuale, ma anche un fatto sociale, un sintomo del rapporto tra scrittore e società che, per la letteratura fantastica, oscilla tra terrore e orrore, tra accettazione critica (superamento, utopia) e rifiuto (passività, letteratura del terrore/orrore).

II. - Nella letteratura fantastica, le strategie della paura si focalizzano intorno all'evento fantastico pauroso. Non é però l'evento pauroso in sé a rientrare nel campo del terrore o in quello dell'orrore, secondo la nostra distinzione. Questi due 'effetti' scaturiscono dall'incontro di tre campi simbolici: 1) l'evento fantastico; 2) l'economia simbolica del racconto; 2) lo spazio simbolico del personaggio. L'evento fantastico é quell'evento che, al suo verificarsi, contraddice una concezione del mondo generalmente accettata (dall'autore implicito, dal personaggio, dal lettore). Per 'economia simbolica del racconto' intendiamo indicare il rapporto che si viene a creare tra la poetica del racconto e le sue singole parti, e in particolare con l'evento fantastico: così l'apparizione di una creatura soprannaturale ha una funzione in un racconto del genere 'meraviglioso' ed una tutta diversa in un racconto di quel genere che Todorov chiama 'fantastico puro'(4). Nel primo caso l'evento non contraddice le norme che reggono l'intera impalcatura simbolica della narrazione (e che sono diverse dalle nostre: la fiaba, il Fantasy); nel secondo caso, il timore sorge dall'irruzione, in una narrazione 'realistica', di un evento che contraddice le regole del mondo quale noi lo conosciamo(5). È per questo che Freud nega che le fiabe possano produrre alcun effetto perturbante; stessa la tesi di Roger Caillois, per il quale "nella fiaba il soprannaturale non spaventa e non sorprende poiché costituisce la sostanza stessa dell'universo"(6). L'effetto pauroso deve avere dunque come sfondo una impalcatura simbolica che dia all'evento stesso le caratteristiche di uno 'scandalo', la messa in discussione delle leggi che regolano il mondo reale, o più precisamente, di quelle leggi che, in un dato momento storico e culturale, sono assunte come base di una concezione del mondo largamente condivisa e scientificamente convalidata.
Evento fantastico ed economia simbolica del racconto incontrano lo spazio simbolico del personaggio, che si può definire come l'immaginario individuale: una costellazione di simboli, cognizioni, valori, conoscenza che connotano il personaggio. La paura, come tecnica narrativa, sorge dunque dallo scontro di due campi simbolici: quello dell'evento (da ricordare che anche l'evento occupa il centro di un campo simbolico formato dai sistemi simbolici a cui l'evento singolo rimanda; ad es.,: Apparizione dello spettro < credenza negli spiriti > animismo/spiritismo) e quello del personaggio; più precisamente, sorge nel momento in cui l'evento contraddice la concezione del mondo del personaggio(7).
La differenza tra terrore e orrore va studiata su due fronti: 1) se l'evento fantastico in sé non può definirsi 'terribile' o 'orribile', questa definizione può essere applicata ai rapporti che il campo simbolico dell'evento instaura con un dato sistema simbolico; 2) la reazione (ed il perché della reazione) del personaggio di fronte all'evento (occorre però ricordare la centralità del terzo elemento, lo sfondo, l'economia simbolica del racconto, che, semplificando, può essere ricondotto alla nozione di genere letterario). Allora, l'evento che crea terrore é un evento che o non contraddice le leggi del nostro mondo, condivise dal personaggio, oppure, anche contraddicendole, rientra nelle leggi di un mondo soprannaturale sempre condivise dal personaggio; il personaggio prova terrore, ma inizia a reagire nel momento in cui incasella l'evento in uno schema che accresce il suo campo simbolico, viene acquisito, superato: l'incontro con l'altro diventa esperienza. L'evento che crea orrore é un evento che contraddice le leggi del nostro mondo ma che o non viene spiegato neanche col ricorso alle tradizionali cognizioni sul soprannaturale, o comunque non trova posto nello spazio simbolico del personaggio. Da qui l'annichilimento e la sconfitta dell'individuo, il dissolvimento del suo spazio simbolico: l'incontro non é esperienza, bensì shock.
Nella prima parte del Faust di Goethe, Faust evoca uno spirito: "che vista tremenda", esclama il mago, "non ti sopporto". Ciò nonostante lo spirito ha ubbidito ad una sua invocazione: "debbo io cedere davanti a te, figura di fiamma? Sì, sono io, sono un tuo pari [...] come mi sento vicino a te!". E quando Mefistofele dice a Faust di non poter andare via, perché una emanazione del campo simbolico di Faust (il pentagramma) gli sbarra la strada e non può uscire dalla finestra perché "é legge dei diavoli e degli spiriti che per dove sono entrati di lì devon sortire. La prima via sta a noi sceglierla, l'altra siamo obbligati", Faust esclama: "Anche l'inferno, dunque, ha le sue leggi?"(8). L'apparizione di Mefistofele non incute orrore; essa rispetta almeno 'le leggi dell'inferno', e comunque trova posto nello spazio simbolico del personaggio, nella sua concezione del mondo(9).
Per meglio evidenziare la dicotomia terrore/orrore citiamo come esempio un racconto di E.T.A. Hoffmann, "Il Maggiorasco", limitandoci a due passi significativi. Il castello dove il vecchio V. e suo nipote (il narratore) risiedono temporaneamente é infestato da uno spettro, conseguenza di un fatto di sangue avvenuto nel passato. In questa prima scena, testimone dell'apparizione é il giovane nipote, ignaro dei fatti accaduti:
"[...] la porta che dava sull'antisala si aprì con un gran colpo. Saltai su terrorizzato, il libro mi cadde dalle mani. Ma nello stesso momento tutto tornò silenzioso e io mi vergognai della mia infantile paura! Era probabile che la corrente d'aria avesse spalancato in un modo o nell'altro la porta. Non era nulla... La mia fantasia sovreccitata trasformava in un che di spettrale ogni fenomeno naturale! Così tranquillizzato raccolsi il libro da terra e ricaddi nella poltrona. Piano e lentamente, a passi cadenzati, qualcosa attraversò la stanza sospirando e gemendo, e in quei sospiri e in quei gemiti c'era l'espressione del più profondo dolore umano, della più sconsolata disperazione. Ah! Deve essere un animale malato, rinchiuso al piano di sotto. Le illusioni acustiche della notte sono note, tutto ciò che risuona in lontananza sembra vicino. Chi potrebbe spaventarsi per una cosa simile? Così mi tranquillizzai di nuovo, ma a questo punto dal muro nuovo vennero dei forti, profondi sospiri, come emessi nella terribile angoscia della morte e si udì grattare, "Sì, é un povero animale rinchiuso - adesso griderò, picchierò forte col piede sul pavimento e tutto tornerà tranquillo oppure quell'animale là sotto si farà sentire più chiaramente con la sua voce naturale!""(10).
Il Personaggio cerca ripetutamente di riportare l'evento a cui sta assistendo all'interno del suo spazio simbolico: all'aprirsi della porta, risponde con una corrente d'aria; ai gemiti, con l'ipotesi di un animale malato; con la stessa ipotesi al "grattare": sono tutti tentativi di autocontrollo, sforzi per non cedere all'orrore, operati nel tentativo di inglobare l'evento perturbante nella propria sfera cognitiva, in questo caso riconducendolo alla dimensione naturale. Ma la frattura tra il soggetto e la realtà diviene incolmabile, l'orrore ha il sopravvento immobilizzando il narratore nella poltrona: "Il sangue nelle vene mi si era fermato. Sudore freddo mi imperlava la fronte, rimasi seduto, immobile, nella mia poltrona, incapace di alzarmi e ancor meno di chiamare"(11). È il punto culminante dell'evento, l'apparizione dello spettro: tutte le difese del soggetto sono crollate, dissolto é il suo spazio simbolico, rivelatosi incapace di contenere l'evento fantastico. Alla fine, il narratore 'ritrova se stesso', stimolato dal contatto col prozio: "In quell'attimo sentii sospirare e gemere d'angoscia il prozio nella stanza vicina, ciò mi restituì la coscienza"(12). Dall'istante dell'apparizione fino a quando sente il prozio gemere, l'orrore blocca non solo il corpo ma anche le funzioni psichiche del narratore; la fine di questa situazione di shock coincide con il riappropriarsi della coscienza e della capacità di movimento.
Il giorno successivo ha luogo la stessa scena, stavolta in presenza sia del narratore che del prozio:
"Battè la mezzanotte. Con terribile fracasso la porta si spalancò e come il giorno precedente dei passi lievi e lenti aleggiarono per la sala mentre tornarono a farsi sentire i gemiti e i sospiri. Il vecchio era impallidito, ma i suoi occhi brillavano di un fuoco inconsueto, si alzò dalla poltrona, ed eretto nella sua imponente figura col pugno sinistro piantato nel fianco e il braccio destro teso verso il centro della sala sembrava un eroe in atteggiamento di comando. I gemiti e i sospiri si fecero sempre più forti e impercettibili e si udì grattare alla parete in modo ancor più orribile del giorno prima. Il vecchio allora avanzò dritto e con passo fermo, tanto da far rimbombare il pavimento, verso la porta murata. Vicinissimo al luogo da cui proveniva un raspare sempre più folle egli si fermò e disse con voce forte e solenne che mai gli avevo sentita: "Daniel, Daniel! Che fai qui a quest'ora!" Udimmo allora un grido orribile e spaventoso e un colpo sordo, come se un peso fosse precipitato al suolo. "Va' a impetrar grazia e pietà al trono del Signore, é lì il tuo posto. Sparisci dalla vita di cui non puoi più esser parte!" Così gridò il vecchio ancor più forte di prima e parve allora che un sommesso pianto attraversasse l'aria e andasse a spegnersi nel sibilo della bufera che cominciava a levarsi. Il vecchio andò allora alla porta e la richiuse con forza tale che l'antisala, vuota, rimbombò. Nelle sue parole e nei suoi gesti c'era qualcosa di sovrumano che mi riempiva di profondo terrore. Quando tornò a sedersi nella sua poltrona il suo sguardo era come trasfigurato, congiunse le mani e pregò dentro di sé"(13).
Perché la reazione del prozio é tanto diversa di fronte allo stesso evento, tanto da spingerlo all'azione e non costringerlo alla passività? Non che il prozio non provi un forte spavento, prova ne é il suo appello alla 'fede' ("il mio coraggio fondato su una salda fede") e la preghiera con cui si conclude la scena. Lo stesso evento provoca reazioni così diverse perché nel primo caso esso distrugge il tentativo di razionalizzare l'apparizione, di contenerla in uno spazio simbolico troppo esiguo; nel secondo, lo stesso evento é inglobato in due spazi simbolici concentrici: 1) l'appello alla fede, che non é una semplice convenzione narrativa, bensì un modo per inserire l'evento soprannaturale in una rete di riferimenti simbolici sull'aldilà fortemente strutturata, fondata sulla tradizione cristiana; 2) il prozio, a differenza del narratore, conosce il fatto di sangue avvenuto nel castello; questo evento fa già parte del suo immaginario. È dunque la ricchezza del suo spazio simbolico (il suo basarsi su una tradizione che accetta il soprannaturale e la sua conoscenza dell'evento passato causa dell'apparizione) che permette al prozio di reagire e superare l'orrore. Il suo immaginario assorbe l'urto simbolico e reagisce rifacendosi a schemi (esorcistici) convalidati dalla tradizione simbolica cristiana.
Lo stesso evento pauroso può dunque ingenerare terrore o orrore non per una sua qualità intrinseca, ma solo in base al rapporto che l'evento viene a creare con lo spazio simbolico del soggetto, con le sue cognizioni e il suo 'sapere', il suo immaginario. Ovviamente il caso citato ha solo la funzione di esempio: la ricchezza del campo simbolico del prozio non comporta alcun giudizio di valore sulla tradizione cristiana in sé; essa é qui concepita solo come campo di riferimento simbolico neutro. Nell'esempio che segue, il superamento della situazione perturbante non é più legato all'accettazione passiva di una tradizione, ma alla riaffermazione del principio di identità.

III. - Nella fiaba "La Vecchia Scorticata" del Basile, all'evento fantastico il protagonista reagisce esclamando: "Sto sognando o sono sveglio? Sono in me o deliro? Sono o non sono io?"(14). La prima dicotomia é quella tra sogno e realtà: é il primo meccanismo di difesa del soggetto che, di fronte al fatto inspiegabile, esita se situarlo nella realtà, negando così il suo codice, o nella sfera del sogno, dove tutto é possibile senza perciò destabilizzare il soggetto. Il secondo stadio é un passo avanti verso il cedimento: se, nel primo stadio, sogno e realtà fanno parte della vita psichica equilibrata del soggetto, e il patologico risiede nel non saper distinguere tra i due, qui il cedimento é ulteriore e l'alternativa é fra la realtà effettiva del fatto e della sua percezione (sono in me) o la caduta nel patologico (deliro). Il terzo e ultimo stadio pone il rischio, di fronte all'evento, della perdita dell'identità, perdita sentita come ancor più grave di una identità dissociata. È l'io che si trova di fronte al rischio di soccombere, di non riconoscere più se stesso di fronte all'oggetto, di smarrire la propria identità.
Sogno Vs. Realtà
Ragione Vs. Delirio
Io Vs. Non Io
La strada che porta al terrore (paura primaria - stimolo - reazione) percorre la prima colonna, situando il fatto nella sfera del sogno (quindi razionalizzandolo), negando la realtà del fatto, riaffermando la ragione e l'io (identità). La strada che porta all'orrore percorre la seconda colonna, accettando il fatto come una realtà (veglia) che precipita il soggetto verso il 'delirio' ed infine verso la perdita dell'identità. Combinando le tre domande, si potrebbe dire: A) se sto sognando (spiegazione razionale) sono in me e sono io (riconosco il fatto); B) se sono sveglio (spiegazione irrazionale) deliro e non sono io (perdo me stesso, non riconosco il fatto).
La ricchezza simbolica del soggetto nel primo caso non si basa dunque su alcuna tradizione: lo spazio simbolico del soggetto é capace di assorbire il colpo perché la sua concezione di 'spiegazione razionale' non esclude il fascino del sogno. Semplificando, si potrebbe dire che il soggetto fa uso di una 'ragione' non chiusa in se stessa, ha una mentalità 'aperta'. È la povertà dell'immagine di realtà che nel secondo caso impedisce al soggetto di collocare l'evento in una sfera 'altra' della realtà (il sogno) che é reale anch'essa a tutti gli effetti. Ma terrore e orrore rimandano anche ad un rapporto col reale che può essere concepito come rapporto con la storia.

IV. - Terrore e orrore, in quanto tecniche narrative, costituiscono due aspetti del rapporto tra scrittore, tradizione letteraria/genere letterario e realtà storico sociale. La paura é oggetto di studio dello psicologo come fatto individuale, ma campo d'indagine socioletteraria quando appunto il gioco con la paura é espresso all'interno di parametri narrativi come rispecchiamento dell''esser nel mondo' dell'artista. La paura é vista così nella sua dimensione collettiva, un sentimento suscitato dall'incertezza di fronte al rapido mutarsi delle strutture sociali, al venir meno di solide coordinate, all'impatto col nuovo sentito come minaccioso nei confronti di un agire sociale consolidato nel tempo. La perdita di stabili coordinate, uno stato di perenne 'crisi di valori', una situazione di 'anomia', gettano ombre cupe sul futuro di una collettività, facendo così sorgere immagini paurose, vuoi come ritorno di un mito distorto e non più salvifico, vuoi come visione di una progressiva degenerazione della realtà politico-economica, ambientale, tecnologica. Come l'evento fantastico che ingenera timore, anche la situazione storica é la stessa per ogni osservatore; la differenza risiede non nella realtà, bensì nell''immagine di realtà' che opera una mediazione tra l'immaginario individuale e la realtà stessa. Le differenti opzioni letterarie, i generi, sistemi di riduzione della complessità, sono modalità differenti di rapportarsi al mondo che scaturiscono dal contatto tra spazio simbolico/immaginario individuale e 'immagine del mondo'. Un impatto distruttivo con la realtà, vista come totalmente estranea e mostruosa, é alla base della poetica del racconto dell'orrore alla Lovecraft. La paura circa l'influenza negativa della tecnologia sull'ambiente, delle tecniche informatiche sulla perversione del consenso, ecc., é alla base dell'accettazione critica del reale propria delle utopie/distopie e della fantascienza. Il genere utopico/distopico e la fantascienza, accettando come sfida la paura del futuro, riaffermano la possibilità tutta umana di modificazione del reale. Il racconto fantastico dell'orrore, assolutizzando l'esperienza della paura come parametro del rapporto dello scrittore con la realtà, esprime il rifiuto di un mondo sentito come estraneo, perduto:
"Delle due fasi esponenziali della paura, quella primaria, di allarme e incitamento all'azione, é direttamente inerente allo sviluppo diegetico dell'utopia, mentre quella secondaria, immobile e disorientante, investe [...] la struttura narrativa del fantastico"(15).
Nel genere utopico, la realtà, pur vista come paurosa, non é però totalmente estranea al soggetto, il quale riesce a inscrivere la paura del nuovo all'interno del suo spazio simbolico, ha la capacità di 'pensare il futuro' perché, come direbbe Jesi, (16) ha un rapporto genuino col passato. Nell'utopia, il terrore é una spinta positiva a vedere il modificarsi del mondo sì come una minaccia, ma anche quale luogo geometrico dell'agire umano. Seguendo la nostra terminologia,: la ricchezza del campo simbolico del soggetto, della sua immagine di realtà, e del suo rapporto con la storia, permette di vedere nella realtà sociale stessa non qualcosa di estraneo, ma conseguenze di un dato processo storico (umano), nel quale l'uomo può intervenire.
Nel racconto Fantastico dell'orrore, la realtà é vista come estranea e mostruosa; lo spazio simbolico del soggetto non riesce ad accogliere il nuovo, il diverso, e viene schiacciato. Il soggetto ripiega su sé stesso, diventa schiavo della 'reverie', instaura un rapporto non genuino con la storia (é posseduto dall'aspetto orrido del mito, per riprendere Jesi) e proietta il proprio malessere su immagini mitiche di orrore universale. La paura di questo genere letterario é un 'orrore' negativo, non una spinta all'agire, ma proiezione su un altro da sé mostruoso delle proprie incapacità di confrontarsi col reale, di agire, di essere nel mondo.

NOTE
(1) S. Freud, Il Perturbante, Theoria, Roma-Napoli 1984, p. 16.
(2) R. Runcini, La Paura e l'Immaginario Sociale nella Letteratura. I° Il Gothic Romance, Liguori, Napoli 1984, pp. 12-16.
(3) Th. Mann, La Mo
 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Maria Rosaria Pisaniello
 
LA SOSPENSIONE DEL SENSO IN
ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE - 1
Parte Prima
 
1. Il contesto dialogico della letteratura.
Lontana dal costituire il semplice frutto di un'intuizione pura, l'opera d'arte si pone come il segno di una precisa condizionalità storica, empirica e sociale. La sua intellettualità e leggibilità deriva, infatti, dal legame che detiene con il reale; la sua forza e la sua essenza da quel complesso intrecciarsi di immagini pubbliche e private che cooperano alla sua produzione. Produrre significa operare su due livelli di cultura e di esperienza. Significa attingere ad un repertorio di ricordi e di vissuto familiare (Immaginario individuale), nonché a quello di credenze e di esperienze (Immaginario sociale) cui si appartiene come cittadini di una nazione. Fattori soggettivi ed oggettivi cooperano, quindi, alla formazione culturale di un autore, tale che in ogni sua scelta è possibile reperire una particolare visione del mondo. Tutti i legami significanti all'interno di un testo si fanno, perciò, veicolo di un dato orientamento, tale che per comprenderlo non è sufficiente appellarsi alle su e leggi astratte quanto tener conto della sua serie semantica e del modo in cui si realizza nel rapporto inscindibile tra forma e contenuto. Accanto alle motivazioni storiche e al carattere dello scrittore va, inoltre, associato quello del pubblico e dei generi letterari in questione. Ogni testo, infatti, deve essere compreso come reazione ad altri testi; ogni genere letterario va inserito in un più ampio contesto dialogico e comunicativo.
Assimilando in sé il più ricco movimento vitale la letteratura è in grado di estrinsecasi in molteplici forme per rivelare gli aspetti più o meno evidenti della nostra esistenza reale. Come uno specchio che riflette i cambiamenti di un'epoca essa sublima e trasforma i problemi sociali in mille ed altri problemi letterari e funzionali. A riprova di questa stragrande dialetticità della letteratura si pone Alice nel Paese delle Meraviglie che, scantonando in opposizione ad ogni forma chiusa e monolitica i moduli della tradizione realistica, si ascrive nel più informativo universo della menzogna (1).

2. Alice e il dramma vissuto dall'umanità nel suo farsi moderna.
Distaccandosi dalle pretese di plausibilità e veridicità che, innalzate a parametro del realismo formale tendevano a manifestare una visione unitaria del mondo, Carroll propone una storia fantastica in cui la paradossalità delle situazioni descritte porta alla luce le più profonde strutture del reale. Ciò accade in un'epoca di cambiamenti rapidi e decisivi, quando le innovazioni tecnologiche infusero accanto all'idea del progresso un più profondo senso di decadenza legato alla disintegrazione sociale e morale dell'umanità. Quando un pullulare di dottrine politiche e scuole filosofiche misero a nudo le arbitrarietà e le illegalità del sistema vigente; mentre l'esplosione di rivoluzioni scientifiche, politiche e religiose mutilarono l'orizzonte tradizionale dell'individuo immergendolo in un mondo definitivamente nuovo, l'unità dell'essere sembrò frantumarsi e l'anima i ritrovò a vivere in solitudine rispetto e stessa.
Posta di fronte alla scelta se continuare a procedere per la propria via o optare per un sentiero diverso, l'umanità vide la propria disgregazione tradursi nel percorso di un'anima che, raggiunta la propria liberazione interiore e la piena coscienza di sé, era costretta a confrontarsi con un'ipotesi radicalmente nuova della realtà. Fu così che Alice nel Paese delle Meraviglie, traducendo nell'irrazionalità del suo accadere la relatività e l'assurdità della nostra esistenza, poté porsi come un'allegoria capace di riflettere il cammino dell'umanità nel suo farsi moderna. Come un intrepido romance poté narrare la lotta dell'umanità contro ciò che la vita le scaraventava addosso; poté, insomma, rappresentare il destino come qualcosa che non scaturiva più dall'intimo dell'individuo, ma gli giungeva dall'esterno per rivelare la sua somma ineffabilità.

3. La Trasgressione dell'Immaginario Vittoriano.
I contenuti latenti di un'epoca votata alla rispettabilità e al perbenismo erano, quindi, destinati ad emergere per rivelare dietro al vacuo inno al progresso e all'efficientismo un più profondo senso di smarrimento collettivo. Traducendo nei cambiamenti di Alice l'ansia legata alle trasformazioni di un mondo in cui ogni cosa acquistava miracolosamente vita, il racconto di Carroll riusciva a manifestare una indubbia capacità di scavare nel reale, di rivelarne le assenze, di comporre, insomma, l'invisibile. L'orizzonte letterario in cui si ascriveva era più vicino all'antica forma del romance che non alla più prossima esperienza mimetica ed era volto ad instaurare una sorta di contro tradizione che prediligeva la non coerenza e l'anarchia.
A dispetto di una rappresentazione chiara e diretta della realtà sociale, l'autore ci conduceva oltre le soglie del non tangibile e dell'irrazionale per configurare una dimensione altra e straniante che, comunque, rifletteva le più profonde tensioni del reale.
Sostituendo alla familiarità e all'agiatezza del mondo noto un universo governato dal paradosso e dal reversibile, riusciva a mettere a nudo il lato irrazionale della natura umana. Rivelando contro la stabilità dei sistemi socio-economici il piacere e il gioco della confusione, dipingeva un mondo che, nel suo più ampio senso della realtà, non potevano inquietare il lettore.
La difficoltà ad interpretare gli eventi, l'incapacità ad esprimere una visione statica ed unitaria rispetto quanto era narrato, determinano ,infatti, un effetto perturbante che i esplica, laddove, la descrizione del reale cede il posto quanto d'ignoto e di occluso può nascondersi dietro la superficie del quotidiano.
Senza auspicare ad un mondo alternativo Lewis Carroll collocò la sua storia nell'entroterra tra il reale e l'immaginario, in una sorta di area parassiale(2) che, dominata dall'incertezza, lascia che la nostra percezione ne esca totalmente dissolta. In particolare, questo senso di sospensione tra il reale e l'irreale sembra essere stigmatizzato dalla sospensione, se non dall'azzeramento di senso che caratterizza gli enunciati di cui è intessuta l'opera.

