mo(n)do solare mo(n)do notturno 
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Alfonso Cardamone
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DINO CAMPANA: LA NOTTE E IL PIU' LUNGO GIORNO -
LA NOTTE
 
Questo poemetto, oltre ad essere una delle migliori cose di Campana, è anche una summa della sua poetica, contenendo in nuce tutti i germi della restante poesia degli Orfici.
Ché, se è vero che Campana aveva l'intenzione (non realizzata solo perché le forze gli "vennero a mancare"- lettera a Binazzi) di fare della sua opera un tutto organico, strutturato nella dimensione di un "poema" incentrato sulla figura di un nuovo Faust, "con accordi di situazione e di scorcio" (c.s.); e se è anche possibile arguire da un appunto riferito dallo stesso poeta nel Taccuinetto faentino ("Parte prima del libro i notturni e il libro finisce nel più chiaro giorno di Genova") che tale vagheggiato poema dovesse svilupparsi secondo una ben precisa linea interna, che dalla tenebra iniziale conducesse alla luce del "più chiaro giorno"; è anche vero che La Notte ha in sé l'intera trama di questo svolgimento, essa stessa un piccolo poema del mito di Faust, storia di un viaggio dell'anima dalle tenebre del mondo empirico allo splendore del giorno sopra-razionaIe e mistico, dall'oppressione della realtà e della storia alla liberazione nella sospensione del tempo e nelle visioni consolatorie.
Il poemetto, infatti, si incentra appunto sul mito del novello Faust-Campana e, se non con il "più chiaro giorno", termina con lo splendore gioioso delle "bianchezze di trine", della "polvere luminosa" e delle "fantasie multicolori".
Nel paragrafo conclusivo, la notte "chiomata di muti canti, pallido amor degli erranti", risolta la sua drammatica antinomia di notte-magma-matrice d'assoluto e di notte-esistenziale, è superata dal poeta (che ha gettato ponti sull'infinito) nel "sogno ridesto nelle potenze sue tutte trionfale", il"gorgo" notturno vinto e dissolto, e la "porta d'argento" che si apre sull'infinito, sull'eterno metatemporale, se non una certezza, appare una promessa finalmente schiusa.

Pag. 28: Non era dunque il mondo abitato da dolci spettri e nella notte non era il sogno ridesto nelle potenze sue tutte trionfale? Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza?
Pag. 29: Nel tepore della luce rossa, dentro le chiuse aule dove la luce affonda uguale dentro gli specchi all’infinito fioriscono sfioriscono bianchezze di trine. La portiera nello sfarzo smesso di un giustacuore verde, le rughe del volto più dolci, gli occhi che nel chiarore velano il nero guarda la porta d’argento. Dell’amore si sente il fascino indefinito.

Ma è sin dal primo paragrafo (quasi un prologo) della Notte appaiono in evidenza tutti gli elementi fondamentali caratteristici della poesia campaniana, chiaramente riferibili alla linea orfica del romanticismo e del decadentismo.
Innanzi tutto, l'attacco

Pag. 11: Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme di ignudi adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso.

È chiaro che la vicenda poetica si svolge in un tempo e in uno spazio irreali, volutamente indeterminati, in una dimensione di spazio-tempo dichiaratamente memoriale (i ricordi di elementi appartenenti alla realtà empirica, ancorché riconoscibili, sono sfumati trasfigurati, ricollocati in una dimensione “altra”), che favorisce l'emersione di un vero e proprio "paesaggio di sogno" (Capasso). E ricordo e sogno si alternano per tutta la trama della Notte, l'uno condizione e radice dell'altro: un ricordare che è un obliare, un dimenticare il "panorama scheletrico del mondo", per attingere "il sogno ridesto nelle potenze sue tutte trionfale", quel sogno di cui il cuore del poeta "era affamato"; un sognare che è un ricordare, un risalire alla memoria orfica, primigenia, alle "figurazioni di un'antichissima libera vita ".

Pag. 26: Ed il mio cuore era affamato di sogno, per lei, per l’evanescente come l’amore evanescente, la donatrice d’amore dei porti, la cariatide dei cieli di ventura. Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’antica Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore.
Pag. 23: E allora figurazioni di un’antichissima libera vita, di enormi miti solari, di stragi di orgie si crearono avanti al mio spirito.

