il principe e il convivio 
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Zelinda Carloni
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L'UTOPIA DEL DIRITTO IL DIRITTO DELL'UTOPIA
 
Per secoli la società ha coltivato il pensiero rassicurante che l'utopia sia uno splendido ma impossibile sogno, legato appunto alla natura particolare di alcuni "sognatori". Da qui una sospirante, blandente tolleranza nei suoi confronti, profondamente convinti non solo della sua impossibilità, ma anche della sua assenza di pericolosità. È penoso raccogliere i benevoli, sornioni apprezzamenti dell'idea da parte di chi, dal suo mediocre cantuccio, lancia lo sguardo alla fune dove il funambolo scommette col destino la sua vita. Ma nel fondo dell'animo tutti avvertiamo che un motivo ragionevole a fondamento di questi atteggiamenti esiste e risiede nella stesse connotazioni dell' "idea". La storia della filosofia insegna una lunga teoria di "utopie", a partire da Platone attraverso Campanella, Moro fino a Morris (per citarne solo alcuni); a Moro poi, come ognuno saprà, dobbiamo proprio il termine di "utopia". In realtà, se si parte dal termine riferendolo ai casi citati, l'idea espressa dai singoli filosofi è ragionevolmente appellabile come utopia; direi addirittura che è tale nei presupposti.
Il pasticcio (perché pasticcio c'è stato) nasce però a partire da un altro dato: codesti filosofi hanno usato questo espediente formale per tratteggiare, attraverso l'immagine di una condizione ideale e tutta garantita dall'impossibilità, una serie di critiche alla società loro contemporanea o comunque a quella loro nota. Così facendo hanno tormentato una serie di piissime (a volte niente affatto pie) convinzioni circa come si dovesse fare per vivere bene tutti insieme.
Il fatto poi che queste convinzioni così espresse abbiano a volte scatenato le ire del potere, è cosa solo dovuta alla miopia di tale potere e non certo alla possibilità eversiva contenuta in quelle idee.
La cura ed il dettaglio con cui (li chiameremo così) gli utopisti spiegano che cosa accadrebbe nella loro presunta cittadella, infatti, ne renderebbe impossibile ogni realizzazione e, nel caso, addirittura patetica qualunque forma di difesa. Ma gli è che gli utopisti eversori non furono mai e mai lo vollero essere. E ciò è vero certamente ogni qualvolta, parlando di utopia si intenda riferirsi ad una immagine progettata, rifinita fino al dettaglio, prevista nel suo accadere fin dall'inizio.
L'arbitrio e l'abuso che si sono fatti del termine utopia hanno permesso una serie di micidiali ambiguità, appropriazioni gaglioffesche e attribuzioni immotivate, di virtù e di vizi, che hanno reso assai difficile il ginepraio da cui districarsi nel corso degli ultimi due secoli.
È forse necessario premettere che il dato di partenza di ogni utopia è sempre stato quello di un'imprescindibile, ineliminabile aspirazione, insita nell'umanità, ad una sorte felice, ad un vivere armonico, ad un bene individuale e collettivo da poter insieme condividere, anche a dispetto della disperazione che l'esistenza in sé sembra insegnare.
La cialtroneria del garantismo continua a pensare che queste aspirazioni siano tacitabili attraverso formulazioni di canoni ed espedienti formali legati alla costituzione di vari tipi di società, più o meno illuminati, che pretendono di "garantire" giustizia, armonia sociale, libertà. La cosa più paradossale è che la bontà di ciascuna società viene misurata sul suo successo economico, il che equivarrebbe adire che chi vince la guerra ha perciò stesso ragione.
La politica, come disciplina filosofica, si è sempre preoccupata di far seguire immediatamente, all'enunciazione di alcuni principi ritenuti validi, una serie assai più estesa di norme, canoni, suggerimenti operativi, ipotesi dettagliate di forme e modi. Il punto di vista era, mutatis mutandis, sempre lo stesso: preoccuparsi di dire agli altri ciò che sarebbe stato meglio per loro; prevenire bisogni e desideri, anticipare comportamenti anomali (rispetto al sistema prospettato); così di volta in volta ciascuno di noi potrebbe riconoscersi primo artefice in un sistema, reietto in un altro, inesistente in un terzo, e così via.
