il sangue e la storia 
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Ignazio Apolloni
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LA VERA STORIA DI JACOB LIEBERMAN
 
Quando vide le lacerazioni del museo di latta eretto sulle spoglie di un infinitesimo di secondo che aveva inghiottito milioni di uomini rei di non identificarsi se non con se stessi – secondo una visione apocalittica di chi non riusciva ad entrarci in quella logica – provò un moto di stizza più che di dolore. Forse avrebbe voluto esserci, in quel mucchio di ossa, per poter dire del disprezzo in lui suscitato dalla codardia del branco; ancor più probabilmente per essere sfuggito al caso e al fato. Ora dunque è davanti al museo con il naso all’insù a rimirare la cassa che contiene gli scheletri, gli occhi sbarrati delle fototessere, le missive mai giunte a destinazione, e a domandarsi quali gli impulsi dei visitatori, quali i sentimenti di rivolta.
Jacob Liebermann non aveva ancora sei anni quando bussarono alla porta.
-
Chi è”?
Nessuna risposta, solo un calcio, la porta cede.
Entra un tedesco, e poi un secondo.
Lui fa in tempo a sgattaiolare, a nascondersi dietro la tenda che separa la stanza grande dalla cucina.
Poche parole, urlate. Poi un silenzio di tomba. Adesso è solo con i suoi ricordi, davanti al museo di latta. Sa che là dentro, nel labirinto delle emozioni che prendono alla gola, ci sono più di sessant’anni della sua vita.
Era accaduto a Leopoli.
Bottegaio, suo padre, venditore di candele.
Ad accudire alla casa, a preparare i pasti, sua madre.
Jacob ha sei anni, capelli biondi, vivace.
Sul pianerottolo si danno convegno i bambini del fabbricato di mattoni rossi, rosi dal vento. Lanciano giù cappelli, palle di carta, insolenze ai vecchi – mendicanti o meno che siano. È un gioco cui un po’ tutti gli ebrei del vicinato rispondono con bonomia. Stenta però oggi a ricordare il nome della strada, il nome dei monelli. Soffre di capogiri tutte le volte che tenta di riportarli alla luce della memoria.
È ciò che gli accade quando sta per attraversare la strada. Finirà investito da un’auto di passaggio.

Lo Judisches Museum, ovvero la scatola di latta di Liebeskind. Esempio di pietà; rabbia inghiottita, come succede alle lacrime quando si rifiutano di uscire per non amareggiare le gote e fare gocciolare il naso; maledizione gridata in sordina perché non ti senta chi ti passa accanto. Questa era stata la reazione di Jacob nel trovarsi di fronte quella sorta di sepolcro, il sudario intriso di tutti i peccati possibili commessi contro l’umanità. Non aveva resistito all’imprecazione muta, sorda. Gli si erano però appena mosse le labbra che fu abbagliato dal sole sulla via del tramonto. Anche per effetto del gelo pungente la sua carne invece che cuocere diventò di ghiaccio. Come un automa attraversa la strada, non vede o non si cura del pericolo. La brusca frenata, quindici metri abbondanti, eviterà il peggio – il Liebermann non era venuto a Berlino per farsi schiacciare da una Mercedes Benz grigio metallizzata, dello stesso colore del museo che conserva i resti immaginari dei suoi avi.