Novello Orfeo, Campana, munito solo della sua fede immensa e dell' "ansia del segreto delle stelle", muove dalla sua notte di uomo, di fragile poeta "bello di tormento, inquieto pallido assetato errante dietro la larva del mistero", alla conquista della "notte mistica dell'antico animale umano".
E come nei misteri orfici, Campana prima di poter giungere a gettare ponti sull'infinito deve affrontare le prove iniziatiche.
La prima prova, che si svolge per quattro paragrafi (dal 6° al 9°), ripete quella che "secondo la misteriosofia orfica doveva liberare l'iniziato dal peso della lussuria e del peccato" (N. Bonifazi).
Tre sono i personaggi della "fantastica vicenda": il poeta, la ruffiana-sacerdotessa-matrona e l'ancella-prostituta. "Tre aspetti -come scrive il Bonifazi– di un'unica anima oscura e infeconda che cerca di risolvere il problema della vita", tre aspetti di un'anima che non fugge il peccato, la lussuria, "la pena eterna dell'amore", non teme la schiavitù e il male, ma li affronta con la fede nel mistero e ne fa anzi strumenti di redenzione. Punti di partenza per l'orfico viaggio dalla condanna esistenziale del caso, dell'arido e dell'informe, del frammentario e dello scheletrico, al mondo sopra-razionale del mito rasserenatore ed eterno, che riscatta l'esistenza umana dalla schiavitù del tempo e della carne.
Ma quanto precaria questa illusione!
Quanto vano questo coraggio!
E quanto consapevole l'inevitabilità dello scacco!
S'erano appena affacciate "ai cancelli d'argento delle prime avventure antiche immagini, addolcite da una vita d'amore", aveva appena intrapreso il poeta il suo viaggio iniziatico, al fianco della sua Euridice, in una luce ormai "deliziosa e bianca", che d'improvviso tutto divenne di una "irrealtà spettrale", riapparve il "panorama scheletrico del mondo", l'atroce irrealtà del mondo delle parvenze, delle cose, del tempo, della morte.
Ed Euridice svanisce e il sogno (che pure il poeta "ama"} si svela- d'un tratto- "vano".
Bonifazi ha parlato a proposito di questa dolorosa consapevolezza di Campana, di un suo "eroismo intellettuale e sentimentale".
"L'autentico dramma di Campana è indicato nel suo entusiasmo che però non conosce prodigi e sa bene la fatica di creare l'illusione, dalla prima a quella ultima e universale".
È lo stesso eroismo dei simbolici eroi che nelle Immagini del viaggio e della montagna veleggiano "nell'azzurro mattino": "Piangendo: giurando noi fede all'azzurro". Il medesimo meccanismo di iniziazione che abbiamo visto in opera nei paragrafi dal 6° al 9°, ritorna nel 13° e poi nel 16°. Muta l'ambientazione (nei primi paragrafi è possibile rintracciare il ricordo trasfigurato di Faenza; nel 13° quello di Bologna; nel 16° è la Pampa americana), ma non i personaggi: la matrona-sfinge, la fanciulla-prostituta, il poeta-iniziando. Né muta la meccanica dell'iniziazione orfica. La lussuria, l'amore, è pur sempre il peccato umano che richiede il riscatto e, ad un tempo, lo strumento che, attraverso l'azione medianica della memoria, opera il riscatto, l'umana liberazione.
Nel paragrafo 13° la matrona, la "sfinge", parla. "La sua vita era un lungo peccato: la lussuria…lei spinta dalla nostalgia ricordava ricordava a lungo il passato. Fin che … il mistero della voluttà aveva rivestito colei che lo rievocava".
E la redenzione dalla condanna del tempo non investe solo la matrona, ma coinvolge in una solidale identità di destini il poeta e la fanciulla.
Ad accrescere il significato sacrale e simbolico della scena ("la grazia simbolica e avventurosa di quella scena") interviene qui "una tenda, una tenda bianca di trina, una tenda che sembrava agitare delle immagini, delle immagini sopra di lei, delle immagini candide sopra di lei pensierosa negli occhi giovani".
E la tenda, sappiamo, è un elemento fondamentale dei riti orfici, un apparecchio sacro comune agli antichi misteri (vedi Shurè, I Grandi Iniziati: Orfeo: “Maia … tesseva un velo, ove si vedevano ondeggiare le immagini di tutti gli esseri, ed egli muto si arrestò dinanzi”).
Nella scena ambientata nella pampa, più violenta, ardente, orgiastica, il poeta apporta qualche variante al meccanismo iniziatico e quasi ripete e rivive nella sua carne, nel suo sangue, il sacrificio di Orfeo straziato dalle baccanti.
La matrona è qui chiaramente una menade selvaggia, il poeta e la fanciulla le vittime sacrificali. Come il sangue di Orfeo, il sangue del poeta è bevuto dalla terra. "Il mio sangue tiepido era certo bevuto dalla terra".
Ma ancora una volta l'amore è l'occasione e il mezzo della liberazione, della salvezza, così della fanciulla ("A un tratto la fanciulla liberata esalò la sua giovinezza, languida nella sua grazia selvaggia" come del poeta. E mentre finalmente la porta della visione estatica rimane aperta e "la chioma augusta dell'albero della vita si tramò nella sosta,, (la sosta non è altro che la sospensione del tempo), "l'ombra delle selvaggie" rimane nell'ombra.