4. Tensione verso la non significazione.
Attraverso la sua caduta, infatti, Alice si sente trasportare in un mondo in cui regna il caos semiotico, in cui le parole smettono di significare e i sistemi linguistici cessano di esserle d'aiuto. Il vicolo cieco in cui cade conduce al regno delle libere associazione e alla perdita del linguaggio unificatore del reale. Accade, così, che il significante comincia a fluttuare liberamente. La distanza verso cui rinvia non è più ristretta come nella prosa realistica, ma è lasciata libera per arrivare al punto in cui l'assonanza delle parole determina l'inversione delle proposizioni:
Do cats eat bats?
Do bats eat cats?(3)
Ci troviamo in un mondo in cui le cose non stanno più per qualcos'altro ma diventano quell'altro, dove il dominio del significante è tale da confondere il concetto di storia (Tale) con la coda del topo (Tail).
Si direbbe che, seguendo il coniglio, Alice si sia sentita trasportare in un ambito in cui l'ordine simbolico, vale a dire il volume del linguaggio con i suoi significati compresi e trasmessi socialmente, cede il posto ad un divenire presegnico che si radica nell'inconscio.
Uscita dal tempo reale per entrare in quello mitico, Alice evade dalla realtà per recuperarne una tutta individuale e psicologica in cui le regole sociali e linguistiche sono completamente ribaltate. Fuori dal mondo della lingua, fuori dal sistema che permette di costruire il significato, la nostra eroina non può che scoprirsi uno tra i tanti segni mutevoli. Nell'anticamera di Wonderland, infatti, è preda di qualcos'altro che la lascia espandere e poi restringere. Magicamente il contenuto di una bottiglia (Drink me) e di un dolce (Eat me) provocano in lei dei mutamenti di dimensione, mentre alla separazione del proprio corpo fa riscontro la totale perdita del linguaggio.
"Curiouser and curiouser" cried Alice...
"Now I'm opening out like the largest
telescope that ever was! Goobye feet!"
(4)
Alice ha dimenticato le regole di grammatica, ha abbandonato il linguaggio normalizzato, che è solo uno dei tanti modi di organizzare il processo di significanza, ed è inevitabile che tale modificazione rifletta quella dl suo rapporto con il proprio corpo, con gli altri, con gli oggetti .È il linguaggio, infatti, che articola il nostro dialogo con il mondo, vestendoci e trasformandoci al pari di u vestito. Sembra che Alice sia scesa nelle sale del suo laboratorio per partecipare ad un gioco creativo in cui le cose scivolano via dalle parole mentre queste ultime assumono una loro propria vita.
"La sua insicurezza ontologica", spiega R.Jackson, "sembra avere più a che fare con questa deprivazione dei segni significativi che con il sottomondo grottesco, ghignante, apparentemente crudele dei mostri..."(5).
Ciò che più la preoccupa è la perdita d'identità:
"Let me think: was I the same when I got up this morning?"
I almost think I can remember feeling a little different. But
if I'm not the same, the next questio is, Who in the world am
I' Ah, That's the great puzzle!"
(6)
La sola cosa cui può aggrapparsi è il suo nome, perché ogni tentativo di riconoscersi in qualche altro risulta vano, nonché quello di ritrovarsi nella permanenza del sapere.
"....I'm sure I can't be Mabel, for I know alla sorts of things,
and she,oh! She knows such a very little!...I'll try if I know
all the things I used to know."
(7)
È significativo che in queste circostanze di crescente confusione Alice cerchi di rapportarsi alla stabilità della sua passata esistenza. Comincia, così, a recitare alcune poesie da lei mandate a memoria per vederle subito trasformare in grottesche parodie(8) in cui l'Auctoritas del linguaggio vittoriano risulta letteralmente azzerata.

5. Cattura speculare e capacità di metaforizzazione.
Senza lingua non c'è separazione tra sé e il mondo, non vi è alcuna differenza tra l' io e l'altro. Si direbbe che Alice sia piombata attraverso la sua cauta in quell'ordine immaginario in cui non c'è assenza ma solo identità e presenza(9).
È possibile, quindi, che ciò che viene fantasticato in Alice sia in realtà un ritorno ad una fase pre-linguistica e pre-culturale alla ricerca di quella totalità che l'ordine simbolico sembra aver definitivamente preclusa. In una sorta di "Cattura Speculare" l'eroina ritrova nel Paese delle Meraviglie l'illusione irriducibile del suo rapporto con l'altro. Per lei sarà come muoversi nello spazio immaginario di uno specchio, in una dimensione in cui non solo prevale il rovescio della norma, ma dove ogni cosa appare ingrandita o, comunque, indeterminata.
Quando Alice, dopo aver mangiato un pezzo della torta magica, cresce così a dismisura da riuscire a vedere a malapena i suoi piedi, contempla la possibilità di mandargli un regalo.
How funny it'll seem, sending presents to one's own feet!
And how odd the directions will look!....
Alice's Right Foot, Esq.
Hearthrug,
near the Fender
(with Alice's love)
Oh dear what nonsense I'm Talking.
(10)
Quel che si realizza da parte della nostra eroina è un'esperienza sinestetica di partecipazione alla realtà, dove mentre osserva è essa stessa a divenire oggetto delle sue sensazioni. Alice, insomma, vive a Wonderland quell'indifferenza tra soggetto ed oggetto che si attesta come paradigma indispensabile per ogni atto creativo di transfert del significato di un qualsiasi enunciato.
Per essere metaforici e, quindi, creativi è necessario, spiegano A. Fonzi e E.N. Sancipriano, concepire la realtà come un oggetto di continue ristrutturazioni. Solo se l'individuo è disposto a perdere la propria presenza; solo se è pronto ad uscire dal proprio guscio e a sperimentare nuove esperienze, è in grado di contrapporre alle metafore sfibrate e spente del linguaggio comune la metafora viva del Nonsense.

6. La logica del Nonsenso.
"Gioco sul linguaggio e col linguaggio", osserva Irene Meloni, "il nonsense si attesta come uno strumento semiserio di analisi di esso, capace di smascherare con l'aiuto della logica le sue trappole, nonché la sua capacità allucinatoria di creatore di mondi fittizi di realtà"(11).
Da questo punto di vista il Nonsense in Alice sembrerebbe porsi come metalinguaggio che analizza le pieghe del linguaggio reale per metterne in luce le contraddizioni e per accertare fino a che punto esso sia eleggibile come strumento di individuazione del vero.
Non dimentichiamo che nell'età vittoriana la convinzione della autorità indiscutibile della scienza portò alla ricerca di un meccanismo d'indagine assolutamente affidabile; uno strumento neutralizzato e levigato, capace di divenire il riflesso esatto della conoscenza. A ciò si univa un crescente interesse per l'etimologia e per lo sviluppo storico delle lingue sostenuto dall'esperienza romantica di collezionare ballate medievali, nonché da quella romanzesca di Walter Scott finalizzata alla ricostruzione di autentiche ambientazioni storiche.
In qualità di studioso di logica formale L.Carroll si impegnò ad analizzare i limiti della lingua inglese come strumento di pensiero e di comunicazione. Ciò lo condusse ad affrontare il problema del significato e a concludere che la sua lingua offriva notevoli possibilità di ambiguità lessicale, sintattica e contestuale. Numerose, infatti, sono le parole inglesi che presentano una certa equivocità, legata alla loro potenziale varietà di significato e, se talvolta è il contesto ad informare l'interprete del loro senso più immediato, non mancano i momenti in cui questi non fa che accrescerne l'ambiguità.
"These three little sisters - They were learnng to draw, you know-"
"What did they draw?"said Alice,quite forgetting her promise..
"Treacle" said the Dormouse.
(12)
Il Campo semantico del verbo "To Draw" è talmente ampio da includere numerose accezioni. Mentre Alice lo intende nel senso di "disegnare", Il Ghiro gli conferisce il senso di "estrarre" introducendo nell'elenco che produce categorie astratte e concrete che hanno in comune solo la lettera iniziale.
"They were learning to draw... They drew all manner of things-
everything that begins with an M , such as mouse-trap, and the
moon, and the memory, and the muchness- you know you say
things are <> did you see such a thing
as a drawing of a muchness".
Really, now you ask me" said Alice very much confused, I don't
Think-"
(13)
Non è che in Wonderland la lingua sia diversa, di essa, piuttosto, si fa un diverso uso e si ha una diversa consapevolezza. È come se le parole tendessero ad acquisire unico significato onnicomprensivo, capace di contenere tutte le sfumature del complesso linguaggio vittoriano.

NOTE
1. Vi è espresso il punto di vista di Weinrich secondo cui nelle fiabe, o più in generale nelle opere destinate ai bambini, i segnali della menzogna (generalmente legata ad uno spostamento di dimensione) inducono a scoprire
 


 
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Maria Rosaria Pisaniello
 
LA SOSPENSIONE DEL SENSO IN
ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE - 2
Parte Seconda
 
7. Riflessioni linguistiche e Umorismo.
Ciò su cui Carroll sembrò concentrarsi maggiormente fu la differenza esistente tra le convenzioni del linguaggio logico e quelle del linguaggio ordinario. Mentre il primo, infatti, impiega un tipo di enunciato rigidamente controllato pur di evitare ogni possibilità di ambiguità o di sfocatura, il secondo fa uso di enunciati ironici o metaforici che lo conducono, spesso, verso l'illogicità o all'alterazione del suo significato concettuale.
Nella successione che si realizza tra questi due tipi di inferenze si assiste ad uno spostamento dell'accento psichico in cui la legalità e l'ordinarietà dei nostri discorsi, se sottoposta al vaglio del linguaggio logico, finisce col configurarsi con un'assurdità spiritosa.
"Take some more tea" the March Hare said to Alice very earnestly.
"I've had nothing yet",Alice replied in an offended tone,"so I can't take more"
"you mean you can't take less", said the Hatter: "it's very easy to take more
than nothing....
(14)
Le difficoltà di interpretazione tra Alice e il Cappellaio nascono, infatti, dall'ambiguità delle parole "More" e "Nothing" intese rispettivamente dalla nostra eroina con : "In aggiunta a ciò che ho già avuto e niente the" laddove il Cappellaio, spiega Sutherland, esercitando il suo rigore logico le intende nel loro senso letterale assumendo "More Than Nothing" con "Some"(15).
I processi semiotici problematizzati da Lewis Carroll sarebbero stati più tardi sistematizzati dal filosofo L. Wittgenstein che nelle Philosophical Investigations, oltre ad attaccare le arbitrarietà e le convenzionalità che sottendono il nostro linguaggio, intuiva lo stretto legame esistente tra filosofia ed umorismo(16).
La comicità che deriva da Alice si realizza, spesso, attraverso il passaggio immediato dalla credibilità di alcuni discorsi alla consapevolezza della loro futilità, dall'attribuzione necessaria di significato, al riconoscimento che non ne hanno logicamente alcuno. Il tutto nella realizzazione di un gioco che è insieme regressivo e contestativo, perché, laddove, cerca di scardinare gli assi costitutivi del linguaggio, recupera il piacere infantile di giocare con le parole come se fossero delle cose(17). Non dimentichiamo che toccherà alla nostra protagonista denunciare gli abusi delle parole più comuni quando giocando sui suoni o sulle omofonie rimate finisce col confondere termini e concetti totalmente distinti.
" I wonder if I shall fall right through the earth! How funny it'll
seem to come out among the people that walk with their
heads down-world. The Antipathies, I think"
….." (she was rather glad that there was no one listenign this time, as it didn't sound at all she right word)"
(18)
Il bisticcio tra ANTIPODES e ANTIPATHIES rappresenta solo il primo di una lunga serie di equivoci(19) realizzati enfatizzando gli errori e le confusioni in cui sono soliti incorrere i bambini. Nella loro vita, infatti, è spesso presente una particolare attitudine ad associare tra loro immagini separate. Si tratta di un'attività di metaforizzazione che, oltre a configurarsi come un'interessante griglia di lettura per il mondo e, quindi, come un modo nuovo e creativo di organizzare il reale, si profila come una vivificazione del linguaggio quotidiano, dal momento in cui vi introduce più intimità e un pizzico di follia.
Ebbene, di tali equivoci ne risultano piene le lezioni marine del Grifone e della Finta Tartaruga che, nella loro ambigua natura, si offrono quale metafora di un mondo che si vuole connotare come artificio.

8. La corsa circolare del senso.
In un articolo pubblicato nel 1888 ,all'interno di una rivista intitolata << The Theatre>>,Lewis Carroll asserì: "...no word has a meaning inseparably attached to it; a word means what the speaker intends by it, and what the hearer understands by it, and that is all". Questo è uno dei motivi per cui i personaggi di Wonderland sono liberi di decidere quale conferirgli.
"What is a Cacus Race?"said Alice... "Why?" said the Dodo,
" The best way to explain it is to do it"
(20)
Ma pur stipulando un significato arbitrario per ogni termine designato è necessario, affinché vi sia un minimo di comunicazione, che vengano seguite delle convenzioni(21). È quanto accade nel capitolo appena citato dove l'Aquilotto, riuscendo a seguire i discorsi del Dodo, ottiene come delucidazione(22) una parafrasi di questi ultimi:
In that case", said the Dodo solemnly, rising to its feet, " I move tha the meeting adjourn, for the immediate adoption of more energetic remedies".
"Speak English " said the Eaglet: I don't know the meanign of half those
long words, I don't believe you either!"..."What I was going to say" said the Dodo in an offended tone, "was that the best thing to get us dry would be a Cacus Race"
(23)
La risposta che utilizzerà, infatti, agisce come una sorta di procura che sembra enfatizzare una più moderna convinzione in base a cui: "La significazione non è altro che la trasposizione di un piano di li linguaggio in un altro"(24). Quando cerchiamo di giustificare il senso delle cose, infatti, non facciamo altro che intraprendere una corsa circolare in cui ogni parola si lascia definire da un'altra fino all'infinito.
È partendo da questa prospettiva che Gilles Deleuze propone di leggere la Cacus Race, vale a dire questa corsa confusa che non proclama né vincitori né vinti, come un lanciarsi da proposizione in proposizione per fermarsi laddove si vuole, quasi come se la principale preoccupazione dell'autore fosse stata la messinscena dei paradossi del senso(25). È impossibile, infatti, parlare dichiarando il senso che si intende dire; esso è sempre presupposto, ma mai espresso, sempre pronto a divenire oggetto di nuove proposizoni, ma mai definibile(26).
Un'idea della regressione infinita attuata per poter immobilizzare il senso la si riscontra, suggerisce ancora una volta il critico francese, in uno dei passi più significativi di Alice, in cui la Duchessa non smette di trovare una morale per ogni parola pronunciata dalla protagonista.
"I dare say you're wondering why I don't put my arm round
your waist", the duchess said after a pause: " the raison is... that I'm doubtful
about the temper of your flamingo. Shall I try the experiment?"
"He might bite", Alice cautiously replied..." Very true" said the
Duchess: "Flamingoes and Mustard both bith: And the moral
is - << Birds of a feather flock togheter >>.
" Only Mustard isn't a bird" Alice Remarked... " It's a mineral
I think" said Alice: "Of course it is" said the Duchess..." There's
a large mustard - mine near here and the moral of that is:
<>"
(27)
Quel che viene realizzata non è una semplice associazione di idee, bensì è il riconoscimento dello stretto legame esistente tra la logica del senso e la moralità dal momento in cui, osserva Deleuze. "La morale di ogni proposizione consiste in un'altra proposizione che designa il senso della prima"(28).
"Tut, tut child" said the Duchess "Everything's got a moral if
only you can find it"
(29)
Nonostante l'arbitrarietà delle sue asserzioni(30), la Duchessa dimostra di esprimere una buona dose di verità a proposito del suo commento sui suoni e sul senso che, modellato sulla frase:
"Take care of the pence and the sounds will take care of themselves"(31)
si esplica come un invito a prendersi cura di ciò che si intende dire (significato) e di non curarsi dei suoni che il discorso veicola (significante).
La consapevolezza che viene espressa, quindi, è quella secondo cui il compito del senso non è altro che una trascodificazione dei significati. Quel che è più interessante, comunque, è constatare che tale problematica diviene così urgente dacché Alice si ritrova a vivere in un mondo che è assolutamente privo di senso e che l'unico modo per poter parlare di quest'ultimo è quello di costruire un linguaggio che non significhi niente. Un linguaggio che, smettendo di essere meramente denotativo, manifesta, di contro, la capacità di esprimere ciò che intende esprimere e di designare ciò che intende designare perché << Il nome che dice il proprio senso può essere soltanto un nonsenso>>(32).
" Why is a raven like a writing desk?"(33)
Così, pur lambiccandoci il cervello nella risoluzione di questo indovinello, intuiamo che la sua realtà risiede nel fatto che deve essere posta e che, dopotutto, non ha alcuna risposta(34). Ciò per chiarire che solo il nonsenso è capace di esprimere il proprio senso dal momento in cui possiede una realtà che gli è tutta interna e che gli permette di trovare la propria esistenza e la propria giustificazione nel suo stesso porsi(35).
Ha, quindi, ragione Gilles Deleuze quando individua nelle Avventure di Alice una grande rappresentazione dei paradossi del senso, intendendo per questi ultimi: ". ..ciò che distrugge il buon senso come senso unico, ma anche ciò che distrugge il senso comune come assegnazione di identità fisse"(36).
Quella di Carroll, quindi non è altro che una fantastica avventura logico-verbale in cui, elaborando un linguaggio che è sotto molti aspetti insolito ed originale, riesce a rompere l'automatizzazione dei processi percettivi promossa dal linguaggio quotidiano e convenzionale e a offrirci una realtà che, oltre a rinnovarsi e a trasformarsi di continuo, diviene capace di significare.

14. "Prendi un altro po' di tè" disse ad alice la Lepre Marzolina, con un tono molto premuroso. "Non ne ho ancora avuto" rispose lei offesa. "Perciò non posso prenderne un altro po'." "Vorrai dire che non puoi prenderne di meno" disse il
 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Ugo Fracassa
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LA LEZIONE DI ANATOMIA
un esercizio intertestuale
 
"Nous ne faisons que nous entregloser"
Michel-Eyquem de Montaigne, Essais

0
Al lettore avventurato cui occorra - per un sussulto della memoria o solo a orecchio - di riconoscere in un testo l'eco del già letto, s'impone la scelta : farne bottino ad accrescere il proprio culturale bagaglio ovvero, liberalmente, come di un bene comune (l'acqua calda), erogare la scoperta? Aver rintracciato nella prosa di Arturo Loria, narratore carpigiano e solariano, quasi intatto dopo trecento anni un lacerto del corpus poetico-filosofico di Tommaso Campanella - filosofo e poeta di Stilo - ha deciso lo scrivente per la seconda. Un sottile ma tenace filo intertestuale lega - è bene anticipare l'agnizione - "La lezione di anatomia", racconto pubblicato con Il cieco e la bellona nel 1928, al madrigale nono della prima "Canzone in dispregio della morte", apparso nel 1622 tra le ottantanove poesie di Campanella stampate dal discepolo Tobia Adami. Di questa e di altre citazioni - da fonti non solo letterarie - lo studio presente, oltre a comunicare gli estremi, ambisce farsi ragione poiché - con Riffaterre - "l'intertestualità è il meccanismo proprio della lettura letteraria. Essa soltanto, in effetti, produce la significanza, mentre la lettura lineare, comune ai testi letterari e non letterari, non produce che il senso".

1
Il protagonista del racconto, il "nuovo monatto" piovuto dalla campagna all'ospedale e messo a trasportare cadaveri dall'obitorio alla sala anatomica, assiste basito alla dissezione di un corpo :

"Il maestro aprì una borsa di stoffa, ne trasse dei ferri ben taglienti e cominciò a scuoiare un avambraccio partendo dal polso. Arrovesciò i due lembi di pelle. Apparvero, tra la carne, i nervi soprastesi alla giuntura"(1).

Quasi a scherno, volendo dimostrare che "l'alma non sa come s'è fabbricato il corpo", il madrigale nono attacca incalzando :

"Di' : come al buio hai tu distinto l'ossa
i nervi soprasteso alle giunture?"(2).

Come si vede, il prestito s'impone con l'evidenza e la vischiosità(3) del plagio e, tuttavia, non sembra giocare un ruolo decisivo nello svolgersi della narrazione. Esso interviene come prezioso elemento di décor descrittivo ma non muove la diegesi. Emerso come sintomo di una lettura metabolizzata, il reperto ha tutta l'aria di un tic linguistico-culturale, di una criptomnesia.

2
Restando aperto il dibattito circa la caratura di Loria autore, da più parti gli si riconoscono doti di lettore inesausto, capace di trarre profitto - ai limiti del parassitismo - dall'enciclopedia posseduta. Correttamente Alessandro Bonsanti, in una nota del '61, diceva di una "cultura assimilata sino a scomparire", per la quale il reperto campanelliano assume valore esemplare; prima di lui Emilio Cecchi, con accenti di vago monito vigendo l'ipoteca crociana, notava che "un lume riflesso, un'infiltrazione libresca nella sua opera ci sono sempre", per poi concedere: "non si vuol intendere che, pur con ogni grazia, egli sia riuscito soltanto a combinare contaminazioni". Finalmente senza falsi pudori e a conforto di eventuali letture intertestuali, nella più recente introduzione a Il cieco e la bellona Luigi Baldacci afferma: "proprio in questa raccolta Loria dimostra di aver fatto suo il concetto che all'artista moderno non resta altra possibilità espressiva che quella della citazione". La citazione, pertanto, conterrebbe potenzialità non meramente decorative bensì espressive, ciò che occorre fin d'ora appurare per il caso in esame. Innanzitutto e a rigore, una simile performance - recuperare uno sperduto endecasillabo dall'opera del filosofo calabrese meglio noto per l'utopica Città del sole - risulterebbe scarsamente economica se limitata ad un gesto descrittivo. La sua pertinenza, al contrario, risulta ben significativa se, come fa, connota il tessuto linguistico del racconto in senso seicentesco, orientandone così, assieme ad altri indicatori, l'ambientazione temporale. - questa del tempo (e luogo) faccenda tipicamente loriana, dico la sua indeterminatezza e opacità. Se la nebbia delle locations care allo scrittore non impedisce di risalire, per via autobiografica, al fangoso entroterra carpigiano e, per via culturale, ad un orizzonte più latamente padano (come appare, per esempio, in Inferno XX, vv. 79-93 (4)), mancano nei racconti i nomi dei luoghi. Altrettanto vago, come si diceva, il quando, spesso inceppato in un passato recente e duraturo. "La lezione di anatomia" fa eccezione, infatti, anche grazie al plagio, è possibile datare l'azione: da subito la parola 'monatto' rimanda a un indistinto seicento manzoniano, di seguito il teatro anatomico, tempio di una scienza ancora semiclandestina, ricorda il primo costruito in Italia (nel 1591) e conservato nell'università patavina, infine il chirurgo Gregorius si dichiara allievo del Vesalio, attivo (tra l'altro proprio a Padova) tra cinque e seicento.La pluralità di stimoli e rimandi, costruita da Loria attorno al nucleo narrativo della "Lezione", ha sortito un riuso colto - il verso di Campanella - capace di risolvere uno snodo descrittivo e, insieme, di fungere da indicatore stratigrafico dell'impasto linguistico.

3
Accertata la pertinenza citazionale, s'affaccia all'attenzione la sua pregnanza, ovvero l'isotopia che si instaura tra la Canzone in dispregio della morte e il racconto tratto da Il cieco e la bellona in relazione al tema dell'anatomia. - questo, in età barocca, tema cruciale tanto da configurare un genere, spia di quel sentimento metafisico che "An Anatomie of the world", componimento pubblicato da John Donne nel 1611, illustra col puntiglio del breviario(5). Il madrigale decimo di Campanella, quello che segue il più volte citato, ammonisce "l'alma" interlocutrice a non fornire spiegazioni in merito alla fabbricazione del corpo che siano tratte dalla scienza:

"Non mi risponder quel ch' impari altronde
e nell'anatomia, che non è tuo
cotal sapere, ma suo,
di chi t'avvisa (…)"

Fin da ora, perciò, la nuova scienza risulta inadeguata a rappresentare l'umano nella sua interezza. Di più, essa pare minacciarne l'integrità in stretto parallelismo con la rivoluzione scientifica che, con metodo sperimentale, va disgregando in brandelli di specialismo un'episteme riconosciuta. Dell'uomo, già al centro di un universo di cui era misura, restano, dopo la dissezione, le disjecta membra arrese all'osservazione. Resta da chiedersi quale simpatia leghi Loria a Campanella ed il primo novecento al seicento barocco. La domanda più che legittima risulta decisiva poiché non è, il nostro, autore facile a citazioni deboli e decontestualizzate, ma invece fermo ad un criterio di attualità inflessibilmente applicato al pantheon stesso della tradizione letteraria nazionale. Basti la seguente professione di "lettore odierno" tratta dal suo saggio sulla poesia di Lorenzo de' Medici, dove si dichiara "fedele dinanzi alla poesia di chiunque, ad un'intima richiesta per cose che davvero tocchino e muovano". Pur innamorato dell'umanesimo e valente studioso della letteratura italiana quattro e cinquecentesca, lo scrittore di Solaria ha iscritto la propria opera senza remore nella modernità, scontando nell'impossibilità del romanzo(6) la frammentarietà novecentesca. Nel suo mondo letterario, nato all'insegna del picaresco, la critica ha piuttosto ravvisato un' "esagerazione barocca"; egli stesso - con precoce autocoscienza - già nel '28 rivendicava quella 'maniera' che Italo Svevo gli consigliava di smettere: "Riconosco, battendomi il petto, la serietà del Suo giudizio, specie là dove mi addita la necessità di uscire dal mio 'mondo di guitti', ma sento che devo arrivarci per gradi, non correre il rischio di sostituire a un mondo un poco di maniera, uno ancora più falso". Di Campanella perciò, toccava e muoveva l'interna contraddizione tra vecchio e nuovo (rinascimento/barocco, pensiero controriformistico/istanze della Nuova Scienza), contraddizione intimamente sentita dal narratore di Carpi che, pur educato nel culto della classicità ( in un appunto del marzo '42, a proposito di ermetismo si legge: "io mi sento sempre più fuori dall'odierno mondo letterario. Sogno tragedie greche"), non esita a surrogare ispirazione con citazione.

4
Scontato il veto di Croce, per il quale il barocco era nient'altro che "una varietà del brutto", l'interesse per la cultura del secolo decimosettimo si è rinnovato grazie all'apporto , tra gli altri, di studiosi quali Praz, Raimondi, Anceschi. Proprio la pratica e la teoria della citazione accomuna il seicento alla produzione artistica moderna e postmoderna, tanto che le nuove teorie dell'intertestualità trovano nel trattato di eloquenza Agudeza y arte de ingenio di Baltazar Graciàn un solido riferimento. Al capitolo "de los conceptos por acomodaciòn de verso antigo, de algùn texto o autoridad", dal letterato gesuita interamente dedicato alla casistica intertestuale, si legge: "Cuantas mas son las correlaciones del texto, acomodado con las circunstancias del sujeto, es mayor el concepto y mas fundamental"; come a dire che, nel plagio loriano, ciò che conta è che la ripresa verbale corrisponda alla coincidenza tematica(7). Da questo punto di vista, l'espediente retorico in esame riesce particolarmente 'concettoso' nella misura in cui, attraverso l'aderenza letterale all'ipotesto, rimanda al topos anatomico. In tal modo il narrato si apre su un orizzonte speculativo (sul quale torneremo in conclusione) capace di fornire un ulteriore livello di lettura ad un racconto solo apparentemente centrato sui facili effetti dell'orrido.