Chi è”? sente continuamente rimbombare nelle orecchie da quando ha preso coscienza della tragedia abbattutasi su di lui, lui ormai orfano.
Fu portato in un lager, una volta trovato in strada a fare il mendicante.
Lo curarono con pane e acqua.
Tentarono di rompere il suo silenzio.
Bocca cucita, terrore negli occhi alla vista di un semplice paio di stivali.
Jacob cresce come un qualsiasi albero malsano, un tanto a settimana.
Ha gli occhi del gufo, il naso adunco geneticamente. È il marchio. È ebreo, ovverosia “l’altro”; il polo opposto del magnete. Lo dileggiarono, i più biechi tra i carcerieri. Poi venne il miracolo, lo smantellamento dei campi di raccolta (di “rifiuti”, stando al classico umorismo di stampo ebraico che non risparmia nessuno nemmeno a chiederglielo di grazia). Si ritrovò in strada in una città della Russia di cui non conosceva nome né confini.
Non molto vasta; una chiesa con la croce in cima alla cupola o portata in processione; gente macilenta; barbe; tiare in testa come fossero cappelli.
Si diresse verso la periferia e quindi per i campi.
In meno di tre settimane si ritrovò a Leopoli.
Nessuno a ricordargli chi era stato.
Soffrì per qualche tempo. Inedia, solitudine, paura, rancore contro non sa esattamente chi. Non prova a domandare, a cercare di avere notizie. Si trasforma in accattone, o forse è più vero che non sa né può fare altro.
Un giorno una donna grassa, senza figli, marito scomparso mentre sta al fronte a combattere i tedeschi, lo chiama, gli sorride.
-
Come ti chiami”?
Lui tace, nega addirittura di avere un nome. È di sicuro un trovatello. La donna gli domanda se sarebbe disposto a seguirla in casa sua. Aveva preparato pure il corredo per il nascituro. Era però nato morto.
Jacob si fida, si lascia guidare. Uscirà da quella casa alla morte della donna senza tuttavia averla vista svanire del tutto dai suoi sogni. E infatti non passa notte che non se la ritrovi al capezzale, sorriso felice di aver dato vita a un trovatello.

Adesso che le case sono state rimesse in piedi, i superstiti ritornati ad abitarle, è tutto uno scrollarsi di dosso il senso di pena, la ricerca dell’oblio. Pochi, a cercare tracce; più nessuno a tentare di identificare una screpolatura della facciata di un fabbricato rimasto illeso salvo l’effetto di una fila di schegge. Jacob ha imparato a non temere gli incubi, non si accorge ormai nemmeno di quelle ferite che sembrano ancora sanguinare se gli si ferma a lungo lo sguardo addosso.

All’inizio, al ritorno, lo facevo, e vedevo sprizzare liquido rosso: ma forse era la vernice, la tinta data alla nuova facciata alla quale però erano state risparmiate le ferite perché servissero di monito. Poi, deglutendo fiele e diventando sempre più giallo per il rimorso, ho smesso di legare il ricordo di quella fase della guerra alla memoria di mio padre e mia madre. Ora sono qui, davanti al museo, e stento a decidermi se attraversare la strada o tornare indietro: sapendo però che indietro si torna solo col pensiero”.

Fece più volte il passo; mise più volte il piede giù dal marciapiede per poi ritrarlo. Ad ogni mossa, il pentimento.

E se dovessi scoppiare in lacrime! Se dovessi allagare col mio pianto tutto il museo fino al primo piano, così distruggendo le ultime testimonianze – le poche sopravvissute allo scempio sistematico che se ne è fatto. Se piombassi al suolo o dessi in escandescenze, e con le fiamme del mio rancore per gli imbelli che si sono prestati all’eccidio dei miei parenti trasformare in rogo purificatore libri e carte, bobine e legni, simulacri e reliquie di quel tempo”?

Jacob è confuso. Vaneggia. Gli arriva il capogiro. Si aggrappa al palo di sostegno di una insegna: quella che indica con una freccia l’ingresso all’inferno. Per lui ciò che ci sta dentro, dentro la scatola di latta (segno di precarietà) sono i segni del pentimento di fronte alla catastrofe che lo ha risparmiato.

Mai che la mia madre adottiva abbia sfiorato l’argomento. A tutti a dire che lui è suo figlio, figlio superstite di una guerra senza vinti che non siano coloro finiti tra le fiamme. Le ho sentite di tanto in tanto sulla mia pelle, mi arrossavano il viso; mi scaldavano le lacrime, di notte, quando gli incubi mi apparivano sotto forma di occhiaie più che di occhi di aguzzini”.

