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Andrea Carbonari
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IL VILLAGGIO
 
Il villaggio

Ai confini del mondo, in un paese così grande che sembrava sconfinato, viveva un cavaliere, tanto saggio da saper regnare senza far uso delle armi, tanto ricco, da possedere ville, castelli, palazzi, e tanto amato sia dal popolo, che lo stimava per la sua fermezza come per la sua dolcezza, e sia dalla moglie e i tre figli, che ritenevano fosse un gran dono degli dei, stargli accanto notte e giorno.
Il cavaliere, una volta raccolti successi, allori e onori, e raggiunta ormai l’età di inoltrata maturità, pensò che fosse saggio ritirarsi dalla scena, lasciare la conduzione del regno ai tre figli e dedicarsi maggiormente alla sua amata, al giardino e alle letture.
Una vita del tutto contemplativa non si addiceva certo agli impeti di un cavaliere, che, sebbene da tempo avesse deposto cavallo e armatura, sentiva incedere dentro di sé i morsi dell’azione e gli scalpitii di ricerche, conquiste, scoperte; nello stesso tempo capiva però che il suo tempo era passato e che era il caso di far tacere sproni e passioni, in lunghe passaggiate tra le braccia dell’amata e i colori profumati dei suoi immensi giardini.
Tuttavia, proprio come succede a un cavallo, quando briglie e redini non tengono e si spezzano per l’imbizzarrirsi di slanci interiori, così gli occhi del cavaliere, inquieti, curiosi, penetranti, non riuscivano a rassegnarsi alla vita domestica e, se non potevano più cavalcare, decisero almeno di inoltrarsi tra la rumorosa vita del popolo.
Fu così che il cavaliere, all’insaputa della sua consorte, ogni sera al crepuscolo, travestito da contadino, fabbro o mercante, si mescolava alle chiacchiere dei suoi paesani, al vino delle feste di piazza, all’allegrezza dei fantolini cinguettanti e ai corpi di belle etere dalla pelle vellutata e luminescente, per suggere ancora quel nettare della vita che, altrimenti, gli passava accanto, ma senza nemmeno sfiorarlo.
In questo modo il cavaliere, di giorno saggio e misurato, si imbeveva, di notte, come tutti gli uomini che vanno spediti senza voltarsi, di vizi, lascivie e depravate dismisure, che lo facevano sentire uno qualunque in quello sconfinato mare di vita vera.
Tra una chiacchiera, un bicchiere ed un frusciare di seducenti nudità, gli era giunta all’orecchio la notizia che si era sparsa tra i suoi popolani.
Si vociferava infatti di un paese, o meglio, un villaggio, oltre gli ultimi confini dello sconfinato paese del cavaliere, in cui, si diceva, regnassero felicità, pace e armonia inimmaginabili e da cui nessuno si spostava mai per andare altrove; chi vi era giunto, non era mai più tornato indietro e questo era certo segno chiaro ed inequivocabile di quanto felici si poteva essere in quel villaggio.
Il cavaliere, sempre più incuriosito e interessato, si intrufolava in ogni dove, bettole, scantinati, soffitte, vicoli, sottoscala, per sentire parlare i suoi sudditi del prodigioso villaggio, e ne venivano fuori di tutti i colori:
- dicono che vi si arrivi attraverso una scalinata infinita!
- Ma come è possibile che tanti ne parlino, se nessuno è mai tornato indietro a raccontarci come è veramente questo villaggio?
- Eppure sono in tanti, quelli che vi si dirigono...senza lasciare traccia!!
- Raccontano che lì non bisogna lavorare per vivere, e tutti hanno almeno una casa e non c’è differenza fra ricchi e poveri, cavalieri e sudditi.
- E non c’è invidia e tutti sono felici per quello che sono e basta!
- Senza parlare, i cittadini di quel villaggio, si capiscono ugualmente e godono di una pace ed un silenzio, che noi ce li sogniamo!
- Si è sentito riferire che gli abitanti, là in quel villaggio, si nutrono di cibi speciali, fatti di niente, eppure non hanno mai fame...
- Già, mai fame di soldi, fame di successo, fame di potere, fame di gloria...
- E che villaggio è mai questo, se tutti sono così felici? Felici di quel poco che hanno e di ciò che non sono...
- Felici solo di abitare il villaggio, da cui non fanno ritorno...
- Frottole! Sono tutte invenzioni, nulla più!!
Il cavaliere, tanto attratto da tutte quelle chiacchiere quanto disorientato, non sapeva più cosa pensare. Eppure, se se ne parlava così di frequente, qualcosa di vero doveva esserci! Magari non ci saranno tutte le meraviglie di cui il popolo, facile preda di furbi imbonitori, favoleggia, ma di per sé il villaggio da qualche parte dovrà esistere! E se non esisteva entro i confini del regno del cavaliere, doveva proprio essere qualcosa di speciale!