5
Sennonché il ritrovamento di cui si è data notizia fin qui, esercitandosi a coglierne le implicazioni di lettura intertestuale, non esaurisce lo sfondo culturale sul quale appoggia la "Lezione". Nessuna sorpresa per chi concordi con Bachtin sulla natura pluridiscorsiva della lingua e sia al corrente del fatto che parole ed espressioni sono quasi sempre "di seconda (terza, quarta, ennesima) mano". Il racconto ci presenta il fantomatico Gregorius che, "sbucato improvviso da una sua stanza attigua, salì in cattedra". Non diversamente Andreas Vesal, medico e scienziato fiammingo del quale il personaggio si professa discepolo, descriveva nel 1543 la tipica lezione di anatomia : "Quest'ultimo [lo scienziato] è appollaiato su un alto pulpito come una cornacchia e, con fare molto sdegnoso, ripete fino alla monotonia notizie (…)". Pure Gregorius, sceso nel fondo del teatro, ricorre ad un formulario verosimilmente standardizzato: " 'Come vedete, signori …come vedete', e all'intercalare aggiungeva in sunto quanto aveva già esposto". Quanto si vuole affermare è che lo stesso Campanella - con ogni probabilità - giunto frammezzo a più astratte elucubrazioni alla materia anatomica, mutuasse quei "nervi soprasteso alle giunture", come le "tante varie testure / di vene", "le fibre e legature", il "bodel" che "si piega stringe e ingrossa" da un consolidato gergo specialistico. Tanto più che, come scrive M. L. Altieri Biagi: "Quando la ricerca scientifica è concepita come filo-sofia,nel senso sei-settecentesco della parola (…),anche la lingua che l'autore usa per discorrere con se stesso e per comunicare con gli altri non è strumento inerte, ma mezzo con cui la mente cerca di dare ordine a se stessa"(8).
Ma veniamo all'altra fonte - in verità meglio nota e presente alla memoria (visiva)- per la quale "La lezione di anatomia" nonché plagio vuole essere alluso omaggio. La scena: attorniato da spettatori nerovestiti, il chirurgo - per mezzo di una pinza?-"tirando i tendini mostrò come si muovevano le dita". Se Loria non fa cenno allo strumento, è Rembrandt a ritrarlo ne "La lezione di Anatomia del Dr. Tulp" (1632), secondo ipotesto e pittorico cui occorre riferirsi(9). La derivazione dal dipinto, eseguito per la gilda chirurgica di Amsterdam in luogo della commissionata e più tradizionale galleria di ritratti, è, anche stavolta, manifesta e, oltre a riproporre l'allusione al genere anatomico nella cultura del seicento, induce a interrogarci circa l'importanza della citazione nella scrittura di Loria.

6
Qui bisogna tornare alla lettera del testo e citare dal finale quando, rientrato dalla sua donna, l'apprendista monatto, "con aria di uomo che ha una sua vita piena fuori di casa, si mise a raccontare com'era fatta una lezione di anatomia. Il racconto inorridiva la poveretta ma il monatto godeva che, a poco a poco, l'orrore si partiva da lui". A questo punto egli si prova a citare le formule e i termini orecchiati a lezione:

"Qui volle dimostrare che ricordava le parole del Gregorius dal momento che le aveva capite anche lui e perché ne imitava il tono credette di ripeterle. Con un sorriso vago ai suoi perduti timori disse: '…Come vedete, signori, il morto è fatto così' ".

In altre parole, per comparire sotto finale la citazione si fa argomento, tra gli altri, del racconto, aggiungendovi un'ulteriore chiave di lettura, un livello metaletterario. Da forma a contenuto, da strumento retorico a tema, l'intertestualità ha ne "La lezione di anatomia" la sua ribalta. Ma, pare dire l'autore, si da citazione e citazione e una minima fenomenologia deve saper distinguere almeno tra buona e mala. "Pietra di paragone della scrittura", la citazione permette di cavarsela, serve a sbarazzarsi del già detto; essa "ha lo statuto di un criterio di validità, di un controllo dell'enunciazione, di un dispositivo di regolazione (…) della ripetizione del già detto; se buona qualifica, se cattiva squalifica"(10). La stessa tesi espressa in teoria da Antoine Compagnon appare drammatizzata nella "Lezione". Da una parte, infatti, l'incolto monatto tenta di sbarazzarsi di nozioni subite e imparaticce sforzandosi velleitariamente di ripetere, e lo storpia, il dettato traudito del Gregorius(11); dall'altra, Loria testimonia, con la facilità/ felicità del riuso, una lezione assimilata, una cultura condivisa, metabolizzata, fatta natura e riemersa per un soprassalto di memoria. La dissezione, del resto, sopporta una lettura allegorica(12) che abbia come termine altro quello di citazione: entrambe smembrano e decontestualizzano. Se la seconda, con Benjamin, "salva e punisce la lingua", la prima paga con lo scempio dei corpi il progresso scientifico.

7
Arturo Loria per lunghi anni è stato voce italiana di Bernard Berenson, traducendo costantemente quanto si andava pubblicando sul Mondo Forse compensando la propria impossibilità a fornire l'opera (il lutto mai elaborato per il romanzo perduto), il narratore fiorentino d'adozione si è infiltrato nel corpus degli scritti del critico quasi parassitandolo. Berenson era per lui l'umanista, ultimo portatore di un sapere olistico, somigliante perciò "a un maestro di fisiologia che sia conscio di come il laboratorio tenda spesso ad allontanare i ricercatori da un concetto unitario dell'uomo"(13). Davvero questa similitudine chiude il cerchio e ci conferma nell'ipotesi circa le connotazioni del tema anatomico dal seicento di Campanella al novecento di Loria.
Dalla macroscopica proliferazione di mondi e dalla parcellizzazione anatomica che segnano la crisi epistemologica del XVII secolo - il De revolutione orbium di Niccolò Copernico data 1543 come il De humani corporis fabrica di Andreas Vesal - e dalla microscopica scissione dell'atomo e della psiche - la Traumdeutung apre il novecento - sortiscono epoche affini per dubbi, eresie, relativismo. Così, non senza un brivido di contemporaneità, John Donne nella sua "Anatomia":

And freely men confess, that this world's spent,
When in the Planet, and the Firmament
They seeke so many new, they see that this
Is crumbled out againe to his Atomis.
'Tis all in pieces, all cohaerence gone;
All just supply, and all relation(14).

NOTE

1) Il corsivo è mio.
2) Idem
3) Il termine, nell'accezione inaugurata da Cesare Segre in Esperienze ariostesche (Pisa 1966), indica le coincidenze verbali di ampi segmenti discorsivi, prova inconfutabile di un rapp
 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Alfonso Cardamone
[ a.cardamone@email.it ]
 
POESIE
 
a cosce aperte

a cosce aperte e lo sguardo ebete tra
i rododendri e lo splendore
del borgo stava medievale ad oscurare
dell'abuso la coscienza e l'indifferente
mare

castiglione della pescaia (borgo)
aprile 2000


immagine per strada

non mi dispiacque incrociare a mezze scale
la ferita crepuscolare delle labbra
gli occhi declinanti come lune
oscure sopra la schiuma evanescente
chiara dell'accidia che il giorno frange
e si ritrae
 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Gario Zappi
 
HORROR VACUI (1997)
 
I
musica, in questo mondo biondo-plastica
non certo vaporata, tordo dall'ala trafitta e porte
serrate, agro il tempo raffermo, un fremito
l'aria: e non c'è scampo allo specchio circon-
flesso:

II
s'appiglia a svanite eventualità, minute lacerazioni e
voci rauche, asindoti distorti, tarla
le passioni pregresse, sopprime
le possibilità: "Perché di là non si sono ancora
accorti del Tempo che sfugge negli anfratti, nelle
screpolature del
così aliano i falchi sulla Casa del Tiglio, rivive
la tua voce al focolare e, trafitti

III
quasi incerto l'itinerario del compianto, come dilegua
al frangersi greve dei flutti l'irrisoria sequela
degli eventi: e il Tempo è nullo. Ora Proteo occhieggia
tra le righe come al cielo la vita troncata, al sereno
di un volto svanito il tepore;

IV
perché è vero che questo non sono quasi più
io; se poi, in bilico, recedo all'insperato tratto
di corda acuta, uncino od obolo
che mi separa, se poi impluvia sull'anima
rescissa e disusata, è quasi vero che
permane nello sguardo il calco di gesso
della voce

 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Michele Pisicchio
[ a.m.pisic@iol.it ]
 
(ALMANACCO?) (SCHEGGE?)
 
1
6 del pomeriggio
Due vecchietti bianchi bianchi si tengono per mano
semaforo rosso - via Salaria
Bianchi e uguali uguali.
Verde
uno è storpio. Non sono poi neanche così uguali.

2
Una di notte.
Il moretto vestito tutto di bianco
(non siamo mica a Marrakech!)
beve alla fontanella.
Mi fermo, bevo un sorso del suo sguardo.
"Sai che ore sono?" - "No!"
"Scusa…" - "Prego."
Taciuta "…per la banalità".
Omissione fondamentale:
1. Non raggiunto lo scopo
2. Il banale sono io.

(identificazione del soggetto con l'omissione)

3
Mezzanotte
Sbattersi:
girare in macchina in due o tre posti conosciuti dove guardare i ragazzi
tornare a casa senza aver trovato cazzi
(al buio non si trova
e nemmeno si vede niente).
Al mattino dire:
"Mi sento sbattuto".

4
cinema ore 23.00
Bel ragazzo, delicatamente vellutato di peli neri, occhi dolci.
Disposto a farlo, purché in fretta, con chiunque…
comunque sceglie.
Palpeggiamenti.
"Me lo prendi in bocca?" (con tenerezza)

"N…no" (mentre mastico la scipita gomma)

Eliminazione dell'erotismo
(approccio, preamboli, ecc.: atteggiamento molto cristallino e virile)
come nel film
(porno con pretese culturali - boh!)

Si consuma in fretta e in fretta è
l'accenno di un saluto.

5
6 del pomeriggio
l'ultimo sole della giornata
tiepido delicato dorato.
Due ragazzi si abbracciano sulla spiaggia
si toccano e si accarezzano delicati.
Come mi piacerebbe leggerla
un'immagine desueta e dolce,
ma non riesco ad ignorare il terzo ragazzo
che seduto accanto a loro chiacchiera
tranquillamente gesticolando.

Solo.
…………………………..ma va bene così.

6
Uomini soli on the beach
Ostentazione del corpo-richiamo
Nudo come simbolo,
quindi assenza del corpo:
la spiaggia, 'una foresta di simboli'.
Il sesso galleggia al primo pomeriggio
come il calore visibile sulla sabbia
che rende tremanti di fuoco quei nudi
e non si posa mai.
Solo occhi complici
Solitudine ontologica

7
Marco il fotografo ha fretta:
"Sono quasi le cinque!"
messaggi parole intrecci discorsi legami ancora aperti
stiamo per salutarci gli sfioro la schiena lui risponde:
"Allora mi chiami?"
e torno a casa leggero ma ignoro
ancora
che il numero di telefono è volutamente sbagliato.

8
metropolitana ore 20.00
uno sporco maleodorante grassone si piazza di fronte ad una bella ragazza di colore facendo oscenità.

Giunto alla mia fermata scendo

9
8.30 del mattino
il medico del laboratorio di analisi
- cicatrice sull'occhio sinistro -
(mai incontrato precedentemente)
parla disinvoltamente di sé e di "certi suoi amici"
(ammiccando) seduto (camice aperto) sulla scrivania
………………………………………………
approfitto di un - suo - attimo di pausa per porgere
la mano e salutare

10
sospensione del giudizio
non c'è variazione di entropia
il sistema è in equilibrio
il tempo diventa isotropo

11
il vecchio ossuto
aridi e lunghi peli grigi dal naso, occhi golosi e isterici affossati in livide occhiaie
un rasoio in mano
mi scopre la pancia e il pube
e ancora di più e guarda ossessivo
con un impercettibile sorriso mi rade dove dopo due ore
mi avrebbero operato.

12
settembre 91 ore 21.30
in rosticceria ordino per due
ma a casa non ho nessuno con cui cenare

13
al cinema, seduti all'ultima fila
Antonio il greco laureando in medicina
puzza di vino.
Nemmeno sfiorato
……….chiacchierata stentata sul suo amore perduto.

14
All'inizio del secondo tempo 'occhiali scuri' ("Ti do fastidio?") mi si siede accanto
Poggia la mano destra sulla mia coscia quasi scottasse ("Ti do fastidio?") mentre la sinistra - intuisco - s'agita vorticosamente
E il lungo collo protende e la testa occhialuta ad annusarmi ("Ti do fastidio?")
"N…no, no, scusa, non mi sento bene"
lo scavalco ed esco.
A 'occhiali scuri' puzzava l'alito!

15
Una inequivocabile pressione in autobus. Uno sguardo.
"Hai casa?" "Che ti piace fare?" "Ho solo dieci minuti" "Togliamoci i pantaloni!"
- mi tremano le mani e la voce (è quasi un bambino!)
"È bello, eh?" "Ti piace?"
guinness dei primati: 3' 30'', il fiore non colto mi lascia un amaro…
il fascino del primate: il diciottenne Marco ha l'esile corpo interamente coperto di peli
"Ciao, eh!"

16
dark-room 1
perché mai sarà così buio se poi si cerca di vedere a tutti i costi in quali mani si rischia di cadere…!?

17
dark-room 2
immobilità statuaria col culo protetto dal muro e il cazzo serrato nelle mani:
cosa mai ci faranno lì a respirare (a fatica) un'aria amara di sigarette e umida di sudore?

18
ancora dark-room
serie infinite di approcci interrotti
in un silenzio chiesastico e teso.
Echeggia una scorreggia slabbrata:
qualche risolino sommesso
qualche fuga.
Ma non era qui il senso?

19
Piccoletto, capelli sparpagliati biondicci, seccaccio
Un po' nervoso, quasi distrattamente soppesa e misura
tutti - lì, ovviamente
con gesto assai discreto della destra
mentre con l'altra mano fuma da principiante.
Valuta la dimensione
che potrebbe scaldare
le sue scarne ossa.

 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Giovanni Marini
 
SECONDA VISITA
 
Riguardo l'ultima situazione e preoccupazione a
Vincenzo professore dormiente più oltre diciamo
che è andato concluso tutto bene
defunto nel millenovecentocinquanta
quattro


 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Igor Traboni
 
FANTASTICA MALINCONIA
 
FANTA, t'ho detto
Fanta - m'hai detto - non t'azzardare!
E se l'amicizia non fosse anche velo, sarei già finito a quel paese
(ma tu sai il paese mio? Chi conosce il paese suo? Nessuno è profeta in patria,
neanche il paese)
FANTA, intendevo, bollicine gialle che piluccano memorie di bambino, da bambino.
E allora, perché non dirlo?, perché non riconoscerlo?, davvero fantasticavamo.
Altro che adesso,
naufraghi di coca-cole da improbabili liceali trent'anni dopo,
di birre alla spina e feste di partito, di champagne e spumante da matrimonio, nascita del primo
e unico figlio,
promozione sul lavoro
e via via via.
E poi adesso la fanno anche amara
Fantastico gusto, unico, della malinconia.

 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Francesco De Napoli
 
SPIRITI PRIMORDIALI
 
"...non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma
smorta...
" (Isaia, 42, 1-4, 6-7)

impertinenti
di ciclopiche mura
prigionieri
contempleranno forse
- sprezzanti ? -
il vuoto mistero,
infrarossi
e specchi d'illusione
miserevoli:
pretendere d'abbattere
l'effige
del dolore.


 


 
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Gario Zappi
 
DE RE TRADITA (1998-1999)
 
I
pigolio di vento, certo il graffito, il petroglifo
dell'esistenza incupita, il retaggio (in via Centotrecento),
il serto di sfolgoranti agnizioni, lo sterro, la frangia
dei capelli nero-corvini, il bastone, la palude, il lungo
viaggio dell'uomo senza nome, irreparabile ,ora

II
ma tu, che volubile trami la tela del Fato, osserva
il certo lapillo del cielo, dilegua al nome-libro, all'albero-nome
il cristallo sereno, al nero corvo d'Apollo dona
il serto di venturi prodigi - clipeo, orma, foiba:
eclissi passata o imperativo futuro?

III
e le falde, le radici dalle fini screpolature del
cemento, il salnitro, il fluire della melma: e
Irinea: diàclasi di tema e rema, infranti

IV
sicché: poco ci resta, o mia Delia, del tempo
trascorso, nel calamaio sempre più vuoto, al
picco, all'irto picco che cola per una dedica
errata, per uno sguardo che, velato, la stratosfera
esilia, per te, messaggera dell'amarezza
del mare, per te, rediviva:

V
implosioni di significato che non intende - il
balbettio, il borbottio, l'infantile

VI
e, recidiva, qui, tra i profili dei monti
noverchi, in questo sogno di bianchi giganti
che lesinano il grano - perché? - bradisismi, grotte tenarie,
meati di labirinti - perché? - spiracoli di … spelonche
in cui le Esperidi occultavano i pomi d'oro,
tra le piramidi tronche, tra le tronche piramidi
di Guimar: tat tvam asi

VII
obnubila il tuo viso e sgraffia, sgraffia il
salino licore, il livore ed io, certo, il
compassato esecrato rimpianto, ed io
imperturbato al certame di luna franta, di Irinea
de-gustata. de-classata cassata, de-flagrata
de re tradita nella nostra vita e lo sguardo
re-tratto, ri-tratto, de re affranta, defranta,
rifranta nella nostra vita

VIII
ciò che saremo è un dileguarsi lento
di giorni, ciò che vedremo, ciò che
vedremo:
un cielo, un volubile segno in cui
vivere di trasposte simmetrie e
ritrovarsi nel
cielo della tua follia, nella mia mente come
voci di chiavistelli le tue, come voci
riflesse che scorgo di lungi, le lettere
trafugate

IX
quale incolpevole Orizia rapita dal temibile Borea
la barca (letto e conchiglia) deriva e tu, che certo reclami
declami la luce, il certo barbàglio, le stelle, così
inconcluso, così recluso, affranto, così de-franto, tu,
che volubile rischiari il mio limes, il senso della fine

X
nodoso verro il verno, il mio stesso tempo, libellule
dal fremito lieve i polpastrelli ratratti, rinverdisce,
come al ceraso scherno, raffermo

XI
o Enlil, o Enkidu che sfiori, divergi per occidue
citeree frane d'uccelli lira, per frange d'ocelli
e palpebre folte di densi presagi, o Enlil, o Lilith, o tu
che in bianchi chitoni di rose, uccelli che a volo radente
in cune di sogno fremono, unicorni grafie segrete, segni
dell'anima, o Lilith, o Enlil, grafemi di cielo abbacinanti
nel fondo pneuma, citeree vetustà di colombelle voraci:
e il sogno del dio, all'inclito nome, al numen che in afro-disio
trasmuta, de-flagra

XIII
Volubili bande, strisce di
 


 
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Else Lasker-Schüler
 
CHRONICA
 



CHRONICA
(Meinen Schwestern zu eigen)

Mutter und Vater sind im Himmel
und sprühen ihre Kraft
An singenden Fernen vorbei,
Auf spielenden Sternen vorbei,
Auf mich nieder.
Himmel bebenden Leidenschaft
Prangen auf,
O, meine ganze Sehnsucht reisst sich auf
Durch goldenes Sonnenblut zu gleiten!
Fühle Mutter und Vater wieder keimen
Auf meinen ahnungsbahngen Mutterweiten.
Drei Seele breiten
Aus stillen Morgenträumen
Zum Gottland ihre Wehmut aus.
Denn drei sind wir Schwestern,
und die vor mir träumten schon in
Sphinxgestalten
zu Pharaonzeiten.
Mich formte noch in Weltenschoss
Die schwerste Kunsterhand.
Und wisset, wer meine Brüder sind!
Sie waren drei Könige, die gegen Osten zogen
Dem weissen Sterne nach durch brennenden
Wüstenwind.
Aber acht Schicksale wucherten aus unserem Blut
Und lauern hintern unseren Himmel:
Vier plagen im Abendrot,
Vier verdunkeln uns die Morgenglut,
Sie brachten über uns Hungernot
Und Herzensnot und Tod!
Und es steht:
Über unserem letzten Grab ihr Fortleben noch,
Den Fluch über zu weben,
Sich ihres Bösen zu freuen.
Aber die Winde werden einst ihren Staub scheuen.
Satanas miserere eorum!!

CHRONICA (traduzione di Mario Amato)
(Alle mie sorelle)

Madre e padre sono nel cielo
e su me la loro forza irradiano
verso remote lontananze canore
verso trascorsi giochi di astri.
Brillano tremanti di passione
firmamenti, il mio desiderio si lacera
di scivolare attraverso sangue solatio!
Sento padre e madre germogli
sulla terra dei miei presagi di madre.
Nei silenti sogni del mattino
tre anime spiegano il loro dolore
verso la terra di Dio(1).
Tre sorelle noi siamo,
e quelle prima di me sognarono
nella valle della Sfinge
i tempi del Faraone(2).
La mano grave del poeta
mi formò nel grembo del mondo.
Sappiate ancora chi i miei fratelli sono!
Tre Re erano, che dall’Est vagarono
attraverso il vento riarso del deserto
verso candide stelle.
Ben otto destini proliferarono
dal sangue nostro
e al di là dei firmamenti
attendono:
quattro ci assediano
fra il rosso dei tramonti
quattro ci oscurano
la fiamma dei mattini,
un destino di fame ci arrecano
e penuria d’amore e morte!
Sta scritto:
la memoria sulla nostra ultima pietra
a tessere su tutto il mondo la maledizione
a gioire della loro malvagità.
I venti infine eviteranno la loro polvere.
Satanas miserere eorum!!

NOTE
1) La terra di Dio non è soltanto Israele, è la poesia stessa.
2) Il Faraone non è qui il simbolo dell’oppressore, poiché Else Lasker Schüler visse il sogno della riconciliazione fra le tre grandi religioni monoteistiche.
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Fernando Mastropasqua
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UN'ARMATURA E IL MITO DEL LOCUS AMOENUS
il fantasma di Re Amleto
 
FANTASMA - Ora, Amleto, ascolta. E' stato detto che mentre dormivo nel mio giardino un serpente mi punse; così l'intero orecchio della Danimarca è da un falso racconto della mia morte volgarmente ingannato. Ma sappilo tu, nobile giovane, il serpente che punse la vita di tuo padre ora ne porta la corona (I, 5, 34/40) (1).
Il fantasma riporta la versione ufficiale della morte di Re Amleto, affermando che il serpente è solo una figurazione per proteggere il vero responsabile, il fratello Claudio, ora nuovo re. L'equivalenza serpente=Claudio può essere accolta senza difficoltà da Amleto che ha poco prima descritto suo zio come satiro che danza selvaggiamente: AMLETO - Il re fa veglia stanotte e leva il bicchiere, brinda e si scatena in sfrenate danze, e, come tracanna sorsate di vino del Reno, il tamburo e la tromba sbraitano a questo modo il trionfo dei suoi brindisi (I, 4, 8/12); e, durante il primo monologo, confrontandolo con il padre, ha esclamato: Un re così eccellente, che stava a questo come Iperione a un satiro (I, 2, 139/140). Poiché il satiro incarna la natura diabolica di Satana, il gioco delle corrispondenze è facile: serpente=Satana/Claudio=satiro // satiro=Satana/serpente=Claudio.
L'immagine del serpente non può non evocare l'archetipo del tradimento: il gesto di Claudio rinnova l'antico di Caino. Egli stesso richiama la scena biblica, quando, accusando Amleto del suo innaturale persistere nell'afflizione per la morte di suo padre, lega quel morto al "primo morto", Abele:
RE - Ma via, è colpa contro il cielo, colpa contro i morti, colpa contro la natura, del tutto assurda alla ragione, il cui tema comune è la morte dei padri, e che ha sempre gridato dal primo cadavere fino a colui che è morto oggi: Così deve essere. (I, 2, 101/106). Rivela in tal modo di essere ossessionato dallo stesso pensiero del nipote. Inserire il cadavere del proprio fratello nella catena che principia da Abele per liquidarlo nel ciclo della sorte comune si dimostra, dato che il primo morto fu assassinato, contraddittorio. Il tentativo di allontanare sospetti risulta maldestro e ingenuo al punto da ribaltarsi in ammissione di colpa nei confronti di una morte che si vuol far passare per accidentale. Quella del mascheramento, del resto, è un'arte in cui Claudio, a differenza dell'astuto e protervo Fengone, equivalente protagonista nella storia di Saxo Grammaticus(2) si rivela particolarmente incline quanto inetto. Si affida a Rosencrantz e Guildenstern per mandare Amleto a morte in Inghilterra, ma la congiura ricadrà sulle teste dei traditori. Si affida a Laerte per farlo uccidere nel duello finale. La sua natura di serpente lo spinge a non correre rischi e ad assicurarsi l'esito desiderato, avvelenando, oltre la punta della spada di Laerte, la coppa di vino da offrire ad Amleto durante gli assalti. Il suo carattere subdolo è accentuato dalla platealità con cui immerge nel vino il veleno in forma di perla, che era augurio di lunga vita. Amleto morirà, ma anche Laerte, Gertrude e lui stesso.

