mo(n)do solare mo(n)do notturno 
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Mario Amato
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BIBLIOTECA GOTICA
 
È obbligo a colui che riferisce questa storia avvertire l'eventuale lettore o lettrice, della cui benevolenza per altro non si dubita, che si troverà più tardi alla presenza di una voce narrante di natura meravigliosa. Ma forse costui o costei amano, come i più devoti lettori del mondo - i bambini - le fiabe e non disdegnano, nonostante la ormai trascorsa tenera età, metter piede nella biblioteca, magari nel cuore della notte, e trarre da uno scaffale il libro un po' polveroso, pieno di figure, dal quale la mamma e la nonna usavano leggere storie che lasciavano ad occhi aperti.

Vorrai perdonarmi, lettrice, di aver attribuito a te un'abitudine personale e vorrai anche scusarmi di questa noiosa avvertenza che non ti conduce subitaneamente in media res, ma che spero ti incuriosisca abbastanza da farti continuare la lettura.

Ai bambini ho dovuto fare riferimento, poiché nessuno più di loro è pronto ad accogliere voci che gli adulti non riescono ad ascoltare. Ed anche ai libri ho dovuto collegarmi, perché il seguente racconto è una testimonianza dell'amore per essi, ma- come tutti gli amori- ha i suoi pericoli.

Un ultimo avviso: la narrazione si svolge in prima persona, ma ogni storia è vera perché tutto ciò che immaginabile è avverabile e perché ogni storia è una possibile vita di colui che scrive.

A me è accaduto di incontrare una delle voci delle quali si parlava in precedenza: fu un lieve sussurro, un leggero battito d'ali.

Devi sapere, lettrice, che, tempo or è, intrapresi un viaggio attraverso la foresta di *** - se apri quel libro di fiabe la troverai raffigurata-. Era la stagione invernale, ma il cielo era terso e contro la sua nitidezza si stagliavano le cime degli alberi e i profili dei monti. Di tanto in tanto mi fermavo e volgevo gli occhi in alto e così facendo non m'avvidi che la notte si avvicinava.

La boscaglia era interrotta a tratti da piccole radure e ai lati del sentiero che percorrevo spuntavano, in lontananza, su dolci colline, paesi dai tetti rossi e dai bianchi campanili, dai quali ultimi giungeva, non di rado, il suono delle campane. Il bosco si faceva sempre più fitto, ma il sentiero era ancora ben visibile. La scura vegetazione, i paesi con i loro colori, il suono evocatore delle campane, il freddo che cominciava a pungere, il vento che portava qualche sparuto fiocco di neve, alcune bianche nubi apparse da poco, richiamarono alla mente storie di streghe, gnomi, fate, bambini smarritisi, castelli e tutto quel mondo che ci ha tenuto compagnia prima di perdere la capacità di sognare. Ma forse a quelle storie non ho ancora rinunziato! E spero che neanche tu, lettore, abbia rinunziato a quelle meravigliose fantasie e te ne stia tranquillo nella tua stanza dei libri ad ascoltarmi.

Da lungo tempo cercavo una storia da raccontare e mi pareva di essere nel luogo adatto, sì che la mia anima accolse una predisposizione gioiosa. Il luogo era pronto, il mio cuore preparato; mancavano tuttavia i personaggi.
Perché avrei dovuto dubitare di trovarli?

Di nuovo mi trovai in una radura, al cui termina scorreva un ruscello, oltre il quale la foresta pareva più fitta, ma -ahimé- nessun viottolo, nessun tratturo s'intravedeva tra gli alberi; mi voltai ai lati, mi girai e non vidi tetti o campanili, tesi l'orecchio e non udii alcun suono di campane, ma soltanto il vento che ora portava in abbondanza la neve fredda, ed anzi quei fiocchi che giungevano chissà da dove si mescolavano a quelli che principiavano a cadere dal cielo che si faceva bianco.