Non stette lì a pensarci più di tanto, ma decise che se tutti ne parlavano, se tanti vi si incamminavano senza tornare indietro, lui, che era il cavaliere, doveva assolutamente prenderne possesso e verificarne di persona la favola o la realtà.
Quella sera stessa, dopo essersi ristorato tra le fresche carni di Leida, la più giovane tra le sue etere, ed aver chiesto alla sua consorte di poter restare solo per la notte, fece sellare dal suo servo di fiducia il bianco Fulmine, puledro snello e scalpitante, indossò l’armatura nera a lui cara, perché con essa tante battaglie aveva vinto e la sentiva foriera di buoni auspici, si infilò in testa l’elmo piumato, di un nero ancora più cupo, e, come se avesse venti anni in meno, spronò Fulmine al galoppo e scomparve, oltre il nero della notte, verso gli ultimi confini del suo regno, accompagnato soltanto dal bianco della luna e dalle stridule voci di gufi e civette.
Cavalcò per tutta la notte il cavaliere nero, illuminato dal bianco della luna piena e da quel suo unico e ossessivo pensiero: trovare il villaggio da cui non si ritorna; cavalcò sino a dove gli alberi si fanno sempre più radi, le foglie all’accartocciarsi stridono e il freddo cala implacabile; cavalcò oltre l’urlo delle acacie falciate dal tempo, dove i gusci di cicale sono scheletri di geroglifici cristallini incavati in filamenti di vitree ragnatele; cavalcò oltre ancora gli ultimi confini dei suoi regni e dei regni conosciuti, fin quando anche l’aria nera della notte si fece densa, pesante, impenetrabile, come un muro di marmo ferrigno che a fatica riusciva ad incrinare; e cavalcò tra le crepe aride di profonde muraglie, tra voci frante, ombre asfissianti, e cavalcò sino ad un fitto nero di nebbia, tanto che non sapeva più se stesse cavalcando su terra, acqua o aria; né sentiva più lo scalpitio degli zoccoli: forse stava cavalcando senza cavallo, ma cavalcò nel nero di quella nebbia fitta e sabbiosa, finché non gli entrò tutta dentro e si accorse che, completamente accecato, continuava a cavalcare, riuscendo a far curvare il cavallo che non percepiva più, su quella strada che non vedeva più e che forse non c’era.
Come un cieco sicuro del fatto suo, perché dentro di sé vede meglio ciò che l’illusione del fuori nasconde, continuò a cavalcare convinto che quella, senza case colline e quotidiane costrizioni, proprio quella fosse la via che dall’inganno consueto del mondo che ci illudiamo di conoscere portasse verso il villaggio oltre gli ultimi confini.
Il nero della nebbia che gli era entrato negli occhi e nella corazza, pur non impedendoli, gli appesantiva però i movimenti, tanto che gli parve di cavalcare, senza corpo e senza cavallo, quel nero denso e coriaceo, che lo stava quasi pietrificando. Con un ultimo sforzo sovrumano riuscì a spaccare quel muro di nero e di nebbia, che, come tanti mattoni di una gabbia, lo stava soffocando e varcò l’ultimo degli ultimi confini di ogni regno come se fosse a cavallo di una crepa di quel muro, costruito di nero e di nebbia.
Una volta al di là del muro, il bianco Fulmine riprese la sua andatura di trotto sostenuto, anche se un po’ stanco, e al cavaliere parve aver ritrovato corpo, occhi e coraggio.
Il nero di nebbia, seppur diradatosi, formava una foschia di vapori caldi e schiumosi che si confondevano con il grigio pumbleo del cielo e di una distesa incolore.
Tra il nero della foschia e il ferrigno incolore di quel luogo sconosciuto, il cavaliere distinse un unico sentiero, che appariva e spariva, che c’era e già non c’era, ma che da qualche parte avrebbe portato.
Prese allora a cavalcare per quel sentiero, quando, di colpo, dal nero della foschia ecco avvicinarsi una vecchina, ricurva, rugosa e ricoperta di veli; più si avvicinava al cavaliere e meno questi riusciva a vederne i tratti, che, tra curve, rughe e veli, comparivano e scomparivano, proprio come il sentiero.
Il cavaliere provò a domandare qualcosa a quella vecchina che, nel suo esserci e non esserci, tirava dritto per la sua strada, incurante di tutto e presa soltanto dalle sue litanie, che, con voce stridula e lontana, andava ripetendo:
«Nulla nostro che sei nel nulla, sia nullificato il tuo nulla, venga il tuo nulla, sia fatta la tua nullità, come nel nulla di sopra così nel nulla di sotto, dacci il nostro nulla nullidiano e rimetti a noi il nostro nulla come noi lo annulliamo per i nostri altri nulla, e non ci indurre in un oltre nulla, ma liberaci dal nulla. Allun.»