L'associazione serpente/Claudio/Caino e, di conseguenza, Re Amleto/Abele, dimostra che Shakespeare ha voluto richiamare allo spettatore la situazione originaria in cui maturò il primo delitto. L'omicidio perpetrato dalla mano di un fratello è elemento costitutivo dell'origine del mondo e della nascita dell'uomo, tanto più che qui l'omicidio viene compiuto nel giardino dell'Eden prima della cacciata. La presenza e l'alleanza tra il serpente e la donna (Claudio e Gertrude) tendono a far considerare l'omicidio come la causa della cacciata. La disobbedienza di mangiare il frutto dell'albero della conoscenza apre le porte al delitto. Addirittura per associazione si deve supporre che la conoscenza è coscienza della possibilità di uccidere. Il serpente ha avviato l'umanità al delitto. L'albero non custodiva la sapienza, ma la tracotanza di un sapere che conosce soltanto la potenza dell'omicidio.
Il racconto del fantasma rafforza l'immagine del giardino come Eden, luogo di delizie e serenità. Il termine orchard, usato da Shakespeare (Oxf. Engl. Dict.), rievoca alberi da frutto, piante fiorite, prati d'erba, dove è possibile appartarsi e godere tranquillamente degli aspetti più amabili della natura. In Saxo il prato come locus amoenus alletta anche Amleto: Lì preso dal bell'aspetto del luogo, mentre il lieto mormorio di un ruscello gli conciliava il sonno, Amleto si lasciò andare al riposo, ordinando però ai suoi di mettersi di vedetta da lontano (IV, I, 13). Re Amleto si abbandona ugualmente al sonno senza timori che quel luogo di pace possa accogliere il tradimento: FANTASMA - Mentre dormivo nel mio giardino, mia abitudine sempre nel pomeriggio, nella mia ora sicura, tuo zio entrò di soppiatto con il succo del maledetto giusquìamo in una fiala, e nei padiglioni dei miei orecchi versò la lebbrosa essenza. (…) Così fui io, mentre dormivo, dalla mano di un fratello, della vita, della corona, della regina in un istante privato, falciato nel fiore dei miei peccati, non comunicato, impreparato, non unto, il bilancio non fatto, ma mandato alla resa dei conti con tutte le mie colpe sulla testa (I, 5, 59/64 e 74/79). La storia è già in Saxo Grammaticus: Appena si presentò l'occasione del fratricidio, Fengone si insanguinò le mani e saziò il suo funesto desiderio. Poi fece sua la moglie del fratello ammazzato, e aggiunse al fratricidio l'incesto … tentò di celare l'atrocità commessa, da giustificare il suo delitto fingendo di averlo fatto con buone intenzioni e travestendo il fratricidio da gesto di compassione. Andava dicendo infatti che Gerutha … aveva dovuto subire dal marito la più violenta avversione, e che per salvarla lui aveva ucciso il fratello, dal momento che gli sembrava una vergogna che una donna così dolce … dovesse continuare a sopportare il peso dell'arroganza del marito. La storia raggiunse il suo scopo e convinse (III, VI, 5). Nel resoconto ufficiale la presenza del serpente imponeva, del resto, direttamente l'immagine dell'Eden. Il fantasma non dà una versione diversa, la decifra, ne offre la chiave interpretativa; in sostanza la conferma, facendo notare che è stata divulgata in modo capzioso. Claudio non è altro che una maschera di Satana: ha tentato Gertrude come il serpente Eva, ha ucciso il fratello Amleto come Caino Abele. Del mondo come giardino del delitto dove il fratello uccide il fratello Amleto ha perfetta coscienza, se collega la morte del padre e la troppa frettolosa consolazione della madre alla condizione di fatto del mondo come Eden guasto: AMLETO - Oh Dio, Dio, come consunte, stantie, viete e futili sembrano a me tutte le usanze di questo mondo! Schifo, oh schifo! E' un giardino non sarchiato che va in seme; cose marce e volgari lo posseggono completamente. (I, 2, 132/137).
Ma il fantasma compare in armatura da guerra: ORAZIO - Quella era la stessa armatura che portava quando combatté contro l'ambizioso Re di Norvegia (I, 1, 64/65). Amleto guarda con sospetto il fatto che il fantasma di suo padre sia apparso in armi e lo giudica segno di macchinazione: AMLETO - Armato, avete detto? / TUTTI - Armato, mio signore. / AMLETO - Dalla testa ai piedi? / TUTTI - Dalla testa ai piedi, mio signore (I, 2, 224/227); AMLETO - Lo spirito di mio padre in armi! Nulla va bene. Temo qualche sporco inganno. (I, 2, 254/255). Nelle gesta raccontate da Saxo è descritta una situazione non troppo dissimile, nella quale rivestirsi di ferro serve per sfuggire a un agguato: Ulvilda prese a insinuare nei pensieri del nuovo marito (Scotto) l'idea di uccidere Frothone e conquistare il regno danese. (…) Quando si accorse che le orecchie del marito erano sorde a questi progetti, Ulvilda cambiò l'oggetto dei suoi intrighi, passando dal fratello al coniuge, e pagò dei sicari perché gli tagliassero la gola mentre dormiva. Scotto venne a conoscenza del complotto grazie a un'ancella, e, quando venne la notte in cui sapeva che sarebbe stato eseguito l'ordine di assassinarlo, andò a letto rivestito della corazza. Ulvilda gli chiese perché avesse rinunciato alla camicia che usava di solito quando andava a dormire per indossare quella veste di metallo, ed egli rispose che era un capriccio del momento. Quando pensarono che fosse immerso nel sonno, gli strumenti del complotto fanno irruzione: allora Scotto saltò fuori dal letto e li uccise. In conseguenza di questo episodio, distolse Ulvilda dall'ordire intrighi ai danni del fratello, e offrì agli altri uomini una testimonianza sull'opportunità di temere la perfidia delle mogli. (II, II, 12).
Il racconto di Saxo, pur non appartenendo alla storia di Amleto, non è privo di rilievo per il testo di Shakespeare. Da una didascalia del I in quarto(3) sappiamo che la seconda volta il fantasma, quando compare nella camera di Gertrude, non indossa l'armatura ma la camicia da notte (nightgown). Dobbiamo supporre un gioco, nella duplice apparizione, tra armatura e camicia, così come nella storia di Scotto e Ulvilda. Del resto "in battuta" Amleto descrive gli abiti della seconda apparizione del fantasma come familiari: AMLETO - Ma guarda là! Guarda come va via furtivo. Mio padre, nella veste che usava in vita (in his habit as he lived). (III, 4, 138/139). L'allegoria non riguarda solo l'assassino ma anche il luogo. Il delitto è stato commesso nel giardino? O nelle camere da letto di Gertrude, che per Re Amleto era il suo hortus deliciarum, l'Eden, il luogo della sua ora sicura?(4).
Nella prima apparizione del fantasma l'ossimorica unione dell'armatura al mito dell'Eden consacra nell'immagine che prende vita sul palcoscenico la visione del mondo come luogo di guerra e di violenza fin dall'origine. La scomparsa del giardino incantato(5) e il suo rovesciamento nel luogo dove l'uomo scopre la propria tendenza naturale al crimine è qui già posto da Shakespeare per mezzo di una crasi che ambienta il primo delitto nell'Eden prima della cacciata. Donna e serpente infatti dislocano e fondono l'uccisione di Abele con la tentazione a cogliere il frutto della conoscenza. Venire al mondo è nascere all'omicidio.
Il fantasma è configurazione di quel destino che sotto molte forme, spesso familiari, prepara distruzione e avvia alla morte; è il meccanismo stesso della storia, una incarnazione del male che ingombra il giardino del mondo, una mascherata (il padre in armatura da guerra) che diffonde terrore, sostanza fatta d'aria come la peste e che, come la peste, falcia invisibile intere città. Ma non è il fato o esalazione dell'inferno: è il mondo tessuto dalla storia degli uomini. All'immagine della creazione per mano divina si sostituisce quella per mano dell'uomo: RE - Ma se anche questa maledetta mano si fosse ingrossata col sangue del fratello, non c'è pioggia sufficiente nei dolci cieli per lavarla bianca come la neve? (III, 3, 43/46). Non il gesto che fa scaturire la luce ma quello che spegne la vita. Il nascere è morire per mano del fratello. Il fantasma ricorda ad Amleto che il mondo sorge da un atto di morte. Quale vita può nascere dal sangue versato? L'oxymoron contiene la visione tragica del teatro come luogo che racconta la perdita originaria della vita: Il sangue di tuo fratello grida a me dal suolo. (Genesi, 4, 10).
Amleto chiama il fantasma a questionable shape (I, 4, 43), una forma che sollecita interrogativi. Esso infatti è forma di quel sangue che ha corrotto per sempre il mondo, la "rappresentazione" di quell'urlo. Come nel Giulio Cesare la lingua di Antonio dà voce alle ferite mute del cadavere di Cesare. ANTONIO - Guai alla mano che versò questo sangue prezioso! Su queste tue ferite io ora profetizzo, che come bocche aperte con labbra di rubino implorano che la mia lingua gli dia voce e parola …(III, 1, 258/261), il fantasma dà corpo al grido del sangue di Abele: RE - Oh, il mio crimine è marcio! Puzza fino al cielo. Porta su di sé la prima e più antica maledizione, l'assassinio di un fratello. (III, 3, 36/38).

NOTE
1) Il fantasma del padre di Amleto è un enigma. In questo breve intervento intendo porre l'attenzione più che sulle discordanze su un dato che non può essere contraddetto. Al di là delle molte ipotesi si deve convenire come i
 


 
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Giovanni Guerrieri
 
PRÒSOPON E GORGÒNEION
tracce di uno scontro arcaico sul volto dell'attore
 
Sileno: l'arcaica maschera comica, mostruosa, senza tempo. Il satiro ghignante in cui risuona l'eco selvaggio del gorgòneion (1),il monstrum latino, orribile e fascinoso. Un antico, terribile monito. Sileno: il volto che l'uomo assume per ricongiungersi all'eterno, per astrarsi dall'incessante movimento del tempo. Un volto mostruoso, fatto disegni ossimorici. Libertà e paura, follia e ragione, riso e pianto convivono in questo amplesso fuori dal tempo. Perché dove il tempo non scorre, nella physis, Tutto "è" contemporaneamente. E il monstrum è quel Tutto, incessante metamorfizzarsi delle forme (2).
La maschera chimerica tesse con la vita dell'uomo un ambiguo legame: se dà un lato se ne separa radicalmente, in virtù del potere metamorfico che custodisce, dall'altro, finisce per creare con essa una relazione inaspettata. Nell'indossare la maschera per tentare una metamorfosi, per spingersi oltre i propri limiti umani alla ricerca di impossibili identità, si cela un'insidia al vivere "storico". Il tempo degli uomini, le miserie che li accomunano vengono dimenticati nella ricerca di una consolatoria via di fuga dal mondo. La "trasfigurazione spettacolare" si erge a unica possibilità di riscatto ai dolori dell'esistenza. Ignorare la vita è in qualche modo rendersene complice. La maschera silenica non "accade" in essa per modificarla, ma per sospenderla.
L'esauriente argomentazione di Fernando Mastropasqua a proposito del cratere di Pròmonos, evidenzia come alla seconda metà del V sec. a.C., dunque ad una fase tarda della tragedia, corrispondente al periodo euripideo, l'azione scenica poggi sul contrasto tra quest'essere mitico, Sileno, e l'uomo. Al satiro, creatura mitologica, si affiancano il Tiranno, l'Eroe, il Vecchio(3), Maschere segnate dal tempo: pròsopon(4).
Nel nuovo carattere antropomorfo della maschera s'annida un processo che dissocia il monstrum dal tragico. Accanto ad un Uomo immaginato, all'ideologia di un uomo, un satiro appartenente ad un'età dell'oro perduta o ad un paradiso ancora a venire, si pone un essere da esplorare in tutta la sua miseria e sofferenza. Il volto mostruoso sopravvive accanto a un volto dalle fattezze umane: l'uomo antico comprende che è nel tuffarsi radicalmente nel presente la prova più dolorosa. La maschera immersa nel tempo raccoglie il dolore umano per porlo a confronto con il volto eterno di chi è fuori dal mondo. Pròsopon e gorgòneion, Umano e Oltreumano, intrecciano indissolubilmente i loro passi. Ed è in questa antica dialettica che il tragico trova la sua massima espressione.
Sul piano teatrale, la coesistenza dei due volti della maschera scatena il conflitto tra rappresentazione della "vita" e rappresentazione dell' "ideologia della vita". Il monstrum arcaico non può esprimere la condizione tragica dell'uomo nel divenire, semplicemente perché non la rispecchia: esso non è che un'astrazione. La Gorgone per tornare alla sua arcaica ferocia ha bisogno di un uomo con cui incrociare il proprio destino, di un uomo da pietrificare col proprio temibile sguardo. Solo così può nascere una nuova, inaudita, concezione del "Terribile".
L'epifania della maschera umana spezza ogni complicità tra vita e rappresentazione Si fa strada il realismo, il quotidiano, la proliferazione dei caratteri. Nuove vie si aprono in cui indagare il dolore, nuove forme per custodirlo. Di conseguenza anche nuovi modi per dimenticarlo: una vocazione questa spesso assecondata dalle tecniche teatrali(5). La maschera teatrale, sfuggendo la morsa del tempo, finisce infatti col privarsi del suo aspetto più inquietante: si fa tipologia, carattere universale, modello vuoto e schematico, privo del dolore che lo ha alimentato, specchio non della vita, ma dell'immagine che l'uomo si è fatta di essa. L'arcaico scontro tra pròsopon e gorgòneion, si edulcora nell'astrazione di figure troppo caricaturali per essere umane, e troppo poco umane per essere mostruose.
Ma questa è solo una delle conseguenze, forse la più imbarazzante, ma che non può sminuire l'importanza del nuovo accadimento. La maschera non getta più uno sguardo su mondi mitologici, lontani, ma su questo terribile mondo. Essa non mostra più l'Altro, ma il dolore presente, le ferite nascoste.
Ma se l'antico Sileno finiva con l'ignorare la vita umana, strappandola al divenire, come può una maschera che ha il volto dell'uomo non conciliarsi con esso, non assecondarlo nel suo essere nel tempo?
L'incontro di pròsopon e gorgòneion sul piano della rappresentazione riduce l'umano ad una straziante fissità. È l'arcano potere dello sguardo di Medusa: il volto dell'uomo che lo incrocia si pietrifica, sottraendosi al divenire. Si fa statua, immutabile eppure carica dei segni del tempo. Un monito alla fragilità umana. Il volto dell'uomo divenuto maschera si tuffa nel tempo per negarlo, non per confermarlo. Un gesto rischioso, che balza prepotentemente anche sul piano del vivere "storico": fermare il tempo è necessario, non per dimenticare il suo incessante scorrere, ma per urlare che astrarsene è impossibile. Le metamorfosi del teatro cessano così di essere legate a visioni estatiche di paradisiache età dell'oro perdute per sempre, per divenire metamorfosi della mente, atti di conoscenza dettati dalla contezza che solo una reale coscienza del dolore può portare al dissenso, alla ribellione, all'evoluzione cognitiva: verso età dell'oro, non perdute, ma ancora a venire.
Il rimpianto lascia il posto all'utopia, al desiderio di un tempo nuovo per gli uomini.
Questo è il nuovo potere della maschera che vive nella dialettica di pròsopon e gorgòneion. Alla necessità di un affrancamento reale dalla miseria si affianca il rischio che ne consegue, il rischio insito nel guardarsi dentro per evolversi nell'Utopia: nel nuovo monstrum fuori dal tempo affiora il viso d'uomo paralizzato dal terrore.
La nuova maschera comica, mostruosa, senza tempo.
L'immagine dell'uomo pietrificato dalla Gorgone permette di nominare questa nuova maschera ancora sfuggente e rincorrerla attraverso le epoche dell'uomo.
L'esempio che segue è interessante per due motivi sostanziali: innanzitutto perché pur ponendo il problema negli stessi termini, lo riporta al volto dell'attore privo di maschera; in secondo luogo perché anche in questo caso il punto di partenza è una tipologia concettuale, i cui segni nel corso del tempo hanno perso il loro senso riposto. Una maschera che deve rinnovare il proprio dolore.
Si tratta dell'elaborazione dell'Amleto di Ettore Petrolini.
Arrigo Boito in un libretto operistico del 1865 per Franco Faccio dà una tipica rappresentazione dell' "Amleto romantico": è avvolto di drappi neri sullo sfondo di orrori medievali, da pazzo è diventato lugubremente meditabondo: "Principe Amleto! tutto mesto e nero/ tra gli splendori del real connubio/ rassomigli alla larva del mistero".
Questa connotazione funebre e titanica caratterizzò il personaggio per tutto l'Ottocento. L'"amletismo", cioè l'indecisione, il dubbio, il "romanticismo, pessimismo, nichilismo e gran nevrosi" secondo le parole di J. Lemaître(6), fece strage in tutta Europa. È difficile stabilire come un tale modello si affermò, quale sia stata l'influenza delle interpretazioni inglesi tra Settecento e Ottocento (Kean e Garrick soprattutto), quale quella dovuta alla nascita di prototipi francesi (Lorenzaccio di Alfred de Musset), certo è che l'Amleto romantico, non solo in Italia, ma in tutta Europa, acquisì un'iconografia ben definita. Divenne maschera (7).
L'interpretazione che ne diede il grande attore italiano contribuì fortemente in questa direzione: le chiavi di lettura dell'opera nelle messe in scena italiana non tennero mai conto del valore artistico del testo, non si sforzarono mai verso un suo approfondimento reale, che eludesse lo sfoggio di una ciarlatanesca filologia nelle ricostruzioni di scenari e costumi; finirono piuttosto per sviluppare una prassi che ridusse l'originale shakespeariano ad una sorta di canovaccio, ruotante attorno al personaggio principale. E come un canovaccio il testo fu continuamente rimaneggiato, scorciato di snodi paralleli e personaggi minori, reso più "funzionale" all'interpretazione narcisistica dell'attore (8).
In questo schema espressivo fu sicuramente determinante l'influenza dell'Opera (9): il grande attore e il cantante lirico incrociarono più volte i loro passi, recitarono negli stessi teatri, per lo stesso pubblico. Si fecero concorrenza e si influenzarono reciprocamente. Il modello recitativo che ne derivò finì col confermare quelle allegorie che, da Alfieri in poi, popolarono l'universo romantico italiano, e non per rinnovarle, per restituirle alla loro perduta vivacità. Amleto fu una di queste allegorie: un nuovo Oreste, privato di regole aristoteliche (10). La declamazione del grande attore, nella sua frivola rivalità col canto, non aggiunse che vacuo esibizionismo, un volto popolare da sovrapporre a quello del personaggio, uno straordinario virtuosismo per un'esecuzione che finì con l'ucciderlo (11).
Il grande attore riempì la tipologia di vanità.
L'operazione di Petrolini parte di qui.
C'è da chiedersi come Amleto possa essere "capitato" nel Teatro di Varietà, come abbia potuto abitare una forma spettacolare così strettamente contingente al quotidiano, le cui tipizzazioni tesero a creare un universo di macchiette intrise di tic borghesi. Un teatro per sua stessa costituzione lontano dai "classici" (12).
Non è nel gusto della parodia, nel voler divertire a tutti i costi, che va cercata la risposta a queste domande, bensì in quella che fu la natura più intima del Varietà: un mondo di folli, di nuove tipologie, linfa vitale per rinnovare gli ormai consunti modelli teatrali. Un universo spettacolare carico dei segni del tempo.
E in questa prospettiva l'operazione di Petrolini recupera una tragica e arcaica consapevolezza: non si può riflettersi in un'astrazione per rinnovare un dolore universale. Così egli immerge nel tempo la maschera di Amleto, la spoglia della sua tipologia concettuale, la squarcia, per far emergere da essa il volto di un folle. L'allegoria si innesca di un dolore umano. Indossato dal comico romano, Amleto torna ai suoi antichi splendori di fool.
Shakespeare compie in definitiva la stessa operazione con il suo personaggio: "L'attenzione di Shakespeare si rivolge soprattutto a Everyman in virtù della sua peculiarità di maschera dell'uomo, condannato a nascere per morire. [.] È tutt'altro che stravagante che Amleto-Ognuno indossi la maschera del suo stato infelice, la maschera del folle. Ma la sperimentazione di Shakespeare è ancora più sottile, in quanto le allusioni di Amleto e il suo atteggiamento rimandano a una particolare forma di follia, a un tipo di folle ben noto dal XV secolo: il folle Nessuno con il dito sulla bocca che invita al silenzio. Perciò l'intuizione di Shakespeare crea un felice oxymoron poetico e drammatico: Ognuno (Everyman) assume il volto di Nessuno (Nobody)" (13).
Amleto indossa la maschera del Nobody per "rimettere il mondo su suoi cardini", per immergersi nel tempo. Ma la sua natura di Nessuno gli permette di negarlo, per acquisire una nuova dignità dalla consunta tipologia di Ognuno, "per annunciare la possibilità di un tempo nuovo, la cui radicalità sta nell'annunciarsi non-tempo, non-mondo, non-Ognuno: un uomo che non c'è per un mondo a venire" (14).
Il Varietà creò un immaginario di folli equivalente a quello rinascimentale: un universo di tipologie sporche dei segni del mondo, spesso vacue e superficiali, altrettanto spesso concilianti e borghesi, ma tra cui si distinsero maschere capaci di opporsi al "mondo" in virtù della loro natura eversiva. Petrolini fu una di queste: l'equivalente del Nobody per il Rinascimento.
E come il Nobody shakespeariano, Petrolini nel suo Amleto si carica sulle spalle i mali del mondo: la vanità altrui, la boria terrena, il superomismo, sono i "vizi" che egli indossa nel suo mascheramento. Ma non per confermarli, bensì per smascherarli. È nel "costruire sulla vanità" del grande attore, la genialità dell'operazione e al tempo stesso la sua nuova tragicità. Vanità sulla bocca del fool, di colui che conosce il senso recondito delle parole, si carica di tutto il suo terribile significato: ciò che è vanitoso è vano. È niente. Un senso nuovo che fa esplodere la tipologia amletica del grande attore, ricaricando il personaggio di una nuova dolente dignità, a cui Petrolini presta il suo volto, irrigidito in una smorfia ghignante. La sua è la maschera di un folle, la stessa che gli ha permesso di immergere Amleto nel mondo senza conciliarsi con esso. Ma è anche una maschera di dolore, nata dall'aver gettato uno sguardo sul mondo, dall'aver compreso lo scorrere del tempo, la vanità di ogni metamorfosi, di ogni superomismo. In quella straordinaria metafora che è il teatro l'attore diviene l'uomo che scruta dentro se stesso alla ricerca dell'orrore di sé. L'uomo che rischia di mutarsi in pietra. Colui che si immerge nel mondo per compiere un gesto di liberazione dal mondo, acquista la dolorosa consapevolezza di quanto quel gesto sia illusorio. E nonostante tutto lo compie, perché solo da un'illusione può nascere un'Utopia. È il terribile segreto che si cela nel volto dell'attore che si irrigidisce in una maschera.
Gorgòneion e pròsopon si incrociano ancora in un amplesso ossimorico custodito dal viso dell'attore. Al tempo stesso egli diviene il soggetto che guarda, l'orrore che vede e il monstrum, figlio di tale visione. Il suo volto, eludendo ogni realismo, si erige a teatro di una lotta ancestrale, incessante. La lotta che si cela in ogni mascheramento del teatro.
Un'immagine per finire: "con sincere lacrime si affligge delle dipinte sofferenze di Troia" (15).
Sono i versi di Shakespeare nel poema Lucrezia, quando Lucrezia cerca Ecuba nel grande arazzo raffigurante la guerra di Troia e fissa lo sguardo nel volto dipinto per rinnovare il proprio dolore. Lo stupro subito da Tarquinio l'ha resa muta, incapace di dar forma alle proprie angosce, ridotta ad un automa privo di lacrime. La verosimiglianza del volto di Ecuba le permette un'identificazione: essa si riflette in quel volto come in uno specchio. Non per consolarsi. Lucrezia cerca di rendere universale il proprio dolore, lo affianca ad un altro più profondo, legato alla propria esistenza di mortale, condannata alle violenze del mondo. Non è la tragica bellezza di Ecuba, la sua regalità, a ergersi immortale, ma il dolore che essa incarna. Accanto al viso disperato della mitica Regina di Troia si erge il volto senza tempo, mostruoso della guerra. La commozione per Ecuba, si trasforma in angosciosa consapevolezza. Altre forme per il pròsopon e il gorgòneion, ma lo stesso arcaico conflitto. E Lucrezia può piangere ancora.

NOTE
1) Il vocabolo gorgòneion è testimoniato fin dal V secolo a.C. da Isocrate: rimanda al terrore che la maschera teatrale può provocare, associandola alla testa decapitata della Gorgone. Aristotele usa gorgòneion nel senso di m
 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Zelinda Carloni
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DAL NUOVISSIMO CARLONI
 
MIRACOLI (F)

Il miracolo è la dimostrazione che Dio non esiste, è la certificazione dell'assenza di progetto all'interno del sistema. Se il miracolo è lo scatenamento dell'illogicità all'interno delle cose, ciò significa che esso sta solo a documentare l'assenza di "prevedibilità", e quindi di progetto razionale. Ma il "progetto divino" non può che essere logico, altrimenti verrebbero a mancare le connotazioni fondamentali legate al concetto di creazione (vedi "Concetto di Dio "). Il concetto di casualità non è compatibile con la formulazione di un criterio di "volontarietà" nella disposizione delle cose e del mondo. Il miracolo è invece l'esatta affermazione del contrario della prevedibilità, e quindi della logicità, negli accadimenti; è la dimostrazione dell'esistere delle cose al di là della conoscenza possibile, e quindi della conoscenza stessa. Il miracolo è il sublime dispetto alle pretese della ragione, fosse anche della "ragione divina".
Viceversa, se invece il "progetto imperscrutabile" di Dio dovesse comprendere il miracolo, vorrebbe dire che il progetto è illogico e irrazionale, e sarebbe dato all'uomo solo l'accidente, il capriccio. Se così fosse, Dio potrebbe anche esistere, ma sarebbe perfettamente inutile.
Invece, che cosa è il miracolo per gli uomini? La cosa più straordinaria è che gli uomini, che sembrano amare tutto ciò che è solido e immutabile e prevedibile, si esaltano straordinariamente di fronte al miracolo, in ciò rivelando una natura profonda che ama il caso e il capriccio, l'incredibile e lo straordinario, l'irrazionale e l'illogico. Forse dietro questo "amore" si nasconde il sentire profondo e inconfessato della irrazionalità profonda del tutto. Appare notevole come gli uomini si esaltino di fronte alla circostanza bizzarra che il miracolo rappresenta, quasi come se questo li assolvesse dal basto soffocante del sopportare la logica e la ragione, e li inducesse a poter sperare che il mondo è anche altra cosa da quella che il "progetto" vorrebbe far credere.
Non c'è frase che mi sembri più illuminante a questo riguardo di quella espressa dal Grande di Stradford "Ci sono più cose tra cielo e terra, Orazio, che non ne sogni la tua filosofia"; e la presenza del "miracolo" sembra che assolva gli uomini dalla schiavitù del cielo e della terra immoti e finiti, lasciando che essi respirino per un attimo l'ebbrezza della propria dismisurata dimensione.
La prudenza della chiesa cattolica nell'accettare i miracoli, oltre che ad un connaturato fariseismo di pratica politica, risiede nel sospetto. In realtà essa sa perfettamente che non può permettere che ci si abbandoni ai miracoli, perché il Dio che professano è Dio di ragione e non di insensatezza. Certo non è Dioniso. E dunque il miracolo viene distillato e ridotto a più miti consigli prima di lasciarlo consumare.
Mi preme precisare, proprio in chiusura, che i miracoli esistono, e non potrebbero non esistere, perché il mondo non è la scacchiera di Dio, ma il luogo dei sogni dell'uomo.


