il principe e il convivio 
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Roberto Miele
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LA TRATTATISTICA DEL SEGRETARIO DI LETTERE TRA CONTESTUALIZZAZIONE E NORMATIVITÀ
Per Speculum in Enigmate: dall’archetipo della corte alla Segreteria modellizzante.
 
Il rapporto fra l’uomo di cultura e la corte, emblematico microcosmo di uno iato sempre meno coniugabile tra intellettuali e potere, la cui possibilità di definizione si era dissolta, come nota Mario Rosa (1), alle soglie degli anni ’90 del Cinquecento, e la cui eredità è da individuarsi, oltre che nella trattatistica e nella letteratura quattro-cinquecentesca sulla corte(2) - che sancisce l’ennesimo approfondimento del tema della dissimulazione, individuata non più nella prudenza della vita cortigiana bensì nella doppiezza (3) quotidiana -, anche nella coeva riflessione politico-morale invigorita dalla ragion di Stato del Botero e dai “contributi ideologici” di Scipione Ammirato, affonda le sue radici nella spaccatura politica e culturale inauguratasi nell’ultimo trentennio del XIV secolo -contrassegnato, storicamente, dal tramonto delle prospettive di una azione imperiale (4) e di una restaurazione del papato in Roma, e scandito dallo scisma d’Occidente -, e culmina nell’implacabile opera di ricomposizione organica dell’imperialismo papale nell’età postridentina e controriformistica.
Per quanto «un’immagine del mondo intellettuale italiano scandita in momenti schematicamente contrapposti e diacronicamente evidenziati secondo una successione che non ha riscontro effettuale nella realtà» (5), possa risultare anacronistica, nella misura in cui una lettura del genere è imputabile a chissà quali paradigmi filo-storicistici presumibilmente caduti in disuso, potrebbe comunque risultare non del tutto fuorviante un tentativo, almeno iniziale - da assurgersi, quindi, non quale mera ipotesi di lettura, bensì come strumento di ricerca -, di storicizzazione, o meglio di contestualizzazione, finalizzato, in parte, proprio al recupero di quegli elementi o nella fattispecie, dati, che potrebbero risultare indiziatici per una pur sempre generica e approssimativa comprensione della condizione dell’intellettuale nei suoi mutevoli rapporti con il potere, e, in parte, per inaugurare una prospettiva di natura solo vagamente ermeneutica, e pure interrogativa, aperta, che, rintombando sul primo degli obiettivi qui esposti, ne esplori ogni possibile funzionale variante, per chiarirne, alfine, un eventuale grado di incidenza.
Tale procedimento à rebours, fosse anche votato alla più implicita delle contestualizzazioni, non può dunque astenersi dall’individuare, nella breve parentesi romana di Urbano V seguita dal ritorno ad Avignone, nella politica aggressiva inaugurata da Gregorio XI, dopo la morte dell’Albornoz e culminata nel conflitto fiorentino-pontificio, nell’apertura dello scisma d’Occidente (6), nonché, all’interno degli stati italiani, nel rafforzamento progressivo dei regimi principeschi, i prodromi di quel «processo di laicizzazione culturale» che, investendo la penisola italiana agli albori del secolo XIV, inaugura la problematica politico-culturale caratterizzante il ruolo degli intellettuali (7).
La riflessione degli umanisti, concernente i loro rapporti con il potere, e sviluppatasi su tre livelli complementari (8) - il cui primo in particolare, quello della “discussione sulla nobiltà”, vede progressivamente lo slittamento del nesso di partenza, ricchezza di nascita-virtù, al nesso nobiltà-virtù, fino ad identificarsi in quello più discriminante dotto-ignorante -, affermando il valore autonomo e autosufficiente degli studia humanitatis, e marcando la differenza di questi nei confronti delle così dette discipline «strumentali», non a caso è stata interpretata come disperato tentativo di legittimazione civile e culturale non corrispondente né alla civiltà delle corti (luogo per antonomasia della materializzazione del potere, della sostanziale precarietà legata alla natura discrezionale e arbitraria del potere (9), e «topos d’affabulazione mitica proteso ad una restaurazione edenica» (10), ma, anche, talora sottovalutato, centro di aggregazione) né alla vita civile in generale (11), e, quindi, come una riflessione, tutto sommato, idealizzata e idealizzante - emblematico, in questo senso, il mito mediceo-, «nel tentativo di essere vezzeggiati e sponsorizzati dal potere e di godere i benefici di una servitù volontaria» (12), e, non a caso, della letteratura quattrocinquecentesca sulle corti si può dire che «fu, generalmente, una letteratura di denunzia dialetticamente contrappuntante la necessità di affermazione sociale dell’intellettuale» (13).