Seguimi pure, lettrice, ma sappi quanto è difficile orientarsi in una selva, di notte, pur avendo in mano o nel tascapane una carta topografica del luogo e sappi quanto invidio te, chiusa nel caldo della libreria o accanto a un bel caminetto dove la legna crepita.

Guardai attentamente il ruscello in cerca di un ponte dall'acqua, ma non ve n'era alcuno fin dove il mio sguardo poteva seguire il piccolo rivo; per fortuna vidi alcuni sassi che spuntavano dall'acqua e che costituivano certamente un passaggio disagevole. Era almeno una via! Attraversai il corso d'acqua e mi trovai immerso nella boscaglia a notte ormai inoltrata.
La neve cadeva sempre più abbondante, posandosi sulle mie spalle, poiché il vento agitava le fronde degli alberi. Non v'era sentiero da quella parte della selva o almeno così supposi, poiché se pure vi fosse stato, il manto candido lo avrebbe nascosto. Temetti di essermi perso e la gioia di essere entrato in un mondo incantato si trasformava pian piano in turbamento o forse anche in paura.

Non so se fu la fantasia, ma fra i grossi fiocchi di neve mi parve di intravedere dei colori e di udire dapprima un lieve fruscio e poi parole indistinte. Quante cose possono vedersi in una tormenta! Era certamente l'angoscia e il timore di essermi perso! Di nuovo vidi i colori ed udii la voce; compresi le parole finalmente "Cammina, cammina viaggiatore solitario; presto, presto giungerai alla locanda; presto al castello". Castello, locanda? Erano forse parole lette in una fiaba che mi tornavano alla memoria in quell'ora di sgomento? Era il bambino che si risvegliava in me e voleva credere ad un aiuto di natura meravigliosa?

Chi non ama i libri, non ama le fiabe; chi ama le fiabe, ama tutti i libri.

Quale struggente nostalgia della mia stanza piena di volumi, della poltrona, del camino! So, lettore o lettrice, che tu credi già a quella voce, ma io non vi prestai fede immediatamente. Non giudicarmi colpevole per questa miscredenza temporanea nel lato fiabesco della vita. Per la terza volta i colori si presentarono dinanzi ai miei occhi ed udii la voce. Credei! Alzai lo sguardo e, come sempre accade nei racconti di questo genere, vidi brillare una luce lontananza.

Questi avvenimenti avevano prodotto in me un'inquietudine indefinibile, ma essa stessa rendeva affascinante il viaggio. Era l'oscurità, mia cara lettrice, era l'ignoto, la tempesta di neve a spingermi a proseguire. Era soprattutto la curiosità di scoprire la luce distante.

Se mi trovavo in una fiaba, come poteva rassicurarmi quella luce?

So che voi potete comprendermi, miei cari due lettori. Non amavate forse quel momento dopo la fiaba della sera, quando la mamma soffiava sul lume e scivolava via dalla stanza, sicura che voi dormiste? Ah! Se amavate quell'ora! La camera si popolava di figure e voi stavate ad occhi sbarrati.
Lettrice, lettore, noi apparteniamo alla stessa genia. Lasciate pure che altri amino la luce: essi non vedono le luci della notte, essi scendono nell'oblio più assoluto; noi al contrario abbracciamo tutte le memorie, ci avventuriamo in mondi infiniti, ci congiungiamo in un amplesso spirituale con esistenze trascorse. Noi abbiamo guardato, affascinati, le nostre mutevoli ombre, consapevoli della effimera costrizione spirituale.

Io non so neanche se voi, cui spesso mi rivolgo, esistite, ma chi non desidera condividere i propri sogni?

E. T. A. Hofmann ha già espresso questa idea in un libro: io la riferisco come la ricordo. Diceva, il grande scrittore, che Sancho Panza pensava che si sarebbe dovuto rendere merito a colui che ha inventato il sogno, ma non il sogno che tutti facciamo quando dormiamo, bensì il sogno che si fa ad occhi aperti e che, solo, rende sopportabile la banalità della vita.