Ora è lì, Jacob, venuto da Leopoli a celebrare la sua privata Aliya e non si decide, non sa decidere se chiudere il conto con la storia o aprire un prossimo capitolo.

Intanto dai pullman, compostamente, scendono scolaresche; i tassì dolcemente scaricano curiosi e turisti; le nuvole assaltano il cielo e fanno a pugni per rimanere quanto più a lungo sul lugubre spettacolo di un ricordo alle vittime dell’eccidio di massa che ha colpito anche la famiglia di Jacob. Sa che, tra non molto, saranno scoperte 2.711 lapidi di cemento senza nomi – una per ogni tanti sacrificati alla follia del nazismo, e non solo. Non vorrà esserci. È già tanto fissare, a palpebre alzate – sguardo fisso, incupito sotto il cappello nero di feltro – le spigolosità della scatola di latta e immaginarci la mancanza di campi di fuga che non siano i reticolati o le torrette, o i wolf. Quanti si sono infilzati nel tentativo di scavalcarli; quanti i rimasti fulminati?
Jacob era piccolo allora. Fosse stato catturato forse ce l’avrebbe fatta a infilarsi tra fila e fila di reticolato. E forse suo padre o sua madre avranno pure tentato, per ritornare a rivederlo, a proteggerlo.
Poi la vedova di un soldato polacco... desiderosa di avere un figlio...
È sempre penosa l’indecisione, il non sapere quale sia la strada dritta: quella che ti porta alla verità. Jacob ha letto che per molto tempo l’Olocausto è stato ignorato o negato. Niente documenti che lo dicessero, lo spiegassero. Poi lentamente è montato nel mondo il senso di colpa, è arrivato persino in Polonia e cominciarono per lui altre pene, quasi un rimprovero. Perché è sopravvissuto, a ricordare a sé e agli altri cosa? Non bastava il maligno che aveva inghiottito milioni di polacchi, al di qua e al di là della Vistola; ci mancava solo questo Jacob Lieberman a dirci che il vulcano ha inghiottito pure gli ebrei riducendoli in polvere, in cenere, quando non in magma. Cosa vuole da noi, noi che abbiamo subito la stessa sorte anche se spesso accusati di collaborazionismo?
Ora però è lui a stare davanti al monumento alla crudeltà più efferata che mente umana abbia concepito.

Chi mi restituirà la foto ingrandita di mio nonno in preghiera perché i pogrom risparmiassero i suoi figli; chi mi darà una pagina della Torah di famiglia perché la possa baciare e ringraziare per avermi dato valori morali – imperituro credo nella giustizia divina, la visione di un mondo che è possibile mondare dal terrore? E che senso potrà avere per me entrare nel baule dei ricordi che mi sta davanti; quale sollievo la visita di tedeschi che sicuramente ancora si domandano – e forse tuttora non ci credono – se sia vero che le pagine della storia siano state macchiate, in modo indelebile, dall’ideologia della morte: l’egemonia dell’uomo sull’uomo, la fine di tutto come redenzione dal peccato: ma peccati commessi da chi se il vivere in pace con se stessi e con Dio è stato il nostro imprimatur genetico”?

È dunque ancora fermo sul lato opposto del palcoscenico del teatro della crudeltà: complice Jonesco nella definizione.
Ne ha fatto di strada, in treno e dopo essere passato da Auschwitz. Ha il cuore a pezzi, la mente intorbidita e intorpidita. Le membra fiacche. Chi gli passa accanto lo guarda con commiserazione. Vorrebbe addirittura dargli una mano ad attraversare la strada ma non osa, potrebbe aversene a male perché in fondo non è troppo vecchio né ha la palandrana. Unico segno a dirne la discendenza – senza che tuttavia si possa immaginare ciò che ci sta sotto, quale frattura le sue cellule nervose hanno subito da quell’età di sei anni ad oggi – il cappello di una particolare foggia, nero.