La crisi della libertà italiana alla fine del ‘400 e nei primi decenni del ‘500, non solo sentita come crisi di una cultura e delle strutture sulle quali essa si basava, nella misura in cui stentava a produrre, nonostante una inedita e inaudita fecondità, istituzioni o politiche di coesione civile, aveva quanto meno generato e perpetrato, come nota Gaeta, «la continuità di una tradizione, pur nel mutamento dei dati obiettivi in cui gli intellettuali si trovarono ad operare: vale a dire la continuità dello sforzo di elaborare un modello in cui l’intellettuale trovasse un suo posto preciso e una sua funzione specifica. Poiché era diventata impossibile la costruzione di concreti modelli di stato, lo sforzo si concentrò nell’elaborazione di modelli di corte, e dal momento che il corso politico generale non consentiva più di elaborare modelli di “cittadino”, era logico che la nuova modellistica dovesse concernere le nuove figure che andavano emergendo nella società» (14).
Sotto quest’aspetto, l’incubazione della crisi politica di fine secolo è da ascrivere ai mutamenti di una società, quella costituentesi a partire dal XV secolo, che, cambiando, registra la progressiva affermazione di nuove gerarchie sociali, sia di natura economica, derivante dalla progressiva frantumazione dell’economia medievale e dal conseguente allargamento dei mercati, e quindi civile, con l’emergere delle città, quali centri di produzione e di scambio, nonché di propulsione culturale, e la grande ripresa demografica dopo la peste del 1348, sia di natura culturale, derivante dalla rottura dell’unità cristiana, per mezzo della riforma protestante, e tanto rinnovata quanto reazionaria risposta controriformista della chiesa cattolica.
In tale contesto, il pensiero politico è teleologicamente teso al ridimensionamento della gestione del potere interno, in parte perché la scoperta del nuovo mondo impone una consapevolezza diversa degli eventuali modelli di riferimento, nonché dei criteri assiologici di partenza, per quanto votati, questi ultimi, all’integrazione del “nuovo” nella cultura e nella società europea, in parte perché gli scontri tra riforma protestante e controriforma cattolica “ispirano”, inevitabilmente, le riflessioni sul concetto di tolleranza.
Considerando, inoltre, il carattere composito delle monarchie a venire, costituite inizialmente da un piccolo nucleo territoriale e poi espanse per mezzo dei matrimoni dinastici e delle guerre di conquista, fino a diventare degli stati, la cui burocrazia è “congegnata” per governare, e il cui esercito nazionale risulta necessario per la difesa degli interessi del sovrano, e sottolineando la complementarità fondante il nuovo modello politico delle monarchie assolute, tra queste e l’aristocrazia, per la quale il governo risulta un potere esclusivo e discriminante, proprio in virtù della rete clientelare utile al sovrano, non è un caso che il concetto, e quindi la tematizzazione concernentevi le pratiche, della ragion di Stato (15), si sia sviluppato a partire dal 1523, con il dialogo Del reggimento di Firenze, di Francesco Guicciardini (16), e consolidato nelle scritture successive (17), fino alla prima compiuta elaborazione teorica del progetto reazionario della ragion di Stato (18), individuabile nell’opera di Giovanni Botero, del 1589, Della Ragione di Stato, sulla lunghezza d’onda delle considerazioni contrarie alla politica considerata come sfera autonoma, nell’intento di criticare, appunto, «l’approdo estremo della ragione empia della politica nella fase della crisi estrema della civiltà rinascimentale, appunto quella ragion di Stato che nelle regioni italiane e in Europa impone il proprio dominio operando in modo disgiunto dai precetti della morale cristiana; eppure, in questa critica resta implicito il riconoscimento della separazione ormai avvenuta tra il piano delle norme morali, naturali e divine, e la sfera d’azione della politica» (19).
