il sangue e la storia 
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Marino Faggella
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LEOPARDI E LA POLITICA - 2
Parte Seconda
 
parte prima

Quali risultati producesse questo " progressismo politico" di Monaldo si può ricavare dall'Orazione agli Italiani in occasione della liberazione del Piceno (1815), ove il giovane Leopardi, assumendo una posizione diametralmente opposta a quella esemplata dal Manzoni ne Il proclama di Rimini, si scagliava contro la rivoluzione francese e, dimostrando inoltre di non credere nell'unità d'Italia, arrivava a sostenere che la felicità degli italiani dipendeva solo dal ritorno sul trono di quei sovrani precedentemente spediti a casa da Napoleone. È risaputo che la polemica contro la rivoluzione e l'idea fondamentale che l'ordine sociale fosse garantito esclusivamente dalla monarchia tradizionale erano i capisaldi del cosiddetto cristianesimo reazionario, l'ideologia nata nel clima della Santa Alleanza. È comprensibile, pertanto, la ragione che spinse il giovane nel '17 a volgere le spalle a questo mondo e alle idee che esso incarnava dopo l'incontro con il Giordani, il quale orientandolo in una direzione politica opposta, lo innamorò dell'Italia. Di lì a poco si sarebbe estinta progressivamente in lui, insieme con le idee reazionarie, finanche la fede religiosa che pure era stata così ardente nell'infanzia, ma che ora, dando inevitabili segni di cedimento, apriva la strada ad un vitalismo di tipo sensista che, combinato con un naturismo di origine classica, il giovane Leopardi della fase storica si preoccuperà inizialmente di accordare con la fede, ma che in seguito, a partire dal '22, l'avrebbe condotto ad abbracciare un materialismo-meccanicismo di tipo estremo, l'idealità che avrebbe sostenuto fino in fondo la visione della vita leopardiana.Già dal '20, tempo della sua seconda e più profonda politicizzazione, Leopardi, contrapponendo - come sostiene Luporini - << popoli e governi, nei suoi pensieri dello Zibaldone guidati dai princìpi (…) di libertà e uguaglianza, considerati inseparabili (32) >>, dopo l'incontro con il Giordani, condividendone le idee nazionali, aveva messo da parte le idee reazionarie per approdare ad un credo che abbiamo già definito più libertario che democratico. In seguito, a causa della progressiva radicalizzazione del suo pessimismo storico e ad una totale sfiducia nei riguardi di ogni teoria politico-filosofica, squalificando ogni forma di governo, era giunto ai limiti dell'anarchismo, come testimonia la nota successiva dello stesso Luporini << Il potere sia concentrato sia decentrato (si premura di precisare a questo punto), è inevitabilmente sempre uguale ad abuso di potere, per una specie di legge di natura (…).Questo resta per Leopardi il male che gli uomini si procurano da se stessi. La sopraffazione degli individui da parte di altri (e Leopardi vuole che non si dimentichi che le masse sono sempre composte di individui, e sopra la infelicità di questi non si edifica nessuna pretesa comune felicità (33) >>.