Ciò che forse è alla base di questo madornale e infausto errore è la pretesa che la politica sia una scienza, un due più due quattro. Mentre in realtà ciò che ha a che vedere con il soddisfacimento dei bisogni individuali e collettivi (che poi è quella, la società) è in realtà una tecnica, un artigianato sapiente ma niente più, e non ha e non dovrebbe avere niente a che fare con la "scienza". È evidente che il demone nascosto di questa concezione "scientifica" della società è in realtà la ricerca, la salvaguardia, I'acquisizione del privilegio: di varia natura a seconda delle esigenze, ma pur sempre privilegio. Platone pensò fossero i filosofi i più dotati a governare: l'idea è tanto originale che si è pronti a giurare che uno stalliere, nelle stesse condizioni, avrebbe caldeggiato il governo degli stallieri.
I sanculotti "mozzarono lo capo a tondo" al re (e fecero bene) per permettere ad un Corso di diventare imperatore (e fecero male). Ma perché poi è necessario tagliare le teste? Che bisogno ce ne sarebbe se fosse vero che basterebbe dire "il re è morto"? La necessità sussiste qualora la società continui a perpetuare le forme di quella che l' ha preceduta, per cui un seggio, un altro seggio, continua ad esistere e a minacciare.
È questa la perpetuazione del disegno secondo il quale la società civile deve essere "strutturata", non si è più in grado di pensare a nessun'altra forma del vivere collettivo che non somigli in qualche modo a quelle che ci hanno tramandato: ed è la perpetuazione dell'errore.
Eppure i sintomi dell'insofferenza del mondo verso questa condizione sono eclatanti: le rivoluzioni che si alternano e si sostituiscono l'un l'altra sono un chiaro segno della insoddisfazione profonda che cova nel fondo degli animi; e che poi queste "rivoluzioni" (ormai si chiamano tutti così i sovvolgimenti politici) non sappiano riconoscere la loro natura e cadano fatalmente in marchiani errori è altra cosa, che ha le sue radici in quella connaturale carenza della politica che si è detto.
A tutto questo viene in soccorso spesso l'utopista di turno che crede finalmente di doverci rivelare, punto per punto, ciò che è meglio per noi.
Carlo Marx, per parte sua, sembra aver fatto un'opera certamente meritoria: lui non era un proletario e ha pensato che fossero i proletari a dover gestire il potere. Intellettualmente più altruista di Platone lo è stato, ma questo non lo assolve dall'errore; ha identificato un nodo centrale del problema (lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, tanto per generalizzare), ma chissà perché ha pensato che se i proletari avevano sofferto questo sfruttamento, il fatto stesso li avrebbe resi abili nell'esercizio del potere. E la maledizione che vive oggi il mondo cosiddetto comunista nasce, a nostro parere, dall'avere proprio mantenuto il concetto e la "struttura" del potere, con tutto il suo inimitabile codazzo di tradimenti, menzogne, arroganze. Se c'è una sofferenza che dovrebbe accomunare gli spiriti liberi in questi tempi, dovrebbe essere la consapevolezza dell'incredibile ricchezza prodotta dalla rivoluzione d'ottobre, così sperperata, dilapidata in virtù di un errore che sembra essere diventato una condanna biblica. Inutile qui recriminare sul fatto che i socialisti anarchici avevano lottato fino alla fine per evitare almeno quello, di errore. Ma sarebbe gravissimo se, al di là di questo, non si fosse in grado di separare il grano dalla crusca e si cadesse in un ineluttabilismo fuori di luogo; non si può nutrire cordoglio per una creatura mai nata.
I "paradisi perduti" possono essere perduti tanto facilmente proprio in quanto non sono mai stati conquistati.
L'aspirazione ad una società umana armonica e "felice" non va confusa con la nostalgia della perfezione primigenia: è piuttosto il desiderio di impadronirsi di un bene che deve essere conquistato dalla coscienza prima ancora che dall'esperienza. Il "paradiso perduto" è l'immagine della fondazione di un mito, è perciò indipendente dalla sua realtà storica; ma in quanto mito esso è parte ineliminabile della natura umana, radice della sua essenza, sostanza imprescindibile dell'universo umano.