“Perché sono qui”, continua a domandarsi, “e perché dovrei fare l’ultimo passo per entrare nell’avello di tutti i miei misteri, le cose che non ho mai capito, l’odio di cui siamo stati vittime. Quanto diversi gli altri musei, i dedicati alla bellezza, alla genialità. Non sono però riusciti a contagiare chi invece che opere grandiose, monumentali anche se funerarie – ma post mortem – ha concepito al massimo delle camere da riempire di gas venefico. Perché dunque non mi volto e vado via”?

Pensieri torbidi quelli delle domande sul perché; parola difficile, la più difficile alla quale rispondere. Meglio affidarsi alle vicende materiali, decantarle di ogni bruttura, macchia, lasciarsi vivere se non si riesce a vivere.

Jacob, nella lingua latina; Yakob in quella germanica, era nato in un paesino della Pomerania: così almeno gli fu rivelato da un documento sopravvissuto all’incendio della sinagoga, trovato da alcuni muratori cui era stato dato incarico di edificare una chiesa sulle sue fondamenta. Vi si parlava di un tale Jakob Lieberman: sicuramente lui e non un altro vista la differenza di età, tre anni tra i due. Dunque perché firmava Jacob, come gli era stato insegnato a scuola, finita la guerra? Poco importa comunque, lasciamo perdere, diamoci un’altra identità; molto meglio che portare sulle spalle il peso della tragedia. Quando è sabato però accende una candela in bottega. Ufficialmente perché non ci vede bene, la corrente elettrica è insufficiente. Una diversa spiegazione lo porta a convincersi che ciò faccia a mo’ di insegna. La madre infatti, ormai vecchia ma sempre devota al figlio che le è mancato; rimasta vedova – e forse perché sapeva dell’attività del padre – gli ha aperto un negozietto in cui si vendono candele e affini. Gli affari andarono bene, poi sempre meno. Ripreso l’uso delle candele per celebrare la libertà ritrovata o qualche avvenimento di uguale peso – ma in qualche caso si tratta di andare a venerare i morti al cimitero o esaltarsi sentendo la voce possente, amplificata di un cantante rock – quel prodotto ritornò ad essere richiesto. Cosa dunque di strano se, abbassata la saracinesca il venerdì sera lascia accesa dietro la vetrina una candela sempre più spessa a dire che lì dentro, se si vuole, si può trovare cera e miele, il miele e la cera delle api.
Jacob infatti nel negozietto espone anche barattoli di miele.
Non si sposò comunque, non prese moglie colui che un po’ tutti a Leopoli consideravano un trovatello. Tipo chiuso, raramente col sorriso sulle labbra, atteggiamento di chi sta eternamente in preghiera, a chiedere magari scusa di essere nato, o di non essere morto a seguito della razzia commessa anche da alcuni ucraini (al servizio dei germanici occupanti). Le ragazze lo scansano, scansano il suo accento grave. Non sono impaurite dal suo sentirsi quasi un alieno, avere ben altro per la testa, guardare con indifferenza le processioni che gli passano davanti al bugigattolo: sono, più semplicemente, attratte da chi ha fattezze simili alle loro. Le donne adulte invece ne hanno pietà, hanno assimilato – loro, vedove prima ancora di diventare madri – l’atteggiamento di chi lo ha raccolto dalla strada mentre vaga.
Insomma, Jacob né cerca moglie né una possibile moglie cerca lui. È perciò come se sull’altare egli volesse portarci i resti del suo dolore. Eccolo dunque che un giorno, a cose fatte, decide di andare a Berlino. Vuole sapere cosa contiene la scatola di latta.
Ormai sono due ore circa che il poveretto è lì impalato, indeciso se entrare nella gola del Moloch o fare dietro-front, imboccare la Hoffmann Promenade che adduce a Lindenstrasse da Friedrichstrasse. Per arrivarci ha allungato il tragitto. È sceso fino a Praga per poi giungere a Berlino tra scrosci di pioggia che sembrano anticipare le lacrime che verserà. Appannati i vetri – mentre gli altri viaggiatori sonnecchiano o sgranocchiano biscotti – l’Eurocity fila, la storia naviga dentro il convoglio a dire di come diversi ormai siano i tempi in cui i vopos sparavano a chi cercava scampo dalle dittature saltando il filo spinato, il fosso, lo stesso vallo. Ora abbiamo qui l’ultimo sopravvissuto allo sterminio di massa rimasto in Polonia (almeno così lui crede non avendo, per la mimesi formalmente assunta, contatti con chicchessia né dentro né fuori dei confini della patria acquisita) che fa volare i suoi pensieri – tutti tristi – ancor più velocemente del treno ma diretti in Palestina, esattamente nella Galilea senza che lui sappia dove esattamente sia, tanto quanto non gli è possibile definirla o delimitarla con certezza. Lì vorrebbe ritornare, morire, epperò non se l’è sentita mai prima d’ora di lasciare la sua vecchia madre, di abbandonarla nelle mani di chi non ha alcuna ragione per esserle grato. Lui ora quella terra se la sente addosso come polvere o sabbia portata via dal vento impetuoso, furioso, strappata al deserto offeso dall’invasione dello straniero: il legionario romano venuto a rubare loro la fede nell’eterno per imporre quella nell’imperatore.
Come fa a sapere queste cose, lo Jacob? No, non le sa, le sente soltanto sulla pelle, le divora, le inghiotte, gli essiccano la gola tutte le volte che, rimasto solo in negozio a fine serata, accende la candela e la lascia bruciare dietro la vetrina finché non si spenga da sola. Il sabato infatti, con una scusa o l’altra il negozio non apre.

