identità e imperfezione 
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Andrea Cacciavillani
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UNPLUGGED - Parte Prima
 
Prese i due fogli dalla stampante e guardò il primo: si era riprodotta male e in bianco e nero la pianta di una zona della città. La città dove avevano deciso di incontrarsi. La zona in cui si trovava l'albergo.
Il secondo foglio, lo guardò distrattamente e lo posò sulla scrivania.
Continuava ad osservare il monitor del computer per verificare la corrispondenza della cartina stampata con quella colorata e visualizzata nel video.
Aveva oramai memorizzato il posto e comunque sapeva che, una volta sceso dal treno, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe chiesto informazioni per raggiungere quel luogo; la stampa della cartina era inutile: non sarebbe stata utilizzata, era solo qualcosa che faceva parte dei movimenti già programmati.
Da quando si era svegliato tutti i suoi movimenti erano stati caratterizzati da una sequenza di azioni, come se seguisse un programma interno. Azioni in sequenza, stava sviluppando un algoritmo come quelli utilizzati dal computer di fronte al quale era seduto.
Per questo continuava a studiare la stampa.
Almeno sembrava.
In realtà il suo era semplicemente un movimento meccanico: la testa si limitava a fare passaggi continui dal monitor al foglio appesantito e inumidito di inchiostro nero ma non aveva più percezioni visive di quelle che in quel momento osservava o che lo circondava.
Tra i suoi occhi e il monitor, già da quando si era aperta l'immagine dell'albergo che aveva scelto, si erano infiltrati uno ad uno tutti i suoi pensieri.
Gli si insinuavano dritte, come attaccate caparbiamente allo sguardo, tutte quelle azioni - anche le più insignificanti - che avevano caratterizzato i suoi movimenti fin dalla mattina e che alla fine lo avevano portato a sedersi davanti al PC per collegarsi ad Internet e controllare la posta per leggere il messaggio con le indicazioni per arrivare all'albergo e soprattutto la conferma della prenotazione per una sola notte a suo nome di una camera matrimoniale.
Anche se perfettamente cosciente che il suo vedersi lì era solo una fantasia che si stava "solamente" concretizzando, che assumeva sempre di più forma, gesti, suoni, verità percettibili, da quando era entrato in ufficio si sentiva come uno che stava per mettere in gioco la sua vita ma senza una convinzione totale, senza una completa consapevolezza di quello che desiderava. Come se stesse complottando qualcosa di illegale, come se stesse compiendo azioni a scadenza.
E dire che in fondo era tutto premeditato.
Tutto premeditato è vero, ma non era quella la causa che materializzava in quel momento i suoi gesti: si muoveva spinto da una strana forza di inerzia. Sembrava come obbligato. E non gli piaceva quella sensazione, non doveva andare così, non era così che immaginava questo giorno, la vera vita di questo progetto.
Era la realizzazione di un sogno, di qualcosa che con persistenza aveva immaginato? O non lo era?
Non riusciva ad accettare la differenza così netta e freddamente distinta tra le sensazioni vagheggiate e quelle che realmente si stavano in quel momento producendo dentro di lui.
Quando fantasticava, sognava di incontrare Stefania e la sua mente diventava un fiume in piena con fantasie fervide, forti, fresche che gli bagnavano le giornate e lo lasciavano con gli occhi sbarrati e fissi nel vuoto come se tutto quello che pensava e desiderava si proiettasse in ologrammi davanti a lui; invece in quel momento sembrava si fosse tutto ridotto ad un piccolo ruscello che continuava sì a scorrere ma soggiogato, nascosto da una forma di preoccupazione della quale non conosceva con precisione origine e motivo.
Si trovava davanti ad un monitor e alla realizzazione di qualcosa per il quale aveva passato nottate intere a fissare il soffitto come se fossero scritte sul bianco intonaco della sua stanza da letto e non avrebbe dovuto avere quello stato d'animo guardando quel video e un A4 su cui era stampata una cartina in bianco e nero. Ma era così.
Non gli era esploso dentro all'improvviso, lo aveva sentito crescere piano, piano nei giorni precedenti a partire da quella sera durante la quale avevano preso la decisione di vedersi.
Era stata Stefania, in una frase senza rumore, che aveva lanciato la proposta. Per lui era sempre stato un desiderio difficile da esprimere.

