il principe e il convivio 
[ Testo:  precedente  successivo  ]  [ fascicolo ]  [ autore
Roberto Miele
[ r.miele@tin.it ]
 
IL SEGRETARIO DI LETTERE NELLA SEGRETEZZA DEL SUO UFFICIO
 
Nell’ultimo ventennio del Cinquecento, durante il consolidamento dell’assolutismo monarchico e principesco, e fino al primo ventennio del secolo successivo, la riflessione sui nuovi rapporti configurantesi tra l’intellettuale e potere - perduta progressivamente la fiducia nel ruolo e nell’immagine della Corte offerta dal Castiglione, e dunque, sindetico, in cerca di una nuova collocazione nell’ambito del rinnovato vigore controriformistico di Roma (che da Pio V a Clemente VIII riuscirà progressivamente a sbarazzarsi, con le pratiche vessatorie dell’Inquisizione, di tutti quegli orientamenti di pensiero estranei agli schemi aristotelici e scolastici, soffocando l’eresia popolare, fronteggiando i turchi a Oriente e riorganizzando l’intera struttura ecclesiastica) -, trova, sulla scia della trattatistica politica di ascendenza tacitista del Guicciardini, in Della Casa prima e nel Tasso e poi, gli ultimi ereditieri di una resistenza polemica di tipo rinascimentale, per poi concentrarsi, quando non sfociando nel filone della letteratura utopistica, sui postulati degli arcana imperii e della ragion di Stato (1).
Se nel giro di un cinquantennio “Il libro del Cortegiano” di Baldasarre Castiglione (2), pubblicato, a ridosso del Sacco di Roma, nel 1528, ha lentamente dissolto la funzione attribuitagli, non a torto, di archetipo della trattatistica sul comportamento, è, dunque, perché la sua “architettura”, «tutta misurata sulla grande metafora dell’epoca: (…)exemplum di una legittimazione estetica della morale»(3), ha esaurito ogni possibilità ideologica e culturale, ma soprattutto perché, mai come in questi anni, la frattura fra il potere di ascendenza feudale (4) ereditato dalla corte e una non ancora ben definita modernità diventa incolmabile.
Di là della trattatistica politica, invece, ai confini del subgenere letterario, dalla più generale raccomandazione alla «prudenza», da quella sophrosyne greca, cui fa eco la temperanti dei latini (5), si sviluppano, in questo clima di incertezza e sospetto irreali, i postulati della «segretezza» e della «simulazione», tanto meno cortigiani (6) quanto più risolti nella possibilità di dissimulare la stessa arte della prudenza, tanto più che la rovina della corte trascinava con sé anche quella “conversation politique” della quale era stata, fino ad allora, il luogo privilegiato.
Così, se «il ruolo, lo spazio del cortigiano si situa, dalla propria origine, nell’alone di un potere che la parola rimuove e invoca, nell’esercizio di una simulazione (nel suo senso tecnico - e non ancora etico - di “rappresentazione in assenza”) e di una dissimulazione (nel nascondimento, e quasi revoca nella conversazione, di quella distanza), esattamente “sì come ne le pitture - chioserà il Tasso - con l’ombre s’accennano alcune parti lontane» (7), il ruolo e lo spazio del Segretario, la cui unica relazione con il mondo esterno è dettata dalla distanza, oltre che formale, ontologica che il segreto professionale, da lui custodito, gli impone, non è più, o non può limitarsi ad essere, quello di consumare il mondo stesso nella prudenza, nella simulazione e nella dissimulazione, bensì quello, ben più oneroso, di inventare il mondo.
In quest’ottica, la proposta formulata da Francesco Patrizi nel Segretario «di un’élite neoplatonizzante al disopra della Controriforma, di un modello di cortigiano che concentrasse in sé una pluralità di funzioni» (8), per quanto arcaica, anticipa di circa un ventennio il malumore diffuso tra i segretari e gli uomini di cultura in genere derivante dalla consapevolezza di un conflitto sempre meno risolvibile tra il modello e la prâksis.
