il principe e il convivio 
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Roberto Miele
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LA TRATTATISTICA SUL SEGRETARIO
 
La fortunate vicende della letteratura e della manualistica fiorite attorno alla figura del Segretario, ennesima drammatica riflessione di quella trattatistica fiorita appena nella metà del Cinquecento sulla corte del principe e sul ruolo dell’uomo di lettere in rapporto alla ridefinizione in corso dei centri di potere nel clima postridentina e controriformistico - letteratura, questa del segretario, in cui si compie il fondamentale glissement dalla consapevolezza di essere appartenuti in qualche modo al potere e la coscienza di non potervi più prendere parte se non come “ombre” del principe o del signore -, sono da imputare, in certa misura, alla comunione del sentimento sofferta dai segretari del tempo, e dagli intellettuali in genere, di appartenere ad una “comunità”, ma sarebbe meno azzardato parlare di condizione, quella degli uomini di cultura appunto, socialmente debitrice di un potere cui presta servizio senza ricavarne riconoscimenti di sorta.
Tale sentimento condiviso, tale condizione fondata, quasi a sigillarne l’irrevocabilità, sul segreto degli “atti di ufficio” in genere, commisto all’evidente impossibilità di perpetuare il modello cortigiano offerto dal Castiglione, è, senza dubbio, una delle ragioni principali che hanno disarcionato la trattatistica sul segretario dalla condanna di subgenere letterario, per offrirle una scena di più ampio respiro all’interno del panorama europeo, e quindi anche di là del territorio italiano, in cui pure la situazione politica, nel quarantennio a cavallo tra Cinquecento e Seicento, non dava adito a prospettive di reale miglioramento, a quella apocalisse, a quella rivelazione tanto esaltata (quanto più auspicata) (1) qualche anno addietro.
Formalizzato il segreto, nella sfera politico-sociale, la trattatistica relativa alla ragion di Stato che sviluppa la tematica degli Arcana imperii considera non solo legittimo conservare una distinzione tra dimensione privata e dimensione pubblica per fini di utilità collettiva (2), ma anche, secondo la famosa espressione di Scipione Ammirato «ragion di stato altro non essere che contraventione di ragione ordinaria per rispetto di publico beneficio, overo per rispetto di magiore e piu universale ragione» (3).
Le riflessioni del nicodemita Lucio Paolo Rosello, cui, per certi versi, è ascrivibile un primo passo verso la trattatistica sul segretario, nella misura in cui ne De la vita de cortigiani, intitolato la patientia (4) (1549), individua proprio nella «pazienza» e nella «dissimulazione» degli auspicabili strumenti di sopravvivenza al principe, la convivenza con il quale non è più possibile con le sole armi della cortigianeria; quelle del fabrianese Giovanni Andrea Gilio (1564), che diversamente dal Rosello, auspica un «servizio honorato» (5); e quelle di Giambattista Giraldi Cinzio, le cui conclusioni, nel Discorso intorno a quello che si conviene a giovane nobile e ben creato nel servire un gran principe (1569), tanto disincantate quanto “nostalgiche”, suggeriscono, quale unica forma di sopravvivenza possibile dell’intellettuale a corte, la partecipazione disinteressata, il silenzio, la «simolatione», nell’impossibilità di individuarne, appunto, un rapporto meno effimero; tali riflessioni, si diceva, segnano una prima incrinatura tra il sempre meno pregnante modello del cortigiano e le possibili alternative “civili” nel rapporto con il potere (6).
Proprio tale ripiegamento dell’intellettuale, «nella constatazione dell’impossibilità di un “corretto” servizio a corte e di un corretto rapporto con il potere, nello scarto sempre più trasparente, a livello di coscienza, tra un ideale e una ben più difficile realtà» (7), si presenta, alla fine del secolo e ai primi decenni di quello successivo, come il testamento di una condizione, anzi tutto civile, ma, si è detto più ampiamente “ontologica” e “fenomenologica”, ineludibile.
Prendendo spunto dai testi su citati, il τόπος della corte si amplifica e si abusa, non senza approfondimenti tanto specifici da far intravedere, per ogni autore impegnato con l’argomento, una cifra nuova della riflessione: così Pio Rossi, Traiano Boccalini, Carlo Innocenzo Frugoni, Antonio de Guevara, Cesare Caporali e le definizioni della corte come «officina», «scena», «palazzo del mondo», «labirinto», se bene proprio il tema della «dissimulazione», enfatizzato non più nella «prudenza» - il cui testamento, l’Oracolo manuale e arte di Prudenza (8) del gesuita spagnolo Baltasar Gracián, è da considerarsi, in un certo senso, già postumo, vedendo la luce solo nel 1647 -, bensì nella «doppiezza» e nella «segretezza», si presenti quale “inesplorato” motivo dominante, sfociante nella tematica degli arcana imperii in cui l’arte de’ cenni (9) l’agire simulato, si rivela indispensabile alla vita di corte prima, di palazzo poi.
Non sembrerà più solo un caso isolato, dunque, quello del segretario “neoplatonico” Querenghi, afflitto dalle difficoltà della sua condizione reale in contrasto con il modello tardo rinascimentale (10), tanto meno infondata la definizione di “segretario burattino” data dal Gramigna, segretario del cardinale Scipione Cobelluzzi (11).
Emerge, in questa ampia fioritura trattatistica, Il secretario et il primo volume delle lettere familiari di Torquato Tasso (1588)(12), in cui il tipo del «nostro segretario [che] scrive come figliuolo de l’ubidienza, e come amico de la servitù», viene contrapposto, come ha notato M. Rosa, al più famoso esempio di Cicerone, pur conservando, a suo parere, quelle qualità politiche capaci di aprirgli la strada «a tutti gli honori» delle corti.
Inaugurata nel 1564 con Il Segretario di Francesco Sansovino, ed esauritasi nel 1689 con il Proteo Segretario di Michele Benvenga, tale trattatistica, comunque sempre contrassegnata dal modello dell’“arcicorte” romana che veicola (13), presenta non poche contraddizioni interne e tutte le difficoltà interpretative del caso, sia per l’estrema diversificazione topologica dei testi stessi, sommariamente riconducibili al genere del trattato, del discorso, del dialogo, e del «libro di lettere» volgari, sia per gli anomali sviluppi, tutti ipertestuali, e di gravosa collocazione storiografica. In effetti, se autori del calibro del su citato Sansovino, e del poco successivo Capaccio possono considerarsi, non del tutto a torto, di “frontiera”, è pur vero che i loro contemporanei, tutti tardo-cinquecenteschi, riescono per primi a divincolarsi definitivamente dalla tradizione del secolo cui appartengono, per inaugurare la breve stagione del Segretario in fieri. Breve se si considera che, nel secolo in cui la trattatistica del Segretario si è sviluppata, solo all’Ingegneri, al Guarini e al Costo è attribuibile il merito di aver dato asilo, non solo letterario, al nuovo ministro del principe, che invece, già a partire dal Pucci, e quindi nei primi anni del seicento, sembra minacciato da un irredimibile, acquiescente smembratura professionale.
Dopo il Pucci, autori del calibro di Bartolomeo Zucchi e Gabriele Zinano, di Lorenzo Honesti e di Vincenzo Gramigna, e di Michele Benvenga, nonché tutta la fitta schiera di segretari “minori”, o meglio di autori “manieristi” che occupano il panorama del primo quarantennio del secolo XVII, celebrano indolenti il ripiegamento di tale letteratura su se stessa e del Segretario sul suo segreto, dilavando quella “costante del comportamento” atta a fare della “segretezza” e della “fedeltà” i mezzi di superiorità spirituale di cui avrebbe dovuto disporre il Segretario per godere di una dignità civile altrimenti distante e inenarrabile.