Gianni - Mi manchi, lo sai?
Stefania - Mi manchi anche tu. Vorrei avere la possibilità di accarezzarti.
Gianni - È un desiderio che sento da tanto anche io.
Stefania - Perché non lo fai allora?
Gianni - Come?
Stefania - Esiste un modo per poterlo fare. Non adesso, certo, ma esiste un modo.
Gianni - Quale?.
Stefania - Vederci.
Gianni - Mi sta scoppiando il cuore in questo momento, lo sai?
Stefania - A me batte forte da oggi. Da quando ho deciso di chiedertelo.
Gianni - Si, ma dove?
Stefania - Non è importante il posto, è importante il modo in cui ci incontriamo.
Gianni - Sì.

…………
Quella sera però, anche se in modo meraviglioso, era stato catapultato improvvisamente oltre il sogno; quel sogno che fino ad allora era stato un suo irreale segreto, per ritrovarsi in un attimo nella realtà delle sue preoccupazioni così diverse da tutto quello che la sua mente fino ad allora aveva sviluppato.

Non ne era convinto e più navigava all'interno del sito dell'hotel pieno di banner colorati, immagini e descrizioni, più il suo corpo era pervaso da brividi invisibili, interni, nascosti anche alla sua pelle che giravano liquidi e vorticosi con il sangue per finire la corsa alla punta delle sue dita.
Ogni click del mouse gli penetrava nelle mani per dipanarsi su per le braccia e poi sul collo che si irrigidiva nei movimenti. Il suo cervello era diventato come una spugna e le sue orecchie amplificavano anche i più piccoli rumori: avvertiva e assorbiva il rollio del mouse che scorreva a tratti sul tappetino, il cicalio continuo dell'hard disk.
Ad ogni nuova immagine aperta pensava di fermarsi e tornare indietro e scappare via; non si sentiva a suo agio in quello stato di incertezza. Poteva trovare una scusa; poteva farlo e cercare di rinviare tutto a quando magari non ci sarebbe più stato quello spaventoso e incomprensibile salto in caduta libera tra le sensazioni provate quando sognava di incontrarla e quelle che provava in quel momento; ma i pretesti si rincorrevano troppo da vicino per poterli fermare e definire: si confondevano, si combinavano, non riusciva a comporre un pensiero che avesse senso logico.
Andava avanti. Lui credeva di essere comunque arrivato oramai, nel punto oltre il quale anche voltandosi indietro non avrebbe visto da dove era partito, da dove tutto si era originato ma avrebbe avuto solo visioni opache e senza contorni delle sue azioni, dei suoi pensieri e il cammino a ritroso sarebbe stato più deleterio, pieno di rimorsi e senza spessore che il continuare ad andare avanti.
Credeva di essere nel punto di non ritorno. Ma non era così. La verità era che l'eccitazione e il desiderio di incontrarsi con Stefania era ancora presente dentro di lui e lavorava di nascosto ipnotizzandogli i movimenti e le azioni, facendolo andare avanti, ma lui non riusciva a comprenderlo e a riconoscerlo preso com'era dalla preoccupazione di vedersi con una donna che non aveva mai visto e sentito e che aveva incontrato in una chat solo un mese e mezzo prima.