Il tema della ragion di Stato «diverrà poi centrale nella cultura italiana della Controriforma, allorquando la preoccupazione delle politiche dei diversi Stati italiani - ed innanzitutto della chiesa di Roma - rispetto alle nuove concentrazioni di potere nelle diverse regioni europee spinge alla ricerca di una positiva risposta di difesa e di conservazione degli interessi particolari dei poteri locali. Non a caso la contestazione - che ha preso forma esplicita nelle scritture prodotte dalla curia romana, dal Possevino fino al Bellarmino - del fenomeno nuovo e pericoloso della sovranità nazionale in Francia ed in Inghilterra si lega, sul piano dello scontro ideologico, alla necessità di trovare un antidoto efficace a tutte le forme di machiavellismo, cioè a quelle pratiche politiche - ispirate diabolicamente dagli scritti del segretario fiorentino - che pretendono di procedere con la presunzione di potere fare a meno del sostegno della morale cattolica» (20).
Nel su citato processo di sviluppo delle monarchie, un altro aspetto importante è da individuarsi nel ruolo svolto dalle corti, centri di produzione e aggregazione culturale senz’altro, ma, sopra tutto, dimore del principe, luoghi del potere, dell’organizzazione del suo consenso e della sua giustificazione.
Proprio in quest’ottica, il ruolo dell’intellettuale risulta tanto più necessario al principe quanto meno delegittimante è il potere della sua penna, sì come quello di tutti i cortigiani che gravitano attorno alla corte, la cui progressivamente idealizzata cortigianeria, grammatica del buon vivere dell’antico regime, e sillabata, se pur come una nenia, fino alla fine del XVIII secolo, avrebbe dovuto evidenziarne, per quanto speciosa, e per questo tacciabile di anti-naturalezza, la magnificenza.
L’impresa di Carlo VIII, sceso in Italia nel 1494 per avanzare delle pretese sul regno di Napoli, e l’arrivo degli spagnoli, inaugurando il lungo periodo di dominazione straniera, durato fino al 1800, mette in crisi il sistema vigente di stati principeschi - la cui politica di difesa era pur sempre una politica di equilibrio -, cui fa da contrappunto solo la ripresa ecclesiastica, che, dopo il ritorno del papato in Italia, e specialmente a scisma ultimato, crea un polo di attrazione clericale per gli uomini di cultura, soprattutto perché «le rinunce per poter godere di benefici ecclesiastici erano indubbiamente minori rispetto a quelle cui doveva sottoporsi un intellettuale che volesse affidarsi alla precarietà del beneficio laico dipendente dalla volontà del signore, e la tolleranza romana era indubbiamente più larga di quella civile» (21) e perché «per la stragrande maggioranza degli intellettuali, nei confronti della Chiesa esisteva una problematica di riforma, non di ortodossia. Era d’altra parte evidente che, letterato o ministro, l’intellettuale poteva trovare gratificante la propria posizione solo in quanto essa fosse in qualche modo collegata con un potere che traesse forma e disciplina dai suoi ammaestramenti, ma che fosse un potere reale. Da ciò, il clericalizzarsi dei quadri intellettuali italiani (…) che tuttavia non escludeva la rievocazione di una società politico-intellettuale laica, quale si presentava nelle pagine del Cortegiano» (22).
