il sangue e la grotta 
[ Testo:  precedente  successivo  ]  [ fascicolo ]  [ autore
Michela Cardamone
[ miccar@ciaoweb.it ]
 
MEMA NACQUE E FU GIA' MORTA
 
Quella di Mema era stata una strana vita. Una vita secca, dura, senza dolcezze o cedimenti. Era nata, in una tarda serata d'inverno, quando pare che il sole non debba più tornare a sorgere per le poche ore livide che il giorno gli concede, in una misera casa in montagna, nell'odore del sangue materno frammisto a quello di un maiale appena sgozzato.
I genitori, povera gente priva di cervello, abili solo a pascere pecore e porci e a dissodare l'avara terra del colle, non avevano neanche mai pensato di poter partorire un figlio. E quando la donna s'era accorta di non avere più il ciclo, aveva creduto che finalmente qualche ferita aperta nel suo ventre s'era richiusa, e aveva preso con maggior vigore e accanimento a svolgere i lavori accanto al suo uomo. Questi se l'era andata a prendere nel paese vicino parecchi anni prima, quand'egli aveva già più di trent'anni e cominciava a pesargli la solitudine sul colle. Lì aveva vissuto quasi fin dalla nascita; ce l'aveva portato il padre, un pastore a cui era morta la moglie lasciandogli un bimbo di poco più di un anno. Si erano sistemati in una misera baracca che serviva da riparo durante il periodo della transumanza, con poche pecore ed una scrofa incinta. Da allora non erano più scesi a valle, isolandosi in un esilio volontario che li aveva cancellati dal resto della società civile. All'inizio in paese avevano commentato lo strano comportamento dell'uomo disperato per la morte della moglie, e qualcuno aveva anche tentato di raggiungerlo per convincerlo almeno a cedere il bambino ad un istituto. Ma la strada per arrivare al rifugio era quasi impraticabile e l'indifferenza umana ebbe il sopravvento. Si parlò sempre meno dell'accaduto e presto l'episodio fu dimenticato. Solo quando il piccolo compì sei anni, qualcuno trovò il suo nome nelle liste del comune, si ricordò che doveva assolvere l'obbligo scolastico e avvertì i carabinieri. Un appuntato raggiunse la capanna, ma non trovò nessuno e diede per morti i due.
L'uomo col bambino si era inoltrato ancora più su, verso la cima dove il colle mostrava nuda la cresta, oltre i cespugli di sorbi spinosi che intrecciavano rovi davanti al fitto bosco di olmi e pini strobi, che cingeva a corona la sommità del monte. Nessuno del paese si spingeva mai fin qui, ed anche i pastori si fermavano sempre a mezza costa, perché conoscevano la povertà della vetta.
Il piccolo imparò così a governare il colle, di cui conobbe ogni sasso ed ogni anfratto. Il sole ed il tempo furono suoi maestri, pecore e scrofe lo sfogo del suo sesso.
Col padre aveva costruito un'unica stanza di pietra e fango attorno ad un grande camino, ed erano riusciti a piantare davanti alla casa alcuni semi di grano. Con gli anni il gregge si era decimato riducendosi a cinque pecore ed un montone, in compenso era cresciuto il numero dei maiali. Gli animali rappresentavano la loro unica fonte di vita. Avevano imparato a sistemare la lana delle pecore che tosavano in maniera tale da farne quasi un tessuto e usavano quelle strane stoffe, che cucivano con setole ed erbe resistenti, per farne mantelli e coperte per l'inverno. Mangiavano latte e formaggi, e la carne di pecore e maiali solo quando avevano bisogno di maggior calore. Gli agnellini erano oro, e venivano messi in casa al caldo appena nati, perché crescessero bene e non corressero il pericolo di morire prima d'essere diventati adulti.