UN MESE E MEZZO PRIMA


Quando vide comparire nella casella della posta in arrivo il nome "Stefania", il cuore iniziò a pulsargli cupo nel petto ad una velocità poco al disopra della media ma con forza, come se si volesse dilatare in altezza.
Non si aspettava una e-mail così velocemente. Forse non si aspettava neanche che lei gli scrivesse.
Si erano scambiati l'indirizzo solo qualche ora prima, quando si erano conosciuti.
Conosciuti: questa parola gli suonava strana, gli ruotava nella mente aliena come se ancora non avesse un contenuto comprensibile, un significato e probabilmente, se avesse dovuta pronunciarla a voce, avrebbe fatto molta più fatica.
Ma con quale termine si poteva definire, spiegare una conversazione lunga e interessante con una persona in una chat line?
Era la prima volta che "chattava". Stefania era la prima persona con la quale aveva condiviso questa esperienza che aveva trovato divertente, piacevole, diversa. Sapere di parlare con un essere umano in tempo reale, che non si vede, che non si tocca, della quale non si percepiscono i battiti delle ciglia, i movimenti delle labbra, del viso, la gestualità delle mani lo aveva entusiasmato. Si è divisi sempre e comunque da una distanza impossibile da coprire, perché virtuale. Poco importa se l'altra persona è di fronte ad un monitor, come te, magari nell'appartamento al piano di sotto. L'unico appiglio reale è solo il tempo; il resto è distanza infinita.
Non era neanche paragonabile ad una conversazione telefonica con una persona sconosciuta perché in quel caso ci sarebbe stato un elemento che avrebbe frantumato l'incanto: la voce.
E sì, perché la voce è un elemento oggettivo, è realtà che non puoi cambiare, non puoi modificare o plasmare secondo la tua immaginazione, i tuoi desideri.
La voce - come qualunque altra caratteristica reale e propria della persona - diventa distintiva, identificativa. Troppo identificativa. Con la chat nessun elemento che non fosse nato dalla sua immaginazione, nessun tassello estraneo si era innestato in quel mosaico mentale che pian, piano si stava componendo dentro di lui rischiando di non combaciare perfettamente.
Lì era stato tutto perfetto. Pura immaginazione.

AUTOBUS


Mentre era sull'autobus guardava fuori: stava attraversando la città per andare alla stazione dei treni. Aveva uno sguardo fisso, davanti al quale scorrevano veloci e sfocate le strade e le case. E su quell'aria rarefatta, oltre il finestrino, si muovevano senza dimensione tutte le sue sensazioni. Le vedeva sui muri delle abitazioni, nei riflessi delle finestre, sui cartelloni pubblicitari, come se tutto fosse un enorme palcoscenico disteso lungo il tragitto, e lui unico spettatore in quel teatro dove recitavano e danzavano le sue percezioni in una stramba e improbabile rappresentazione.
Vedeva l'eccitazione di incontrarsi con una donna che non aveva mai visto e sentito, la preoccupazione che l'incontro fosse solo uno stupido gioco che avrebbe avuto uno squallido finale, la curiosità di sapere come fosse fisicamente Stefania, il tono della sua voce, la lunghezza e il colore dei suoi capelli, la calorosa aspettativa dell'inizio di una storia romantica, il terrore del silenzio e dell'immobilità. Sensazioni che affioravano tutte insieme. La sua mente in fibrillazione era riuscita a far incontrare emozioni che per definizione si escludono, si respingono, non ci sono mai contemporaneamente.

