il pozzo e il pendolo 
[ fascicolo ]  [ autore
Mario Amato
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ROMANZI DI CITTÀ, FIABE DI PAESE
 
Tutto ciò che è improvviso è male dice Mendel Singer, il personaggio sul quale è imperniata la vicenda del romanzo “Giobbe. Storia di un uomo semplice” di Joseph Roth.. Non tutto ciò che è nuovo, ma tutto ciò che è improvviso, dice Mendel. Nei paesi, nei villaggi, nei piccoli borghi, sebbene anch’essi mutino, si ha l’impressione che il tempo scorra più lentamente, regolato da tempo immemore dal suono evocatore delle campane, da una vita che pare non alterarsi; non a caso “I Malavoglia” di Giovanni Verga si chiudono con la frase Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu.
Il passato nelle piccole comunità vive con e nella memoria delle persone, nel nome delle famiglie, nelle abitudini quali la passeggiata domenicale, il pranzo delle feste, vive di suoni e ricordi antichi come il suono delle campane o un’eccezionale vendemmia o una straordinaria nevicata. Nelle città le tradizioni sono tramandate dai monumenti, che raramente i cittadini si fermano a guardare.
Anche Joseph Roth ha scritto romanzi, eppure la sua scrittura indulge sempre al fiabesco, anche in un grande romanzo come “La marcia di Radetzky”, nel quale il lettore si trova nei confini orientali dell’Austria-Ungheria. Anche il racconto “La leggenda del Santo bevitore” è, come suggerisce lo stesso titolo del racconto, una fiaba, sebbene si svolga a Parigi. Nonostante sia una fiaba, possiamo tuttavia trarre da questo racconto alcuni elementi chiarificatori sulla visione della città nella letteratura: Andreas, il santo bevitore, è partito da una sperduta provincia dell’Impero per la grande avventura nella città, ma Parigi lo ha spinto ai margini della società, fra i reietti, anche se troverà proprio in quella condizione il riscatto. All’inizio del racconto un uomo ben vestito scende le scale che conducono sulle rive della Senna e consegna ad Andreas del denaro. Accantoniamo per ora il pensiero su quest’atto di bontà verso uno sconosciuto barbone alcolizzato e concentriamoci sull’abbigliamento dei due uomini, che li distingue socialmente: l’uno di fronte all’altro, un borghese probabilmente, di condizione agiata ed un disperato, un appartenente, diremmo oggi, al sottoproletariato. Solo in città queste due classi sociali possono incontrarsi o scontrarsi. Se il romanzo è per eccellenza il testo borghese, la città è il suo ambiente naturale. Non poteva essere così nel Medioevo, perché la città era vista come luogo del diavolo, proprio per la presenza dei mercanti, ovvero della borghesia: Gesù aveva scacciato i mercanti dal Tempio(1) e nella “Summa” di San Tommaso si dice che “c’è qualcosa di peccaminoso nella mercatura”; Dante non sceglie la città per rappresentare il Paradiso, ma la “candida rosa”, dimostrando ancora una disistima profondamente medioevale per i mercanti. Ai mercanti medioevali dobbiamo tuttavia la laicizzazione della cultura: essi chiamavano precettori privati per istruire i loro figli, ma ancor più essi s’incamminavano per le pericolose strade – allora anche più rischiose dello stesso mare – e si recavano oltralpe, imparando lingue straniere. A quei mercanti dobbiamo in parte anche la costruzione dell’Europa. La Chiesa ben sapeva che una nuova cultura laica si stava sostituendo a quella ecclesiastica e per questo decise di fare delle piazze delle città le sedi dei vescovati. Ma il processo era inarrestabile e col passare del tempo la città nel Rinascimento divenne la dimostrazione della grandezza di alcune famiglie. Più tardi, nel Seicento, la Francia fu la prima nazione a fare della città il luogo dell’amministrazione. Anche se abitata da nobili, la città era ancora la dimora della borghesia. È vero che esistono due grandi romanzi che poco hanno a che fare con la città, ovvero “Don Chisciotte” di Miguel Cervantes e “Moby Dick” di Hermann Melville, ma il primo è ben più di un romanzo e si avvicina anche alla tragedia, il secondo è un epos biblico-tragico..