La soluzione «cortigiana», la cui novità, nota ancora Gaeta, «stava nell’essere un libro sul cortigiano: una figura che aveva un carattere inedito dopo quelle del “cittadino” e del “principe” e che però rispondeva all’antica aspirazione di una direzione del potere da parte degli intellettuali e d’una conduzione della politica da parte degli uomini “intelligenti”, anzi che ribadiva e rafforzava questa prospettiva» (23), e il cui successo andrebbe ricercato proprio nella «riaffermazione della funzione dell’intellettuale nel centro stesso del potere come funzione di chiarimento razionale dell’azione del principe» (24), la soluzione «cortigiana», si diceva, resta valida fino al Sacco di Roma, vera e propria svolta, in una storia degli intellettuali italiani, che sancisce la fine della rinascita umanistico-cortigiana presso la corte pontificia, l’instaurazione del principato mediceo a Firenze - cui è ascrivibile una accentuazione della crisi presso larghi strati di intellettuali italiani, laici ed ecclesiastici, «in quanto eredi di una problematica religiosa, accentuata a fine Quattrocento dal neoplatonismo ficiniano, poi dalla Riforma e dal messaggio di liberà cristiana di Lutero, e insieme legati ad un retaggio ideale e politico il cui riferimento è la “libertà” delle città-stato comunali e rinascimentali, mentre incominciano a prevalere gli ordinamenti del principato e dell’assolutismo monarchico» (25)-, e la riorganizzazione dell’Inquisizione romana (1542) (26), oltre modo agevolata dalla diplomazia del pontificato farnesiano, dalla crisi dell’evangelismo, dalla dispersione del circolo valdesiano di Napoli, a seguito della morte del Valdés (27).
Così, partire dal 1530 (28), stabilizzatesi le condizioni generali dell’Italia nell’impotenza, dopo il fallimento della politica di Clemente VII (29), e, a livello europeo, impostasi, con Augusta, «una frattura religiosa che sommava i suoi effetti a quelli del duello franco-asburgico» (30), per la generalità degli intellettuali ciò che la situazione richiedeva non era più un modello umano com’era stato quello di Castiglione, bensì un codice di comportamento che illustrasse le arti necessarie all’esercizio di una professione e fornisse precetti a dei reali social-climbers: «le “lettere” e i “letterati” erano senza scampo: il loro destino era segnato dal fatto che il confronto tra le forze in campo stava diventando un conflitto che richiedeva una generale mobilitazione di parte, alla quale si poteva sfuggire unicamente attraverso la strada dell’utopia e dell’avventura della penna. Nel suo rapporto con le istituzioni, il letterato era destinato a trasformarsi in circospetto segretario, in ministro fedele, in accademico: la parabola era quella da cortigiano a gentilhuomo» (31).
Il decennio successivo, d’altronde, inaugurato dall’assedio di Firenze, non fa che accentuare una situazione già critica e contraddittoria, in cui l’intellettuale umanista, cortigiano o cittadino, cerca asilo sempre più frequentemente nelle istituzioni politico-religiose del tempo, e non può non dedicarsi ad una riflessione sul potere che, in una distesa trattatistica, mira, anzi tutto, a ricomporre il suo status, nell’illusione di ritrovarvi, infine, una smarrita identità.
Proprio nell’ambito di un sempre più esasperato tentativo di non ritrovarsi esclusi dai gangli del potere, di appartenervi ancora, matura la consapevolezza della scissione insanabile che via via si andava concretizzando (32). Per queste vie, su due ipotetici e niente affatto speculari fronti semantici, uno per così dire “esterno” alla corte, l’altro “interno” maturano e si esasperano, fino al dissolvimento, i motivi dominanti della trattatistica cortigiana.
Dalle riflessioni di Giovanni Andrea Gilio e di Giambattista Girali Cinzio alla “pazienza” del Rosello, dalla prudenza alla doppiezza, dalla “civile conversatione” alla vera e propria arte della dissimulazione (33) (e “L’arte de’ cenni” di Giovanni Bonifacio, del 1616, non può non essere considerata, in questo senso, paradigmatica) (34), alla segretezza degli Arcana Imperii, si celebra l’idealizzazione del modello dell’uomo di corte, il passaggio da modello reale a “ideale culturale”, dall’esemplarità del principe alla «banda di palazzo» (35), da Cortigiano a Segretario, da viso a maschera (36), da funzione a finzione.

NOTE
1) M. Rosa, «Scena» e «segreto»: l’antinomia del potere e il ruolo dell’uomo di lettere, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Vol. I, Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino 1998, p. 299.