Aveva sicuramente più di trent'anni quando, alzandosi un mattino dopo che il gelo dell'inverno pieno aveva indurito i panni in cui si avvolgevano la sera accanto al camino, trovò il padre intirizzito più della coperta che aveva addosso. Aveva visto la morte negli occhi vitrei e nelle membra rigide degli animali, non ebbe dubbi a riconoscerla nel padre. E come era abituato a considerare una iattura naturale la perdita di ogni animale, così fece con quella dell'uomo che era stato l'unico compagno della sua vita sul colle, colui che gli aveva fatto riconoscere le bacche commestibili da quelle velenose, che lo aveva abituato a combattere il freddo e l'umidità insegnandogli ad assorbire il sole fino all'ultimo raggio, che ne aveva esasperato la forza dei muscoli e lo aveva ammaestrato al linguaggio di gesti minimi, essenziali. Scavò una buca profonda lontano dalla casa, vi gettò frasche e rami secchi, vi adagiò il corpo del morto e vi diede fuoco prima di ricoprirlo con la terra smossa. Così aveva visto fare al padre con gli animali che morivano in maniera improvvisa e inspiegabile: il fuoco purifica tutto e porta in cielo il male, disperdendolo tra le nuvole.
Dopo alcuni giorni in cui ebbe modo di assaggiare la solitudine più assoluta, la mancanza del padre, la sua assenza fisica, l'impossibilità di suddividersi il lavoro, pesarono come pietre su di lui. Perciò sistemò bene gli animali nei recinti chiudendo quelli nati da poco in casa, indossò un paio di pantaloni e la camicia che il padre aveva conservato da quel lontano giorno in cui aveva dato l'addio al paese, si avvolse in un mantello di lana di capra e si avviò verso valle dove, a detta del padre, c'erano case e persone come lui. Non era più sceso oltre il bosco ed i sorbi, ma conosceva bene il modo di attraversarli. La sera era limpida e chiara di luna, il freddo gli dava la spinta per affrettare il passo. Andava sicuro, senza sapere cosa cercare, mosso da una certezza che gli nasceva dentro. La vide subito, all'apparire delle prime case: seduta su un gradino, avvolta in una lunga sciarpa nera, gli occhi volti al cielo a scoprire le stelle che, ad una ad una, si accendevano nel buio, le mani che giocavano veloci con due ferri ed un filo di lana. Era lì per lui. Le si avvicinò piano, come faceva con le lepri per prenderle alle spalle senza spaventarle, e lei non si spaventò; girò gli occhi e lo stesso sguardo che fissava il cielo entrò negli occhi dell'uomo e gli si piantò nelle viscere. Egli la prese per mano e l'avvolse nel mantello. La portò sul colle senza fatica, come la cosa più naturale del mondo.
Lei aveva diciassette anni d'età, ma non più di sei come intelligenza. Era nata dopo un travaglio di giorni, in acque verdi, e in quelle ore aveva perso la capacità di ragionare. Ma sapeva muovere le mani, e la madre le aveva insegnato a lavorare la lana con i ferri, quasi per tenerla occupata e non vedersela ciondolare per casa con quegli occhi privi di espressione che sembravano seguirla per ravvivarle il rimorso di non essere stata tempestiva nel momento del parto. In quegli occhi si specchiava la sua coscienza. Quel giorno l'aveva messa fuori prima che il sole tramontasse, proprio per non vedersela tra i piedi, e poi se l'era scordata lì. Quando la mattina dopo vide il letto della ragazza intatto, corse fuori trafelata, sicura di trovarla morta assiderata. E fu quasi con sollievo che ne constatò la sparizione. Chiese ai vicini, più per dovere che per altro, infine andò dai carabinieri a denunciarne la scomparsa. Dopo qualche giorno di ricerche stentate, il caso fu archiviato tra i "morti per incidente" e la madre tirò un sospiro di sollievo.
Così la ragazza si trovò trasportata in cima al colle, quasi a toccare il cielo. Visse il suo rapimento come un evento naturale, come solo i poveri di spirito sanno fare: quell'uomo era sceso su una stella e su quella l'aveva condotta, per portarla nella capanna sul colle. E lì fu subito la sua casa. Tutta l'intelligenza di cui era capace si risvegliò con quell'uomo che aveva i suoi gesti, le sue parole. E scoprirono la gioia di stare insieme, di conoscersi e di provare piacere dai propri corpi. Sgobbavano come muli dall'alba al tramonto, ed ella imparò a seguire l'uomo nella fatica; ma la sera, dopo aver fermato i morsi della fame con il poco cibo di cui disponevano, non si saziavano di conoscersi e di godere l'uno dell'altra.