Permette che l’aiuti ad attraversare? Soffre per caso di capogiri? Tituba o vuole semplicemente godersi il museo dall’esterno”?

Chi così parla è una ragazza, giovanissima, in un pessimo tedesco misto a un meraviglioso polacco dall’accento yiddish. Poche parole. Quelle poche parole sono state però sufficienti a dirgli che da oggi non dovrà più sentirsi solo. Come abbia fatto questa creatura a capire la sua titubanza, il desiderio – forse – di lasciare nell’indeterminatezza tutto ciò che lo separa, e separa chi come lui è stato privato dell’identità o della vita, non gli è chiaro, non gli è subito chiaro.

Non sarà un angelo, l’angelo della vita a dirmi in che ancora posso tuttora sperare, e si può sperare che il male venga trafitto dalle saette del bene? Non sarà venuta ad annunciarmi la resurrezione dei giusti, dei trucidati in nome dell’odio”?

Ovviamente la ragazza bionda, avvertita come un angelo che lo invita ad attraversare il Lete è soltanto un’apparizione, un’epifania. Più semplicemente la ragazzina con lo zainetto è una studentessa, una del gruppo scesa dal pullman per una visita quasi d’obbligo a un monumento funerario in onore di vittime innocenti sacrificate alla volontà di potenza, alla superiorità come principio e fine dell’azione dell’uomo sull’uomo.
Facendo a meno di lei, per timidezza o per vergogna di non essere in grado da solo di farlo, Jacob Lieberman inizia l’attraversamento che nelle intenzioni lo porterà verso una fonte vista come lavacro. Scende dal marciapiede in un totale stato di intontimento; percorre meno di un metro; non si accorge che dalla sua sinistra sta per sopraggiungere una macchina; viene investito; resterà comunque illeso. Della sua esperienza di discesa agli inferi mi ha affidato l’incarico di narrare le parti salienti. Cosa che ho fatto in questo racconto per testimoniarne il dramma che ancora lo rende inquieto se non addirittura senza scampo.