supplici e amazzoni - da Eschilo a Diodoro Siculo 
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Ugo Fracassa
 
DI AMAZZONI E SUPPLICI (DI ROM E CIOCIARI)
L'ultimo libro di Alfonso Cardamone
 
Ancora una volta Alfonso Cardamone pone al centro dell’indagine il nodo stretto da mito e tragedia – Amazzoni e Supplici recita l’ultimo titolo – ma non per magnificare, come affacciato al balcone solatìo di un poderoso edificio culturale, le fondamenta della civiltà occidentale, bensì secondo una prospettiva rovesciata, à rébours verso inestimabili giacimenti di passato e di significazione, ammaliato dal fascino ipnotico e fatale delle Origini, come sporgendosi sull’orlo di un imbuto rovesciato, di un cono cioè che smisuratamente amplia il cerchio a contenere l’inconcepibile anteriorità preclassica e preindoeuropea.
Sennonché questa sconsiderata passione per il prima, che è contemporaneamente pathos dell’ormai, di una presente tardività, mira con determinazione ad un ou topos, ad una utopia, parola già fortunata ma oggi desueta e recentemente quanto emblematicamente spodestata dall’ultima moda della nostra industria culturale: l’ucronico, che ne è quasi parodia, un’ipotesi di storia controfattuale che, dall’alto di uno scorante senno di poi, guarda al passato figurandoselo diverso, proietta cioè all’indietro una vocazione progressiva che l’utopia lanciava verso gli spazi inesplorati del futuro.
Quell’imbuto perciò bisognerebbe immaginarselo doppio, in forma di clessidra nella cui strozzatura – tra origini e utopia – noi lettori ci troviamo ingorgati, invitati a condividere la scomoda posizione dell’autore, la posizione di uno a cui il presente sta stretto.
C’è stato un periodo in cui dell’utopia si parlava, alcuni parlavano, apertamente, nominandola (affiora in un titolo della bibliografia del nostro), tracciando mappe e percorsi di avvicinamento. Non è più quel tempo, oggi, e chi ancora ne parla – Alfonso è tra questi, certi suoi versi declinano una “feroce e tenera utopia” – lo fa secondo un gioco di specchi, di riflesso cioè rispetto a un discorso altro e secondo a farsi allegoria. Per l’autore tale discorso prende le forme di una incessante ricerca del principio femminile rimosso dalla società contemporanea - un’istanza d’Anima, dicevo con terminologia junghiana, presentando il terzo volume di quella che è ormai una tetralogia. Tale ricerca si realizza nei modi peculiari di una disciplina che contamina saperi diversi – archeologia, linguistica, mitologia – secondo l’esempio dell’ “archeomitologia”, della studiosa lituano americana Marija Gimbutas (quanto l’impulso a ricomporre i frammenti dei vari specialismi tenda ad un sapere olistico, implicitamente femminile – essendo il femminile il nucleo di questo come dei precedenti saggi - lascio a voi stimare). Siccome, poi, quella tecnica finisce per attivare il versante creativo e poetico del nostro (ovvero per esserne ispirata), ecco che, per Cardamone, la già elaborata definizione andrà aggiornata in “archeomitopoiesi”.
Ciò che conta è che ciascun reperto – l’archeologico per la sua costituzionale manchevolezza, il mitologico per l’infinita diramazione del racconto, il linguistico per la molteplicità delle ipotesi etimologiche – lungi dal sortire una mortifera immobilizzazione del senso, conduce a labirinti di significazione.
Partiamo proprio dall’etimologia – che Savinio, già consapevole della natura allucinatoria delle origini, definiva “illusione di verità”(1) – e dall’etimologia di “amazzone” che più e meglio porta i segni di una sopraffazione postuma perpetrata da un sapere mascolino. È invalsa l’opinione che il sostantivo significhi “priva di mammella” (a-mazos / a-mastos: quella destra, per meglio impugnare lo scudo, la mezzaluna detta “pelta”), accanto ad altre pure centrate sull’assenza (a-maza – lingua caucasica – “non avvezze a cibarsi di pane”), sull’opinione cioè che la prima lettera sia retaggio di un alfa privativo. L’atto di interpretazione linguistica, insomma, va sotto il segno della castrazione, della mutilazione e per anni ha impedito l’affiorare, almeno presso l’opinione comune, di altre letture che sostituiscono a quell’alfa il prefisso am- (appellativo infantile diffuso tra gli ittiti per “mamma”) o ama- (ama – zoosai: “vivere insieme” o ama – zoonais: “con cintura”) a indicare, in luogo di un deficit, di una manchevolezza, una localizzazione (“donna ittita del paese Azzi”) ovvero una dotazione (la cintura amazzonica, appunto).