Giunsi bagnato ed infreddolito ad un casolare di legno, sulla cui porta, dotata di pesante battente ferreo, pendeva un'insegna sulla quale notai caratteri di antica scrittura, ma non riuscii a decifrarla, poiché la fiammella che la illuminava - la luce che avevo eletto meta- era fioca. Tutte le imposte erano chiuse. Chiunque fosse stato l'abitante, a quell'ora sarebbe stato addormentato, con certezza. Indugiai, ma la voce mi venne in soccorso "Alla locanda, bussa, bussa". Così feci, ma dovetti più volte picchiare con il battente al portone. Aspettai! Nessun rumore; domande si affollavano nella mia mente: ero in un sogno? Ero divenuto un personaggio di qualche fiaba? A cosa serve una locanda in una foresta senza sentieri? Infine sentii qualcuno rischiararsi la voce e forse imprecare contro i vagabondi che errano con qualsivoglia tempo, senza badare a chi disturbano nel bel mezzo di un giusto e meritato riposo.

Trascorse un tempo che non so dire, ma che a me parve lunghissimo. Tu sai, lettrice, che il tempo esiste, ma che per noi umani non è altro che una dimensione dell'anima; per te che leggi questo racconto o un altro libro, il tempo scorre veloce come le rapide di un fiume, per me invece esso si era arenato in una secca e contavo i sassi…, volevo dire i secondi e i minuti.
Quale affollamento di figure paurose si addensò nella memoria in quegli attimi: gnomi, streghe, orchi, vampiri…, tutte dietro quella porta. Alfine sentii rumore di catenacci e la porta si aprì. Come diversa fu la realtà!

Apparve un vecchio, dai capelli bianchi ed esageratamente lunghi; restammo in silenzio, stupiti l'uno dell'altro.

L'uomo mi invitò ad entrare e richiuse l'uscio, operazione di non breve durata, poiché egli serrò di nuovo tutti i chiavistelli, che non erano pochi. Non riuscivo a comprendere che cosa egli temesse in quella foresta sperduta! Dichiarai subito di essere disposto a pagare il doppio del prezzo stabilito, per averlo destato nella notte, ma il vecchio fece un cenno di diniego e, mentre mi preparava il latte caldo (che non avevo chiesto), pronunciò questo strano discorso "Non esiste nessuna ragione per la quale un viaggiatore notturno debba pagare un prezzo più alto di un viaggiatore diurno e, se volgo gli occhi alla finestra - a questa parola sospirò profondamente- vedo ancora la nevicata cadere fitta, quindi non credo che il viaggiatore notturno del quale parlavo possa già domani riprendere il cammino. Insomma domani egli sarà un viaggiatore diurno".

Ero sorpreso che il locandiere, se tale era, non si rivolgesse direttamente a me, ma attribuii quel bizzarro modo di parlare all'età, che dalla bianca chioma e dalle spalle curve e più ancora dal tremolio delle mani supposi avanzata. Il tremore delle mani lo avevo notato quando egli reggeva, vicino alla porta, il lume. Mi servì un boccale colmo di latte caldo e dei biscotti duri, ma che trovai squisiti. La cortesia del vecchio giunse fino al punto di accendere un grande fuoco e di trascinare accanto al camino una poltrona, sulla quale aveva poggiato una coperta. L'uomo disse - Hai fatto bene a condurlo qui- Volsi intorno lo sguardo, ma non vidi nessuno. Le persone anziane e sole sono solite parlare ad alta voce, rivolgendosi forse ad antichi amici. Non parliamo forse con presenze silenziose, ogni qual volta che apriamo un libro? Mi accomodai sulla poltrona, estrassi carta e penna con l'intenzione di appuntare gli avvenimenti della giornata, ma la stanchezza ed il calore benefico ebbero il sopravvento.