Per quanto discontinua possa apparire una retta tra i punti di intersezione dell’esemplarità letteraria di questa trattatistica, ampiamente dilagata nello scorcio del Cinquecento, con la reale condizione di subalternità del ruolo di Segretario, di mero facitore di epistole, amanuense in esilio; e per quanto ardua si verifichi ogni impresa di ricondurre tale letteratura ad una sorta di metalinguaggio che fa, proprio del ripiegamento su se stesso, - mediante il ripiegamento in essa dei suoi autori, che in questa precettistica inventano, appunto, una “costante del comportamento” al fine di ritrovare, oltre che una funzione ormai perduta, una pur sempre convenzionale socialità -, il superamento di un codice ormai caduto in disuso (9) (per mezzo di uno di quei rovesciamenti niente affatto paradossali cari al Talleyrand, per il quale la funzione del linguaggio sarebbe non quella di esprimere il pensiero ma quella di mascherarlo); non risulterà comunque infondato il sospetto per il quale la “segretezza” e la “fedeltà”, motivi dominanti nel trattatoDel buon segretario di Angelo Ingegneri (10), si traducono, alfine, negli unici mezzi a disposizione del Segretario per godere di una autonomia culturale quotidianamente minacciata.
Proprio nella celebrazione dell’allontanamento dal potere dell’intellettuale di tradizione umanistica, cui pure appartiene, con le dovute cautele, il modello del Cortegiano (11), subentra il postulato del segreto (12), la sua fenomenologia, che recupera, nel corso della trattatistica del segretario, tutta la connotazione semantica positiva che lo contraddistingue, oltre che «come sorgente di vergogna per qualcosa che deve essere tenuto nascosto»(13), quale segno di un sapere dissimulatorio «negato all’altro, che implica un controllo di sé e della propria individualità»(14) e che, esteso ad un’élite di pochi adepti, “interiorizza” il suo senso sociologico (15).
Così come la menzogna, il segreto che si impone, quello che non viene scoperto, è «un mezzo per mettere in atto una superiorità spirituale (…) è un diritto spirituale del più forte» (16), ma, a differenza della menzogna, che è una forma di simulazione, il segreto è «le savoir de la chose, et non la chose elle même» (17) che «anche se può ricorrere per celarsi alla simulazione (…) si distingue dalla simulazione. Il segreto, come non manifestare, non dire, non far sembrare quello che è, è diverso dal dire quello che non è, come nell’errore, e dal far sembrare quello che non è come nel falso, nell’inganno e nella menzogna» (18). E se la menzogna «in quanto costruzione linguistica, è in ogni momento minacciata dalla verità che il più piccolo lapsus può riportare a galla» (19), il segreto, in quanto negazione linguistica, “secondo mondo accanto a quello manifesto” (20), può essere minato solo da un atto intrusivo, e in quanto tale, il suo disvelamento implica, in accordo con Simmel, una violazione della personalità di colui che lo custodisce (21).
Così, dal Secretaire, il mobile in cui sono custodite a chiave le carte, prende nome il Segretario, l’aiutante, «come Theut con il Faraone nell’aneddoto egiziano del Fedro, o forse come Fedro medesimo, che nasconde il discorso di Lisia sotto la veste (…). Ma per analogia con “sillabario”, “segretario” potrebbe anche essere un catalogo, persino una iconografia o un portaolio, o più esattamente una icnografia in cui si raccolgono, scrivono o descrivono delle tracce, cioè in fondo dei segreti» (22).
Il Segretario, dunque, è il testimone, oltre che il custode, di un segreto, è colui che attesta la presenza di un segreto senza rivelarlo, «di attestare - per citare già Blanchot - l’assenza di attestazione, il fatto che l’attestazione non sia possibile (…). L’impegno a serbare il segreto è una testimonianza. Il segreto presuppone non solo che ci siano dei testimoni, come minimo quelli che, come si dice, lo condividono: presuppone che la testimonianza non consista semplicemente nel conoscere un segreto, nel condividerlo, bensì nell’impegnarsi, implicitamente o esplicitamente, a serbarlo. Di modo che l’esperienza del segreto è, per quanto contraddittorio possa apparire, un’esperienza testimoniale» (23). Non a caso, Domenico Giorgio, sottolinea quanto paradossale sembri la posizione assunta per necessità dal segretario di lettere nell’applicazione della strategia del segreto: «egli è, per antonomasia, il funzionario della parola scritta volutamente celata; ma la scrittura possiede, per sua natura, l’intima caratteristica di essere refrattaria a ogni tipo di segretezza, e in particolare la lettera, la cui elaborazione segna inequivocabilmente la superiorità intellettuale dello scrivente, ma ha la possibilità di offrire, più del parlato (…) la chiara oggettività di un contenuto e contemporaneamente la volontà di tacere o di omettere ciò che non si vuole affermare, ponendo così in evidenza l’ambiguità di più interpretazioni insite nel linguaggio epistolare che, in contrasto con la sua originaria chiarezza espositiva, può divenire sede dei fraintendimenti» (24).