2) «La letteratura quattrocentesca sulle corti fu, generalmente, una letteratura di denunzia dialetticamente contrappuntante la necessità di affermazione sociale dell’intellettuale», cfr. F. Gaeta, Dal comune alla corte rinascimentale (cfr. ivi, p. 241).
3) «(…) ormai lecita ed emblematicamente rappresentata nella letteratura delle imprese dall’immagine del Giano bifronte» (cfr. ivi, p. 299).
4) Ibidem.
5) ivi, p. 249.
6) «I prodromi di tale spaccatura sarebbero da individuarsi già nel 1378, anno in cui il Sacro Collegio, sotto la spinta sempre più pressante delle fazioni francese e antifrancese, elesse due papi, parimenti legittimi: l’uno per la sede di Roma, riconosciuto dall’Inghilterra e dalla maggior parte della Germania, l’altro per la sede di Avignone, riconosciuto dai francesi e dai loro sostenitori, inaugurando così una divisione che si perpetuò per oltre quarant’anni. Spaccatura incrinata ulteriormente dagli esiti del concilio di Pisa, tenutosi nel 1409, e dallo scioglimento del concilio di Basilea, nel 1449» (cfr. Palmer R. - Colton J., Storia del mondo moderno. Dalla nascita dell’Europa alla Rivoluzione francese, Editori Riuniti, Roma 1985).
7) Oltre al su citato testo di F. Gaeta, cfr. G. Benzoni, Gli affanni della cultura, Intellettuali e potere nell’Italia della Controriforma e barocca, Feltrinelli, Milano 1978.
8) «La discussione sulla nobiltà, la problematica della dignità dell’uomo e il giudizio sulla storia di Roma» (cfr. F. Gaeta, op. cit. , p. 299).
9) «(…) La corte era il luogo della corruzione, di una sostanziale inciviltà, di una degenerazione umana (personale e collettiva) quando in essa (e ciò avveniva – stando a sentire i letterati – assai spesso, se non sempre) la cultura non trovava un suo luogo privilegiato. Il principe ideale e la corte ideale avevano scarso riscontro con la realtà, che era una realtà di abiezione» (cfr. F. Gaeta, op. cit. , pag. 241).
10) C. Ossola, Dal «Cortegiano» all’«Uomo di mondo», Einaudi, Torino 1987, pp. 102.
11) «La vita civile (che era una delle articolazioni della vita attiva) lasciava margini sempre più ristretti alla libertà del singolo e ampliava progressivamente i confini della “servitù”, sicché l’emarginazione degli intellettuali dalle istanze di decisione dava luogo ad un riflusso nel privato che significava opposizione e protesta» (cfr. F. Gaeta, op. cit. , p. 243).
12) Ivi, pag. 237.
13) Ibidem.
14) Ivi, p. 244.
15) La ragion di Stato è forma complessa di discorso e di pratica della politica: oltre l'esplicito riferimento all'esercizio della forza, il governo per «ragion di Stato» propone la conversione dell'uso diretto della violenza in codici di dispositivi particolari che debbono essere finalizzati alla conservazione del potere politico ed alla produzione di disciplina e di obbedienza da parte dei sudditi (cfr. G. Borrelli, Ragion di Stato. L'arte italiana della prudenza politica, consultabile al sito www.filosofia.unina.it/ragiondistato/rdis.html).
16) In realtà, F. Guicciardini «utilizzata un'espressione lievemente differente, “ragione degli Stati”, per significare quella ragione poco cristiana e poco umana che governa nell'ambito degli affari politici» (ibidem).
17) «in particolare nelle Orazioni per la Lega composte da Della Casa per incitare i Veneziani a partecipare alla lega armata contro lo stesso Carlo V, l'autore assumerà un'esposizione retorica differente distinguendo la persona dell'imperatore dalla politica imperiale, separando quindi il giudizio sulla moralità indiscutibile dell'uomo dalla considerazione della politica inevitabilmente oppressiva ed accentratrice dell'imperatore: “dico questo solo, che l'ufficio, e il magistrato, che egli ha, richiede che esso presuma di potere con ragione comandare ad ognuno, e che a ciascuno si convenga a lui dichiararsi, ed a' suoi comandamenti”» (ibidem).