Ma, giunto ai termini estremi dell'anarchismo, come dimostra l'abbattimento dell'idea stessa dello stato, il pensiero di Leopardi non vi si arenò, non si fermò all'ultimo approdo; ma, questo è il segno della sua vitalità, di quell'agonismo eroico di estrazione romantica sul quale ha giustamente insistito il Binni ( << Ciò che caratterizza la personalità leopardiana è un impegno appassionato, "eroico" per il suo strenuo bisogno e coraggio di intransigenza intellettuale e morale, che porterà il Leopardi ad impostare ed esaurire fino in fondo - con l'ausilio di una mente vigorosa e implacabile - successive posizioni ed esperienze che riprendono la grande eredità del pensiero settecentesco rinnovandola alla luce della problematica primo-ottocentesca. >> che lo portò ad essere mai pago e sempre alla ricerca di rinnovate soluzioni, fino al solidaristico e finale appello della Ginestra. Molto si è discusso sulla natura del messaggio leopardiano contenuto nella Ginestra che ha fornito ampio dibattito ai critici di ogni estrazione, particolarmente a quelli di scuola marxista, i quali hanno insistito un po' troppo, e secondo noi a sproposito, sulla natura politica del messaggio stesso fino a fare del poeta dei Canti un anticipatore del pensiero socialista. Lo stesso Luporini, pur avendo analizzato a fondo nei sui studi il pensiero politico di Leopardi rischiarando molte zone d'ombra, nel parlare della Ginestra non può vincere la tentazione di assimilare l'originale idea del solidarismo universale del poeta all'egalitarismo dei seguaci di Marx ( << Non sono pure fantasie poetiche: v'è il presentimento del socialismo, della Società delle Nazioni, dello "stato scientifico", di tanti problemi e di tanti ideali che affannano già oggi l'umanità (35) >> ) fino a sottolineare nelle conclusioni, pur ribadendone la specificità, la natura progressista del pensiero leopardiano << …dunque il Leopardi fu un pensatore progressivo (…) il più progressivo che abbia avuto l'Italia nel XIX secolo (36) >>. Più corretta appare, a nostro giudizio, l'impostazione critica di Asor Rosa, le cui considerazioni finali sul messaggio della Ginestra risultano una chiara smentita del progressismo politico di Leopardi, non fosse altro perché progressismo e pessimismo fra di loro ripugnano << Per l'esatta determinazione di questo punto, diventa allora probabilmente un errore di prospettiva andare alla ricerca del messaggio leopardiano di ciò che in altri termini, il Leopardi avrebbe inteso insegnarci sotto il profilo ideale, morale e magari politico (37) >>. A proposito del profetico annuncio della Ginestra si può a questo punto concludere che l'idea della << social catena >>, per nulla contraria alla posizione anarchica di Leopardi, è una catena , come nota, e qui giustamente, Luporini, non << lega e costringe >> come quella dello stato, ma << che salda chi fraternamente collabora >>.Essa, infatti, non ha nulla a che vedere col politico contratto sociale, che pur sempre stringe gli uomini con i suoi obbliganti nodi, ma scaturisce dalla necessità di un'alleanza comune dei viventi non più l'uno contro l'altro armati a causa del loro egoismo di origine sociale ma per amore alleati in una specie di solidarismo internazionale che fa dimenticare le guerre nazionali che nascono dall'odio per lo straniero ( ritenuto altrove da Leopardi una specie di amor proprio ben diretto ) sostituite e superate dalla guerra universale e stellare che li vede opposti non più fra di loro ma contro a << quella che veramente è rea, che de' mortali è madre in parte ed in voler matrigna >>, alla natura, la vera e reale nemica degli uomini, chiamati a raccolta dalla << nobile natura >> del genio del poeta che

Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune …. (38)

Cade in tal modo quell'accusa di misantropia di Timandro che, nel dialogo omonimo, in un secolo << dedito sopra tutto alla filosofia >> non sapeva darsi pace dell'odio inspiegabile del poeta verso gli uomini che Eleandro confessava al contrario di amare << Sentite, amico mio. Sono nato ad amare , ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva (39) >>.
Tali conclusioni , che a Timandro apparivano contradittorie, saranno chiarite successivamente da Leopardi in un pensiero del '29 ( << La mia filosofia, non solo non è conducente, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molto l'accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell'odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbero esser chiamati né creduti misantropi, portano cordialmente a' loro simili (40) >> ) che dimostra, ove ce ne fosse bisogno, che la visione della vita leopardiana non si chiuse mai in un pessimismo assolutamente rinunziatario, ma fu sempre pervasa dalla necessità di non cedere alla natura, di affermare contro di essa la nobile dignità dell'uomo innocente eppure condannato al suo inesorabile destino di sofferenza, di distruzione e di morte. Questa è la verità, il vero tragico assoluto: l'unica conclusione dell'esistenza assurda dell'uomo e delle cose è il nulla. È una verità che in nessun modo potrebbe essere elusa, neppure affidandosi ad illusorie consolazioni di natura