Il Segretario come “scrigno” e “stomaco”, «contenitore del segreto del suo principe (…) è gravato dal dovere di conservare ermeticamente chiusi tutti quei segreti che possano ledere gli interessi del suo principe, anche a rischio della vita» (25). L’analogia con Proteo (26) (cara all’abate Benvenga) (27) - figlio di Poseidone, la cui facoltà di conoscere i segreti degli dei, di nasconderli o tacerli, e di cangiare forma «pur di sottrarsi alle domande sugli accadimenti futuri che gli venivano rivolte» (28), era menomata nel sonno o quando si ritrovava incatenato -, costretto, da Aristeo, in catene, a tradire il principio della testimonianza a lui solo nota, o con la statua di Arpocrates, il dio egizio del silenzio, il cui dito premuto fortemente sulla bocca, mediatrice tra interno ed esterno, ammoniva alla discrezione e alla gelosa segretezza (29), è evidente: «la natura arpocratica del silenzio, utile alla conservazione dei secreta, intesa come strumento di comunicazione e arma di difesa nei confronti della società civile, felicemente si coniuga con simulazione e dissimulazione, reticente ed omissioni atte a svolgere il delicato compito di mettere al riparo, dall’inganno operato dalle istituzioni, l’individuo» (30).
Apologeta del silenzio, il funzionario di Segreteria «addetto alle missive e ai codici cifrati delle cancellerie» (31), il cui ufficio poggiava quindi sul segreto e sulla segretezza, è colui che sa che il silenzio consegnatogli «dipende solo in parte dalla deliberata volontà di non dire, di conservare un segreto come un fatto compiuto» (32) poiché «il silenzio, o la reticenza, adempiono alla funzione dissimulatoria di “tacere dicendo”, con la debita conseguenza di contrassegnare un atto linguistico» (33).
Così, “segretamente”, tra “lo spiegar concetti in forma di lettera”, anima di tale professione, e «la necessità di conquistarsi la fiducia del signore, nel lavoro e con la pratica della scrittura» (34), si consumava la “mondanità” del segretario: «un vero e proprio atto angelico, nella misura in cui bisognava che il segretario mettesse in lingua e traducesse sulla carta in “lineatura d’inchiostro” la “prima radice”, il “midollo” e i “concetti” non suoi ma del divino padrone (…). Sicuramente “gentiluomo”, per meriti di “fede” e “sapere”, il segretario o “dicitor di penna” era alla fine “esecutore dell’altrui volontà” e “segno fedele” del padrone cui era “ordinato”» (35).
Celato di là del suo ufficio, in conformità al modello classico offerto da Tiberio, Sallustio e Tacito, quasi segreto a sé stesso, “una mano della volontà del principe e uno strumento del su governo” (36), scriba di Dio, custode della verità (37) e “mago della parola”, «del segretario non si dava ritratto. Né era possibile darlo. Corpo, gesti, abbigliamento e pronuncia, venivano progettati per lui in modo da sospingerlo nell’ombra: nell’inevidenza, nel conformismo, nell’anonimato; e in una scelta di solitudine» (38), sicché della sua funzione, della sua “aritigianeria” legittimante del potere, non possono che testimoniare la pleiade di trattati sul segretario e le lettere “messaggere”, simili, queste ultime, al collo di colomba «quel misto di viole e di rose che (…) rimirato da una parte l’adorna e dall’altra sparisce» a simboleggiare «i riflessi dell’amicizia nella candidezza de’ fogli» (39) nei cui colori il segretario si congeda, come nota Nigro, dal mondo barocco.