Passavano così gli anni, uno dopo l'altro, uno uguale all'altro, in un eterno presente. Le stagioni si rincorrevano a cerchio, stringendo i due in una spirale di atti e di fatiche che cambiavano con la durata della luce e del calore. Il sole era per loro regolatore del tempo e della vita. Si alzavano appena l'aria cominciava a schiarirsi e chiudevano l'uscio della casa quando le montagne ancora non riuscivano ad assorbire il rosso del sole morente. Per riprendere, il giorno dopo, allo stesso modo, senza perché, senza nozione di una vita altra, diversa dalla loro. Lì, sulla pelata del colle era il principio e la fine dell'universo intero. E quando, a volte, nelle chiare notti estive, si trovavano a guardare il cielo che ingigantiva su di loro, una strana sensazione di comunanza col tutto li catturava, e si trovavano a contemplare la natura senza alcun motivo, senza scrutare i segni del tempo. Restavano, seduti sull'uscio, vicini senza toccarsi e vibravano con la brezza che filtrava tra i rami del bosco sotto di loro: Erano quelli gli unici momenti in cui i due si allontanavano dallo stato di animalità, momenti lirici, quasi mistici, che li stordivano. Quando risalivano da quello stato ipnotico, si guardavano come estranei, vergognandosi quasi di quei sussulti. Non avevano senso del pudore, ma di quello strano sentire, di quella malia che li catturava e li avvolgeva in un turbinio universale, si vergognavano e ognuno lo nascondeva all'altro. Riprendevano subito dopo gli atti quotidiani: la donna chiudeva la porta e si sistemava per la notte, l'uomo le si stendeva accanto, ma dopo quei momenti l'incontro dei corpi diventava impacciato ed era difficile ritrovare la loro spontanea bestialità.
Quell'inverno, dunque, come ogni volta che la neve ricopriva le montagne vicine giungendo a lambire la sommità del colle, apprestarono ogni cosa per ammazzare il maiale più grasso e conservarne la carne. L'uomo aveva imparato a preparare salsicce e salami dal padre ed aveva trasmesso alla donna questa cultura con una sacralità che faceva vivere ad entrambi i giorni della macellazione come una cerimonia attesa tutto l'anno. Perciò lavarono bene la stanza, sgombrandola delle cose inutili, sistemarono sul tavolo la grossa asse di legno duro dove tritare la carne, affilarono i due coltellacci ereditati dal pastore e attesero che l'aria si facesse fredda e asciutta. Quando giunse il tempo che essi ritennero giusto, nulla faceva pensare che ella fosse prossima a partorire. Il ventre non le si era gonfiato più di tanto, né ella aveva cercato altri segni nel corpo che potessero svelarle il suo stato. Perciò quella sera, preso il maiale per il collo, se lo mise fra le gambe e strinse forte per tenerlo fermo mentre l'uomo lo sgozzava e ne raccoglieva il sangue caldo. E quando sentì un liquido vischioso colarle fra le cosce, ancora pensò che fosse l'animale sotto di lei, che pure era già freddo, e vi restò incollata, piegandosi in due per l'inspiegabile dolore che le spaccava i reni.
Mema nacque così sulla schiena di un maiale appena morto. E la morte sembrava camminarle accanto.
Lo stupore per la nascita della bambina frastornò i due contadini. Entrambi rimasero istupiditi di fronte al grumo di sangue che, caduto dalla schiena del maiale, prese ad agitarsi sul pavimento. Ma fu un attimo. L'istinto li aiutò a superare lo smarrimento iniziale. Nessuno dei due aveva mai visto nascere un bimbo, ma entrambi avevano assistito a mille parti di pecore e maiali. Perciò la donna recise il cordone ombelicale col coltello ch'era servito per sgozzare il porco e lo legò con un nodo stretto sulla pancia della neonata, che, avvolta in una coperta, fu posta in una cesta su un mucchio di stracci sporchi e puzzolenti. Questa fu la sua culla, il suo lettino, la sua seconda pelle. Cambiava posto, dall'angolo vicino al camino alla soglia di casa quando dall'inverno si passava alla bella stagione e viceversa.