STAZIONE DI ARRIVO


Quando scese dal treno, aveva la sensazione di essere in quel posto senza un reale motivo e mentre si addentrava nella stazione, nei suoi rumori, nei suoi odori pensava a dove fosse Stefania e a come si sentisse lei in quel momento.
Sarebbe arrivata con circa un'ora di ritardo rispetto a lui; un ritardo programmato, preventivato, premeditato per fare in modo che si potessero incontrare nella stanza dell'albergo.
Nella penombra: così si erano detti.
Non capiva se questa decisione era dettata dalla eccitazione, da quell'intrigo misterioso e labile che nasce da un incontro "al buio" oppure era il desiderio comune di diluire l'impatto inevitabilmente forte e tachicardico che ci sarebbe stato alla vista dei loro corpi.
Erano entrambe le cose?
Sicuramente la loro era la situazione di due persone che avevano tenuto gli occhi chiusi per un mese e mezzo e sapevano che di lì a poco avrebbero dovuto aprirli e vedere e incontrarsi, scontrarsi con tutto quello che era sempre stato al di là delle loro palpebre serrate, della loro anima impregnata solo di sensazioni elaborate singolarmente, della loro immaginazione.
La stanza d'albergo era la materiale ricostruzione di quel piccolo mondo personale che loro si erano creati, piccolo ma dalle infinite possibilità: il posto dove si erano sempre incontrati con la individualità dei loro desideri e dei loro sogni. La penombra doveva fare da filtro, come una stoffa dalla trama stretta attraverso la quale far "gocciolare" e comporre poco alla volta, davanti alla loro vista, la "verità" dei loro corpi.
Non era solo un gioco eccitante: loro si volevano - forse si dovevano - abituare gradualmente alla "luce" accecante che li avrebbe abbagliati.
In fondo lui lo sapeva - probabilmente da quando avevano deciso di incontrarsi - che stava per fare i conti con quella materialità che finché non era stata presa in considerazione, non aveva mai avuto un ruolo primario, che anzi non aveva avuto nessuna parte; e invece da quel giorno in poi si era sempre più infiltrata di prepotenza in quello scenario, in quel loro mondo etereo, nelle loro elucubrazioni sistematiche, spesso anche involontarie. Più il treno scivolava metallico sui binari e correva verso la stazione, più avvertiva il dissolvimento progressivo e irreversibile di quell'universo costruito sull'immaginazione, lasciandolo lontano, indefinito, incomprensibile dietro le sue spalle.
Aveva portato con sé tutte le e-mail, tantissime, che Stefania gli aveva scritto durante quel mese e mezzo e le aveva rilette tutte sul treno voracemente e casualmente come per aggrapparsi tenacemente alla Stefania che viveva e si muoveva dentro di lui e portarla dietro con lui.
E allora perché si trovava lì?
Perché voleva, doveva amare, continuare ad amare una persona reale non un suo riflesso, una sua immagine, un suo sogno auto-prodotto?
Perché entrambi avrebbero dovuto farlo prima o poi, o tutto quello sarebbe finito per sfinimento mentale e le loro emozioni, i loro sogni e soprattutto l'amore che si erano reciprocamente ammesso sarebbe rimasto per sempre incastrato nella rete rimbalzando tra modem remoti fino a dissolversi e sciogliersi in quelle scatole che avevano assunto il ruolo primario e indiscutibile di messaggeri della loro storia.
Questo era quello che pensava mentre si girava attorno per trovare l'uscita.
Questo era quello che gli bombardava il cervello mentre guardava tutte le persone che disordinatamente lo incrociavano, lo superavano, gli camminavano a fianco.
Osservava con eccitazione e falsa distrazione tutte le donne che incedevano sole e che gli sembravano dell'età che Stefania gli aveva detto: 32 anni.
Lei era tutte. Lei non era nessuna. Lei era una in più, quella che lui aveva dentro.

STRADA


Quando uscì dalla stazione si trovò su una strada trafficata e rumorosa. Aveva visualizzato la cartina stampata al computer tante di quelle volte che alla fine gli si era riprodotta nella mente come una brochure.
Camminava e immaginava di muoversi come un piccolo puntino elettronico, lampeggiante, scuro e sicuro su un percorso di strade e incroci stilizzati come se fosse guidato da qualcun altro.
Non ebbe bisogno di chiedere informazioni per arrivare alla strada che cercava: la trovò subito e, quando imboccò la traversa dove era l'hotel, ebbe un sussulto vedendolo dall'altra parte del marciapiede con il suo enorme tappeto che copriva tutto il passaggio di fronte all'entrata e l'insegna al neon piccola e livida.
Alzò lo sguardo e lo osservò per qualche istante: cinque piani, la facciata era ben tenuta e pulita, le imposte erano lucide e di alluminio nero. C'era qualche stanza illuminata.
Più si avvicinava all'entrata e più avvertiva il passaggio del sangue nelle sue vene come se avesse preso improvvisamente consapevolezza della sua circolazione. Il cuore gli batteva forte dando il ritmo ai suoi passi.