NOTE
1) «Lasciando da parte la questione generale della diffusione del dibattito politico, qui va notato il legame che con essa ebbero il mutamento e l’ampliamento dell’idea di legittimità della dissimulazione, che della ricerca sulla ragion di Stato e della teoria politica fu allora elemento rilevante. Teorici e moralisti si preoccupavano di distinguere nettamente, nell’enunciazione dei loro precetti, tra pubblico e privato, tra i doveri dei sudditi e quelli del principe. Ma la distinzione era destinata a perdere il suo rigore per il fatto stesso che quei principi e quei precetti si diffondevano e diventavano popolari» (cfr. R. Villari, op. cit., p. 29).
2) B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, (a cura di) W. Barberis, Torino, Einaudi 1998.
3) In merito ai problemi critici scaturiti da questa tradizione interpretativa cfr. G. Patrizi, «Il libro del Cortegiano» e la trattatistica sul comportamento, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, III/2, Le forme del testo, La prosa, Torino, Einaudi 1984, pp. 855-890.
4) «La “corte” chiude quindi e compendia, nella prima e premeva delle sue occorrenze, tra “vassallo” e “sbirraglia”, una serie di legami personali e servaggi, dopo i quali, nel corteggio saturnino – e prima di Giove -, troveranno posto solo più i nomi della consunzione o del nascondimento, il macerarsi nella “pallidezza, smorto, squallore, squallido, lividore, macero, exhausto”, ma anche il ripiegarsi nelle “tristizie, stanchezza, malinconia, spelonche, nascondimenti, celato, occulto, coverto, secreto, secretario”, entro cui – in un rinvio non coperto dall’arte di governo – si chiudono i nomi di Saturno, per dar luogo a quelli sovrani di Giove. La corte poi “in vece della famiglia del Podestà o del Bargello” testimonia la tenace durata delle sue origini feudali, la secolare gerarchia che serra il “soggetto, suddito” intorno al “vassallo”, attraverso la core appunto del “famiglio, fante, valletto, paggio, ragazzo, scudiere”, e lo sottopone alla forza esecutiva del proprio diritto attraverso quell’altra “famiglia” che è il birro, la “sbirraglia”. La corte dunque perdura nella sua funzione di epifania dell’autorità quanto di paradigma dei modi rituali del “servaggio”. Non a caso lo stesso Castiglione ammetteva “che la principale e vera professione del cortegiano debba essere quella dell’arme; la qual sopra tutto voglio ch egli faccia vivamente e sia conosciuto tra gli altri per ardito e sforzato e fidele a chi serve”» (cfr. C. Ossola, op. cit. , p. 102).
5) Non a caso, Baltasar Gracián, nell’aforisma 179 del suo Oracolo, in cui l’arte della prudenza è attribuita all’uomo attento, scrive «Nell’intima temperanza consiste la perfetta salute della prudenza» (cfr. B. Gracian, Oracolo manuale e arte di prudenza, (a cura di) Antonio Gasparetti, Tea Due, Torino 1997, p. 114).
6) Se “far corte” equivale, per dirla con le parole di Pietro Bembo, a «corteggiare, cioè accompagnare Principe e Signore per onore o per debito, o per altro», è sintomatico, allora, che in questa ridefinizione dei rapporti tra intellettuali e potere, degli intellettuali di ieri e del potere di domani, la cortigianerie risulti, per quanto preferibile, inattuale (cfr. Dini V., La prudenza da virtù a regola di comportamento: tra ricerca del fondamento ed osservazione empirica, in V. Dini - G. Stabile (a cura di), Saggezza e prudenza. Studi per la ricostruzione di un'antropologia in prima età moderna, Napoli, Liguori 1983).
7) Cfr. C. Ossola, op. cit., p. 133.
8)Cfr. M. Rosa, op. cit. , p. 301
9) Cfr. L. Bolzoni, Il volto segreto della scrittura. Immagini della ricezione tra Cinque e Seicento, op. cit. , pp. 335-356.
10) A. Ingegneri, Del buon segretario, Roma, Faciotti 1594.
11) Cfr. C. Scarpati, Dire la verità al principe, Ricerche sulla letteratura del Rinascimento, Pubblicazioni della Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 1987.