NOTE

1) Una famosa storia di Hegel racconta di quando Pompeo Magno, arrivato a Gerusalemme, andò nel tempio di Salomone, dirigendosi verso il Sancta Sanctorum, coperto da un velo (l’oggetto più grande e più segreto degli ebrei). Tolto il velo, Pompeo non vi trovò nulla dietro. E quindi sembrava che tutto il potere sacrale emanato dalla vicenda del velo, stesse nel velo stesso, nient’altro che nel velo. Una storia, questa, paragonabile, per certi versi, all’esempio proposto da Leibniz, quando afferma che l’individuo, come una cipolla, si può continuare a pelare, togliendo tutte gli strati della polpa per poi arrivare a scoprire, alla fine, che non c’è niente in fondo (cfr. M. Ferraris, Che cosa è un segreto? , consultabile al sito www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=121).
2) Cfr. G. Borrelli, Ragion di Stato. L'arte italiana della prudenza politica, catalogo della Mostra bibliografica dell’Istituto Italiano per gli Studi filosofici e dell'Archivio della Ragion di Stato, Napoli 1994.
3) G. Borrelli, nella Prefazione a S. Ammirato, Della Segretezza, (a cura di) D. Giorgio, Edizioni Magna Graecia, Napoli 2001, p. 7.
4) L. P. Rosello, Due dialoghi, Comin da Trino, Venezia 1549.
5) G. A. Gilio, Due dialoghi, Gioioso, Camerino 1564.
6) G. Giraldi Cinzio, Discorso intorno a quello che si conviene a giovane nobile e ben creato nel servire un gran principe, Bartoli, Pavia 1569.
7) M. Rosa, «Scena» e «segreto»: l’antinomia del potere e il ruolo dell’uomo di lettere, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Vol. I, Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino 1998, p. 298.
8) B. Gracián, Oracolo manual y arte de prudencia (1647), [trad. it.], Oracolo manuale e arte di prudenza, (a cura di) A. Gasparetti, Tea Due, Milano 1997.
9) G. Bonifacio, L’arte de’ cenni, Grossi, Vicenza 1616.
10) Cfr. L. Bulzoni, Il segretario neoplatonico (F. Patrizi, A. Querenghi, V. Gramigna) , in A. Prosperi (a cura di), La corte e il «cortegiano», II, Un modello europeo, Bulzoni, Roma, 1980, pp. 141-162.
11) Ibidem.
12) T. Tasso, Il secretario et il primo volume delle lettere familiari, Vincenti, Venezia 1588.
13) Cfr. S. Iucci, La trattatistica del Segretario tra la fine del Cinquecento e il primo ventennio del Seicento, in «Roma Moderna e Contemporanea», III, 1, gennaio-aprile 1995.