HOTEL


Appena dentro, sentì rumore di posate e mormorii che provenivano dall'altra parte di un grande sèparé composto da un vetro colorato e spesso attraverso il quale si intravedevano teste e volti sfocati.
Gli penetrava nelle orecchie il leggero ronzio dell'aria condizionata, nel naso odore di pietanze, nelle gambe si ripercuotevano i suoi passi felpati e profondi nella moquette.
Si girò verso la reception e incrociò lo sguardo di una ragazza che gli sorrideva da oltre il bancone mentre cercava di infilarsi una spilla o una targhetta sulla giacca della divisa.
Mentre si avvicinava la ragazza gli disse:
- Buonasera.
Lei rimase a guardarlo con un sorriso che sembrava allenato ma stanco.
- Buonasera. Hanno prenotato una stanza questa mattina per telefono a nome mio.
Non sapeva se dirle che era una camera matrimoniale, visto che probabilmente era stato specificato con la telefonata.
- Mi dice il suo nome?
Le disse nome e cognome e in quel momento alcuni ospiti dell'hotel uscirono dall'ascensore per avviarsi verso la sala chiusa dalla vetrata.
Tornò a guardare la receptionist china sul registro per cercare il nome.
- Si, eccolo. Hanno prenotato una matrimoniale solo per questa notte, vero?
Aspettò che la ragazza gli rivolgesse di nuovo lo sguardo. Questa volta le sue pupille avevano un lampo come di curiosità e lo fissarono per qualche istante negli occhi. Era talmente nervoso che pensò per un attimo che la sua emozione gli si fosse tatuata sulla fronte in bella vista per tutti quanti.
- Sì, esatto. Le serve un documento?
- Sì grazie.
Mentre cercava il documento, si girò verso l'entrata dell'hotel e vide ferma sulla soglia una ragazza. Era sola con uno zaino sulle spalle. Era sola e ferma sul marciapiede e si guardava intorno.
Stefania! Fu il primo pensiero che gli venne in mente. Fu il solo pensiero che gli venne in mente.
Quando fece per girarsi, lui gli volse immediatamente lo sguardo facendo finta di niente come se lei avesse potuto riconoscerlo. Non si era neanche reso conto di come fosse fisicamente, riusciva solo ad essere nervoso e a produrre un unico concetto pesante e oppressivo come la presenza della ragazza sul viale.
Non sapeva dove stesse guardando in quel momento ma fu preso dal panico.
Era passata un'ora? Tutte le idee gli si mischiarono come se qualcuno avesse agitato la sua testa scuotendola energicamente e dentro quella confusione non riusciva a ritrovare la cognizione del tempo che era trascorso da quando era sceso dal treno, perso in chissà quale angolo remoto del suo cervello in iperattività.
Guardava dritto davanti a sé guardando le mani della receptionist che indugiava sulla sua carta di identità girandola, rigirandola, aprendola e chiudendola come se volesse perdere tempo, mentre lui era troppo ansioso che effettuasse la registrazione dei suoi dati per poter volare via nella sicurezza di una stanza.
Quando sentì la porta che si apriva, iniziò a divampare dall'interno; con la coda dell'occhio vide che una persona si avvicinava al bancone e avvicinandosi entrava sempre più nel suo campo visivo fino ad accorgersi dalla gonna che era la ragazza che aveva visto oltre la porta di entrata.
La receptionist alzò lo sguardo, sorrise di nuovo come aveva fatto con lui. Invidiava il suo sorriso rilassato e ignaro.
- Buonasera.
Stava trattenendo il respiro come se si trovasse in un apnea forzata, come se la presenza di quella ragazza gli togliesse tutto intorno l'aria.
Con il viso rivolto in basso sentiva il viso che gli bruciava e lo immaginava rosso come il tappeto che ricopriva i pochi gradini che portavano al piano rialzato dell'ascensore, che lui guardava a tratti e anelava come la sua unica via di fuga.
Respirava lentamente mentre avrebbe dovuto annaspare per riprendere tutto l'ossigeno che quella tensione gli sottraeva.
Se era Stefania e avesse chiesto di lui così come erano rimasti d'accordo, la receptionist invece di indicarle il numero della stanza dove lui avrebbe dovuto attenderla le avrebbe indicato direttamente lui. Il tempo che trascorreva aveva perso qualsiasi importanza perché, quando ancora la ragazza non arrivava al bancone, dentro di lui si stava già riproducendo l'incubo:

Stefania chiede di lui e la receptionist, alla quale viene all'improvviso in mente che sta registrando appunto il suo nome, dopo un attimo di esitazione e probabilmente di incredulità le risponde:
- Ma è lui!?
E rimane ferma con la carta di identità tra le mani e con il suo sorriso in franchising ad osservare tutta la scena. Entrando nella scena.