OSTRICHE (C)

Le ostriche sono uno dei veicoli favoriti dagli dei per mettere me in condizioni di parità con le loro divinità. Capisco benissimo che c'è gente a cui non piacciono, ma trovo la cosa oltremodo trascurabile: ognuno sceglie la propria strada verso l'assoluto e i mezzi per percorrerla: per me vanno benissimo le ostriche.
L'incontro con un guscio ricolmo di materia perlacea ma transeunte (non come la gelida e immobile perla) procura nella mia natura la sensazione estrema dell'attimo sacrale di percezione dell'alito del mondo. Intanto bisogna dire che un'ostrica ha poche ore di vera vita, e che l'incontro con l'attimo esatto della sua vigoria è cosa rara e preziosa: supponendo di avere la straordinaria fortuna di cogliere quell'attimo è necessario che il rito sia consumato fin dall'inizio, è cioè necessario che l'ostrica sia aperta da chi la consumerà. Quest'atto comprende una capacità di percezione delle cose della natura intensa e profonda, perché il guscio resiste tenacemente a chi lo violenta, ma cede volentieri a chi lo conosce e conosce la sua natura interna ed esterna, sicché la misteriosa serie di lamelle che, come un labirinto, cerca di sviare l'intruso violentatore, si rivela invece leggibile e penetrabile per chi ne conosca i segreti.
E quando le due coppe si schiudono, ma sono ancora in parte saldate tra loro in un ultimo, ammonitore tentativo di celare ciò che contengono, è necessario essere lievi e tagliare con nettezza e precisione il legame che le unisce. E ancora senza vedere il contenuto (non bisogna avere fretta per questo) bisogna che si proceda a raccogliere l'intero contenuto dentro una delle due coppe (so che si chiamano valve, ma per me sono coppe d'ambrosia e miele): e finalmente si può schiudere l'ostrica e ammirarne il contenuto. Il colore sia bianco perlaceo, la materia turgida e umida, il profumo come un percorrere l'aria di tutti gli oceani. Gustare poi l'ostrica è l'ultimo atto, infinito e ineffabile, di questo rito: e che non si mangino mai "le" ostriche, ma sempre "una sola" sia l'ostrica, una sola per volta: l'ecatombe non si adatta a questa delizia della natura.

NOTA
Queste due "voci", come quelle pubblicate nel precedente fascicolo di DISMISURA, hanno poi trovato degna sistemazione nel volume edito da Papageno, Palermo 2000, "Vocabolario - all'uscita di Altamira", di Zelinda Carl
 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Severo Lutrario
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EMERALD - 1
Parte Prima
 
Ardo di sete e mi consumo
Or via
ch'io beva della fonte perenne
a destra
là dov'è il cipresso
Chi sei tu?
Donde sei?
Figlio di Geo son io
e di Uranòs stellato

(laminetta funeraria orfica
ritr. 1893 Eleutherna - Creta)

EMERALD: terzo pianeta della stella Uraneo
(Jµ6^ - 70X/-12Y/48Z/34 par/sec)
Gravità 0.923
temperatura media 291 °K
rotazione 22.476 ore standard
tempo di rivoluzione 392 giorni e 13 ore pari a 367
giorni e 14,57 ore standard
atmosfera tipo terrestre
FATTORE HOLTZEN O.945
esplorazione: 21.9 standard 2267
concessione: Mines & Stars Co. (2353)
Inizio colonizzazione: 2357
(dalla "Scheda informativa" della Marina della Confederazione - anno 2382)

Ora che l'astronave s'era interposta tra Uraneo e il pianeta, Emerald appariva come una gemma incastonata nel panno scuro degli spazi siderali.
- Suggestivo, non è vero? - Mister Ciang, l'ometto dagli zigomi sporgenti lo riscosse dai propri pensieri con la sua voce dall'accento cantilenante - L'effetto dallo spazio è stupefacente. Peccato che dalla superficie lo sia un po' meno. Mi chiederà il perché signor? ...
- Temple. Arthur Temple.
- Signor Temple. Verde, null'altro che sfumature di verde: tempo due giorni e ne avrà piene le tasche, glielo garantisco. Cielo verde screziato di nubi d'un verde cupo che si congiungono all'orizzonte con un mare verde brillante o con le vette di verdi montagne spruzzate di neve - indovini un po' - verde. Una nausea, le garantisco che non si vomita solo per il terrore che anche il vomito sia verde, - sorrise - Lei è convinto che io stia esagerando. Sono della compagnia mineraria ed ogni anno standard vengo per un'ispezione. E lei, come mai arriva a Emerald?
- Archeologia.
- Archeologia? Su Emerald? - Il signor Ciang allungò il collo per osservarlo in viso - Ma a quanto mi risulta il pianeta è stato colonizzato da non più di venticinque anni e non vi è alcuna traccia di civiltà indigene.
- Altrimenti voi sareste i primi ad essere informati, non è vero, signor Ciang?
- La prego di non considerare le nostre due attività in contrapposizione, signor Temple. La compagnia è consapevole delle leggi della Confederazione.
- Si rassicuri, sono qui per incontrare un collega - Arthur prese ad ostentare un esclusivo interesse per l'insolito panorama spaziale sperando che il signor Ciang si ritirasse in buon ordine.
- Non crede anche lei, signor Temple - riprese invece il signor Ciang con una vena di ossequiosa petulanza, o almeno tale l'avvertì Arthur - che la monocultura economica sia l'unico strumento realistico per una colonizzazione nella fase iniziale?
- Non sono un esperto in economia - si schernì Arthur.
- Ma converrà con me che i costi dei viaggi e dei trasporti interstellari sono tali da rendere più che legittimo l'esclusivismo economico...
- Intende quel che di fatto fa la Confederazione affidando ad una compagnia come la sua la totale gestione di un pianeta?
- Ma solo fin tanto che le strutture del pianeta non divengano autosufficienti.
- E nell'attesa, società come la sua, signor Ciang, incamerano profitti astronomici.
- Anche i costi lo sono, signor Temple. Nella fase pionieristica, come quella in cui si trova Emerald, chi e come dovrebbe sobbarcarsi i costi per il trasporto di decine di migliaia di entusiasti, disperati e sognatori dai più sperduti angoli della Confederazione, come potrebbe qualche centinaio di migliaia di coloni rendere tecnologicamente autosufficiente il pianeta?
- Mi sta dicendo che la Mines & Stars è un'organizzazione filantropica?
- Gli immensi giacimenti di metalli pesanti di Emerald sono un adeguato incentivo per la compagnia, signor Temple - rispose sorridendo il signor Ciang - Mi permetta di diffidare di incentivi più altruistici o forse semplicemente più nascosti.
- Le ho già detto di non intendermi di economia, signor Ciang. Ma da profano, se vuole da studioso di cose inutili come è la storia...
- La prego di non attribuirmi una simile frivolezza - lo interruppe il signor Ciang.
- Ma si figuri, sono io che sentendola parlare mi domando in quale razionale e perfettamente ragionevole formula economica sia possibile collocare la spesa d'una spedizione archeologica. Sfruttamento turistico del sito? Indotto editoriale e universitario che su se stesso, come una sorta di uroboro finisce per creare un circuito virtuoso e virtuale che ...
- Non si prenda gioco di me.
- Non è mia intenzione, signor Ciang. Ma poco fa mi sono venuti in mente ... direi quasi che ne abbia sentito la protesta nelle orecchie - quelle decine di pianeti esplorati e abbandonati in questi tre secoli di nostri vagabondaggi nel cosmo. Pianeti abitabili, più o meno gradevoli, dal fattore Holtzen tanto alto da costituire da solo un irresistibile spot pubblicitario ...
- Emerald ha un fattore altissimo, 0.945, prossimo all'unità e se si esclude questo curioso ma fisiologicamente innocuo viraggio al verde della luce ...
- Ma quanti Emerald sono stati scartati perché non erano altrettanto allettanti per i profitti immediati di questa o quella compagnia?
- Non si può prescindere dal rapporto costi/benefici - scosse la testa il signor Ciang.
- Mi spiace, ma non possiamo capirci, mio caro signore - sospirò Arthur - Vede, lei sembra affetto da quella malformazione degli occhi che se non erro un tempo si chiamava miopia e non consentiva di vedere le cose lontane, mentre io, da buon storico, sembro affetto dalla malattia contraria, la presbiopia, e non riesco a vedere le cose vicine. Lei si preoccupa di chiudere il bilancio in pareggio ogni sera - mi perdoni l'ardire di questa rozza metafora economica - mentre io, sarà perché per mestiere mi son scelto d'andare a spulciare i bilanci delle aziende cessate, sono interessato tutt'al più al bilancio annuale, anche se, a dire il vero, di bilanci non me ne frega niente, e comunque - continuò fermando le proteste dell'interlocutore - il condizionare all'immediato ritorno economico l'avvio di un processo di colonizzazione che nel futuro potrebbe apportare incalcolabili ricchezze ideali, mentali ed anche economiche all'intera umanità attraverso la complessità e la diversità di un'intera società umana, non è semplicemente economicistico, rozzo, innaturale, ingiusto. E' fondamentalmente stupido.
Il sorriso del signor Ciang si spense e questi dopo un cenno di formale inchino si ritirò.
Arthur si rimproverò d'aver perduto la pazienza, ma con sollievo poté tornare ai propri pensieri e all'enigma che era alla base di quel suo viaggio.
La sua sorpresa era stata grande quando aveva ricevuto a New Yale quello strano messaggio di Jhob Crhistiansen, il suo amico e collega all'Istituto di Archeologia dell'università, un biglietto sibillino: "Ho trovato la torre nell'uovo di Phanes", e poi quel testo di una laminetta funeraria orfica dell'antica Grecia di Terra, il pianeta originario da cui l'umanità s'era affrancata due secoli prima colonizzando già, al momento, una ventina di pianeti.
Una sorpresa la sua, che considerava come genialità l'apparente stravaganza dell'amico, che era stata sufficiente a convincerlo ad imbarcarsi in quell'impresa che al momento appariva senza un capo ed una coda.

Lo spazioporto di Emerald City, le cui strutture in poco o nulla si differenziavano dalla spartana architettura di primo insediamento, si trovava nella zona temperata, al centro d'un ampio golfo della costa occidentale del grande continente, Pangea, che da solo rappresentava una buona metà dell'intero pianeta e di fatto la totalità delle sue terre emerse.
Trasportato nel vasto terminal "passeggeri", s'avvio alle cabine doganali d'identificazione con il disagio tipico del viaggiatore occasionale.
L'attesa fu solo di un attimo, poi la porta si rivelò scorrendo sulla sinistra
- Prego s'accomodi - la voce digitalizzata dell'unità di controllo parve soccorrere la sua indecisione.
Arthur entrò e la porta si richiuse alle sue spalle.
- Prego si sieda.
Arthur si sedette inquieto.
- Nome
- Arthur Temple
Lievi ronzii gli rivelarono che le macchine esperivano sommessamente gli accertamenti e i rilievi previsti
- Pianeta e data standard di nascita
- Terra 3.1.2344
- Provenienza
- New Yale - Continente universitario
- Professione
- Docente Universitario
- Specializzazione
- Archeologia terrestre
- Motivo della visita
- Visita ad un collega
- Nome
- Jhob Crhistiansen
Più che terminata, l'indagine parve ad Arthur interrotta sul nome dell'amico e dopo alcuni secondi di completo silenzio, la voce riprese a parlare mentre contemporaneamente una porta si apriva alla sua destra.
- Prego, professor Temple, segua il corridoio delimitato dalla riga gialla, grazie.
Un lieve senso d'allarme lo percorse: per quanto non fosse un viaggiatore abituale si rendeva conto che quella non era la procedura ordinaria.
- Cosa, cosa è avvenuto?
- Prego, professor Temple, segua il corridoio delimitato dalla riga gialla, grazie.
- Sono un libero cittadino della Confederazione ed esigo ...
- Prego, professor Temple, segua il corridoio delimitato dalla riga gialla, grazie.
- Senti coso - sibilò- io già non sopporto questa sorta di stupro elettronico ...
- Prego, professor Temple, segua il corridoio delimitato dalla riga gialla, grazie.
- All'inferno! - sbottò Arthur dandosi dello stupido per quel suo discutere con una voce sintetica e s'avviò coprendo con la rabbia il senso d'inquietudine.
Il corridoio giallo si snodava tra le corsie riservate agli immigrati accalcati in attesa dell'esame doganale. Tra i campi di forza, quella biblica moltitudine pulsava in attesa, come un grande animale ferito e sofferente, dopo un viaggio in condizioni subumane nei ponti inferiori dell'astronave. Arthur mitigò la propria rabbia con la consapevolezza della condizione privilegiata di turista, tanto che, giunto al termine del corridoio all'ingresso d'un ufficio, all'inquietudine s'accompagnava ormai l'indignazione.
Entrò deciso.

- S'accomodi, Professor Temple.
Un uomo sulla cinquantina dall'altro lato di una scrivania l'invitava a sedersi su una poltrona.
- Senta lei, io sono un libero cittadino della Confederazione e non intendo tollerare che la polizia privata di una compagnia mineraria qualsiasi, dopo avermi intimamente profanato nelle mie caratteristiche e nelle mie miserie - Cristo, va bene, lo ammetto, sono un essere transitorio e temporaneo, va bene? - mi ...
- Si calmi Professor Temple, e si sieda. Le chiedo scusa personalmente e a nome della Mines & Stars, ma ora si sieda.
Dopo un ulteriore attimo di indecisione Arthur si sedette.
- I nostri metodi di identificazione sono i metodi standard approvati dalla Confederazione e la nostra polizia opera sulla base dell'atto di concessione rilasciata della stessa Confederazione.
- Nell'interesse di chi? Della Confederazione o della Compagnia?
- Su Emerald, professor Temple, i due interessi coincidono.
- E cosa mi dice di quei poveri disgraziati.
- Gli immigrati?
- Già, come li ha definiti un vostro ispettore? Entusiasti, disperati, sognatori. Che ora se ne stanno lì, inquadrati come animali da macello, su questa sorta di Rupe Tarpea...
- Prego?
- Lasci perdere. Se ne stanno lì e ora i loro sogni, i loro ricordi, le loro ferite, il pulsare stesso di quel grumo di carne e sangue che sono, non conta nulla, nulla. È tutt'al più un fattore di rendimento per giudicare la loro qualità di carni da miniera. Voi non siete altro che un'estensione meccanico-contabile di un consiglio di amministrazione. E questo sarebbe l'interesse della Confederazione? Dell'umanità? Ma si rende conto di quanta forza vitale si disperde scaraventata già da questa rupe?
- Non siamo così orribili, professor Temple.
- Infatti, è vero. Sant'Iddio, siete solo realisti, tragicamente realisti da compromettere tutte quelle possibilità.
E la sua indignazione si spense nel vago gesto rivolto oltre la porta.
- Lei è un archeologo, professor Temple, uno studioso. Pensi alle memorie dei suoi banchi e lasci a noi, individui poco raccomandabili, le miserie quotidiane - Arthur represse una dura risposta - Lasci invece che le dica il motivo per il quale l'abbiamo convocata non appena è stato identificato. Lei ha dichiarato di essere giunto su Emerald per incontrare il professor Crhistiansen, un suo collega.
- Esatto.
- Ebbene, professor Temple, benché lei abbia or ora espresso un giudizio così poco lusinghiero sui nostri sistemi di identificazione e controllo, che a quanto mi è parso di capire giudica eccessivamente, come dire, polizieschi, debbo informarla che il professor Crhistiansen è scomparso senza lasciare alcuna traccia di sé da circa tre mesi, tempo di Emerald, si intende.
- Come ... scomparso?
- Il Professor Crhistiansen godeva come lei di un permesso di soggiorno turistico, professore, e pertanto al di là del segnalatore radio subcutaneo non era tenuto ad alcun altro sistema di identificazione e ricerca. Per quanto ne sappiamo si era recato
nella regione di Aither...
- Aither?
- Si, è una regione dall'altra parte di Pangea, sulla costa orientale dell'emisfero australe. Una costa molto frastagliata ricca di scogliere e fiordi.
- Chronos fabbrica nel seno di Aither l'uovo da cui nasce Phanes ... - borbottò socchiudendo gli occhi Arthur
- Dice?
- Niente, solo memorie che escono dai miei banchi.
- La zona è estremamente pericolosa sia perché in buona parte poco conosciuta e sia perché soggetta, come del resto tutta la costa orientale, a violente tempeste, cicloni ed altre amenità del genere.
- Ma perché si è recato in quel posto?
- Questo, mio caro professore, non siamo in grado di dirglielo perché, per quanto pensiate male di noi, il professor Crhistiansen e lei, nessuno di voi è tenuto a dirci perché si reca in questo o quel luogo di Emerald. Certo è che una volta usciti dalle aree delimitate dalla Compagnia, non si gode più della sua protezione complessiva.
- La regione di Aither è fuori delle aree della compagnia?
- I nostri insediamenti sono al momento tutti sul lato occidentale della dorsale di Pangea, principalmente per il fattore climatico, ma è comunque possibile raggiungere la costa orientale con qualche trasportatore indipendente. Ce ne sono molti a Emerald City con le loro vecchie carrette. Il Professor Crhistiansen aveva affittata quella di un certo Klaus Berensky, un tipo esperto della costa orientale.
- Cos'è successo?
- Non lo sappiano, circa tre mesi fa, come le ho detto, sia il suo segnalatore radio che quello del Berensky hanno cessato di trasmettere il segnale.
- Non potrebbero essersi guastati?
- Contemporaneamente? E comunque non sono stati neanche estratti, questo avrebbe causato la variazione della frequenza del segnale. Hanno semplicemente cessato di trasmettere.
- Come è possibile?
L'uomo alzò le spalle:
- Allo stato non ci sono spiegazioni. La compagnia ha inviato una spedizione di ricerca ma senza alcun risultato: del suo collega e della sua guida non è stata trovata alcuna traccia.
- Capisco.
- Cosa intende fare, professor Temple?
- Affittare un mezzo e raggiungere la regione di Aither.
L'uomo sorrise.
- La Compagnia, oltre che avvisarla, non può fare altro, non può impedirle di porre a repentaglio la sua vita. L'informo comunque che quella del suo collega è la settima scomparsa recente avvenuta in quella zona. Se ha ancora intenzione di continuare, buona fortuna professore.

Il pub degli indipendenti era ricavato in un tozzo fabbricato in disuso, ai margini dello spazioporto, tra i giganteschi magazzini dei materiali stoccati in attesa dei carghi spaziali che li avrebbero trasportati in ogni angolo della Confederazione. Arthur ebbe l'impressione d'entrare sul set d'un oleo d'avventura per ragazzi. Soffuse e calde luci direzionali offrivano tra la penombra tutta una sorta di quadretti rappresentanti la summa dei luoghi comuni sui quegli uomini di frontiera, comunque uomini "veri", comunque indolenti guerrieri a riposo.
- Scusi - fece Arthur rivolto ad un ometto calvo in giubbotto in fintocuoio nero ed un'evidente fintopelle mal applicata sul lato sinistro del volto - è qui che si può ingaggiare una guida?
L'uomo lo scrutò sfacciatamente con i suoi occhietti troppo distanziati e quindi, volgendo il capo verso l'interno della grande sala, quasi gridò:
- Ehi! C'è un rainbowed che cerca una carretta.
Tutti i volti si volsero verso Arthur che si sentì soppesato.
- Sono Arthur Temple di New ...
- Dove? - un uomo di dimensioni ciclopiche, dalla barba e dalla capigliatura leonine, stravaccato su di una poltrona ad aria, l'interruppe.
- ... Yale - riprese interdetto - Cerco un mezzo da affittare ed una guida ...
- Questo l'abbiamo capito - riprese brusco l'uomo - Dove vuoi andare, reinbowed?
- Nella regione di Aither.
Come d'incanto tutti gli sguardi l'abbandonarono e quegli uomini ripresero le occupazioni appena interrotte.
- Ma, cos'è successo? - chiese Arthur all'omino calvo che s'era voltato di spalle.
- Senti, amico - rispose l'uomo girando solo per un attimo il capo - Avrai bisogno di molti crediti per trovare qualcuno tanto disperato da accettare di accompagnarti. Non so perché vieni su Emerald, ma ti assicuro che ci sono metodi meno complicati per farla finita.
- Perché vuoi andare nell'Aither?
Una voce femminile gli fece voltare il capo. Una giovane donna dai capelli chiari tagliati cortissimi, dallo sguardo insolitamente deciso su lineamenti così delicati, in tuta da lavoro, gli si era avvicinata.
- Cerco un amico che è scomparso in quella zona.
- Sono in molti ad essere scomparsi da quelle parti.
- Si chiama Jhob Crhistiansen, è un professore di ...
- Hai pescato il jolly, reinbowed, hai trovato la tua guida.
- Lei?
- Si e non discutere né di prezzo né di altro: non ne troverai un'altra.
- Per me va bene, ma perché, cosa c'è che non va?
- Noi indipendenti siamo gente concreta, reimbowed...
- Mi chiamo Arthur Temple
- Arthur. Dopo i cinque anni del contratto con la Compagnia non rinunciamo a crediti, alloggi, mensa e spacci dei miners per rimetterci la buccia. Corriamo i nostri rischi, questo si, ma per scovare un buon giacimento da rivendere alla compagnia per una montagna di crediti. Ho intenzione di invecchiare a New Paris, io.
- Ma perché è così pericolosa la regione di Aither?
- Pericoli ce ne sono un po' ovunque fuori degli insediamenti della compagnia, e questi sono nel conto. Ma ad Aither nel giro di due anni sono svanite nel nulla sette carrette e, credimi, era tutta gente esperta.
- Come mai ...?
- Ingrid
- Ingrid, come mai lei è disposta ad accompagnarmi?
- Klaus, la guida del suo reinbowed, è mio amico.
 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Severo Lutrario
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EMERALD - 2
Parte Seconda
 
Il parcheggio degli aeromobili si trovava appena oltre il limite dello spazioporto, dietro il pub, circoscritto da una semplice recinzione metallica.
Arthur seguiva Ingrid, che se ne andava spedita con la sacca appesa per la corda alla sua spalla destra, tra quell'incredibile campionario di improbabili veicoli.
- Sant'iddio! - esclamò - ma voi usate questi cosi?
Allineati in file ordinate si susseguivano i più antiquati ed eterogenei mezzi di trasporto che Arthur avesse mai visto. Qualcuno di essi, sui pianeti centrali, era in disuso da almeno cento anni e quelli che riusciva a riconoscere erano modificati senza un apparente obiettivo o regola comune tanto da apparire singoli, improbabili e fantasiosi prototipi.
- Ehi, reinbowed - si volse posando al suolo la sacca, Ingrid - Sai quanto costa far arrivare a Emerald un aviomobile? Con la liquidazione da miners possiamo permetterci d'acquistare solo i ferri vecchi che la compagnia dismette. Ma non ti preoccupare, ogni indipendente conosce la sua carretta e, giuraci, la sa cavalcare.
- Ma sono tutti mezzi urbani o poco più!
- E cosa ti aspettavi, un traghetto suborbitale? Quelli la Compagnia se li tiene ben stretti e continuerà a farlo per almeno vent'anni.
Senza dargli modo di replicare, la ragazza riprese il cammino per andarsi a fermare davanti ad un aeronave su cui spiccava la scritta fosforescente Green Queen.
- Ecco la mia bella regina: quattro posti, autosufficiente, dieci metri quadri di stiva e in più - disse battendo sulle protuberanze cilindriche visibili sui lati posteriori del veicolo - per culo, due propulsori Hidening aggiunti che ho ricavato da un cassonetto della miniera A12.
- Ma ... - Arthur in bilico tra la protesta e il timore di urtare la suscettibilità della ragazza - Non è un mezzo urbano?
- Lo era. L'ho modificato con quattro cuccette ad aria, il cubicolo servizi, la cambusa e la stiva è separata da una porta.
- Ma la propulsione...
Ingrid lo guardò di traverso, come dubitasse delle sue capacità mentali:
- Hai idea della potenza che ci vuole per spingere da 0 a 200 chilometri all'ora in tre secondi un vagonetto carico di cento metri cubi di Mendelevio? E da una profondità di quattromila metri? Coi miei Hidening ti porto dove vuoi, puoi giurarci.