La scienza, la storia, la ragione sono i diabolici diaframmi che si interpongono tra l'uomo e il suo desiderio, tra l'umanità e le sue aspirazioni primigenie, tra il sogno e la realtà. Quando del sogno se ne impossessarono la ragione, la storia, la scienza, esso divenne utopia, e continuò a vivere schizofrenicamente nell'uomo come impossibilità dell'ovvio e del naturale, del desiderato e del desiderabile. (Quando l'utopia si fa scienza avviene la metamorfosi cristiana per cui si è indotti a credere che ciò che è buono e bello e piacevole è irreale e quello che è "reale", seppur doloroso e angosciante, è però buono).
La nascita della storia come fenomeno "lineare", e cioè razionale meccanico e progressivo, segna l'inizio della riflessione utopistica: non ci si avvede però che la formulazione delle diverse utopie è assolutamente simile nel criterio e nei presupposti formali a quanto la storia già dà come immagine di sé: l'utopia viene definita, delimitata, circoscritta, ne vengono previsti esiti e forme; paradossalmente l'utopia diventa la bella copia, la buona coscienza, di una storia e di una società che non trova giustificazioni alla sua totale inadeguatezza.
Marcuse chiude "l'uomo ad una dimensione" rifiutandosi di preparare ricette per il male: perché la società non è un organismo malato che bisogna curare con la ricetta miracolosa, ma un organismo che deve trovare una naturale espressione alla sua fisicità, anche se per farlo dovesse prima morire. Le ricette anche le più radicali, che non partano da questo presupposto, terrebbero in vita un orribile e mutilato organismo agonizzante. Le ricette fanno bene ai parenti del malato, tacitano la loro coscienza: ma non bisogna fare "tutto il possibile" perché è proprio l'impossibile che bisogna fare.
Se partiamo dal presupposto che la Storia si autorigenera sulle sue premesse, e che nulla di sé cancella, non possiamo che accettare l'idea che ogni rigenerazione che parta dalla storia non può che somigliare alla precedente.
Parole come evoluzione, sviluppo, arretratezza hanno a che vedere con una concezione storica che dà per scontato che comunque il tempo procede verso la perfezione, ed è una forma paradossale di utopismo, che somiglia straordinariamente al voler agitare davanti agli ignavi il vessillo del paradiso da conquistare, basta vivere abbastanza a lungo.
L'utopia, così come l'organismo cadente e decrepito di cui è figlia, deve morire per poter rinascere.
Non si può partire dal presupposto che l'utopia sia sinonimo di felicità, bellezza, abbondanza. La distinzione formale tra diverse categorie concettuali deve essere chiara: la felicità appartiene ad una sfera che non compete all'organizzazione umana, così come non le compete né la bellezza né l'abbondanza. Ma quello che più è importante è che nemmeno la sfera morale compete all'organizzazione umana: questo è un elemento centrale, sulla chiarezza del quale poggia il fondamento stesso di qualunque riflessione sull'utopia concreta. Le società prodotte dalla storia hanno eretto a loro fondamento il diritto a gestire il bene e il male, a discriminare il buono dal cattivo, a giudicare, infine, sull'ambito morale.
Non è un caso che tutte le società finora presentatesi nella storia abbiano appoggiato sempre la loro struttura su una religione-guida; la religione è, per eccellenza, la circostanza teorica che più si appropria del diritto a legiferare in ambito morale, ed è proprio questo l'ambito più conteso da coloro che vogliono manovrare una società. Per chi si spaventa di fronte all'asserzione per la quale la società umana non dovrebbe essere retta e governata da leggi morali, e per leggi morali intendiamo anche il diritto, basti pensare che sono vissute e proliferano società in cui il delitto è ammesso, il latrocinio pure e così la violenza sull'uomo e sulla natura.
Spero di non richiedere troppo sforzo di fantasia nell'incoraggiare a controllare le nostre leggi e i nostri ordinamenti.