politico-religiosa come facevano i << Nuovi Credenti >>del suo secolo, contro i quali egli appuntava gli strali del suo unico e necessario << verace sapere >>. Pertanto se Eleandro, rimanendo incompreso, viene descritto come un misantropo da quelli che lo circondano, egli al contrario sostiene di amare i suoi simili proprio perché, in un'epoca caratterizzata dalla simulazione e dalla falsità delle maschere, non nasconde la verità, anzi ha l'ardire di gettare loro in faccia quel vero che il poeta-filosofo, diverso dagli altri uomini comuni e dotato di una straordinaria capacità di vedere, è riuscito a cogliere nella sua tragicità per comprenderlo tutto. È una verità di fronte alla quale qualsiasi individu, anche il più forte e capace di resistere, sarebbe schiantato. Non così accade a Leopardi, come dimostra Tristano nell'omonimo dialogo, il quale dopo aver testimoniato all'Amico la certezza della sua infelicità ( << sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de' due mondi non mi persuaderanno il contrario (41) >> ) pur non conoscendone le cagioni, conclude << …vi dico francamente, ch'io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al mio destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo … (42) >>. Tristano, portatore delle idee del poeta, è <>che senza cedere o venire a compromessi col destino desidera piuttosto la morte che la schiavitù; non diversamente dall'<< uomo libero >> di Amore e morte che, guardando in faccia alla morte, ha il coraggio di gridarle << Me certo troverai , qual si sia l'ora / che tu le penne al mio pregar dispieghi, / e renitente al fato (43) >>. C'è un luogo dello Zibaldone nel quale Leopardi distingue gli uomini in tre categorie in base alla loro capacità di cogliere il valore dell'esistenza e di leggere nel mondo << Ci sono tre maniere di vedere le cose: l'una è più beata, quella per i quali esse hanno più spirito di corpo e voglio dire degli uomini di genio e sensibili, ai quali non c'è cosa che non guardi all'immaginazione e al cuore, e che trovano dappertutto materia di sublimarsi e di sentire e di vivere un rapporto continuo delle cose con l'infinito e con l'uomo, e un vita indefinibile e vaga, insomma di quelli che considerano il tutto sotto un aspetto infinito e in relazione con gli slanci dell'animo loro. L'altra, la più comune, di quelli per cui le cose hanno corpo senza avere molto spirito, e voglio dire degli uomini volgari (…) che senza essere sublimati da nessuna cos , trovano in tutte una realtà e le considerano quali appariscono e sono stimate comunemente (…) La terza e la sola funesta e miserabile, e tuttavia la sola vera, di quelli per cui le cose non hanno né spirito né corpo, ma sono tutte vane e senza sostanza, e voglio dire dei filosofi e degli uomini per lo più di sentimento, che dopo la esperienza e la lugubre cognizione delle cose, dalla prima maniera passano di salto a quest'ultima senza toccare la seconda, e trovano e sentono da per tutto il vuoto e la verità delle cure umane e dei desideri e delle speranze e di tutte le illusioni inerenti alla vita per modo che senza esse non è vita 44) >>.
Non si fa fatica ad indovinare, a proposito di quest'ultima maniera, che Leopardi pensasse proprio a se stesso. Egli era convinto che il poeta, uomo di genio, si distingue da ogni uomo volgare per il possesso di << un'ultrafilosofia >>, che non è altro che una superiore capacità di guardare dall'alto la nullità della vita e delle cose senza inorridire ( << l'uomo caldo di entusiasmo, di sentimento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni, situato su di una eminenza, scorge d'un occhiata tutto il laberinto, e la verità che sebbene pungente non se gli può nascondere (45) >> ) e di comunicare agli altri col canto questa tragica scoperta: << Nobil natura é quella / ch'a sollevar s'ardisce / Gli occhi mortali incontra / Al comun fato, e che con franca lingua, / Nulla al ver detraendo, / Confessa il mal che ci fu dato in sorte (46) >>. Ma la poesia leopardiana, anche quando canta il nulla e l'infelicità non induce mai alla disperazione assoluta non fa pensare alla morte, ma contiene in sé una forza attiva e creatrice che , se pure non salva l'uomo dalla dissoluzione e dal niente, serve a consolarlo, come si ricava dalla seguente affermazione del poeta << Hanno di questo proprio le opere di genio, che, quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l' inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un' anima grande, che si trovi in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita o nelle più acerbe e mortifere disgrazie, (…) servono sempre di consolazione, riaccendono l'entusiasmo … (47) >>. Per Leopardi, dunque, la poesia presuppone sempre e comunque la filosofia in quanto << il poeta e il filosofo nonostante tutto e contro le apparenze dispongono dello stesso "teorein", dello stesso modo di guardare (48) >>; soprattutto per questo gli era possibile formulare la seguente originale identità: come le grandi verità non possono essere scoperte dalla ragione senza entusiasmo di tipo poetico, così non sarà mai poeta perfetto chi non partecipi in qualche modo della natura e delle facoltà del filosofo.