Il mattino ed il vecchio mi sorpresero addormentato, con la penna in mano e la bisaccia sulle ginocchia, la quale, semiaperta, mostrava i libri che avevo con me. L'uomo guardò, poi sospirò - Libri!-

Guardai attraverso la finestra: copiosa scendeva la neve, ma in fondo mi faceva piacere restare ancora in quel casolare smarrito, lontano dal chiasso del mondo. Anche i libri sono spesso un rifugio dal mondo, un inattaccabile eremo.

Avrei avuto tanto tempo per leggere e scrivere. Il locandiere mi portò ancora latte e biscotti. Mentre egli armeggiava in cucina, avevo messo sulla tavola i libri, facendone una scrivania; quando tornò ancora emise quel gemito - Libri! Era un lamento, ma non vi assegnai grande importanza.

Giunse l'ora del pasto; ti consiglio, lettrice, se passi da queste parti, l'ottima zuppa di lenticchie, cipolle, pane abbrustolito, sedano, condita con olio crudo.

Mentre mangiavo, il vecchio sedeva vicino a me, guardando con aria perplessa i volumi.

Il mio soggiorno si prolungò più del previsto, poiché il sole cominciò a splendere dopo una settimana. Furono giorni bianchi di neve, ma durante quel tempo aumentò il mio amore per i libri, soprattutto quando terminai la lettura dei volumi che avevo. Bisogna pur viaggiare leggeri!

Ah libri! Bisogna esser soli per amarvi! Poeti, scrittori, passate su questa terra in punta di piedi, misconosciuti, frequentate soffitte, luoghi deserti, da un angolo del mondo cantate sogni, siete ombre e se un raggio vi illumina, correte a nascondervi, come se uno scabroso segreto fosse stato svelato! Ma voi, dimenticati, voi esseri del chiaroscuro, siete destinati a risplendere; ognuno di voi diviene una stella nell'infinito che voi avete toccato; voi, poeti, siete coronati da miriadi di piccoli pianeti; voi illuminate coloro che siedono nelle biblioteche silenti, voi irradiate il vostro calore su noi lettori. Io, che come i miei sconosciuti fratelli, mi sono perso fra scaffali odorosi di polvere del tempo, prego affinché la terra continui a generare la stirpe dei poeti fino all'ultimo filo d'erba e all'estremo inaudito alito di vento del mondo.

Perdonami, lettore, queste digressioni che annotai alla rinfusa sui fogli di carta che giacevano sulla mia improvvisata scrivania. Esse erano dettate dalla nostalgia delle biblioteche, sacri templi dello spirito, ove l'unica religione è il politeismo.

Vi era nel mio animo una leggera tristezza, poiché avevo sperato di trovare pronta una storia da raccontare, ma non riuscivo ad ascoltare voci intorno a me, pur disponendo di un ambiente adatto e di un personaggio insolito.

Prestavo ascolto al vento, al vecchio che parlava da solo, scrutavo fra la nebbia, esaminavo per ore i nomi e i cuori incisi sui tavoli e, sebbene tutto mi sembrasse degno di essere riportato in un racconto, la mente fermava la mano alle prime parole "C'era una volta…", le più affascinanti all'inizio di un libro.

Mi rassegnai e, data un'occhiata al cielo sgombro di nubi, misi nella sacca le mie poche cose, alla rinfusa, e decisi di patire. Vinsi la pigrizia.

L'indolenza è un argomento interessante: forse noi lettori siamo nati pigri e per leggere bisogna stare seduti.

Chiamai il vecchio per pagare, ringraziare e salutare, ma non ebbi risposta; mi avventurai per le altre stanze, ma non lo trovai. Tornato nella sala da pranzo, scrissi un biglietto e lasciai il denaro sulla tavola.

Mi avventurai nuovamente nel bosco, con la speranza che la locanda, il vecchio e - ricordai in quel momento, la misteriosa voce- si potessero trasformare, in futuro, in una fiaba. Volli scrutare il cielo e mi apparve lontano, ma ben visibile, una collina sulla quale sorgeva un castello.