Il silenzio carico di fatica e povertà, che aveva caratterizzato la vita dei genitori, l'avvolse fin dalla nascita e le sigillò la bocca, spalancandole al contempo due occhi neri di brace sul misero mondo intorno. Seppe così a memoria il soffitto di travi marce che scendeva rapido dal camino alla porta, imparò a riconoscere i rumori degli animali e delle piante, né si spaventò più dei tuoni o del vento che flagellava la casa nelle lunghe sere d'inverno, quando il padre e la madre dormivano ed ella abituava gli occhi al buio e giocava con l'agnellino ultimo nato che le sistemavano accanto perché si scaldassero l'un l'altro.
La mattina, all'alba, con qualsiasi tempo, la madre si trascinava la cesta fino al posto di lavoro. Dopo averla sistemata sotto un albero se prevedeva bel tempo, o sotto una coperta tesa come tenda per ripararla dalla pioggia, se la scordava per il resto della giornata. I primi pianti di solitudine disperata lasciarono presto il posto ad un lamento continuo. La voce fu la sua compagnia. Imparò a modularla finché divenne il richiamo degli uccelli che nidificavano fra i rami sopra la cesta, o il belato degli agnellini che reclamavano le turgide mammelle delle poche pecore che costituivano il gregge. E fu uccello e agnellino e foglia verde o gialla nell'autunno più inoltrato. Ma mai, finché rimase nella cesta sporca e maleodorante, poté identificarsi in un essere umano.
La madre era troppo indaffarata ad aiutare il suo uomo nella lotta per la sopravvivenza per cercare in lei sentimenti di maternità e, a parte darle da mangiare alcuni avanzi e pulirla quando il fetore dei panni diventava insopportabile, essa era assente per tutto il resto del giorno e della notte quando, esausta per le fatiche che campi e animali richiedevano, si buttava sfinita accanto all'uomo che già russava.
Senza che nessuno si prendesse la briga d'insegnarle, prese a camminare a quattro zampe, trascinandosi dietro lo sporco della casa con le pezze lunghe che la madre le cuciva addosso. A vederla girare carponi per la stanza, sembrava un misero scarafaggio; bianca solo nella pelle del viso, in cui si aprivano, come fari, occhi famelici che accendevano nel fondo una luce ferina. Imparò a fatica a reggersi sui due piedi, e solo verso i cinque anni fu capace di camminare autonomamente, senza strisciare come un bruco o appoggiandosi ai fianchi delle pecore che le capitavano vicino. I primi passi li mosse così, e sembrava di vedere un satiro rovesciato, con busto e testa caprini e posteriore umano.
Ma a parlare non poteva imparare da sola.
Perciò fu muta.
Libera di inventarsi musiche ed immagini e sensazioni, libera d'abbandonarsi alle melodie del vento, ai colori del cielo e della terra nelle varie stagioni, alle più tenere manifestazioni d'affetto verso gli animali con cui imparò a comunicare. E corse con gli uccelli imitandone il volo, si rotolò tra l'erba con pecore ed agnelli, cercando nel loro caldo mantello e nelle carezze della loro lingua quell'amore che non le venne né dal padre né dalla mamma.
Fu figlia del colle, ed esso l'accolse come divinità immobile e avvolgente e le offrì protezione dal tempo e dagli animali più selvatici. E con il colle parlò, come con le bestie, usando il suo corpo e il suo sentire.
Né mai avvertì il bisogno della parola. Le sbarre del linguaggio verbale non calarono ad imbrigliarle il pensiero ed ella, come Lilit, fu libera d'intendere l'idioma del mondo.
Abbarbicati a quel pezzo di terra di cui erano gli unici ospiti, nella casa sul colle lontani dal paese, i genitori vivevano di quello che la natura può dare. Né sapevano che avrebbero dovuto segnalare all'anagrafe la nascita della bambina.
Perciò Mema nacque e fu già morta.
Il nome se lo trovò da sola. Imitando il verso delle pecorelle. "Me…me" furono le sue prime parole e il padre e la madre la chiamarono Mema.