Perché dall'utopia concreta è inutile aspettarsi la redenzione degli uomini: è l'organismo sociale che deve essere compiutamente armonico, e non è necessario perché questo accada che ogni individuo si trasformi in una specie di asceta.
La nostra morale è incredibilmente simile da migliaia di anni. I mutamenti che ha subito sono stati piuttosto una contorsione sugli stessi perni, che danno per scontato, in ogni caso, che fosse compito della struttura sociale ordinare in materia di morale.
Il diritto è, tra le discipline proclamate a sostegno della società, quella che più marcatamente rende palese la totale mancanza di efficacia delle scienze sociali al fine di evitare le anomalie e i delitti: tutta la disciplina che riguarda la materia penale si limita a scoraggiare pena il castigo il delitto; ma questo metodo, a quanto ci risulta, non ha mai portato ad una scomparsa di delitti: la differenza per i danneggiati dai delitti risiede solo nella magra consolazione che il delinquente, se e quando, sarà punito: ma ciò non lo ha salvato dal subire il crimine. E questo sempre supponendo un comportamento "onesto" dell'istituzione.
Ma è evidente che la società che fonda la sua conservazione sulla moralità dei cittadini deve fornire anche gli apparati che raffigurino l'efficienza di questa tutela: di qui la necessità dell'istituzione giuridica.
La religione, all'interno di uno Stato, si prospetta come il più alto istituto morale: di nuovo la morale è il perno centrale a sostegno dell'esistenza di uno stato. Ma anche uno stato in cui si scelga la formula dell'ateismo non è meno in difetto in quanto a determinare degli ambiti che sono rigidamente di appartenenza della sfera individuale. La religione è una componente dell'universo umano che non può e non deve divenire istituzione, in nessuna forma e per nessuna ragione.
Ciò che è necessario è che venga formulata con chiarezza la distinzione tra gli ambiti individuali che riguardano le sfere sociali e quelli che devono rimanere assolutamente circoscritti alla sfera soggettiva. La dinamica delle società storiche si è sempre appropriata di un presunto diritto all'istituzionalizzazione; questo dovrebbe permettere alla società stessa il perfetto controllo di tutti i fenomeni, individuali e collettivi, di rilevanza appunto sociale. Ebbene questa pratica, purché abbia un inizio, diviene aberrante, e si moltiplica in modo mostruoso fino a tentare di definire, secondo regole e norme, qualunque comportamento o scelta dei cittadini. In realtà il controllo diviene impossibile perché dovrebbe estendersi a tutti gli ennesimi casi possibili in ambito morale, etico, spirituale e così via.
In effetti, la presunta efficienza della società si riduce ad una forsennata attività di moltiplicazione delle sue forme nelle quali in nessun caso potrà far riquadrare tutti i soggetti sociali.
Lo scopo della società, intesa come cooperazione spontanea degli individui al fine di migliorare le condizioni dell'esistenza quotidiana nel mondo, dovrebbe essere esclusivamente ricercato nella sfera oggettiva e mai in quella soggettiva. Nessun uomo sarà mai migliore o più felice perché vive in un ordinamento sociale invece che in un altro: ma dovere accettare un ordinamento invece che un altro può comportare un accumulo di sofferenza, di angoscia e di disperazione evitabili in condizioni diverse.
Ciò che ha sempre comportato un limite intrinseco a molte ipotesi utopistiche è il fatto che la prospettiva di un mondo migliore dovesse reggersi sul presupposto che l'uomo fosse buono, oppure naturalmente disposto alla cooperazione, oppure frutto solo delle condizioni che trovava sulla sua strada. In realtà non si può dover ricercare un presupposto simile come "conditio sine qua non", dal momento che può darsi per scontato che l'uomo non è né buono, né cattivo, né bello, né brutto, né lavoratore, né parassita, né poeta, né mercante, ma è tutto questo insieme a molto altro: che la sua natura è felicemente variegata, fatta di molteplici aspetti e di insondabili misteri. Non si può pensare ad un egualitarismo di natura: chiunque pensi che presupposto di ogni utopia concreta sia l'uguaglianza "interna" degli uomini, o una scientifica prevedibilità di caratteri o di inclinazioni, cade in un errore grossolano. Ogni ipotesi che prospetti una utopia concreta deve partire dal presupposto che gli uomini non sono uguali, non sono prevedibili scientificamente e non rispondono necessariamente alla stessa maniera in determinate circostanze.