Come si sarebbe consumato quel grottesco incontro tra tre sconosciuti?
E sì, tre sconosciuti: lui, Stefania e la receptionist la quale si sarebbe ritrovata suo malgrado ad essere vertice di una triangolo tra punti ignoti a se stessi.

Lui e Stefania si guardano e non sanno se balbettare qualche parola, guardarsi solamente o salutarsi facendo finta di niente.
La ragazza dietro al bancone sorride sospettosa, non comprende assolutamente quello che succede e non sa che lei fisicamente ha lo stesso grado di anonimato delle due persone che ha davanti.
Cosa fanno? Prendono le chiavi? Con quale forza lo fanno? Chi le prenderebbe dei due? E poi verso l'ascensore? E una volta dentro? Quanti piani avrebbero dovuto….


- Room two-zero-nine
Quelle quattro parole gli entrarono nelle orecchie che erano protese e irrigidite e si accorse solo che ogni volta che una di quelle cifre arrivava al suo cervello il suo respiro diventava sempre più regolare, i suoi muscoli sempre più distesi, il cuore iniziava una lenta marcia di ritorno nel suo incavo tra le costole, da dove era balzato fuori.
Non gli importava il significato di quello che aveva sentito, ma solo quello che aveva sentito: la voce di una persona che non chiedeva di lui.
Non era Stefania.
Si voltò verso quella voce riuscendo a venire fuori dalla paralisi che lo aveva colpito e osservò la persona che per istanti che avevano avuto una distensione infinita lo aveva occultato nell'imbarazzo: le osservò velocemente il viso e si rese conto che doveva avere almeno 50 anni.
Lui non aveva visto una ragazza fuori dall'hotel, aveva solo visto una donna e quello era stato sufficiente a farlo vibrare come una corda tesa fino all'ultimo punto di trazione prima di spezzarsi.
La receptionist consegnò il portachiavi alla donna e tornò a guardarlo, sorridendo. Gli porse il registro girandolo verso di lui e chiedendogli di mettere una firma. Si accorse con la coda dell'occhio che lei lo guardava: con un sorriso che le era rimasto sulle labbra da quando era entrato, però il suo viso aveva cambiato espressione. Sicuramente aveva notato il suo cambiamento repentino di colore e probabilmente era riuscita a percepire la tensione che lo aveva attanagliato; forse aveva anche sentito il rombo del suo cuore.
Gli consegnò le chiavi:
- Stanza 321. Prenda l'ascensore fino al terzo piano. La stanza è sul corridoio di destra.
Le rispose al sorriso anche se non era propriamente rivolto a lei: era più un gesto di liberazione perché stava per prendere quell'ascensore che aveva mirato poco prima.
Mentre si allontanava, si ricordò improvvisamente il motivo per cui si trovava lì e si girò avvicinandosi di nuovo al bancone: la ragazza lo stava ancora guardando. Se ne accorse perché quando si voltò lei abbassò subito gli occhi:
- Mi scusi, la persona che è con me dovrebbe arrivare fra poco. Quando arriva, le può dire il numero della stanza?
Mentre parlava, osservava la ragazza che inconsapevolmente era entrata in quello schema di incontro.
- Sì certo.
Si girò di nuovo e si avviò verso il piano rialzato dell'ascensore.
Quando uscì dall'ascensore, seguì le indicazioni e si inoltrò nel corridoio: era stretto, silenzioso, poco illuminato, coperto di moquette grigia e pulita. Guardava i numeri delle stanze incollati con targhette dorate sulle porte.
321.