Pagg. 23-24: A un tratto la fanciulla liberata esalò la sua giovinezza, languida nella sua grazia selvaggia, gli occhi dolci e acuti come un gorgo. Sulle spalle della bella selvaggia si illanguidì la grazia all’ombra dei capelli fluidi e la chioma augusta dell’albero della vita si tramò nella sosta sul terreno nudo invitando le chitarre il lontano sonno. Dalla pampa si udì chiaramente un balzare uno scalpitare di cavalli selvaggi, il vento si udì chiaramente levarsi, lo scalpitare parve perdersi sordo nell’infinito. Nel quadro della porta aperta le stelle brillarono rosse e calde nella lontananza: l’ombra delle selvaggie nell’ombra.

È il trionfo -dopo il sacrificio- del mito d'Orfeo sulle baccanti selvagge, è il trionfo del mito di "un'antichissima libera vita”.
È, fuori del simbolo e del mito, ma anche in virtù del mito consolatore, il trionfo del sogno e dell'assoluto mistico sulla bruta realtà delle cose.
La poesia di Campana -dunque- è una poesia intimamente religiosa, che, muovendosi nel solco tracciato dalla più intima corrente di poesia rivelata (romantica e decadente), aspira alla "explication orphique de la terre", alla riconquista dell'Uno e del Divino, contro il frammentario e l'angoscioso. È una poesia insofferente così del caso, come della storia, una poesia che aspira a rituffarsi nel passato mitico, che si crea una propria simbologia oracolare e, muovendo dal "gorgo notturno" e dall’ "infrenabile notte", mediante il recupero della memoria orfica riconquista (ma per un breve istante!) l'illusione del "sogno" serenatore, l'antica "Chimera", la "pace cristallina", la "serenità perduta" (da Immagini del viaggio e della montagna).
È un continuo, disperato tentativo di sfuggire all'oppressione del reale, dell'esistenziale informe e frammentario, che appare dolorosamente incomprensibile e immotivato, per raggiungere, attraverso "la più potente anima seconda", "l'azzurro mattino" della visione estatica (c.s.).
Ma il "gorgo vibrante di fremiti sordi" del Taccuinetto faentino, svanito l'effetto illusorio del "vin de la paresse", è lì ad attendere il poeta estenuato nella sua ansia di trasfigurazione, ed egli vi torna ogni volta a precipitare, ogni volta più difficile divenendo lo sforzo di riprendere il "viaggio", di proseguire con rinnovato ardimento la "sorda lotta notturna " (c.s.).
E si hanno in questa poesia di assurda speranza e di tragica fede momenti di sconfitta terribile, bruciante. Momenti in cui il poeta grida con angosciosa consapevolezza la propria impotenza ("E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera"). O riconosce, disperato, la vanità del suo sogno eroico: e le "taciturne porte...aperte sull'infinito" (da La speranza) non spalancano più visioni di serenità e di eternità, ma di annientamento e di morte (sono le "porte/ Aperte de la morte"), mentre il sogno vanisce "Nei gorghi de la sorte!" (c.s.).
Questa è la tragica cadenza, il ritmo tremendo del "viaggio" campaniano (del suo più lungo giorno, dovremmo dire, attraverso la notte), della sua fuga dal reale, che è poi sempre un ripiombare rovinoso nel reale. Questa la chiave, queste le ragioni delle sue partenze e dei suoi ritorni.
Egli è un mistico, un visionario, ma la sua realtà storica ed esistenziale sopravvive nonostante la sua scelta "mitica " ed anzi si configura non soltanto come la causa prima e fondamentale dell'impotenza e dello scacco, ma addirittura come l'occasione e la condizione, inevitabili, delle ripetutamente tentate partenze verso il mito ed il mistero, "Nel giro del ritorno eterno vertiginoso la immagine muore immediatamente" (Storie II).
In questa bruciante notazione Campana enuncia chiaramente un aspetto fondamentale della propria poetica.
Egli si riaggancia consapevolmente al nietzschiano "aller Dinge ewige Wiederkunft", alI' "eterno ritorno di tutte le cose", fondamento della costruzione filosofica di Nietzsche, e getta le basi del suo irrazionalismo visionario e del suo superomismo mistico.
Solo nell'immagine, nel libero ed irrazionale giuoco della fantasia (la sua "fantasia qualunque" –a Pariani- ) che sfugge alla condanna angosciosa dell' "eterno ritorno", del ripetersi "infinito e uguale del tempo", l'uomo può superare i limiti della sua condizione esistenziale e mirare al recupero di una memoria orfica e ancestrale, che sospenda il corso del tempo e crei l'illusione di un esistere nell'eterno: cioè nella compresenza, dinanzi alla propria coscienza, di passato-presente-avvenire (si pensi a: e del tempo fu sospeso il corso della Notte).
È il sogno superumano e decadente della "vita in blocco" (da Inediti).
Ma proprio grazie al suo nietzschianesimo di fondo, Campana sfugge alle insidie più grossolane dell'ingenuo misticismo metafisico dei Romantici.
Fra il suo sogno superumano della "vita in blocco" e l'idealismo magico di un Novalis -con il quale pure ha, come abbiamo avuto modo di notare, numerosi punti di contatto- c'è una differenza sostanziale. Campana non rompe i legami con l'esistenza, con la carne, con la sua "lunga miseria" (C.O.), con la "vita sarcastica atroce" (C.O.), ma, anzi, la sua immensa "cupidità di vita" (Gargiulo) gli consente di legare saldamente la sua poesia (che, ripeto, è malgrado tutto poesia di fede e di speranza) alla sua vita, di questa facendo la "proiezione giusta e precisa -senza maschera -della sua scelta e della sua fede" (Bonifazi).
Quell'unità di arte e di vita, che troviamo come costante distintiva dei maggiori poeti decadenti, in Campana diviene oltre che un programma ideologico ed estetico, un assoluto impegno morale, un'adesione e una partecipazione totali al suo Ideale di un "uomo nuovo", un uomo liberato dal condizionamento del tempo e dall'incongruenza del caso, rigenerato nell'abbraccio con una natura primigenia e immacolata (si veda l’apoteosi dell’uomo nuovo, dell’uomo libero nella prosa Pampa).