Mentre il faro dell'aviomobile fendeva la nebbia penicillina della notte emeraldiana, Arthur tentò di rilassarsi sprofondando nel sedile ad aria posto di fianco a quello di Ingrid in quello sferoide trasparente che costituiva la parte anteriore della Green Queen e lasciava al viaggiatore la sensazione di galleggiare nel vuoto.
- Un caffè?- Propose Ingrid
- Perché no?
- Qui dietro - disse la ragazza accennando con il capo - sulla destra, di fronte alle cuccette.
Arthur si alzò e raggiunse la parte centrale dell'aeronave.
- Come mai su Emerald? - chiese mentre armeggiava al distributore
- Ci sono venuta coi miei vecchi, avevo cinque anni. A sedici ho stipulato il contratto con la Compagnia e mi son fatta i miei cinque anni da miner, ma a ventuno ho detto no e con la liquidazione mi sono comprata la regina. Ora sono quattro anni che lavoro da indipendente.
- E va bene? - porgendole la tazza calda.
- Non mi lamento. Oddio, il colpaccio non l'ho fatto, solo piccoli giacimenti, un po' di reinbowed portati a spasso, ma almeno sono libera, non come i miei vecchi, miners ...
Erano ormai in viaggio da un paio d'ore e l'orizzonte di fronte a loro cominciava a inverdire. Arthur tentò di decifrare il paesaggio che scorreva sotto di loro.
- È il Pool - riferì Ingrid interpretando i suoi pensieri.
- Ho letto - annuì Arthur - Un piano praticamente ricoperto di un'unica foresta di Khiblei, una pianta simile alle nostre querce. Certo, è strano come l'ecosistema di questo pianeta non abbia previsto specie animali.
- È vero - confermò Ingrid - c'è una ricchissima varietà di vegetali e non un solo animale. Per fortuna buona parte delle piante di Emerald sono commestibili sia per l'uomo che per gli animali terrestri importati.
- Ma da quanto ho letto mi sembra che i tentativi di liberare gli animali siano falliti.
- Anche questo è vero, sembra che gli animali sopravvivano solo se allevati in fattorie.
- Ce ne sono molte?
- Qui nel pool si. È un posto tranquillo: vicino allo spazioporto, alla maggior parte degli insediamenti della compagnia e senza grossi problemi di trasporto.
L'orizzonte s'era tinto d'un verde smeraldo che faceva onore al nome del pianeta e la luce ora mostrava il mare delle fronde verdi lievemente ondeggianti alle sollecitazioni del vento.
Volarono per altre due ore su quel piano piatto e uniforme rotto solo di tanto in tanto dalle chiazze di vuoto che erano le fattorie che via via si andavano rimpicciolendo, a mano a mano che si allontanavano dallo spazioporto.
Con un cenno del capo Ingrid l'invitò a guardare l'orizzonte.
- Il Big Bert, il grande fiume - spiegò.
L'orizzonte mostrava un verde più chiaro e a tratti più luminoso, che ben presto si rivelò costituito dall'acqua che pigramente scorreva verso sinistra.
- Ma quanto è largo?
- In questo punto una decina di chilometri. Ma all'oceano, tra mille chilometri, arriva a tredici.
- Caspita!
- È lungo oltre seimila chilometri e nasce direttamente dalla grande dorsale.
Mentre guardava affascinato quell'immensa massa d'acqua che procedeva maestosa lambendo nel suo cammino delle piccole isole, notò sulla superficie un qualcosa che presto riconobbe per una rudimentale imbarcazione a vela.
- Ma, quella cos'è?
- Greenfree.
- Cosa?
- Spostati. Ce ne sono di tanto in tanto che decidono alla scadenza del contratto di rimanere su Emerald e se ne vanno in cerca di un posto lontano dalle miniere dove vivere con un po' di semi terrestri, qualche animale...
Arthur seguì affascinato quella barca alla cui poppa spiccava la figura d'un uomo dal capelli lunghi sollevati dal vento, che non aveva mostrato alcun segno d'essersi avveduto della loro presenza sulla sua testa.
- Ma dove sta andando?
- E chi lo sa? Probabilmente nella regione di Lao Tze. Ci sono degli ottimi alberi da frutta da quelle parti.
La linea più scura all'orizzonte si rivelò ben presto per una scogliera alta fino a duecento metri che immetteva, appunto, come Ingrid aveva detto, nella regione di Lao Tze, una regione montagnosa, piena di ripide gole a massicci graniti scolpiti dall'incessante vento del nord-ovest, dove le piccole radure riparate erano piene di alberi da frutta e limpidi laghetti.
Parlarono poco durante quel tratto di viaggio, con Arthur affascinato dallo spettacolo ed Ingrid telegrafica nelle informazioni.
Dopo alcune ore di viaggio verso sud-est, lentamente, il Lao Tze degradava verso il piano fino al Walker, il deserto di sabbia finissima dalle dune incessantemente in movimento.
Arthur calcolò che erano in viaggio da circa otto ore e dell'uomo e della sua potenza le tracce erano andate inesorabilmente scomparendo. Ora, di fronte a quell'immensità ostile, come avvertiva essere quel deserto, sentiva di dover riconsiderare l'idea che si era fatta di quegli uomini nel pub.
- Se il Green Queen avesse ora un'avaria, che succederebbe?
Ingrid sorrise:
- Bhè, la compagnia invierebbe un mezzo di soccorso e, se riuscissimo a non farci sommergere da una duna, se non finissimo in un succhione, se il sistema climatico continuasse a funzionare - qui arriviamo a 320 - 330 gradi Kelvin - avremmo qualche speranza di cavarcela.
- Consolante
- Aspetta d'essere nella cruna, prima di spaventarti, reinbowed - lo schernì la ragazza.
- La cruna?
La ragazza assentì con un sorriso sarcastico e non aggiunse altro.
Il viaggio continuò per ore, finché alle dune si sostituirono scure lastre di basalto, che lentamente s'innalzavano verso le catene montuose che incominciavano ad intravvedersi all'orizzonte. Il deserto cedette il posto prima ad una savana dalle rade piante basse e cespugliose e quindi ad una prateria via via sempre più ricca di boschetti, corsi d'acqua e grandi laghi. In questo tratto avvistarono un altro piccolo gruppo di Greenfree con un gregge di ovini al pascolo. Raggiunsero finalmente la zona montuosa e valicarono diverse catene di montagne totalmente ricoperte di alti alberi dalle foglie di un verde cupo simili a conifere, fino a giungere sulle pendici della grande dorsale ove, presero a salire oltre il limite delle alberature, oltre il limite delle erbe, oltre i muschi ed i licheni, fino alle nevi perenni d'un verde accecante.
Nella cabina pressurizzata Arthur sentiva che i campi magnetici antigravitazionali, che tenevano sollevato ed orientavano il mezzo, stavano combattendo una lotta impari per avere ragione delle crescenti turbolenze atmosferiche.
- Ma dove passeremo?
- Oh, le vette qui sono sui tredicimila metri e non possiamo salirci con la regina - rispose lei, sorridendo a denti stretti - Passeremo ai novemila, per la cruna.
Arthur ingoiò la saliva e la guardò esterrefatto.
- Iuhuuu! - gridò la ragazza e sembrò tenere i comandi come le redini d'un cavallo terrestre mentre li spingeva con decisione in avanti.
Arthur si volse a guardare all'esterno e restò paralizzato dalla paura: la ragazza aveva spinto in avanti alla massima potenza la Green Queen in quella che pareva intravvedersi come una gola non più larga di un chilometro e in cui impazzava una tempesta di neve che rendeva quasi nulla la visibilità.
L'aeromobile era sballottato da ogni parte e pareva sul punto di schiantarsi ad ogni istante. Mentre il terribile vento che soffiava in direzione contraria sembrava dover avere la meglio sulla decantata potenza dei propulsori Hidening.
D'improvviso fu come se una folata maligna avesse sorpreso il computer che gestiva l'assetto dell'aeronave e, prima che i campi magnetici riassestassero i reciproci equilibri, la Green Queen si rovesciò repentinamente sul fianco. Arthur ruzzolò senza controllo dal suo sedile ad aria, rovinando su Ingrid, facendole perdere il controllo dei comandi e scaraventandola pesantemente contro la fiancata.
L'aeronave impazzita, con i propulsori Hidening urlanti alla massima potenza, urtò pesantemente il suolo per un paio di volte in un grande frastuono e mentre Ingrid, dolorante al braccio sinistro e con il volto rigato da un rivolo di sangue, tentava d'aggrapparsi alla consolle per raggiungere i comandi, rimbalzò con un clangore sinistro contro la parete sinistra della gola.
Il contraccolpo fu terribile. Arthur intravvide Ingrid quasi perdere la presa, mentre disperata tentava di reggersi con la mano destra alla consolle. Poi, la ragazza riuscì a disinserire la propulsione Hidening.
Dopo una serie di sobbalzi che sembravano doverla frantumare da un momento all'altro, l'astronave si fermò, fortunatamente, quasi in assetto. Solo allora Ingrid si lasciò scivolare sulla schiena, ponendosi a sedere con una smorfia di dolore.
- Mi dispiace ... - Arthur fu interrotto dal cenno che col capo Ingrid gli rivolgeva indicando un qualcosa in alto.
Ancora intontito, in un primo momento non comprese, poi guardando in alto, sopra la testa di Ingrid, vide sul soffitto sferico la trasparenza segnarsi di merletti di traslucide fluorescenze che si andavano lentamente ramificando e quindi udì, frammisto al mutevole grido del vento, il sommesso ma tagliente suono di un sibilo.
- Il gel ... - mormorò in un filo di voce Ingrid - Là ... nella cambusa ... presto - e la frase le si spense in un violento colpo di tosse.
Finalmente comprese. La cosa più faticosa fu scrollarsi di dosso il ghiaccio della paura, poi tirò, quasi forzò lo scomparto della cambusa e affannosamente individuò la bomboletta. Si tirò in piedi e traballando raggiunse Ingrid e spruzzò, spruzzò e spruzzò ancora.
- È fatta - la voce di Ingrid, ridotta ad un sottile sussurro, finalmente penetrò la sua frenesia.
Rimase per un attimo imbambolato, lasciando che il senso di quelle parole lo raggiungesse. Si lasciò cadere allora ansimante accanto a Ingrid.
- Devi portarci fuori - sussurrò Ingrid
- Io?! - protestò Arthur
- Non posso farcela - replicò Ingrid - Devo avere il braccio e un paio di costole spezzate. Se non ci tiri fuori siamo spacciati.
Arthur chiuse gli occhi ed inspirò profondamente.
- Che devo fare? - Si rialzò sorreggendosi alla consolle
- Aziona il quadro in alto sulla sinistra
- Fatto
Una serie di segmenti radiali comparvero in una piccola spia olografica.
- Bene, almeno i campi funzionano ancora - sospirò Ingrid e dopo aggiunse - il computer di volo è andato, dovrai navigare manualmente e a vista. Afferra la barra e tienila ferma qualunque cosa succeda. Se siamo fortunati schizzeremo fuori da questo inferno.
Arthur si sedette e afferrò la barra con entrambe la mani.
Con uno sforzo che le procurò un grande dolore Ingrid si torse fino a raggiungere con la mano destra la leva dei propulsori Hidening e con un:
- Ci vediamo all'inferno, reinbowed - l'abbassò.
La Green Queen mandò una lamento sinistro e parve impuntarsi verso il suolo, Arthur strinse ancor più spasmodicamente le sue mani sudate sulla barra. Poi, con una lentezza quasi irreale, l'aeronave si sollevò per poi schizzare in avanti in una sorta di nulla verde.
Finalmente, dopo un tempo che ad Arthur parve infinito, la gola s'aprì, il terreno prese a scendere e furono fuori dalla cruna.
Arthur abbassò il capo, incredulo, verso Ingrid, ma la ragazza era svenuta. Doveva trovare una radura, un posto dove fermarsi, per poterle prestare soccorso.
Nevicava ed Uraneo si avviava al tramonto di là, oltre la dorsale, mentre egli teneva ancora le braccia irragionevolmente irrigidite sulla barra sorvolando gole e crepacci profondi chilometri. Si fermò, con una perizia che lo sorprese, in una vallata sui quattromila metri.
Cercò inutilmente il Kit medico nell'aeromobile poi, non potendo fare altro, pulì la ferita alla testa della ragazza: era pallida e aveva la febbre. Tento di azionare il comunicatore con lo spazioporto ma inutilmente: evidentemente era rimasto danneggiato. L'unica soluzione sarebbe stata quella di riportare la ragazza indietro, ma anche se avesse saputo ritrovare la rotta per la Cruna, non era in grado di affrontare quell'attraversamento da solo e con il mezzo danneggiato.
Provò una grande tenerezza mentre tamponava la fronte di Ingrid con un panno inumidito. Ora la comprendeva, ora si. Ora poteva pensare, con un misto di sgomento e ammirazione, ai Greenfree e alla loro follia. Nulla, neanche l'immensità degli spazi siderali svelati dall'oblò di una nave spaziale erano paragonabili a Emerald nella sua memoria. Probabilmente era stata quella precarietà, quell'assenza di filtri tecnologici, quello scoprirsi fragile, indifeso, al di fuori della tutela della società umana; e, certo, era stata sicuramente quell'ultima avventura a far sì che il viaggio si fosse trasformato in un'intima esperienza di vita.
La Compagnia prima o poi avrebbe inviato un traghetto suborbitale, affidando la ricerca al flebile segnale di quel seme metallico che gli era stato inserito sotto l'ascella destra, forse un giorno li avrebbero scovati, forse, ma avvertì chiaro che, eccettuata la preoccupazione per le condizioni della ragazza, questa eventualità non rivestiva per lui, ora, l'importanza che fino a poco prima avrebbe avuto: era dall'altra parte, oltre la cruna, oltre una soglia da cui il tornare al prima non era dato.
Un lamento l'avvertì che Ingrid aveva ripreso conoscenza.
- Tranquilla, siamo fuori - l'aiutò a bere - Non so come ho fatto, ma siamo fuori ... È colpa mia, lo so e ...
- No - rispose lei - Ero io che avrei dovuto avvertirti di usare le cinture.
- Se mi indichi dove possiamo trovare un insediamento, un campo di Greenfree, vedo di portartici: hai bisogno di cure.
- No - Ingrid socchiuse gli occhi scotendo la testa - Andiamo avanti.
- Ma che dici?! - protestò Arthur
- Andiamo avanti - ripeté Ingrid, lo sguardo puntato oltre le pareti della Green Queen - Non senti?
Come suggestionato, d'improvviso avvertì un qualcosa, forse la profonda frequenza d'una vibrazione o il fantasma d'una eco.
- Cos'è?
- Ci chiama.
Si volse a guardare fuori dell'aeronave, la notte aveva ovattato di nebbia la vallata.

Erano ripartiti alle prime luci dell'alba, puntando verso oriente. Ingrid abbandonata sul sedile di destra ed Arthur alla guida dell'aeronave. La parte montana cedette il passo ad una lussureggiante foresta pluviale ricca di fiumi, grandi laghi ed altipiani e poi, quando il vento da est divenne costante e ricco di salsedine, apparve una zona acquitrinosa: la terra di Aither.
Non parlarono, Ingrid manteneva lo sguardo fisso in un punto, là, oltre la curva dell'orizzonte, mentre Arthur rimestava il coacervo delle domande senza riuscire a ricondurle sul piano della consapevolezza: Uranès, Geo, Aither e Phanes, il Brillante, lo sposo di Nyx, l'oscura. Corpo e coscienza, ancora e di nuovo l'angoscia dell'insopportabile durata, della caducità, della titanica miseria e l'orgoglio e la stupidità ... la sete, quella sete d'oblio, lì oltre il cipresso, bagnarsi nel lago di Mnemosine: la fonte, bere e dimenticare, bere ed uscire dal quadro, dalla storia, dalle generazioni ... ed il riposo nella promessa del tutto ... Del tutto, si.
- Si - la voce di Ingrid era sommessa e pacata - è Emerald.
Sussultò e s'accorse di respirare profondamente mentre guardava quel profilo reso ieratico da quella strana mistura di sofferenza e determinazione. Sussultò e s'accorse di accettare quell'irragionevole affermazione appena balbettata, quasi solo accennata.
Era Emerald stesso a chiamarli, a guidarli. Era Emerald presente e remoto, maestro dei sogni e sogno ad un tempo ... Era Emerald ...
- Che vuole?
- ... Egli è - rispose Ingrid inchiodando al suo viso il suo sguardo febbricitante.
Era il sogno la misura dello spazio. Era il sogno la misura di quel tempo ... Non si sforzò più di capire, di dare misure, cedette al richiamo.
La costa era una scogliera alta fino a cinquecento metri, a picco sull'oceano, incessantemente battuta da un mare in tempesta che ne aveva eroso il profilo in profondi fiordi.
La risalirono fino ad un estremo promontorio flagellato dai marosi, dove una sorta di faraglione si protendeva come un estremo richiamo verso oriente. Lì, con le fitte fronde scarmigliate dal vento, s'ergeva ritto un unico cipresso.
Arrestò la Green Queen nei pressi e scese. Il vento gonfio di salsedine l'aggredì sferzandolo. Rimase immobile per lunghi istanti e poi s'avvicinò avvertendo come l'estremo riverbero di un canto.
-Johb! - gridò irragionevolmente
Si volse come a cercare l'amico e vide Ingrid, bocconi, carezzare quel ch'era parsa a lui una roccia ricoperta di muschio. La ragazza cantilenava una nenia.
Guardò la donna, guardò l'albero.
- Johb! - Urlò, ora, di straziante comprensione.
L'albero parve chinare a lui le fronde e il canto quasi sospendersi. Arthur posò la mano sulla corteccia.
Remoto, come una voce che s'andasse frantumando nel coro, lo percepì svanire come linfa nella terra, come vibrazione di un orgasmo infinito.
Non avrebbe ricordato in seguito come fossero risaliti sulla Green Queen e si fossero allontanati dalla costa. Avevano volato per un lungo tempo senza parlare, con lo sguardo fisso davanti a loro.
Emerald scorreva sotto la Green Queen con turbolenta indolenza.
- Tutto questo non ha senso - scosse la testa infine Arthur - La Compagnia, la Confederazione, la specie umana... niente altro che una coltura virale ... orgogliosa ed effimera ... una malattia contagiosa - Ingrid continuava a guardare fisso davanti a sé - Perché, a che scopo?
- E perché no? - Ingrid si era voltata e lo puntava ora con uno sguardo penetrante e sfrontato di sfida.
- ... Chi lo sa? - le sorrise - siamo fiammelle che bruciano il tempo d'un secondo, ma Cristo, che splendore!
Risero.
Non tornarono ad Emeral City, si fermarono oltre la grande dorsale di Pangea in una morbida vallata alpina, trovando ospitalità in un piccolo accampamento di Greenfree.
La Compagnia e la follia della Confederazione sarebbero passate come uno stato febbrile acuto. Loro ne sarebbero stati il vaccino, loro, emeraldiani, avrebbero stretto il patto col gigante sognatore.
Ed intanto, Emerald avrebbe continuato a splendere sul nero velluto del nulla.
 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Antonio Limonciello
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FRAMES 0112
 
batte, batte, come batte il cuore sotto l'ombelico dalla gioia della scoperta alla disperazione dell'inutilità del tutto, non si governa nulla, perché dovrei farlo io? Saprofita, l'unico mestiere possibile per la strada occhi bassi passo svelto contro il mondo cerchi la roba? fanculo! Tutta la notte senza fermarsi mettere ordine alla vita il ripostiglio pieno i capelli bagnati le spalle ricurve nella condensa seduta davanti al bar tra poco apre devo andar via no non torno più, le braccia mi cadono a pezzi come ceramica si infrangono al suolo del mattino gli occhi determinati pesano ai lati del viso è la pancia il centro del male perché chiusa alla vita strette le gambe fino al sudore sul viso le immagini incerte negli specchi girano intorno adesso si vede la sinistra è più bassa della destra e quando cammino ho un palo nella schiena negli occhi come è facile fare elenchi nella vita trascorsa la macchia di destra si dilata sempre più fare qualcosa sono giù amico non sai quanto se scorrono i visi della vita galleria fredda e inutile le storie strisce di vento fuggono via dove sei chiodo nel buco? incalzala come una ballata di Dylan il lungo pene tra le gambe mostrato per godere eccolo lì a significare l'uomo pizzica e vai con dio, come la notte dell'86 come quella del '78 perché sono andato via è un mistero, una voglia di mito -fossi anch'io il tuo mito- fuori c'è solo la linea della desolazione i grigi passeranno al nero il pianto protetto dallo starnuto allergico alle lacrime sapore di primavera fuga di alberi potati la notte dalle luci giallo bronzo i tennis bianchi
sbadiglio
gesto inutile il grano ha messo radici tornerà ancora qualcuno è andato via salutando la vita con una bestemmia, desidero la morte con tutta la voglia di vita intatta gli occhi schizzano fuori pugnali cellula dopo cellula quante ore per raddoppiare? Pugnale diffuso dolore volto deformato dal dolore fino a rinunciare alla vita
devi chiedere di morire devi arrenderti quanto resisti? un mese? due, quattro, cederai chiederai di morire molla la vita amico mollala subito quante volte hai chiamato la madonna?
120 X 1254 giorni prima di cedere al silenzio in qualche parte del mondo, dentro alla cellula prima ho messo la mia giustizia, priva di significato ovviamente come il sonno naturalmente, come i rumori che vanno a perdersi nel nulla come le ballate di Dylan come la pagella presa dalle mani del maestro, lui sa e non parla, tutto è già successo il silenzio è la strada da seguire

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l'ovale buio terza fila di sedie pronte a cambiar padrone davanti nuda la scena se non per te che ci guardi da almeno mezz'ora e ci guardi ci guardi, mi hai guardato, davvero mi hai guardato? Con le luci negli occhi non mi hai visto, eppure hai guardato proprio me, ne sono sicuro mi hai visto cosicché non mi perdo un attimo quando tornerai a me ti sorriderò, lo farò lo devo fare, questo teatro mi piace, nulla da dire e tanto da vivere, una vera relazione tra individuo e individuo, tra me e lei, le sorriderò, se mi guarda le sorriderò come fosse una collina di sterpi le sorriderò
come fossi sull'Atalante gioirò
guardami e questa volta scalerò la vetta come fosse il battello dal profondo delle acque dove io ti ho sognata
guardami
mi sta guardando
lo sta facendo
sorrido lei guarda ancora
ritiro il sorriso
è tornata su di me
sorrido ancora
si chiude il sipario

la notte romana sempre la stessa per chi la vede, dentro l'auto tra le auto qualche moto luci gialle, luci blu lungo le strade, netturbini, polizia, selciato umido e grasso persone e monumenti, paesaggio di uomini lungo la strada di notte, luoghi di finzioni tutti composti rispettosi democratici in attesa di parola, le regole, tutte le regole del mondo
i dieci comandamenti
i sette sacramenti
le sette virtù teologali
i precetti generali della chiesa
le regole condominiali
lo statuto del consiglio di istituto
lo statuto del sindacato
lo statuto del partito
le regole del matrimonio
quelle della convivenza civile
il codice della strada
l'orario dei treni e quello degli autobus
le tariffe diurne e quelle notturne
giusto giusto giusto, giusto
il mondo deve funzionare
santo mondo 6 miliardi di persone
tutte in fila di attesa - tranne pochi
tutti con il sogno da chiedere allo sportello della mutua
del cielo e della terra
fammi almeno vivere
non mi basta vivere

buona sera si ricorda di me?
sì, a teatro, stava in terza fila
lei mi ha guardato, come gli altri, ma mi ha guardato
sì lo ricordo
le ho sorriso ricorda?
sì l'ho vista
volevo dirle che lei corre un grave pericolo, lei guarda tutti a teatro?
sì ad uno ad uno, uno sguardo privato ad ognuno
lei è in pericolo, non sa cosa succede nella testa di uno spettatore
il senso dello spettacolo è proprio qui
non per lo spettatore, lei ha guardato solo me, non potevo tornare a casa, dovevo incontrarla, e se fosse per tutti così?
ma è meraviglioso
no è terribile, cosa può darmi adesso, crede di poter andare a casa come prima, ed io? noi spettatori, dove andremo noi?
l'importante è la scintilla, lei non può tornare a casa? è meraviglioso, funziona, lo spettacolo funziona, pensi, tutti che non tornano più a casa, tutti iniziano a cercare una nuova dimensione di sé, del mondo, lei mi sta portando una cosa bellissima
dove andremo noi?
cosa importa, l'importante è uscire, andare, rompere, rinunciare alle antiche certezze, certezze poi, quali certezze, lei ne aveva?
si ma adesso lei, non voglio andare per il mondo voglio andare da lei, il primo approdo è proprio lei, il primo sogno, il mio primo osare è lei, se non comincio da lei nulla cambia

nella camera dopo l'amore lei dorme io la guardo, fermarmi a dormire, andare via in silenzio, scrivere un biglietto, uccidere,
come uccidere? eccolo, il pensiero prigione contro la mia libera felicità
uccidere, la sola diversità possibile è ucciderla,
il pensiero dolore dopo piacere, come sempre si affaccia, non contro di me, contro l'altro, cosa sarei dopo? ci riesce, sto male, come scioglierlo questa volta, dopo 14 anni oso e lui ritorna, 14 anni dopo è cambiato, contro di me non potevo, ma contro l'altro posso
cosa sto dicendo?
lasciati andare, lasciati andare e come al solito svanirà
come lo farei?
un cuscino in faccia e il mio corpo cavalcioni a tenerla ferma, avanti fino in fondo questa volta o mai più
questo è solo un pensiero terrorista, non devo aver paura serve a darmi l'angoscia paralizzante, estremo tentativo di difesa di una modalità morente, così non mi avvicinerò più ad una donna per caso; ho realizzato un sogno della mia vita, non conquistare una donna lentamente, tante energie e poi profondamente impegnato, io e lei sprofondati nel legame assoluto mortale e poi il pensiero traditore, il tradimento sempre, per la prima volta non mi è costato niente, non mi sono impegnato su niente, posso aprire quella porta e sparire per sempre, nessuno mi chiederà nulla, non sa come mi chiamo
mi manca proprio uccidere, forse la mia vita si appiana se uccido, una delle due cose che mi mancano, uccidere una persona, uccidere non da lontano come per un uccello in volo, ma da vicino, non con l'arma, ma con le mani, nude mani, sentire sotto le dita tutta la forza della vita, della disperazione, della salvezza, misurare quella forza, è fragile? è forte? nel sonno, no, la sveglio, se la sveglio non lo faccio più
devo sapere cosa c'è dopo
non c'è nulla da valicare aspetta, aspetta
arrivare fin qui e non vivere?

l'aria di ottobre è fredda di notte, le strade bagnate, il primo treno alle 4,35, arriverò prima dell'alba, ho tempo per fare una doccia, sbarbarmi, fare colazione e andare al lavoro, andrò a piedi alla stazione mi tengo caldo
è stato facile troppo facile ora ho buoni motivi e la notte non mi fa paura.
 