È evidente quanto sia scomodo dover accettare questa condizione: ma sarebbe fatale e madornale errore tentare di convincersi del contrario.
L'errore di molti utopisti è stato quello di prefigurare una società "modello", una agiografia di società che, per il fatto stesso di essere agiografica, commuove ma non convince. L'utopia concreta deve poter partire dal presupposto che l'uomo è ciò che è: una mistura indecifrabile, e niente affatto scientificamente definibile, di possibilità, passioni, generosità, meschinità e di tutti quegli attributi che solo la poesia può esplorare, ma nessuna scienza. Lasciarsi convincere che questo presupposto infici ogni possibilità di "altro da questo" è una forma di vigliaccheria intellettuale. Perché è certo che questo dato rende più complessa l'elaborazione di un progetto sociale, ma è falso che ne impedisca del tutto la formulazione. L'anomalia, la perversione, la negazione vanno previste e accettate, anche perché niente e nessuno le potrà mai eliminare.
Ciò che spinge gran parte dell'umanità ad accettare per buone le regole imposte delle diverse società è stata un'intrinseca paura del "diverso", del "criminale", dall'anomalia sociale. È la stessa paura che, in ambito spirituale, fa accettare la religione e le sue pretese garanzie. E le società hanno sempre tuonato in tal senso, assicurandosi garanti di una difesa dell'anomalo: ma osserviamo ciò che accade ed è accaduto nell'ambito della storia proprio a questo riguardo.
Possiamo facilmente osservare come nessuna delle anomalie temute, siano esse di natura criminale -sociale o individuale-, o comportamentale, abbiano risparmiato queste società, che vivono e sono sempre vissute in perfetta convivenza col delitto e la violenza.
Se si cominciasse a pensare che non di perfezione metafisica l'uomo ha bisogno, ma della salvaguardia e del riconoscimento delle sue peculiari caratteristiche ed essenze profonde, si potrebbe forse cominciare ad aspirare ad una società utopica, ma solo nel senso che mai è stato dato all'umanità l'opportunità di sperimentare. È profondamente errato pensare che le caratteristiche umane siano dei difetti: il difetto è un concetto relativo ad una norma o al conseguimento di una finalità specifica: ma le norme e le finalità specifiche non sono condizioni assolute e universali, ma solo soggettive e relative. Supponiamo di dover discutere sulla necessità del lavoro ai fini della sopravvivenza: il concetto di lavoro è relativo allo scopo che si vuole raggiungere: se si persegue l'abbondanza sarà probabilmente necessario molto lavoro.
Ma se ciò che si persegue è il minimo vitale, il lavoro può essere ridotto a livelli minimi.
Ciò sta a significare che l'eremita o il vagabondo hanno pieno diritto di esistere, purché non pretendano un sostegno che gli altri non sono disposti a dare. Se ciò che sono in grado di procacciarsi è loro sufficiente, non esiste motivo al mondo per cui essi non debbano scegliere questa forma di vita. La società morale, che trasuda fariseismo, si porrebbe, in linea di principio il problema di provvedere a loro. E questo sarebbe, oltre che ipocrita, del tutto arbitrario, perché non compete a nessuno sindacare sulle scelte degli altri, dando l'impressione di voler colmare eventuali "lacune" nelle scelte di vita. Ciò che compete ad un progetto di utopia concreta è dare forma sociale al sogno dell'autonomia e dell'indipendenza di tutti e di ciascuno in un quadro di garanzie puramente "oggettive": il valore d'uso assicurato a tutti ed a ciascuno in un sistema di bisogni ridefinito democraticamente (che, nel presente contesto vuoI dire, semplicemente ed ambiziosamente, in maniera socialmente ed individualmente responsabile), al di fuori di ogni inquinamento di valori di scambio (o di mercato che dir si voglia). Ai singoli individui, poi, restando la responsabilità delle connotazioni personali dei propri sogni, se la vita è e rimane, comunque, sogno.