Alla luce di queste ultime considerazioni risulta più giusto, per ribadire la particolare natura della grande poesia del recanatese , nella quale singolarmente si identificano sentimento e ragione , storia d'anima e storia d 'intelletto, orientare in altra direzione la ricerca del cosiddetto" progressismo " di Leopardi, sottolineando piuttosto le straordinarie capacità profetiche di esso: di presentarsi, cioè, quale essenziale strumento di sopravvivenza dei più alti valori della vita dell'uomo, di quelle virtù (tra le quali riconosceva un'immensa varietà e gradazione) che con altra parola generalmente egli definiva illusioni: << Non c'è maggiore illusione, ovvero apparenza di piacere, che quello che deriva dal bello dal tenero dal grande dal sublime dall'onesto. Laonde quanto più queste cose abbondassero, sebbene illusorie , tanto meno l'uomo sarebbe infelice (49) >>.
Nell'ultimo tempo della storia, allorché gli uomini saranno affidati per sopravvivere all'opera profetica di un genio poetico, ad una società giusta saranno necessari i più sublimi e resistenti di questi "enti immaginari": l'amore , l'onestà, la rettitudine, la giustizia, la pietà, la probità, figlia legittima delle prime. Questi valori, indispensabili per rifondare qualsiasi società, sono anche il necessario alimento della poesia. Essi, come nota Severino, costituiscono << l'ultimo respiro della vita prima di andare nel nulla. Il respiro del genio chiude la vita e fa rifiorire per l'ultima volta le grandi illusioni (50) >>. Alla fine della storia, al termine della vita c'è la morte, la distruzione, l'annientamento di questo nostro mondo violento, crudele e senza senso; ma al disopra di questo tragico assoluto del nulla rimane l'arte , sopravvive la poesia per non morire del tutto. Per questo il pensiero poetante di Leopardi che è capace di attingere tale verità ha bisogno anche del falso. Questo è anche il punto in cui Leopardi s'incontra col pensiero di Nietzsche, il più grande profeta del nulla del XX secolo: << Noi abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa "verità", cioè per vivere (…)L'uomo deve essere per natura un mentitore, dev'essere prima di ogni altra cosa un artista(51) >>.
Non diversa è la posizione di Pirandello, un altro moderno profeta delle illusioni, che nell'ultima sua produzione, quella del "teatro dei Miti", analogamente a Leopardi ha elevato al di sopra delle ceneri del mondo il messaggio dell'arte, la sola virtù che con i suoi " enti immaginari" ha la capacità di salvarci dalla distruzione e dalla morte. Anche l'autore de I Sei Personaggi, contemporaneamente testimone e vittima del crollo di una società che rovina con tutti i suoi valori, senza perdere la speranza negli uomini, poco prima del caos ha affidato non ai paralogismi del suo filosofare ma alla trasmissione mitopoietica de I Giganti della montagna (1936) la fede nelle più autentiche e incorruttibili virtù dell'uomo, destinate a sopravvivere al naufragio della nostra civiltà. Non c'è altro rimedio per superare il nichilismo se non quello di affidarsi alle illusioni, che sono destinate a sopravvivere oltre la morte, finché l'uomo avrà speranza nell'uomo piuttosto che nei sofismi della ragione. Questo è il senso del seguente pensiero leopardiano che certamente anche Nietzsche e Pirandello avrebbero sottoscritto: << O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e nobile, e la vita tornerà ad essere cosa viva e non morta, e la grandezza e la bellezza delle cose torneranno a parere una sostanza, e la religione riacquisterà il suo credito; o questo mondo diverrà un serraglio di disperati e forse anche un deserto (52). >>

NOTE

32) C. LUPORINI, cit. p. 121
33) C. LUPORINI, ibidem .
34) V. BINNI, cit . p. 8-9
35) C. LUPORINI, cit. p. 101
36) C. LUPORINI, ibidem , p 102 .
37) A. ASOR ROSA, G. Leopardi, in Sintesi di storia della lette