 
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Mario Amato
[ marius2550@yahoo.it ]
 
LA BOTTEGA DEI GATTI - 1
ovvero storia per un racconto a fumetti

Parte Prima
 
Il Gatto Murr(1) nacque nella fantasia del suo creatore nei modi consoni della natura.
La ragione dell'appellativo "creatore" risiede nel fatto che mi è sempre parso un dono degli Dei saper inventare storie che hanno tutte le parvenze di realtà per coloro che siedono a bell'agio in poltrona e s'immergono nell'attività sacra della lettura. Anche il sostantivo "Gatto" merita la lettera maiuscola, poiché Murr è erede degli animali delle favole antiche, dotati di parola; anzi egli fece ben più che limitarsi a parlare, poiché sostenne anche di saper leggere e scrivere, evento del tutto nuovo fra i personaggi bestiali, e di aver scritto l'autobiografia, intessendola con considerazioni filosofiche.
Il gatto Rino balzò fuori da quelle pagine a queste con un guizzo degno della sua specie.
Il lettore, se mai ce ne sarà uno, può chiamare questo gatto Mürrchen o Mürrlein, tuttavia per rispetto al creatore di Murr, preferiamo il nome Rino, anche in considerazione dello straordinario olfatto di cui era dotato, dote non limitata soltanto alla percezione degli odori, ma soprattutto esteso allo svolgersi degli eventi, vale a dire alla Storia.
Nato dal Gatto Murr, nel senso enunciato, ed a lui accomunato dalla presunzione, che esercitò in un campo nel quale essa non raramente riscuote credito, la politica, Rino si trovò a vivere un'esistenza randagia in una città di mare ed a girovagare prevalentemente nel bello e sporco quartiere del porto, che aveva notevoli vantaggi e presentava la possibilità di piacevoli attività.
Insieme ai marinai ed ai viaggiatori, sbarcavano anche alcuni topi che, non riuscendo immediatamente a trovare una tana sicura, diventavano una facile preda; c'erano le bettole da cui emanava un intenso odore di pesce fritto in un mare di olio; c'erano le corde ben legate dei bagagli da sciogliere; si poteva curiosare dentro i magazzini mettendo ogni cosa sottosopra e fuggendo velocemente appena si udiva il rumore di passi umani.
C'erano soprattutto le ore del crepuscolo, quando sembrava che il mondo rallentasse la sua corsa, ed in quel tempo Rino svolgeva il suo esercizio prediletto, preceduto da un rituale fisico non facile, almeno per gli umani: nell'angolo ove il molo s'incrociava con la via che conduceva fuori del quartiere, Rino si stiracchiava tendendo le zampe anteriori e posteriori il più possibile e stava per qualche minuto in questa posizione, poi si arrotolava su sé stesso fino a divenire una ciambella perfetta, ma senza spazio nel centro, poi lentamente si lasciava andare e finalmente metteva la testa fra le zampe e chiudeva gli occhi, ma non cedeva al sonno, bensì si lasciava invadere dal torpore, sebbene l'olfatto restasse ben desto.
Era certamente piacevole sentire fra i peli la brezza marina, ascoltare il monotono rumore del mare, aprire a metà un occhio ogni tanto e vedere lontano i colori del tramonto, ascoltare le sirene delle navi che annunciavano il loro arrivo o che gridavano il loro arrivederci, farsi invadere le narici dagli odori provenienti dai diversi luoghi e distinguerli uno ad uno; accadeva pure che qualche ratto, ingannato dall'atteggiamento assopito di Rino, si avventurasse a passare dinanzi al suo muso o che qualche uccellino andasse a posarsi proprio vicino a lui; bastava allora allungare una zampa ed estrarre gli affilati artigli per guadagnarsi un pasto senza l'eccessiva fatica degli appostamenti e degli inseguimenti.
Fra quegli odori tuttavia ce n'era uno che procurava a Rino brividi di terrore, faceva sì che il bel pelo grigio azzurro, come il mare, diventasse irsuto e ritto, che raggelasse il flusso del sangue nelle vene e nelle arterie, che immobilizzasse tutte e quattro le zampe, che facesse rizzare la coda, che rendesse duri e privi di sensibilità i bei baffi lucenti. Rino conosceva quell'odore, l'odore di morte che saliva dai topi, dagli uccelli, dalle lucertole, dai conigli, quando egli li uccideva o li trovava privi del respiro vitale per le strade, ma qui nel porto quell' atroce tanfo, che proveniva dalla via ad ondate, sembrava riguardarlo da vicino, aveva una indefinibile caratteristica personale, ma lo sgomento che lo invadeva non gli aveva mai permesso di fare poco più di pochi passi nella direzione della sorgente di quella malefica esalazione.
Venne ciononostante il momento di conoscere la verità, che confermò vieppiù la paura del gatto.
Una sera il fetore era acuto e, per così dire fresco, e con cautela Rino passò fra le gambe di molti passanti esitando ad ogni passo e pensando ad ognuno di tornare indietro, ma non cedette a questa tentazione e si trovò infine dinanzi al terribile spettacolo: dentro una vetrina illuminata sostava immobile, ma nell'atteggiamento di spiccare un salto decisivo, un bel gatto, uno che fino a non molto tempo prima vagabondava nella città e spesso si era lasciato vedere nel rione del porto.
È senza dubbio impossibile sapere se i nostri compagni a quattro zampe abbiano il concetto della vita e della morte, che è legato anche al concetto del tempo, e di certo nessun uomo ha mai chiesto ad un gatto o ad un cane se egli stia vivendo e se sappia che un giorno non sarà più su questa terra, ma è altrettanto certo che qualsiasi essere vivente possieda la percezione della morte e questa certezza deriva non soltanto dalla conoscenza che abbiamo delle bestie e delle piante e degli astri appresa dai trattati scientifici e dalle credenze religiose, ma anche semplicemente dall'aver guardato negli occhi un gatto alla sua ultima ora, un topo divenuto gioco crudele di un felino, una gallina che sta per essere sgozzata da una massaia, una mucca condotta al macello, un cane ormai troppo vecchio per il suo amato padrone. Le antiche religioni non erravano forse attribuendo ad ogni creatura un'anima, e chi è dotato di anima ha conseguentemente una qualche forma di conoscenza, sebbene noi umani nella nostra superbia non siamo in grado di comprenderla.
Il Gatto Murr pretendeva di saper leggere e scrivere e di aver scritto nientemeno la sua storia, in cui è esposta anche la sua visione del mondo. Il libro esiste e nessuno ha mai accertato che sia stato Murr in carne, pelo ed ossa a raccontare a colui che compare come autore la sua vita, e perciò ne consegue che Murr possedesse la capacità di memoria, e perciò la concezione del passato e quindi anche del futuro.
Sappiamo che Rino è discendente da quel letterario felino e forse oltre alla alterigia aveva ereditato anche le altre qualità ma non ci è dato di assicurarlo.
Rino era immobile davanti a quel terribile spettacolo, quando un uomo barbuto e vestito con un lungo camice grigio uscì dalla bottega e avanzò con un braccio teso e la mano aperta verso di lui dicendo con una voce che voleva essere suadente, ma sonava rauca << Guarda che bel gattino>>. Rino avvertiva il pericolo, ma sembrava che il sangue non circolasse più dentro il suo corpo e non permettesse alle zampe di cominciare a correre, sebbene l'impulso alla fuga fosse imperioso, e stava per subire quella feroce carezza, quando una gatta lo scosse dal torpore urtandolo e miagolando <>.
Ed insieme fuggirono attraverso la città, attraverso strade che Rino mai aveva visto, sfiorando nella loro corsa verso la salvezza i passanti, saltando su banchi di negozianti e rovesciando il contenuto di cesti colmi di prodotti per la vendita, entrando e uscendo da giardini di belle case, incrociando vetture e prendendosi più di una maledizione diretta a loro o in molti casi a tutta la loro specie. Finalmente le strade divennero meno affollate, ma non vi erano neanche più i bei marciapiedi lastricati e Rino sperimentò che le sue zampe erano molto più adatte a questo suolo piuttosto che ai pavimenti pietrosi delle città degli uomini e ancora di più provò piacere nel correre sulla soffice erba là ove oramai le case erano rare. Corsero ancora a lungo attraverso la campagna sino ad un enorme granaio, nel quale infine si distesero sicuri di essere in salvo, ma ancora intimoriti. Si annusarono a vicenda, si strofinarono i baffi e seppero in tal modo l'uno dell'altra, poi, stanchi, si assopirono. È vero che gli animali della loro specie non hanno resistenza agli sforzi prolungati, ma la paura era stata tanto grande da rendere possibile questa eccezionale impresa. Rino aveva ad ogni modo avuto il tempo di leggere l'insegna luminosa del negozio, poiché possiamo ben concedere questa capacità al gatto, essendo egli un discendente del famoso Murr: la scritta "La Bottega dei Gatti"danzava ancora dinanzi ai suoi occhi.
Il padrone del negozio era un vecchio noto a tutti come il Signor Wolfi, denominazione che deriva e dal fatto che uno dei nomi del creatore del Gatto Murr è Wolfgang(2) e dal suo odio verso la specie, per così dire, gattesca, poiché sappiamo quale inimicizia esista fra cani e gatti e i cani sono parenti stretti dei lupi.
Il Signor Wolfi, deluso dal non aver catturato Rino, stava in quel momento parlando nella sua bottega con il garzone <> Il garzone, che in realtà aveva da tempo i capelli bianchi, ascoltava a testa bassa l'arringa contro la specie felina del Signor Wolfi, ma la sua immaginazione errava in spazi ultramondani: si figurava che nella prossima esistenza il Signor Wolfi si fosse trasformato in un piccolo sorcio e che due bei gattoni lo avessero catturato e stessero giocando con lui al fatale gioco della vita e della morte e quasi vedeva questa scena e ne godeva e la bocca accennava ad un sorriso, ma senza aprirsi. << Tu sorridi alle mie parole, perché ti sembrano folli, ma io ti dico che quanto ti ho appena esposto risponde a verità e il tempo mi darà ragione. Ora smetti quello sciocco sorriso, prendi la ramazza e attendi al tuo lavoro, poi chiudi il negozio e vattene a casa a dar da mangiare ai tui maledetti gatti. Quanti ne hai?>> disse con rancore il Signor Wolfi e, smesso il camice, indossata palandrana e capello, uscì dalla bottega.
Il ragazzo di bottega e il Signor Wolfi non potevano supporre che un grande cambiamento stava per accadere nella loro storia ed in quella felina.
Nel fienile Rino aprì gli occhi e vide di fronte a sé il bel muso della gatta sua salvatrice, lo strofinò, si alzò, annusò l'occasionale compagna, e la elesse a sua convivente. Dopo aver atteso alle pulsioni sessuali, i due ripresero la via verso la città: superavano campi d'erba, colline, casolari, e Rino respirava con voluttà tutti gli odori per lui nuovi, e miagolavano<< Chi è mai quell'individuo? E che cosa voleva?>> <>. La sera spargeva già i suoi colori bruni quando giunsero in città e Rino ordinò alla gatta di radunare tutti i gatti sul tetto del magazzino del porto. Rino ordinò, come fanno i capi, poiché egli si sentì chiamato ad una grande missione, si sentì chiamato dalla Storia con la "S" maiuscola, ed il comando fu impartito con voce tanto perentoria che l'essere a cui era rivolto non poté non ubbidire. Alle pareti della sala da pranzo della modesta ma decorosa abitazione del garzone pendeva una serie di stampe raffiguranti scene campestri ed esattamente sopra il camino un bozzetto rappresentava un gatto ritto sulle zampe posteriori calzate con un bel paio di stivali lucenti ed ai lati dell'icona penzolavano due stivali del tutto simili a quelli dell'icona. Il ragazzo, allora veramente tale, aveva portato con sé dalla campagna quegli stivali, sui quali le donne della famiglia avevano inventato mille e mille storie e fra tutte a lui piaceva quella del famoso gatto con gli stivali, ma non aveva mai veramente prestato fede all'affermazione dei suoi familiari secondo cui quell'eccellente felino fosse appartenuto alla loro gente; nondimeno aveva voluto quegli stivali ed inoltre, grazie ai racconti tante volte ascoltati, si sentiva in qualche modo legato alla specie dei gatti. Ben presto avrebbe creduto alle fiabe delle vecchie donne di famiglia.
Egli aprì la soglia e chiamò la sua gatta, aspettò un lasso di tempo ragionevole, poi guardò sconsolato la ciotola di latte ancora piena ed esclamò << Ah! Non sei ancora tornata, amica mia!>>.
La sua bella gattina si trovava in quel momento sul tetto a terrazze del magazzino del molo insieme alla maggioranza dei gatti della città e attendeva. Rino arrivò infine, saltò sul punto più alto,guardò lentamente in basso, ma sempre tenendo la testa ben ritta, levò lo sguardo e il muso verso il cielo, lanciò un acutissimo miagolio di dolore, al quale seguì questo discorso << Fratelli di pena, il mio lamento è quello di tutti voi, i miei peli ed il mio cuore tremano di orrore, i miei occhi sono inumiditi dalle lacrime versate da tutti i fratelli caduti in assurdo sacrificio per i sollazzi di uomini malvagi. È vero, mie sorelle e miei fratelli, da tempo la nostra nobile specie è assuefatta all'uomo, ma non tutti gli esseri che camminano eretti sanno comprenderci, ed io il Gatto Rino so che sono venuto in questo luogo ed in questo tempo per liberarvi dal più malvagio degli uomini, da colui che espone in bella vista le salme di coloro fra noi a cui la sorte fu avversa, ma io sento, come tutti voi sentite, i loro miagolii che implorano non vendetta, ma Giustizia e Giustizia sarà per loro, Libertà per noi! I vostri occhi brillano nel buio come astri, che brillino da questa notte in poi per la Libertà!>> E l'ultima vocale si mutò in un più acuto miagolio, poi scese il silenzio, Rino attese. Il silenzio attraversò l'assembramento dei gatti, poi cominciarono sommessi miagolii, il cui tono lestamente si innalzò fino a divenire un chiasso assordante, almeno per gli uomini che in quella notte furono destati da tanta gazzarra e per chi, già insonne, vegliava, e fra questi era il Signor Wolfi; non poche furono le invettive contro i felini; ma per essi quel baccano aveva tutt'altro senso, poiché erano osanna a Rino, erano grida di speranza e libertà, erano propositi di fare giustizia, era lo scandire di un'ora storica nella loro Storia.
Rino ergeva ancor più il capo al cielo e drizzava i peli.
Era l'inizio di una guerra, era l'inizio dell'ascesa al potere del bel gatto venuto da chissà dove.
Noi conosciamo la genesi di Rino e sappiamo anche dai libri di Storia che nei condottieri la sete di giustizia, di libertà, di indipendenza si attenua proporzionalmente al consolidarsi dell' autorità.
Non è giusto tuttavia dubitare dell'ardore e della franchezza di Rino al tempo del discorso appena riferito.
La guerra era iniziata o meglio dobbiamo dire che era una guerriglia, poiché si limitò a scaramucce e scorribande nella aborrita Bottega dei Gatti consistenti nel mettere ogni cosa sottosopra, graffiare mobili, lasciare esalazioni di escrementi. Toccò al ragazzo di bottega riordinare tutto e ascoltare le parole irose del padrone.
Le prime azioni furono condotte da Rino in persona, che riusciva ad infuocare i suoi simili e a riempire i loro crini e le loro ossa di odio e al suo fianco era sempre la bella gattina, ma successivamente, poiché il Signor Wolfi più volte si era appostato ed aveva catturato qualche elemento della milizia a quattro zampe, lo stesso Rino aveva deciso di limitarsi alla preparazione delle imprese belliche - compito di certo faticoso- e di starsene ad attendere su un tetto vicino ad un caldo comignolo.
Non dobbiamo giudicare negativamente tale deliberazione, e perché la capacità critica non è facile da esercitare, e perché essa fu presa in considerazione del fatto che se Rino fosse stato accalappiato e giustiziato la lotta sarebbe forse cessata. È l'eterna diatriba intorno a chi siano davvero i soggetti della storia, se coloro che si assumono il peso dei vantaggi del comando o piuttosto coloro che sacrificano le loro esistenze per la causa nella quale credono.
La bella micina ottemperava ad ogni impero di Rino; si appostava a grande rischio nelle vicinanze del negozio ed attendeva al gelo che il mercante uscisse, vagava per la città ore e ore per portare messaggi o annunciare il prossimo raduno, guidava in carne, pelame e artigli gli attacchi e vedeva ogni tanto cadere qualcuno dei generosi combattenti, ma è storicamente necessario che le rivoluzioni abbiano i loro martiri. Rino se ne stava quieto da qualche parte con qualche bella gatta, ma qualcuno deve pur organizzare, ideare, dirigere, ed anche se si addormentava, anche questo sonno poteva essere utile alla causa.
Una sera non mancò molto che il Signor Wolfi catturasse la gattina: riuscì a bloccarla con la mano destra, abbassò velocemente il braccio sinistro la cui mano impugnava la retina, ma il colpo andò a vuoto, poiché in quel momento un aitante ed audace felino gli saltò con gli artigli sfoderati sul volto procurandogli non poche ferite. Tuttavia proprio questo episodio determinò un cambiamento nelle sorti della lotta: il Signor Wolfi riconobbe la gatta che aveva salvato quel bell'esemplare e non badò a medicarsi i graffi, ma attese che i suoi nemici uscissero dal negozio, si appostò e seguì la sua antagonista.
È senz'altro vero che per un ridicolo essere a due zampe è difficoltoso inseguire un agile animale che salta, si infila in stretti incunaboli, procede silenziosamente, ma il mercante in tutti quegli anni aveva sviluppato una capacità olfattiva sorprendente sì da saper riconoscere questo o quel gatto, per cui gli bastò seguire l'afrore che quella lasciava in ogni luogo in cui transitava. I sospetti del Signor Wolfi si materializzarono allorché vide la gatta entrare nella dimora del suo giovane di bottega.
Il giovane se ne stava seduto comodamente nella sua poltrona prediletta, che in verità era l'unica in casa, con un libro di fiabe in mano ed era un po' triste, poiché senza la sua amica a quattro zampe si sentiva solo, sì che non appena la vide diede in una calorosa esclamazione <> e così detto, andò in cucina a scaldare il latte e a tagliare dei bei pezzi di carne.
La gatta si acciambellò sulla poltrona lasciata libera dal suo buon padrone godendo del caldo della stufa. I suoi simili ora erano per strada, al freddo e al gelo oppure stavano nascosti nelle intricate puzzolenti gallerie delle chiaviche della città. Questa era tutt'altra vita! Il padrone tornò con il pasto caldo e copioso debordante dalla ciotola ed ella lo onorò in poco tempo, dopo il qual atto saltò sulle ginocchia di quell'uomo buono che si era riaccomodato felice sulla poltrona e si lasciò strofinare il pelo con un pettine dai denti d'acciaio e tuttavia morbidi e flessuosi. L'aiutante del Signor Wolfi teneva l'altra mano sotto la pancia dell'animale incurante che potessero esserci pulci o pidocchi fra le setole << Ma, ma io sento qualcosa muoversi dentro la tua pancia. Dunque...? Allora...? Ma sei... , aspetti..., e così hai trovato l'amore..., sono contento, avremo dei gattini>> disse proprio così " avremo ", quasi che egli stesso avesse partecipato alla concezione. Appena finito di dire queste parole, si udirono dei colpi veementi alla porta.
Era il Signor Wolfi; la gatta, che aveva odorato il suo nemico, andò a nascondersi sotto la poltrona, ma il negoziante se ne avvide << Lo so che sei lì sotto, bella gatta, ma non potrai sfuggirmi. Lo sapevo, ragazzo, che sei un maledetto traditore, ma dovrai consegnarmi la tua amica >>.
La gatta uscì lentamente, forse perché temeva che il Signor Wolfi facesse del male al suo padrone ed iniziò ad emettere dei miagolii, ma non di paura, bensì ben cadenzati.
Avvenne qualcosa difficile da spiegare: il giovane intendeva i miagolii come parole di un discorso ben ponderato. Non dobbiamo dimenticare gli stivali appesi sopra la stufa.
<>.
Il Signor Wolfi ascoltò questo discorso non meravigliandosi affatto che il suo garzone comprendesse il linguaggio della gatta, poi con una rapidità impensabile per un uomo di quell'età afferrò l'animale con una mano, lo portò dinanzi al suo viso e replicò << Certo bella gattina, che figura farà nella mia vetrina il tuo drudo!>>. Nelle sue mani il vecchio negoziante poteva sentire il battito del cuore dell'animale, il quale disperò di essere lasciato vivere, ma il Signor Wolfi lo depose accuratamente a terra.
Naturalmente egli aveva accettato solo apparentemente l'accordo, poiché nella sua mente già vedeva i due splendidi esemplari felini nella vetrina, imbalsamati l'uno accanto all'altro, con sotto un bella intestazione del tipo Romeo e Giulietta dei Gatti.
Certamente a noi può sembrare crudele il comportamento del bottegaio, ma se volgiamo il pensiero alla Storia, dobbiamo riconoscere che non vi è eroe che non abbia vinto le sue battaglie senza stratagemmi, espedienti, frodi ed astuzie.
Se ne andò soddisfatto attraverso la città deserta e se udiva un miagolio o intravedeva un paio di occhi fosforescenti balenare nell'oscurità, sorrideva soddisfatto e brontolava qualche parola <>.
Anche la bella gattina Giulietta - così la chiameremo ora, prendendo spunto dalla meditazione del Signor Wolfi - correva per la città alla ricerca dei suoi amici e soprattutto di Rino. È difficile dire i turbamenti da ella provati, colmi, da una parte, di rancore e compiacimento per la non tarda vendetta e dall'altra di pentimento. Quando si fermava a chiedere ad uno della sua specie ove potesse trovare l'amato capo, le pareva che quello indovinasse i suoi pensieri di tradimento e chinava lo sguardo, poi proseguiva verso la meta, ma le sembrava di ricordare che nell'ultima conversazione si fosse lasciata sfuggire qualche miagolio di troppo.
Giunse al rifugio, Rino era sdraiato, attorniato da belle gatte e da robusti esemplari di maschi. Credete forse che si rizzò sulle quattro zampe alla vista della sua Giulietta, di colei che lo aveva iniziato all'amore, ovvero ad una vita reale? Sì, alla vita reale, poiché gli amori letterari altro non sono che sogni! Sogni di notti insonni! Amori cercati fra le righe confuse dei libri e svaniti dietro il color rosa dell'alba lontana! Rino si limitò a volgere lo sguardo stancamente. Era stanco! La sua attività di capo era veramente spossante: pensare, decidere il giorno e l'ora dell'attacco, nominare gli individui opportuni.
E soprattutto attendere!

NOTE
1) E.T.A. Hoffmann Vita e considerazioni del Gatto Murr
2) Ernst Theodor Wolfgang Hoffmann cambiò il suo terzo nome in Amadeus per amore della musica di Mozar
 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Mario Amato
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LA BOTTEGA DEI GATTI - 2
Parte Seconda
 
Le femmine tuttavia hanno appreso durante secoli di soprusi e di artefatta sottomissione arti sconosciute ai maschi, le cui opere non è dato di vedere in nessun museo e la cui storia non è riportata su nessun testo scritto. Non esiste manuale de queste arti.
Giulietta compì il suo capolavoro e dopo pochi giorni Rino languiva dentro la più bella gabbia della bottega del Signor Wolfi, famoso imbalsamatore di gatti, ma non era in solitudine, poiché nella prigione contigua giaceva, pentita e disillusa la stessa Giulietta, prossima al parto. La scritta "Romeo e Giulietta dei Gatti" campeggiava fra i due recinti, come l'imbalsamatore si era proposto.
Non è certo il caso di narrare atto per atto l' insidia concertata fra la bella gatta ed il grande nemico, visto che la storia delle guerre ne è colma.
I due gatti erano ancora vivi, perché il Sig. Wolfi era uso esporre la sua merce nella sua bellezza, per così dire, in movimento, affinché la clientela avesse un'idea precisa della eccelsa qualità degli articoli in vendita.
In rare occasioni entrava nel negozio qualche donna pietosa o qualche anziano signore malato della più terribile malattia della vita, la solitudine, e chiedeva di poter acquistare il gatto o i gatti vivi, ma questi avventori venivano scacciati in malo modo e dovevano anche ascoltare il discorso del negoziante sulla alta missione a cui era stato chiamato. Erano, lo ripetiamo, circostanze rade, perché la fama dell'imbalsamatore era rimarcabile nell'intera città e superava anche i suoi confini.
Rino e Giulietta stavano nelle grate l'uno accanto all'altra in silenzio. Nelle prime ore della cattività i miagolii di rimprovero del maschio e quelli di pentimento della femmina erano echeggiati fra le mura della bottega, poi il terrore e la rassegnazione e la taciturnità avevano preso il sopravvento.
Non la calma.
Il rancore covava nel cuore di Rino, che progettava mille e mille maniere per vendicarsi, ma altro non era che un modo per trascorrere il tempo, perché vedeva le sbarre ovunque si voltasse ed infine, giunta la sera, sopraggiunsero Herr Wolfi e a distanza, dietro di lui, l'aiutante - come in un funebre accompagnamento- a serrar la porta ferrea e le imposte di massiccio legno della vetrina. I due felini, che pur tanto ardimento avevano messo in mostra durante la lotta violenta e disperata per la libertà, dimenticarono la baldanza e s'acquattarono ognuno nell'angolo più buio della gabbia, tremanti e con gli occhi fissi. Anche il giovane di bottega stava rigido in un angolo dell' esercizio, ché egli ben sapeva cosa riservava il futuro ai due bei gatti. In verità molti progetti si erano formati nella mente di Rino, propositi di fuga, di attacco al nemico non appena l'avesse visto, determinazioni che erano calate nell'oscurità del terrore, che ora lasciava la speranza soltanto ad una fine rapida. Il bottegaio ordinò al garzone di prendere le due graticole e consegnarle nelle sue mani. Terminata questa operazione s'incamminarono tutti, chi con i propri piedi, chi trasportato, per il retrobottega e poi scesero buie e sghembe scale, fino a giungere in una grande stanza affollata di strumenti di tortura. Ad una parete stava un enorme disegno riproducente la carta geografica dell'antico Egitto e aperti sui ripiani innumerevoli volumi e in uno di questi Rino trovò la salvezza : era, per onor di precisione -qualità costrittiva di ogni tipo di scrittura e vieppiù di quelle antiche- era una pergamena incisa di geroglifici egizi ed uno di essi rappresentava un gatto. Rino ricordò che in quell'antica terra i gatti erano sacri. Herr Wolfi già armeggiava con ferrei strumenti e pozioni alchimistiche, quando Rino iniziò il suo miagolio, che, come già sappiamo, l'apprendista ben intendeva <interessare, nel senso fisico di ingravidare e nascerebbero molti bei gattini ed io ve li consegnerei e se poi ne nascesse uno simile a me potreste con lui stipulare lo stesso patto >>.
Alla parola interessare, che non a caso abbiamo voluto enfatizzare con la scrittura corsiva, Rino ebbe un sorriso di presunzione. Prima di procedere nella narrazione, che spero sia divenuta avvincente, voglio difendermi dall'accusa di crudeltà mossami dal Gatto Rino, non certo negando: per iniziare questa breve arringa dirò ancora una volta che Rino non fu generato dalla mia mente immotivatamente, ma fu egli stesso ad frapporsi in queste pagine, si presentò di sua volontà ed io non ebbi altro da fare che registrare la sua storia. Storia: chi mai avrebbe conosciuto questo eroico gatto ? Non sarebbe stato scambiato forse per uno dei tanti esseri randagi e notturni che trascorrono senza lasciare traccia ? Sono dunque stato crudele ? La crudeltà è una categoria irrinunciabile della scrittura fin da quando uno scrittore spagnolo del secolo XVII si divertì a far passare da una disavventura all'altra un vecchio e stanco Hidalgo della regione della Mancia, tanto che il lettore non è mai capace di comprendere se quel nobile cavaliere sia veramente folle o se abbia scelto la fantasia per non sottomettersi alla banalità della vita quotidiana . Io non faccio altro che seguire regole dettate da coloro che sapevano l'arte della scrittura, ed esse comprendono anche la leggerezza, che mi suggerisce di non gravare la storia di digressioni eccessivamente lunghe e di riprendere la narrazione.
Herr Wolfi ascoltò attentamente la traduzione di quei miagolii, i quali senza il commesso gli sarebbero parsi insensati lamenti, si sedette a riflettere e durante il tempo di questa ardua attività calò nella sala un sepolcrale silenzio, sebbene qualcosa accadde. L'aiutante approfittò dell'impegno del suo padrone e riuscì a liberare la sua piccola gattina, la quale riconquistò la libertà e tornò a rivedere le stelle.
Il giovane di bottega fu lesto a convincere Herr Wolfi che la gabbia non era ben chiusa e che troppo rapida era stato la gatta per il suo passo gravato dagli anni. Il bottegaio stranamente non biasimò il commesso, ma disse di accettare l'accordo, con grande gioia di tutti.
Iniziò per Rino una nuova vita, di certo meno gloriosa e più faticosa della precedente : viaggiò molto il felino, poiché egli non poteva presentarsi dal popolo della città, che già lo avevano eletto ad eroe e lo ricordavano come martire trapassato. Murr si fece allora marinaio, nel senso che saltò sulla prima nave in partenza, e i marinai presero a benvolerlo, poiché è insolito vedere un gatto su una nave; divenne un vero gatto di mare. Non abbiamo voluto dire lupo di mare per non eccedere nell'ironia e perché questo nomignolo avrebbe avvicinato troppo l'animale al suo nemico, ché tale restava nel suo cuore sconfitto. Molte battaglie vinse ancora Rino nelle terre ove le navi lo portavano: amò gatte di ogni parte del mondo, tuttavia non trovò mai più l'incantamento del suo primo amore, amò gatte randagie, domestiche, entrò in nobili palazzi al seguito di viziate feline, e sempre riportava al Signor Wolfi la merce pattuita, privandone la legittima proprietaria. Provò l'ignominia e i pericoli di essere un semplice soldato che nulla ha da fare se non obbedire agli ordini, rasentò i muri nelle notti oscure come la sua anima, rinnegò più volte sé stesso e la sua storia, imparò l'arte della menzogna, attributi che aveva usato anche nel tempo della corona, ma che allora venivano conosciute quali virtù.
Il tempo trascorse ed egli non s'avvide del primo pelame perduto, ma esso non sfuggì a Herr Wolfi, che attuò quanto da tempo voleva attuare, poiché l'antico odio non s'era sopito. Nessuno seppe della morte di Rino, se non la vecchia compagna dei tempi gloriosi, informata dal suo padrone e amico. È vero, appresa l'intera storia, ella lo giudicò un vile, ma pure emise miagolii di dolore.
L'amore non ha confini, neanche quelli della vergogna.
Trascorse ancora tempo ed anche Herr Wolfi defunse e quel giorno è indelebile nella memoria della città, poiché tutti i gatti della città miagolarono per l'intera notte di gioia ed esultanza.
La vecchia bottega dei gatti fu rilevata dal garzone, che la trasformò in un negozio di animali da compagnia, vivi. Un banale negozio, che nulla ispira ad un narratore annoiato!
 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Loredana Rea
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LA LUCE DELLA NOTTE
tra sogno e visione la pittura di Heinrich Füssli
 