12) «Il termine segreto proviene da secretus, participio passato del verbo latino secernere che significa separare, dividere; il prefisso se indica più specificamente il concetto di scartare, distinguere, mettere da parte. Il primo significato, sul quale l’autore [Arnaud Lévy] insiste finendo col privilegiarlo, è quello legato al linguaggio agricolo che tende a designare l’antica operazione di setacciare il grano mediante lo strumento del setaccio (in latino, cribum e crible in francese) che ha appunto il compito di separare la parte buona da quella cattiva. In senso figurato secernere assume anche il significato di giudicare, discernere, distinguere il vero dal falso, il buono dal cattivo. Con il prefisso ex, il verbo cernere assume meglio il significato di vagliare, purgare (evacuare in termine medico). Senza che sia menzionato da Lévy, il verbo greco da cui proviene cernere è κρίνω, che ha lo stesso senso, oltre che di giudicare, distinguere, secernere, la cui radice indoeuropea è (s)q(e)rei, da cui il termine greco di confronto σκωρ (dal sanscrito, ava-s-kara), che significa escremento, lordura; quindi excrementum da quod excernitur, con il senso sia di vagliatura che di escrezione. Dunque, secerno, “qui signifie séparer, mettre à part, a donné deux termes françes: secretion et secret”» (cfr. D. Giorgio, Per una letteratura del segreot, in Critica letteraria, XXVIII, 108, Loffredo, Napoli 2000, pp. 493-494.
13) Ibidem.
14) Ivi, p. 495.
15) «Finché l’essere, l’agire e l’avere di un individuo sussiste come segreto, il significato sociologico generale di questo è l’isolamento, l’antitesi, l’idividualizzazione egoistica. Qui il senso sociologico del segreto è esteriore: è un rapporto di colui che possiede il segreto con chi lo possiede. Ma non appena un gruppo in quanto tale assume il segreto come la sua forma di esistenza, il senso sociologico di questo diventa interiore: esso determina le relazioni reciproche di coloro che posseggono in comune il segreto» (cfr. G. Simmel, The Sociology of Secrecy and of Secret Societies, [trad. it.] Il Segreto e la società segreta, in Sociologia, Edizioni di Comunità, Torino 1998, p. 296).
16) Ivi, p. 296.
17) «Tout secret est un savoir et rien qu’un savoir» (cfr. A. Lévy, Evaluation étymologique et semantique du mot «secret», Du Secret, «Nouvelle Revue de Psycanalyse», 14 (1976), p. 120).
18) Cfr. M. A. Bonfantini - A. Ponzio, Il dialogo della menzogna, in Menzogna e Simulazione (a cura di) M. A. Bonfantini, C. Castelfranchi, A. Martone, I. Poggi, J. Vincent, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997, p. 13.
19) Cfr. M. Lavagetto, La cicatrice di Montaigne, Sulla bugia in letteratura, Einaudi, Torino 1992, p. Ix.
20) «Il segreto, come tale, non potrebbe esistere, d’altronde, senza una società. Robinson Crusoe, nell'omonimo romanzo di Defoe, non ha segreti per nessuno, perché è solo. Comincia ad averne solo quando arriva Venerdì» (cfr. M. Ferraris, Che cosa è un segreto? , consultabile al sito www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=121).
21) Nella misura in cui nascondere un segreto significa difendere sé stessi e in qualche modo non mettersi a nudo davanti agli altri (Ibidem).
22) J. Derrida e M. Ferraris, «Il gusto del segreto», Laterza, Bari 1997.
23) Ivi, p. 66.
24) Cfr. D. Giorgio, op. cit., p. 34.
25) Ibidem.
26) «La natura proteica che contraddistingue atteggiamenti e comportamenti dell’uomo di lettere, del segretario di un Principe o di un qualsiasi uomo di corte del tardo Rinascimento e agli albori della civiltà barocca italiana ed europea risulta essere la cifra emblematica di un habitus mentale, oltre che prettamente comportamentale, di un’intera epoca segnata da profonde trasformazioni politiche e morali». Cfr. D. Giorgio, Nel segno di Proteo, in S. Ammirato, Della segretezza, (a cura di) D. Giorgio, Edizioni Magna Graecia, Napoli 2001, p. 11.