I raggi del sole antimeridiano filtravano fra la fitta vegetazione, lietamente rumorosa. Era il periodo dell'anno durante il quale il clima è ancora freddo per gli esseri umani, ma la natura vive il crepuscolo mattutino e i semi caldi sottoterra stanno per donare fiori colorati, e gli insetti si avvedono del risveglio.

S'udivano qua e là i canti degli uccelli, il fruscio di qualche cespuglio mosso da un animale impaurito dal mio passo; mancavano in quell'accenno di festa i colori delle farfalle. Per esse, e per me, il freddo era ancora troppo pungente: le crisalidi giacevano ancora nel calore dei bozzoli, in attesa di poter schiudere le ali alla vita intorno ai fiori; anche la mia storia giaceva come crisalide in un'oscura regione della mia mente, così come i poeti portano serrate, a lungo, parole a fatica tessute, per poi spiegarle leggere sul mondo. Queste erano i pensieri che mi accompagnavano, allorché un rapido turbinio di colori volteggiò dinanzi a me e udii la voce - Al castello, al castello-. In verità avevo voltato le spalle alla collina e al maniero ed ero propenso che la voce e i colori provenissero dalla mia fantasia, ma un castello è pur sempre un luogo opportuno per ambientare una storia e così, poiché nessun impegno mi chiamava, se non il desiderio di letture, acconsentii alla deviazione. I cambiamenti di percorso sono spesso gravidi di conseguenze e non è detto che la via maestra sia la via retta.

Come io mutai percorso, preparati, lettrice, ad un cambiamento della voce narrante. È vero che questo racconto manca di unità, ma la vita scorre sempre uniforme?

La voce mi guidava al castello, munito di torri che si proiettavano a punta verso il cielo. Sai, lettore, l'arte gotica è segno della sofferenza per l'uomo della condizione terrena e le vette appuntite delle chiese nordiche o dei manieri si protendono con struggimento verso l'infinitamente alto.

Il castello mi era parso vicino, eppure giunsi all'imbrunire ai piedi del colle: neanche qui v'erano sentieri o viottoli che conducessero alla costruzione, ma soltanto erbacce e rovi; alzai gli occhi e notai che nell'edificio non v'erano finestre. Girai intorno alla collina, però le speranze di trovare un accesso furono deluse.

Volteggiarono i colori ed io li seguii; lunga e faticosa fu la salita.
Ricordi, lettore, la ruggine sopra il battente della porta della locanda? La medesima patina antica aveva invaso completamente il portone davanti al quale mi trovavo, ma qui non esisteva nessun modo di bussare, di far conoscere la propria presenza, anche se era improbabile che qualcuno abitasse il castello. La soglia era socchiusa, ma prima di entrare volli percorrere l'intero perimetro della costruzione e scoprii in uno dei lati, in alto su un torrione, una piccola fessura, che non può assurgere a dignità di finestra. Annota, lettrice questo particolare, poiché quell'apertura è il centro della narrazione. Tornai al portone con titubanza, ma con rinnovata curiosità, spinsi la soglia ed entrai. Non posso farti ascoltare il sinistro cigolio, né comunicarti lo sforzo che compii a causa dello strato di polvere che si era insinuato nei cardini. Varcato quel limite, mi trovai nel buio, ma da viaggiatore previdente avevo con me una considerevole scorta di ceri e fiammiferi: ecco ciò cui mi trovai dinanzi.

