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Amedeo Di Sora
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LA POESIA O " DELL' INUTILITA' "
 
Mi piace principiare questo mio breve intervento con una definizione della poesia che proviene da un grande artista polacco scomparso da qualche anno, maestro della scena teatrale e non solo: Tadeusz Kantor. Cito dallo scritto I territori verticali della poesia dell'amico Alfonso Cardamone che è contenuto nella pubblicazione comune del 1989 dal titolo Labirinti di letteratura e di teatro (Ed. Dismisura): " La poesia viene non si sa da dov e al suo sopraggiungere il tempo e il luogo cessano di esistere . La poesia conduce alla porta della Grande Signora della Morte e dell'Amore". Ho voluto iniziare con queste parole di Kantor perché esse attribuiscono alla poesia un'origine misteriosa, un potere magico, una dimensione altra e la capacità di coniugare "ciò che è in basso con ciò che è in alto", ovvero: l'Inferno e il Paradiso.
Per me la poesia è innanzitutto un gioco. Solo giocando, infatti, si perde la radicata convinzione che ciò che ha senso sia più importante e determinante di ciò che non ne ha. Solo accettando fino in fondo la scelta del non sapere, il poeta si cala negli inferi, penetra la propria morte, si pone alla ricerca della vera notte, dell'altra notte, consapevole del fatto che il significato drammatico dell'esistenza non risiede nell'incertezza e nel dubbio della salvezza (come secondo la tradizione religiosa), ma nel semplice fatto di esistere. La poesia, intesa come gioco, è un'attività inutile, nel significato che Georges Bataille attribuiva a quest'aggettivo, e cioè di quello che al bambino è permesso e che all'adulto è proibito in quanto ormai è cresciuto e deve servire.
Tra la poesia e il negativo esiste un rapporto profondo: la parola poetica (come l'opera d'arte in generale) si costituisce come tale proprio nel rifiuto del linguaggio positivo e servile dell'economia e della logica. La poesia è un linguaggio libero da intenzioni utilitarie e progettuali: essa è la perversione e il sacrificio delle parole. Perversione perché, come ha mostrato Mallarmé, distrugge le cose che nomina nel loro valore usuale; sacrificio perché è l'espressione nell'ambito del linguaggio di grandi sprechi di energia. All'interno di questa accezione della poesia si colloca l'esperienza estetico-politica, ormai trentennale, della rivista Dismisura diretta dal già citato Alfonso Cardamone e della cui redazione, da un ventennio circa, faccio parte, la quale indica nell'alterità la proprietà specifica dell'arte, in quanto essa è dispendio, negazione della negazione, utopia concreta. Pur nella consapevolezza che l'arte, nell'ambito della dismisura, non può rinunciare ad una regola e ad una misura, per non ridursi a mormorio confuso, grido inarticolato o sterile silenzio. E il negativo non si sceglie, si espia. Come scriveva Bataille: "Se non si espiasse, (esso) avrebbe qualche punto di appoggio, cercherebbe l'impero, la durata. Ma l'autenticità glieli rifiuta: esso non è che impotenza, assenza di durata, distruzione piena di odio (o gaia) di se stesso, insoddisfazione". Un'insoddisfazione che neanche l'amore può colmare, a meno che esso non sia l'approvazione della vita fin dentro la morte". In questo senso la poesia è un'accensione dismisurata del desiderio erotico che tende alla fusione di Eros e Thanatos.
La poesia è altresì attesa ("sono innamorato? sì, poiché attendo", scriveva Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso), capace di garantire la durata inesauribile dell'avventura, che non si definisce come aspettazione di qualche cosa di noto o di conoscibile, ma semmai è uno stato d'animo, una condizione atematica. La poesia è assenza, intesa come facoltà di non farsi travolgere dalla meccanica delle cose e di mantenere desto il senso dell'attesa.
La condizione del poeta è per me quella dello straniero che partecipa dei simulacri della realtà. Come il dandy egli è un esule, che ovunque avverte il senso dell'inappartenenza in questo mondo. Come il dandy è uno straniero che partecipa non solo al dispiegarsi delle trame del sociale, ma anche al farsi e disfarsi della propria coscienza e dei propri sentimenti. E come il dandy il poeta conosce il valore dello "stile" e della "forma", sa praticare l'arma dell'ironia e dell'autoironia ("le persone serie - era solito ripetere Marcel Duchamp - sono dei potenziali tiranni").
La poesia "autentica" non può non essere "inattuale". Essa deve segnare una profonda differenza nei confronti dell'ambiente della poesia attuale, infestato da pseudo sperimentatori algidi ed impotenti, da rovinosi pterodattili in cerca di vanagloria da premio letterario di terz'ordine, da giovani-vecchi bramosi di aureole da supermarket: individui che con l'autentica poesia non hanno nulla a che spartire perché essa è ancora, nonostante tutto e tutti, grumo sanguigno, parte maledetta, solitudine e disperazione.
La poesia non può che essere, oggi, lucidamente disperata. Fin dai tempi di Leopardi e di Baudelaire sappiamo, d'altronde, che i soli versi credibili sono quelli malati, quelli che fioriscono nei rovinosi deserti della nostra cosiddetta "civiltà". In quest'era "globale", contrassegnata dalla cifra totalizzante della merce e del denaro, la poesia si rivela sempre più inutile: è dispendio, atto escretorio, riso e pianto, sospensione del tempo reale, parola smarrita e ri-trovata, autentica e non omologata. E chissà se ha ancora ragione il grande Majakovskij, uno dei miei amori poetici più vibranti, ad affermare che le parole dei poeti "mettono in moto/per migliaia di anni/milioni di cuori".