Perché questo intimo rapporto tra città e romanzo? La risposta la troviamo forse in un racconto di Stefan Zweig intitolato “Un mestiere”, sebbene Zweig grande romanziere non fu mai. Il narratore austriaco racconta che uno dei suoi passatempi preferiti era quello di fermarsi a Parigi in un grande mercato coperto ed osservare la gente e cercare di indovinare il mestiere di ognuno. Ecco, forse per scrivere romanzi bisogna fermarsi in un Café, guardare le persone, indovinare da quale altro quartiere della città provengano, immaginare le loro abitazioni, le loro abitudini, fantasticare sulle possibili vite di ognuno.
Le città cambiano con il trascorrere del tempo, e cambiano i loro abitanti ed i modi di vita. La città è multiforme, ha mille tentacoli, il paese ha un’unità di suoni ed immagini. La molteplicità della città la troviamo nella Londra di Charles Dickens, sia in “David Copperfield” sia in “Grandi speranze” sia in “Dombey e figlio”. È vero che Dickens era nato a Portsmouth, nel Kent, tranquilla regione, ma come pochi ha rappresentato il mondo variegato della metropoli, anzi della nascente metropoli industriale. I suoi personaggi non appartengono mai ad un solo ceto sociale, ma alle varie classi che il capitalismo foggia, e le storie di uomini e donne appartenenti a mondi diversi si intrecciano, si scontrano, si fondono. È vero anche che la simpatia del grande narratore inglese va ai più deboli di questo nuovo mondo, ma egli non indulge verso una dichiarata ideologia.
Lo stesso intersecarsi di classi sociali nella città si trova anche ne “I Miserabili” di Victor Hugo, ma Dickens vede anche la pericolosità dell’ambiente cittadino, che spesso schiaccia l’individuo, come accade alla fanciulla Emily in “David Copperfield”, che perde la sua purezza, quella purezza possibile solo nel barcone in cui viveva sulle bianche scogliere, dove la vita scorreva serena e sempre uguale, regolata unicamente dagli avvenimenti della natura; in Hugo l’amore tra Marius e Cosette si svolge in Rue Plumet e Rue Saint-Denise, mentre sullo sfondo si scatenano le sommosse popolari del 1832. L’idillio tra i due giovani sembra quasi il segno che ogni riconciliazione sia possibile, anche in città, anzi soprattutto in città. Nelle città però si è spesso soli e nessuno come Franz Kafka, che pure mai nomina Praga, ha descritto la solitudine dell’uomo moderno tra la moltitudine.
Le città sono anche personaggi, come Trieste nei romanzi di Italo Svevo, come Vienna ne “L’uomo senza qualità” di Robert Musil, il quale rappresenta anche la formazione della megalopoli, sebbene Vienna non lo diventerà mai, perché la disgregazione dell’impero la trasformò nella capitale di un piccolo Stato; come la Berlino di “Berlin Alexanderplatz” di Alfred Döblin(2) , in cui il protagonista, Franz Biberkopf, piccolo criminale di periferia, si ritrova solo in Alexanderplatz. La piazza della moderna città è ben lungi dall’essere l’agorà greca o il forum latino o ancora il segno rinascimentale della magnificenza di una famiglia. È invece il luogo della solitudine, della disperazione, di antichi fasti, come canta Francesco Guccini nella canzone “La primavera di Praga”. Luogo anche della fine del mito, come in “Ulisse” di James Joyce o ne “Il libro nero” di Orhan Pamuk(3). In questi due romanzi il lettore viene preso per mano e condotto nelle strade di Dublino e di Istanbul. Ambedue sono la narrazione di una ricerca, la prima della casa, forse della Heimat perduta, la seconda della moglie e del cognato. Moglie e cognato però fanno pur parte della Heimat , che nessuna piazza, di nessuna città può sostituire.
Nei paesi, al contrario, la piazza è ancora vissuta come il centro della vita, è il luogo dove la domenica ci si incontra e si parla di politica o della nascita o della morte di qualcuno, della partita di calcio. Joseph Roth scrive una leggenda di città, perché solo in una metropoli può imperniare il racconto della vita di un barbone, ma nell’atto di pietas verso Andreas c’è ancora il cuore di uno scrittore proveniente dallo stehlt, che sa che il comandamento “Ama il prossimo tuo come te stesso” significa che bisogna amare il più vicino a noi, anche se i suoi vestiti ed il suo alito sono fetidi di sporcizia e di alcool.

1. Il Tempio è uno solo, è il luogo dove si conserva l’Arca dell’Alleanza
2. Su tale argomento vedi il saggio di Claudio Magris in Alfabeti, Garzanti, Milano, 2008
3. Pamuk, Orhan, Il libro nero, Torino, Einaudi, 2007