Tu m'invidierai, lettrice, poiché è il nostro invincibile sogno, è la vittoria che ci avvince la sera, allorché ci scacciano dalle biblioteche o quando di fronte alle vetrine delle librerie, con poco denaro in tasca, dobbiamo rinunciare all'acquisto di un volume. La luce della candela illuminò un corridoio del quale non si scorgeva la fine, ai cui lati stavano scaffali fino al soffitto, colmi di libri. Costeggiai la libreria da un fianco e notai, dall'ombra proiettata sul pavimento - prodotta dal mio lume-, che là ove terminava uno scaffale ed era posto la base per le fila di volumi, il legno terminava a guisa di guglia, e qui era posta una scala a chiocciola, stretta e scomoda. I gradini scricchiolarono sotto il mio peso, ma non crollarono; giunsi ad un soppalco nel quale era una nicchia, nella quale era posto uno scrittoio e dalla quale si accedeva ad un'altra scaletta della stessa fattura, che portava ad un altro piano e ad altri scaffali.
Questa costruzione di legno permetteva di poter prelevare ogni libro; anche questo soppalco era interrotto da nicchie, della stessa fattura di quella già descritta, nelle quali erano scrittoi. Naturalmente giunsi ad altre scale che portavano ad altri soppalchi e, senza rendermene conto, girai intorno e salii fino ai piani più alti. Passavo di stanza in stanza, di piano in piano, esaminando i titoli dei volumi, dei quali molti giacevano ancora aperti e ingialliti sugli scrittoi.

Doveva essere trascorso molto tempo dal mio ingresso.

Non regnava ordine in quel luogo e neanche silenzio; molti libri erano, infatti, accatastati l'uno sull'altro e quanto alla quiete, il mio passo rimbombava; inoltre si sentivano rumori di piccoli animali. Non abbiamo forse molte volto interrotto la lettura, disturbati da uno squittio, ed abbiamo osservato un piccolo animale camminare sull'orlo di uno scaffale in cerca di un lembo di carta con cui sfamarsi? Non abbiamo osservato la tela di ragno tessuta con pazienza fra libri non toccati da tempo? Non abbiamo scoperto le pagine consunte dai tarli?

Sono i compagni delle nostre notti: non fummo sfiorati dal dubbio che, finito il tempo dell'uomo, tarli e ragni diverranno i soli custodi, forse non inconsapevoli, della memoria del nostro genere, ultimo ad apparire e destinato presto a svanire per propria colpa, poiché la più piccola forma di vita è più avvinta alla terra di questi ridicoli esseri che camminano eretti? È per questo che tramandiamo sui fogli il nostro sogno di immortalità, perché abbiamo terrore non della morte, ma dell'oblio. E quei piccoli esseri che a noi appaiono deboli, che senza rimorso uccidiamo, prenderanno la nostra eredità.

Continuavo la lenta affascinante passeggiata, senza mai vedere la fine degli scaffali: un castello trasformato nella più grande biblioteca del mondo! Chi aveva avuto questo sogno? Per chi erano quei libri?

Mi avvidi che ero giunto al piano più alto: finalmente mi apparve l'entrata di una stanza al di là dello scaffale; non v'era porta. Entrai e vidi la fessura che avevo notato dall'esterno. C'erano ancora libri e al centro della camera un grande tavolo con incise alcune parole non immediatamente decifrabili.

Un frullio d'ali, colori vivaci dinanzi al volto mi distrassero, una voce - Sei arrivato, sei arrivato-.

Era una piccolissima multicolore farfalla. Compresi che da quel piccolo insetto giungeva la voce:
"Un tempo le sale del maniero risuonarono di canti e danze e sovente v'erano banchetti e tutti i lumi venivano accesi, in modo che anche da lontano si poteva indovinare la gioia che gli abitanti di questo luogo provavano. I viandanti erano ospitati cortesemente e, poveri o ricchi che fossero, a loro venivano offerte le migliori vivande e i vini più pregiati.

Il tempo dei castelli trascorse ed il casato possessore del maniero si estinse; così l'edificio rimase vuoto e sia l'interno sia l'esterno si riempì d'erbacce. Non più brillavano luci al viaggiatore, anzi appariva una costruzione spettrale nel chiarore lunare, quando le ombre delle torri s'allungavano. E di viandante in viandante iniziarono a nascere leggende, poiché un'ombra si trasformava, nella bocca di un pauroso, in un fantasma, il verso di un gufo nel lamento di un trapassato, una finestra sbattuta dal vento nel tintinnio di catene, e fantasmi, lamenti, tintinnii si moltiplicavano.