Eccoci perciò al primo corno della questione, quello soltanto evocato ed alluso nel tema dell’amazzonismo:
L’ipotesi dell’ esistenza del matriarcato [cui il fenomeno dell’amazzonismo sarebbe connesso come tardivo e violento rigurgito] percorre la storia della filosofia da Platone a Hobbes, arriva a una piena maturazione con Bachofen sullo scorcio del secolo scorso [in epoca positivista ed evoluzionista], trova una conferma molto parziale nei reperti archeologici [proprio sulla loro controversa interpretazione si basa la confutazione parziale delle tesi bachofeniane da parte di Pembroke e Wesel] mentre ne ha una più consistente proprio nella tragedia, la quale trae i propri temi dalla mitologia.(2)
Farà piacere notare, nell’era della poltical correcteness e del moderatismo bipartisan, che quell’ipotesi piacque ad Engels come a Julius Evola, finendo per fecondare il pensiero materialista come quello elitista, e di conseguenza le ideologie comunista e nazista. Minimo comun denominatore la critica ad un sistema di democrazia rappresentativa in ragione, da una parte di un comunismo egualitarista e, dall’altra, di valori ispirati alla gerarchia. Al contrario, l’ipotesi bachofeniana di un modo matriarcale (appena digitata, la parola è mutata dal correttore automatico di word in patriarcale) del vivere associato spiacque, dopo un’immediata e immeditata infatuazione, al pensiero femminista. Con più precisione, Francoise d’Eaubonne non contestava l’ipotesi matriarcale in sé, ma il “quadro delicato” di un egualitarismo ludico e pacifista dipinto da Bachofen in Das Mutterrecht; scriveva infatti nel 1972 che: “nella guerra dei sessi lunga e crudele le donne non furono da meno per ferocia disperata” ai maschi.
Tuttavia, provando a emulare Alfonso, mutando qualche passo sul filo di un’acrobatica interdisciplinarietà – a mio rischio e pericolo e senza un allenamento specifico – pare utile citare il paleontologo J. Dastugue (1982) quando afferma che: “se si studia l’era preistorica anteriore all’età dei metalli, si trovano difficilmente fratture del cranio e delle ossa lunghe”. Inoltre è dimostrato dall’archeologia che la maggior parte delle culture egee preelleniche condividevano la caratteristica del pacifismo: Cnosso, Garnia e “innumerevoli altre città e villaggi delle Cicladi, di Creta e anche del continente erano praticamente senza fortificazioni. Soltanto dopo l’arrivo dei Greci noi troviamo mura ciclopiche, i dispositivi di difesa e le fortificazioni di una società maschile armata per la guerra (E. Borneman). Di quelle mura ciclopiche, in quanto ciociari, sappiamo qualcosa e converrà tornarci su. Infine, di nuovo Maria Gimbutas, cara al nostro, afferma che le prime civiltà del Mediterraneo orientale nell’età neolitica, “divenute sedentarie con l’agricoltura e l’allevamento, erano matrilineari, egualitarie, disarmate”. Quanto un simile pacifismo fosse connesso al sistema ginocratico e ad una teofania femminile lo suggerisce anche la scoperta della scrittura Lineare B, che ha consentito al Palmer di individuare nel Wanax, il re che è anche sacerdote, strettamente associato – diversamente dal basileus di tradizione omerica - con Potnia, la Signora, Madre Terra; entrambi ebbero per la prima volta veste greca nell’isola dove i micenei avevano più stretti contratti con l’area religiosa e culturale della Mesopotamia, a Cipro, non a caso uno dei luoghi che ricorre nel saggio di Cardamone.