"Vegliando noi abbiamo un mondo comune ma sognando ognuno ha il suo"
Eraclito

La notte mostra il suo volto umbratile e mutevole, talvolta terribile nell'incertezza della vaga luce della luna, che scorre via lieve sfiorando le forme o che indugia e si mescola vischiosa alla materia per diventarne il cuore.
L'oscurità confonde i sensi e la ragione per s-velare e ri-velare un mondo diverso, impenetrabile agli sguardi superficiali, perché più prossimo allo spirito e all'anima. Un mondo in cui la pienezza del vedere è posseduta solo da chi sa discernere che nell'oscurità ogni cosa, pur apparendo diversa, rimane sempre uguale a se stessa e, anzi, proprio nella diversità afferma la propria appartenenza e le ragioni della sua esistenza.
Nel buio della notte, materializzazione del muto dialogo tra visibile e invisibile, tra razionale e irrazionale, tra opacità e trasparenza, quando gli strumenti della quotidiana conoscenza hanno perso ogni valore, perché tutto tra illuminazione e occultamento sembra inesorabilmente diverso, si comprende che questo mondo, che appare sconosciuto, è il rispecchiamento di una dimensione interiore.
Si riscopre l'originaria unità tra l'individuo, la realtà fenomenica e la vastità del cosmo.
Nel sé si riconosce l'altro da sé, attraverso un processo di intuizione profonda e immediata, inteso come possibilità di andare oltre.
Oltre i limiti imposti.
Oltre la realtà di ambigue prospettive, di effimere apparenze, per conoscere le leggi primigenie sulle quali si ordina l'incomprensibile articolazione del quotidiano, per prendere consapevolezza del vissuto personale e collettivo, della realtà profonda della vita e delle cose.
Seguendo le labili tracce, che il buio della notte cela e un bagliore svela, si cercano le risposte alle tante domande senza risposta, per placare i dubbi e le incertezze e, soprattutto, per comprendere le ragioni più vere dell'esistenza.
Quando lentamente una coltre scura copre ogni cosa, tutto perde il suo quotidiano aspetto, trasmutandosi in altro.
Le ombre prendono corpo.
Le tenebre alla debole luce della luna si animano di forme sconosciute, dalla morfologia incerta, talvolta mostruosamente spaventosa eppure profondamente attraente. E dal buio profondo, che occulta in una dimensione onirica e animica la coscienza della totalità, emergono improvvise immagini arcane, enigmatiche materializzazioni di archetipi e memorie ancestrali. Sono tracce ctonie della stratificazione del tempo, di mitologie primordiali, di dimenticate ierofanie, immagini perdute nell'insondabile profondità del substrato inconscio collettivo, che attraverso il processo di rituale esorcizzazione rappresentato dall'arte affiorano tra le ombre notturne.
Immagini oscure e allo stesso tempo familiari, di una familiarità straniante, che da una parte suggerisce l'esistenza di profondi legami con quella realtà che la luce del giorno fa apparire nella sua pienezza e dall'altra la nega. La nega per mostrare la totalità di un luogo panico, luogo dello spirito e non della geografia, che si manifesta attraverso una ritualità complessa, primigenia, che è pratica di superamento e sconfinamento e possibilità di comprensione piena e immediata.
A queste immagini, generate dalle viscere oscure della notte arcana, intesa come grembo materno, nel cui buio si rivela ciò che la luce nasconde, Heinrich Füssli, a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, dà corpo, facendole diventare il nucleo centrale della sua pratica artistica, intesa come strumento di indagine e conoscenza.
La propensione per la notte, che adombra sempre un'enigmatica fraternità con la morte, è una delle tematiche fondamentali delle poetiche preromantiche legate alla temperie dello Sturm und Drang. Ma spesso, come in Füssli si trasforma in spinta verso l'esplorazione del mondo sconosciuto del sogno per riscoprire una ignorata familiarità con le forze oscure e minacciose che esorbitano dal dominio della coscienza e dal diretto potere della ragione.
Attraverso la pittura infatti Füssli si addentra nei territori inesplorati della sogno, in cui per vedere è necessario chiudere gli occhi, così che l'arte possa smettere di perseguire semplicemente l'ideale estetico di bellezza e perfezione e diventare, invece, un mezzo per esplorare la natura e l'uomo sin nei suoi più muti e oscuri recessi. Lo strumento privilegiato attraverso cui all'uomo è data la possibilità di ascoltare i moti profondi che si agitano in profondità, di materializzare in immagini le energie psichiche che affiorano frammentarie lasciando sulla superficie tracce criptiche.
Tutto questo significa dare valore a ciò che proviene non dall'esperienza della realtà oggettiva, bensì dall'oscura profondità della realtà interiore. Significa cioè dare voce alle ragioni sconosciute dell'anima per mezzo di una pittura in cui luci e ombre, bagliori e oscurità cristallizzano sulla tela o sulla carta le inquietudini che dilaniano l'uomo.
Ma la ragione conscia dei suoi poteri vacilla, mentre l'inconscio attraverso il sogno afferma la propria libertà, a dispetto di tutte le conquistate certezze.
Il buio si anima all'improvviso di sconosciute presenze, che aumentano il senso di solitudine e di spaesamento.
L'uomo è solo con se stesso e da solo deve fare i conti con ciò che nasconde dentro di sé.
La pittura di Füssli, costruita mescolando le ascendenze michelangiolesche alla maniera di Pontormo e Parmigianino, nella sua estrema visionarietà, nella sua caparbia ricerca della luce nella notte, nella sprezzante esplorazione delle regioni del sogno, rivela uno stretto legame con la poesia: con Goethe, Novalis, Herder.
La stragrande maggioranza delle sue opere nasce da un'ispirazione letteraria, come a ridare vita all'antica formula dell'ut pictura poësis. Ma Füssli pur partendo da un testo letterario abbandona ogni tentazione di verosimiglianza descrittiva per addentrarsi, seguendo la bellezza delle parole, nei campi sconfinati della fantasia.
Stimolato dal potere evocativo del testo vede, anche se poi chiude gli occhi per poter vedere oltre e trascendere la cristallina realtà della ragione.
La dimensione poetica e letteraria rappresenta una sorta di luogo metafisico, posto a metà tra realtà e fantasia, in cui si può compiere il processo della ri-velazione. Un luogo in cui è possibile intravedere al di là del buio della notte oscura i bagliori della luce e in cui l'artista trova continui stimoli per costruire le straordinarie e funamboliche architetture dei suoi sogni, materializzati nella pittura.
Sogni che acquistano in definitiva più consistenza della realtà al punto che Füssli rimane completamente imprigionato dal fascino di quelle inquietanti visioni, in cui la tensione erotica si mescola a sottili malinconie.
Il continuo ricorso alla poesia, al dramma, che pure danno alla sua ricerca una incommensurabile carica di tensione spirituale, finisce però con il conferire ai suoi dipinti l'aspetto di una messa in scena, sia pure sempre tenebrosa, colma di pathos, visionaria.
Come se Füssli, attratto dalla ritualità della finzione, si compiacesse di mettere in scena parossisticamente i fantasmi della ragione, le ombre proiettate dal sogno.
Ne L'incubo(1) il parossismo raggiunge l'acme.
Il corpo di donna enfaticamente disteso, come scolpito nel marmo seguendo la lezione di Michelangelo, evoca sogni torbidi.
La luce scivola ad esaltare i muscoli irrigiditi da una oscura tensione.
Dal buio profondo dello sfondo emergono immagini via via meno incerte e sempre più inquietanti: un nano deforme e una spettrale cavalla.
Chi sono i terrifici guardiani del sonno tormentato della giovane donna?
Chi se non l'incarnazione delle misteriose forze vitali che con la loro energia panica percorrono il buio, scuotendolo nel profondo, e animano il cuore della notte, in cui ancora indistinti convivono bene e male?

NOTE
1)Questo soggetto, argomento di molte interpretazione, è stato replicato da Füssli numerose volte, e anche con alcune varianti, a partire dal 1782. La prima versione, oggi al Institute of Art di Detroit è del 1781. La replica
 


 
fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Romolo Runcini
 
NOTERELLA
sulla mentalità del fascismo e dei suoi attuali esegeti
 
Presso Stampa Alternativa, nella simpatica collana "Piccola Biblioteca Millelire" è uscito recentemente (ma con data Maggio 1996) un pacchetto di libri a cura di Carlo Galeotti, dal titolo Credere. Obbedire. Combattere. I catechismi del fascismo che assieme al testo di pugno del Galeotti, Il Duce Dio tuo, riporta quattro volumetti fondamentali dell'ideologia del regime: Il primo libro del fascista (1937), Il secondo libro del fascista (1940), La dottrina fascista (1929) di Augusto Turati e La dottrina del fascismo (1940) di Benito Mussolini.
L'edizione tascabile è certamente gradevole e questi volumetti si lasciano leggere anche da coloro che temono d'impegnarsi in letture troppo ponderose. Trovo, dunque, lodevole l'iniziativa di diffondere quei testi per una diretta riflessione sulle idee che partoriscono gli esaltanti miti nostrani della romanità e dello spirito guerresco.
Osservando questi volumetti più da vicino, notiamo però alcune sviste: Il primo libro del fascista (d'ora in avanti Primo libro), benché ripreso qui alla edizione quarta del 1939, non contiene affatto il paragrafo "Autarchia", che venne aggiunto nel volume unico Il primo e il secondo libro del fascista dell'anno XIX, ossia 1941. Il paragrafo "La difesa della razza" non rientra nel Primo libro in nessuna edizione, appartenendo di fatto a Il secondo libro del fascista (d'ora in avanti Secondo libro), cioè a una lettura per scuole medie e superiori. Invece tale paragrafo, assunto impropriamente dal Galeotti nel Primo libro, corrisponde in parte, ma con varianti assai diverse, al paragrafo "Che cosa devo sapere sulla razza" che figura nell'edizione 1941 del Secondo libro. A questo pasticcio di struttura e di date dei due libri fascisti va aggiunto che il curatore, riferendosi alle edizioni autentiche dei medesimi, cita Verona 1939, omettendo il dato editoriale, Mondadori, un dato che invece figura debitamente per tutti gli editori dei libri consultati dall'autore di Il Duce Dio tuo, come si può notare nella succinta e inessenziale bibliografia di quel testo. Sarà un caso, o magari c'è un motivo opportuno per omettere qui il nome di Mondadori?
Inoltre, in calce rispettivamente al Primo libro (p.5) e al Secondo libro (p.4) l'autore di questa impresa editoriale, citando quale fonte ufficiale l'edizione veronese 1939 (senza l'editore), proclama subito dopo la sua ristampa (si fa per dire) Prima edizione maggio 1996 e Nuova edizione 1996. Galeotti è senza dubbio affetto da miopia precoce, visto che vent'anni fa, nel 1977, era uscito presso l'editore Savelli di Roma un volume a cura di Domenico De Masi e Romolo Runcini, intitolato P.N.F. Manuale di educazione fascista, con "introduzione" di De Masi e "Commento ai testi" di Runcini. Questo libro, da tempo esaurito, ha avuto un certo riscontro di pubblico e soprattutto è circolato nelle scuole di molte città italiane; il suo merito derivava soprattutto dall'essere nel formato e nel testo una copia anastatica del Primo e secondo libro, senza infingimenti si sorta. Una "Appendice" al Primo libro, a cura di De Masi, documentava gli sviluppi ideologici del testo nelle edizioni successive al 1937.
Ora, se prendiamo in considerazione il testo di Galeotti Il Duce Dio tuo, ci rendiamo subito conto di altre sviste, che non aumentano certo la credibilità di questo compilatore d'assalto. Nell' "Introduzione" al suo testo l'autore snocciola un lungo elenco di parole-chiave dal timbro fascista: "martire, credente, sacrificio … mistica fascista, comandamenti, catechismi" (p.6). Tutte queste parole effettivamente rientrano nel gergo del regime, salvo l'ultima "catechismi". Il giovinotto è troppo lontano da quel clima per capire che il termine "catechismo", tipicamente ecclesiastico, non poteva mai figurare in alcun testo di quegli anni, dal momento che apparteneva di fato a un linguaggio altro, quello della Chiesa e dei suoi proseliti (parrocchie, circoli dell'Azione cattolica, scout, ecc.) e i due regimi - il fascista e il cattolico - non erano certo in sintonia neppure dopo la stipulazione dei Patti lateranensi (1929), visto che nel 1931 il Papa in carica emana l'enciclica "Non abbiamo bisogno" contro le turbolenze fasciste ai danni di scuole e circoli cattolici, turbolenze continuate peraltro fino al 1938. Figurarsi se i decreti e dispacci di Achille Starace, segretario del P.N.F. - antiborghesi e anticlericali - potevano chiamarsi "catechismi"! Che poi i Cappellani militari e la Curia vescovile benedicessero i gagliardetti delle truppe fasciste (la M.V.S.N.) mandate in Abissinia e in Albania, questa faccenda rientrava negli accordi da rispettare, oltre che nello spirito delle guerre sante.
Non potendo, dunque, trovare la parola "catechismo" in alcun testo fascista - neppure nel libro di G. S. Spinetti, Mistica fascista, Hoepli, Milano, 1936, dedicato ad Arnaldo Mussolini - né nei testi di autori citati nella sua impresa editoriale, il Galeotti l'ha scoperto nel mio vecchio "Commento ai testi" nel libro della Savelli sopra ricordato; un'interpretazione, la mia, che riscosse un vivo apprezzamento per l'originalità della prospettiva critica (siamo nel 1977) da parte di Mario Isnenghi in un articolo su "il manifesto" uscito qualche mese dopo la pubblicazione del libro. Di fatto quel termine ecclesiastico lo avevo proposto nel saggio di commento al Primo e Secondo libro, mettendo a confronto il testo cattolico ufficiale con i due libri fascisti. Nella pur breve prospettiva economico-politica del fascismo come movimento e come regime, impiegavo quel termine in ordine a una lettura critica e motivazionale che - dall'interno di una metodologia marxista - tentava un approccio allo studio della mentalità e della ritualizzazione gerarchica di un regime totalitario di massa che cercava il consenso generale del Paese. Ora il Galeotti, appropriatosi del termine in questione (senza citarne la fonte, com'è suo vezzo) e invaghitosi della potenzialità ideologica in esso racchiusa, ne ha fatto subito un passe-partout universale per comprendere la cosiddetta "religiosità" del Fascismo. Ma in realtà questa parola "catechismo" (come qualunque parola), appiccicata dall'esterno, come un francobollo, a un testo estraneo alle sue vere funzioni ideative e comportamentali, sottratta alla dialettica di un corso storico, calata dal cielo delle idee crociane, finisce per non avere alcun valore ermeneutico nell'esame di un evento o di una situazione, diventando così un'immagine astratta e inverosimile, ossia fuori di sé. Galeotti è forse un poeta? E allora faccia il poeta, non lo storico.
Tornando al testo Il Duce Dio tuo, in una nota a p.21, l'autore elogia Emilio Gentile come primo interprete dell'istanza religiosa (Il culto del Littorio, Laterza, Bari, 1993)nel crogiuolo dell'ideologia fascista. Il compilatore dimentica però, assieme al suo maestro E. Gentile. Che gli studi svolti da Georges Bataille al College de Sociologie di Parigi, con A. Breton, R. Caillois, M. Leiris - i quali negli Anni Trenta indagavano, da sinistra, sui meccanismi del consenso di massa nei regimi nazi-fascisti - avevano condotto alla scoperta dell'uso opportunistico, del sacro nelle cerimonie di partito e nelle parate militari quale fattore stimolante e aggregante dello spirito nazionale di quei popoli obbedienti e ordinati. Esistono sul caso, oltre ai testi importanti di quegli studioso parigini, due lettere di Bataille - tradotte e commentate da Marina Galletti e apparse sul n.4 di "Alternative", marzo-aprile 1996, pp.111-120 - il quale aveva visitato nel 1934 la "Mostra della Rivoluzione fascista" a Roma e avvertito subito i motivi sotterranei di una sacralità inventata a puri scopi politici. D'altronde, se è vero, come Emilio Gentile sostiene - nell' "Introduzione alla nuova edizione di Le origini dell'ideologia fascista. 1918-1925 (1975), Il Mulino, Bologna, 1996, p.5 - che fino agli Anni Settanta la neghittosità e "l'avversione, per lo studio degli aspetti ideologici del fascismo era tale che scarsa eco ebbero allora, nella storiografia italiana, gli studi di Ernst Nolte, Eugen Weber, George L. Mosse, James A.Gregor …" è anche vero che altri studiosi della sinistra (non sempre bene accetti dal P.C.I.) da T.W.Adorno a W.Benjamin, da M.Horkheimer a Gunther Anders, e, da noi, da A. Asor Rosa a G. Marramao, da M. De Michelis a C. Bordoni, da G. Manacorda a G. Patronio hanno certamente portato contributi importanti nell'esame del complesso fenomeno dell'ideologia fascista.
Giunti alla fine del volumetto Il Duce Dio tuo - dove il tormentone del "catechismo" attraversa la religione e la mistica fascista, il culto della morte fascista, la "macchina del consenso", il razzismo, lo stato - accogliamo senza sorpresa il tono apocalittico di Galeotti nei confronti della civiltà delle macchine, una reazione allo sviluppo dei linguaggi multimediali attardata sugli Anni tra le due guerre, quando i "cavalieri della paura" lanciavano fuoco e fiamme sulla società di massa e sui nuovi strumenti di comunicazione tecnologici che li spodestavano dai loro saggi di legislatori del mondo. Nel paragrafo conclusivo "Il fascismo prossimo venturo", sulla scia della semplicistica e obsoleta teoria popperiana di "Cattiva maestra televisione", si celebrano i nefasti della minaccia del Grande Fratello di orwelliana memoria, dimenticando la pervasività individualistica del personal computer, l'enciclopedismo di Internet, l'accumulazione libera di idee e di immagini. Una vecchia solfa del tradizionalismo intellettuale e non: è il fatalismo della destra.
 


 
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Francesco De Napoli
 
PAIDEIA & POLITÈIA
ornitorinchi e coccodè
 
Bisognerebbe che scrittori e poeti la finissero, una volta per sempre, di porsi gli abusati interrogativi: "Esiste la verità? C'è più verità nella letteratura o nella filosofia, nella poesia o nella prosa?".
Scrive Antonio Tabucchi: "La letteratura non parla di ciò che si conosce, sennò sarebbe cronaca, reportage. Parla invece del non dato da conoscere, e lo fa per immaginazione, per supposizioni. La sua è una conoscenza ipotetica e aurorale, fuori dalla logica di Wittgenstein che impone di parlare solo di ciò che si conosce" (da a Repubblica del 13.05.1998).
Per questo Tabucchi attacca Umberto Eco, che aveva dichiarato: "Se la casa brucia, l'unica cosa che un intellettuale può fare è telefonare ai pompieri". All'autore di Sostiene Pereira non va giù questa visione eccessivamente malinconica e cinica dell'intellettuale telefonista, e soprattutto il fatto che Eco non consideri lo scrittore un intellettuale da porre accanto a scienziati e filosofi.
Umberto Eco scopre l'acqua calda quando cattedraticamente proclama: "Che cosa ci rivelano i Poeti? Non è che essi ci dicano l'essere, essi cercano semplicemente di emularlo" (in Kant e l'ornitorinco).
Ma questo vale solo per i Poeti? E perché non per gli scrittori? Ho l'impressione che mentre si tende a giustificare l'operato dei narratori, la poesia invece -eterna cenerentola- si vuole che resti nel limbo delle belle intenzioni.
È doveroso, a questo punto, chiamare in causa... Aldo Busi, il quale afferma: "Nella filosofia si può mentire scientemente e farla franca per secoli. La Scrittura del romanzo no: l'arte è l'avvocato del diavolo di se stessa. (...) Più lo Scrittore è grande, meno è qualcuno. Quando diciamo Omero sappiamo che dietro c'è Ulisse/Nessuno, ma forse ignoriamo che Omero è nessuno, una convenzione patronimica. Omero è lo Scrittore perfetto: quando si dice uno nessuno centomila si pensa a Omero, non a Pirandello" (in Nudo di madre, Manuale del perfetto scrittore).
Il ragionamento fila, senonché, io credevo che Omero/Nessuno fosse un Poeta, non uno scrittore. La puntualizzazione dovrebbe essere essenziale per chi ritiene che ci sia differenza tra poesia e prosa, non per me che sono convinto che una siffatta netta distinzione non sussista. Accade, paradossalmente, che chi pretende di distinguere commette l'errore di confondere. Si sa, il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi.
Quanta poesia -vera poesia- c'è nei racconti di Kafka! E in quelli di Joyce! E nelle tragedie di Shakespeare! Viceversa, quali orripilanti versacci recano la firma di Carducci e D'Annunzio!
Attraverso una vera e propria diabolica masturbazione mentale Eco riesce a inculcare nello sprovveduto lettore addirittura la differenza che passa tra montagne e MONTAGNE, così come Busi disquisisce (anzi, squittisce) sul tema con variazioni: Guermantes e galline.
Imporrei all'autore de Il nome della rosa di approfondire lo studio degli Essais di Montaigne nel corso d'un punitivo romitaggio in montagna della durata di mesi tre. Detto periodo di riflessione dovrà essere accompagnato da una serie di severi esercizi spirituali consistenti nella lettura in arabo, in aramaico e in pakistano del Discorso della Montagna, con le spalle rivolte alla Valle dell'Eco (ovvero del Canca, in Colombia). Inoltre Eco dovrà imitare, ogni giorno, all'alba e al tramonto il verso dell'ornitorinco trasmettendolo tramite telefono cellulare direttamente alla casa editrice Bompiani di Milano.
Invece, condannerei l'autore di Sodomie in corpo 11 a recitare l'Iliade e l'Odissea dall'ultimo verso al primo nel testo originale, ossia in greco, lettura intervallata, fra un canto e l'altro, dall'esclamazione di quindici coccodé!
Quale devastante scia di aaaaaaaaaa occorrerebbe -parafrasando Zavattini- per esprimere "la situazione a tutt'oggi retorica, enfatica", nei confronti della ricerca della veritàaaa, sempre più miseramente ridotta a optional, a passatempo virtuale per buontemponi cogitabondi e intellettuali fasulli...
- Buontemponi?!? Accidenti a me, che ho il brutto vizio di leggere troppo... Tra le mani ho Come si scrive un racconto di Gabo Màrquez (anche lui?), e leggo: "...Qui è necessario esprimersi con la franchezza più assoluta; dobbiamo imparare a dirci la verità in faccia..."