27) L’accostamento operato con maggior efficacia in questa direzione, è da attribuirsi all’abate Michele Benvenga che nel Proteo segretario indica il segretario come colui che «si trasforma negli effetti molteplici del suo signore» vestendosne «senza spogliare il padrone», quale nuovo Proteo che «varia le voci non potendo il soggetto et, a guisa di cristalli in più pezzi, moltiplica l’apparenze in più guise». Cfr. T. Costo - M. Benvenga, Il segretario di lettere, (a cura di) S. S. Nigro, Sellerio, Palermo 1991.
28) D. Giorgio, op. cit,, p. 11.
29) «E proprio questo un buon segretario o cortigiano devono evitare, di svelare, cioè, anche se costretti e impediti dall’inganno e dall’astuzia altrui, i segreti e le nascoste intenzioni del loro principe e padrone, cercando di mutarsi all’infinito in caleidoscopiche immagini, in atteggiamenti dissimulatori, di nascondersi dietro ingannevoli maschere» (ivi, p. 12).
30) Ivi, p. 37.
31) S. S. Nigro, Il Segretario, in AA.VV., L’uomo barocco, (a cura di) R. Villari, Laterza, Bari 1998.
32) Cfr. D. Giorgio, op. cit., pp. 36-37.
33) Ibidem.
34) Cfr. S. S. Nigro, op. cit. , p. 95.
35) Ibidem.
36) Nell’atto pratico dello scriver lettere, «se il “che” era del committente e ispiratore, il “modo” era tutto del segretario». Ivi, p.98.
37) «Il nostro termine “verità” proviene dal latino veritas. Anche il termine greco alètheia viene tradotto con “verità”. Si tratta realmente dello stesso concetto espresso con due parole di origine diversa o dietro questa duplicità di forme c'è una differenza di significati? Da qualche tempo mi vado occupando, anche etimologicamente, di queste cose. Quando vado a tradurre Platone trovo il termine “alètheia”, che è il termine con cui gli antichi intendevano la verità. Andando poi al fondo a vedere la cosa, trovo tradotto “alètheia” con “veritas”, cominciando da Cicerone e dai traduttori latini. Mi sono reso conto che, se Platone li avesse sentiti, si sarebbe arrabbiato moltissimo.. Infatti il nostro termine “veritas” non vuol dire affatto quello che era, per i greci, la verità. Alètheia, senza voler fare nessun accenno ad Heidegger, viene da lanthano che vuol dire "coprire". Da lanthano proviene Lete, che è il fiume dell'oblio, il fiume che copre. Alètheia, con l'alfa privativo, è il contrario di ciò che si copre: è ciò che si scopre nel giudizio. Nel nostro ambito latino, veritas è un termine che proviene dalla zona balcanica e dalla zona slava, e vuol dire tutt'altro che verità. Vuol dire, in origine, "fede"; fede nel significato più ampio della parola, tant'è vero che in russo ad esempio vara vuol dire fede. Tutti noi sappiamo benissimo che l'anello della fede si chiama anche la vera, proprio perché questa origine balcanica, slava è penetrata fino da noi: la vera è la fede. Andando avanti nello studio, ci si rende conto che ci troviamo di fronte ad una doppia verità. In ciò che diceva Averroè, che parlava di "doppia verità", vi è una sottilissima visione storica e critico-filologica del significato di verità. Qual è la doppia verità? Da un lato la verità di fatto è ciò in cui ho fede, per cui l'assumo come vera senza nessuna riflessione critica: questa è la nostra veritas. L'altra verità è quella che Leibniz - altrettanto dotto - aveva chiamato la "verità di ragione", per la quale sufficit la ragione; la ragion sufficiente, distinta dalla verità di fatto. Ecco le due verità: l'una è una fede, che è una cosa, e quindi dovrebbe entrare in tutto un altro ambito; l’altra è quella logica che scaturisce attraverso il saper pensare: si scopre la condizione che permette di definire la cosa e quindi questa diventa vera nel giudizio, nel logos, nel ragionamento che la viene determinando» (cfr. F. Adorno, dall’intervista Parole chiave della filosofia greca - Napoli, Biblioteca Marotta, martedì 31 maggio 1998, e consultabile al sito http://www.emsf.rai.it/aforismi/aforismi.asp?d=303).
38) Ivi, p. 96.
39) T. Costo - M. Benvenga, Il Segretario di lettere, op. cit. , p. 99.