Il secondo corno della questione, di cui il titolo, concerne forma e contenuti della tragedia greca e, in particolare, è costituito dalle Supplici, protagoniste della tragedia eschilea che, circolarmente, come l’autore stesso suggerisce (in una nota delle ultime pagine, come a dire ai lettori meritevoli) rimandano all’amazzonismo. Le cinquanta vergini danaidi, infatti, che impetrano presso Pelasgo, re ad Argo, ospitalità potendo vantare una lontana discendenza argiva, ma venute di Libia ed egittizzate da tempo, paiono al sospettoso re, cannibali che rifiutano l’uomo: “E poiché so d’Indiane girovaghe issate su femminee selle, su cammelli al galoppo, il cui soggiorno è laggiù, accanto agli Etiopi e poi delle Amazzoni, cannibali che rifiutano l’uomo, a quelle, v’avrei paragonato, se solo foste armate d’archi” (Eschilo, Supplici). La tragedia sarebbe la risposta culturale al trauma della ribellione ispirata a valori delle società patristiche, analoga a quella che, in termini politici, diede luogo alla democrazia ateniese quale forma particolarmente idonea, previa esclusione delle donne, a garantire il consenso.(3)
La “circolarità che continuamente fluisce nel testo” infine svelata, come ricordavo, a piè di pagina 116, è solo uno degli espedienti di quello che già in occasione della scorsa presentazione definivo “saggismo affabulatorio” del nostro. Scientemente aliena da ogni affettazione di specialismo accademico, infatti, la scrittura di Cardamone studioso del mito e della tragedia si caratterizza per la colloquialità del tono, marcata dai frequenti puntini sospensivi che alludono all’oralità e al convivio, patente in formule discorsive come la seguente: “Mah… vediamo di capirci qualcosa” . Insomma ad Alfonso si adatterebbe alla perfezione la definizione che egli stesso dà di Robert Graves, “poeta e cultore di miti”, autore spesso citato nei vari volumi del ciclo anche a scapito di altri riferimenti bibliografici, magari aggiornati all’ultim’ora, come usa nella cerchia di uno specialismo spesso sterile. Lo scambio tra versi e prosa, tra poiesis e logos, è per Alfonso usuale ed incessante, proprio in virtù di quella ricordata “circolarità che continuamente fluisce” (e circa la simbologia femminile del cerchio mi astengo dall’intrattenervi). Valga stavolta un solo reperto, magari non il più perspicuo ma certamente il più aggiornato: “Ama il cielo sacro penetrare la terra; / brama prende la terra di congiungersi a lui”, così Eschilo nel secondo dei soli tre frammenti superstiti della terza tragedia del ciclo delle Danaidi; “tu nausicaa della spiaggia estrema / del mio approdo tu stessa spiaggia e terra / ch’io agogno penetrare”, così Alfonso in un frammento poetico pubblicato nel marzo di quest’anno.
In conclusione mi sarà concesso di svelare un piccolo retroscena; quando Alfonso mi ha chiesto di presentare il suo libro, di replicare perciò l’esperienza già da me realizzata per il volume precedente, ha incontrato da parte mia qualche resistenza. Ancora una volta temevo il rischio e la fatica di sconfinare in ambiti di ricerca apparentemente così lontani dai miei interessi di contemporaneista. Per deformazione professionale, perciò, il mio sforzo è stato quello di attualizzare la materia del saggio, ma ben presto mi sono accorto che quella materia era già presente e viva. Al di là della coincidenza coi versi recenti dell’autore, infatti, ho scoperto che Amazzoni e Supplici, da Eschilo a Diodoro siculo ci parla del qui e ora. Il qui è proprio la Ciociaria delle mura pelasgiche, una terra cioè indissolubilmente legata ad una comune cultura preclassica del bacino mediterraneo. E l’ora, l’oggi, è quello delle migrazioni e delle contaminazioni (Contaminazioni è il titolo di un poemetto edito nel 2002, da leggersi a fianco del più recente saggio), di un’ospitalità cui siamo sempre meno avvezzi. Lascio pertanto all’autore l’ultima parola e a tutti noi – assordati dalle cronache di quotidiano razzismo - qualche secondo per riflettere su quanto si legge a pagina 35:
Riferendosi in modo particolare ai Pelasgi di Lemno, il Semerano ricorda che già in Omero si trova la testimonianza di una loro denominazione, Sinti (Sìnties), che sarebbe voce di origine semitica, forma sostantivale di un verbo che significa vagare errare migrare. Questi Sinti sarebbero i Sàoi di Archiloco e tali denominazioni confermerebbero il significato originario della voce pelasgi: “signori colonizzatori erranti”.

1) “Senza dubbio, quando è in causa qualcosa come la radice, si può dire: cosa si intende per realtà? Ma la risposta non può essere …[interrotto] Nelle radici del lessico non c’è che una quinta parte di realtà. Ma si potrebbe dire: cosa si intende per realtà? Chiunque proponga una forma di radice vuol fare operazione razionale, dato che non è la lingua stessa ad aver mai designato … [interrotto]” , F.de Saussure, Manoscritti di Harvard.
2) G. Galli, Cromwell e Afrodite. Democrazia e culture alternative, Kaos, 1999.
3) Cfr. G. Galli, Cromwell e Afrodite, cit.