Pag. 98: Lentamente gradatamente io assurgevo all’illusione universale: dalle profondità del mio essere e della terra io ribattevo per le vie del cielo il cammino avventuroso degli uomini verso la felicità a traverso i secoli. …. Sgravata la bilancia del tempo sembrava risollevarsi lentamente oscillando: -per un meraviglioso attimo immutabilmente nel tempo e nello spazio alternandosi i destini eterni…
Pag. 100: E allora fu che nel mio intorpidimento finale io sentii con delizia l’uomo nuovo nascere: l’uomo nascere riconciliato con la natura ineffabilmente dolce e terribile: deliziosamente e orgogliosamente succhi vitali nascere alle profondità dell’essere: fruire dalle profondità della terra: il cielo come la terra in alto, misterioso, puro, deserto dall’ombra, infinito. Mi ero alzato. Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio.

Un ideale, quello di Campana, che è stato perseguito con fedeltà estrema, fino al sacrificio più terribile: quello della ragione.
Campana è il fratello spirituale del tragico boy whitmaniano: come quello, anche lui sparge intorno, metaforicamente, il suo sangue, immolandosi per un sogno di salvezza e di liberazione. I Canti Orfici si chiudono con una libera citazione da Whitman:

Pag. 127: They were torn and cover’d with the boy’s blood

Da Campana tradotta: "erano tutti stracciati e coperti col sangue del fanciullo".
Quale differenza dal fatuo, ferino e superficiale superuomo dannunziano!
Il nietzschiano Campana brucia nella sua intensa esperienza individuale, tutt'a un tratto, i contenuti più validi ed autentici del Decadentismo europeo e proietta le sue conquiste di poetica e di stile nel nuovo giorno della poesia italiana.