Secoli trascorsero.

Il castello fu di nuovo abitato, ma nessuna luce tornò a splendere.

Accadde che un discendente di un ramo collaterale della antica famiglia venne in possesso, quale unico legittimo erede, dell'edificio.

Egli fece murare le finestre e degli antichi mobili fece legna da ardere ed adibì la sua nuova abitazione a biblioteca, chiamando abili mastri falegnami, dopo di che chiuse per sempre il portone, che nessuno varcò mai più.

In realtà una vecchia donna vi entrava di tanto in tanto per portare all'uomo il cibo necessario per sopravvivere, ma ella era muta e non poté mai raccontare nulla della vita entro le mura del castello.

Le storie e le leggende non cessarono: c'era chi sosteneva che nessuno abitasse in quel luogo e che il lume che si vedeva attraverso la piccola apertura fosse frutto di fantasia o fosse qualche spirito in cerca di pace.

La realtà era ben diversa.

Quando l'uomo era giunto al castello era nella piena giovinezza del corpo, ma la sua anima era già gravemente inferma di un male che scaccia lontano la vita e fa preferire la solitudine. Insieme ai suoi libri l'uomo trascorse anni ed anni, ma la vita tornò prepotente a chiamarlo.

Ad un visitatore sarebbe apparsa la figura di un vecchio chino su un tavolo colmo di volumi, ma l'anziano signore non avrebbe sollevato la testa dai suoi studi e, se lo avesse fatto, sarebbe stato soltanto per manifestare il proprio fastidio.

Ed una visita ricevette.

Non si sa se fosse giorno o notte, poiché i veri lettori aboliscono il tempo; l'uomo se ne stava sprofondato, come si suole dire, in uno dei suoi volumi; era quel momento indicibile che proviamo allorché diveniamo parte del libro; le candele si consumavano una dopo l'altra quando una piccola farfalla entrò nella stanza e volò fino all'uomo, il quale la scacciò con una mano senza distogliere lo sguardo dalla pagina, ma l'insetto volteggiò ancora intorno al suo viso, ottenendo la stessa reazione; allora la farfalla si posò sul libro e l'uomo fu costretto a guardarla, ma soffiò su di lei e l'animaletto fuggì fino alla piccola apertura e là sostò per un breve tempo, trascorso il quale tornò a librarsi attorno al vecchio, ma questa volta non attese di essere scacciato, bensì volò ancora alla finestrina e più volte ripeté questo viaggio. La farfalla era minuta ma di mille vivacissimi colori.

Il lettore aveva ormai lasciato la sua occupazione e seguiva attentamente i voli fantastici dell'insetto.

L'avvenimento ebbe per l'uomo la violenza degli eventi improvvisi: egli aveva dimenticato che esisteva un mondo al di fuori della sua biblioteca, che esistevano le stelle, le stagioni, il vento, gli alberi, la pioggia, il sole, la luna…era giorno o notte? Primavera o estate? Gli parve che la farfalla fosse entrata per invitarlo ad uscire, a vivere nuovamente. Quanti anni erano trascorsi?

Si alzò dalla scrivania, uscì dalla stanza, scese una prima rampa di scale e si trovò circondato da libri, voltò a destra, poi a sinistra, salì, scese, ed ovunque erano libri. Aveva dimenticato dov'era l'uscita.

Nessuno sa quale sia stato il destino del vecchio lettore. Storie antiche affermano che egli dimenticò di morire e che cerchi ancora l'uscita. Forse divenne egli stesso libro. Ed i libri non muoiono."

Io, lettore inguaribile, conosco i pericoli che ogni amore senza misura nasconde, ma ho trovato tra questi scaffali alcuni rari testi e ho il dovere di leggerli prima di tornare alla vita.