18) «Botero definisce in partenza con estrema chiarezza la finalità del modello conservativo: “Stato è un dominio fermo sopra popoli; e Ragione di Stato è notizia di mezzi atti a fondare, conservare, e ampliare un Dominio così fatto. Egli è vero che, se bene, assolutamente parlando, ella si stende alle tre parti suddette, nondimeno pare, che più strettamente abbracci la conservatione, che l'altre; e dell'altre più l'ampliatione, che la fondatione”» (ibidem).
19) Ibidem.
20) Ibidem.
21) F. Gaeta, op. cit. , p. 246.
22) Ivi, pp. 246-249.
23) Ivi, p.246-247
24) Ivi
25) M. Rosa, op. cit. , p. 260.
26) Avviata dalla crisi dell’evangelismo, dopo Ratisbona, e dalle vicende del Tridentino.
27) «È a questo periodo che si chiarisce e si rafforza l’azione della curia romana, che si potenziano i quadri dell’organizzazione regolare italiana per le “riforme” interne degli ordini, il controllo su predicatori e religiosi sospetti, la costituzione di nuove congregazioni di chierici regolari, e che insieme di fanno più definiti i contrasti fra posizioni ortodosse e orientamenti ereticali, e l’obiettiva convergenza di interessi fra il potere politico e la Chiesa romana» (cfr. M. Rosa, op. cit. , p. 262).
28) «Da un lato la centralità delle vicende italiane tra il Sacco di Roma e l’assedio di Firenze, quale sigla di una stagione che si conclude con la catastrofe politica, e dall’altro le molteplici preoccupazioni di ordine religioso che con prepotente vitalità, e con segno diverso, si intrecciano ai momenti politici, tra l’esplosione della Riforma, la diffusione di atteggiamenti di protesta ereticale e di dissenso, la maturazione e il compimento dell’età tridentina» (ibidem).
29) «L’Oratione della pace di Claudio Tolomei (1534) e dedicata a Clemente VII segna il passaggio dal più largo ideale erasmiano di pacificazione della cristianità sconvolta ad una più ripiegata, ma profonda esigenza di «quiete», emblema del generale ripiegamento degli intellettuali del tempo, nonché di una nuova e più forte solidarietà di gruppi intellettuali e di ceti cittadini, oligarchici e popolari, intorno alla consapevolezza che si era aperta una fase assolutamente diversa, un processo, la cui vastità andava misurata sul piano dell’intera penisola e in un quadro europeo» (ivi pp. 263-264).
30) F. Gaeta, op. cit. , p. 251.
31) Ibidem.
32) Cfr. R. Villari, Elogio della dissimulazione, Laterza, Bari 1987.
33) «Una delle chiavi più importanti e più adatte a decifrare la realtà complessiva della politica barocca è il grande rilievo che ebbe la teoria (e la pratica) della dissimulazione. Affrontata dal pensiero classico e medievale come un problema eterno dell’uomo, del rapporto tra apparenza e realtà, tra menzogna e verità, esso fu considerata nel tardo Cinquecento e nel secolo successivo soprattutto come un aspetto specifico della vita politica e del costume di quel tempo (…) Sebbene circondata di riserve e cautele, la teoria della legittimità della dissimulazione – intesa come parte fondamentale del complesso di norme che dovevano garantire la stabilità e la difesa dell’ordine – fu infatti largamente sostenuta anche dalla letteratura politica che si proponeva di permeare di spirito cristiano la ragion di Stato» (cfr. R. Villari, op. cit. , p. 19).
34) Cfr. T. Paba, Il “segreto” come fondamento del saper vivere nell’Oráculo Manual di Baltasar Grácian, in (a cura di) U. Floris - M. Virdis, Il Segreto, Bulzoni, Roma 2000, pp. 357-372.
35)Cfr. C. Ossola, Dal «Cortegiano» all’«Uomo di mondo», Einaudi, Torino 1995, p. 133.
36) «Io porto una maschera, et sono costretto a portarla, perché senza di essa nessuno può vivere sicuro in Itali», scriveva Paolo Sarpi, nella citazione riportata in F. Meinecke, L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 96.