Pur non capendo proprio nulla di quella litania del nulla, il cavaliere pensò che la vecchina dovesse provenire dal villaggio misterioso, visto che tanto la sua apparizione, quanto le sue litanie erano del tutto incomprensibili a occhi ed orecchi umani.
Di colpo, infatti, ecco apparire dal nulla, forse da quel nulla invocato dalla vecchina, un paese con tanto di strada principale, piazza centrale, chiese e mura medievali, ma così avvolto in un cielo grigio con qualche sprazzo bianco, da sembrare di fumo, di nulla, inesistente.
Eppure il cavaliere sentiva il rumore degli zoccoli del suo cavallo e vedeva quei grigi palazzi di pietra ergersi davanti ai suoi occhi, anche se tutto sembrava di una immobilità del tutto innaturale.
Per non turbare troppo quella quiete eterna, il cavaliere scese dal cavallo e proseguì a piedi, cercando di capire in che posto era capitato.
Guarda a destra, guarda a sinistra, niente, non si muove una foglia, non si vede traccia di vita. Prosegue verso la piazza che, coperta dal cielo plumbeo, sembra una bara, con quelle sue perfette e rigide dimensioni rettangolari, anche qui niente e nessuno.
Anche l’aria sembra cristallizzarsi in un vetro duro da rompere; aria di vetro che gli impedisce di andare, gli ferisce gli occhi, anch’essi vitrei.
Così, per sfuggire a quella sabbia di arido vetro, si volta e per un attimo, che a dire il vero gli parve un’eternità, e l’immobilità di quel nulla vitreo e quadrato si scioglie in immagini, suoni, odori di una vita del tutto ignorata.
Dell’attimo il cavaliere cerca di coglierne tutto il succo e scruta quel marasma di vitalità dietro di sé con avida intensità di occhi curiosi: alle sue spalle tutto un mondo crepita, si agita, freme.
Per capire meglio la meraviglia di quell’attimo, il cavaliere gira completamente la testa, senza rendersi conto di aver infranto anche l’osso del collo, mentre il resto del corpo lo trasporta, inevitabilmente, in avanti e verso l’aridità di quell’aria di vetro.
Tanto meglio, pensa! In questa posizione può osservare con maggiore attenzione l’attimo di vita alle sue spalle e non curarsi del corpo che procede in avanti.
Ma cosa c’è di tanto strano e particolare in quell’attimo dietro di lui?
Il cavaliere si inoltra nel momento per decifrarne volti e luoghi. E più si inoltra, più l’attimo si dilata, più la testa, dopo essersi del tutto separata dal resto del corpo, vaga all’indietro, più la piazza si anima di rumori, cose, colori.
Vede la bottega del ferraio, in cui aveva imparato l’arte di ferrare il cavallo, di fabbricare su misura spade e lance; rivede il ferraio, con il pensiero lo abbraccia, sorride e dice:
«Mastro ferraio, che piacere rivedervi!! Sono io il „signorino Cavaliere“, come mi chiamavate voi, mi riconoscete? E cosa fate qui, e, ditemi, dove siamo?»
Ma quello non risponde. Sembra non aver affatto notato la testa del cavaliere che scruta il retro di un momento; continua a lavorare, a sudare e a imprecare.
Poi la visione si allarga, il cavaliere riconosce alberi, case, tetti, palazzi, colli lontani e volti vicini, che improvvisamente gli rivelano il mistero del momento:
„Ma certo! - pensa - Ora ci sono! Questo deve essere il mio paese natale. È qui, tra queste case, questi cipressi, questi palazzi, questa piazza e questi colli che sono nato e cresciuto! E tutto, TUTTO, sembra essere rimasto come allora, anche la gente: il ferraio, il bottaio, il mercante, il ciarlatano. Che sia questo il villaggio che sto cercando?“
Di dubbio in dubbio il cavaliere riconosce amici di giochi, amori di gioventù, gialli e rossi dagli intensi profumi, fanciulle che garriscono distese al carminio dei tanti crepuscoli che non finivano mai, e prati di parole a raccontar le stelle, le imprese, le avventure e faremo...andremo...combatteremo...troveremo....sì, troveremo...ma che cosa? Sembrava facile, allora, la felicità, come l’odore del grano illuminato dalle lucciole o il profumo di uva fragola che scorreva tra i seni di quelle fanciulle sotto le stelle.
Essere presente di quel passato lo inebriava e lo sconvolgeva, soprattutto quando vide sfilare davanti ai suoi occhi i genitori in abiti regali e se stesso, fantolino, saltellante qua e là come un leprotto.
Non disse niente. Il passato non poteva rispondere, né poteva tornare, ma da esso si usciva soltanto, sempre e comunque.
Così tutte quelle immagini, di colpo, si ridussero ad un punto nero e la testa, come l’elastico di una fionda che ha lanciato il sasso, tornò nella sua consueta posizione: sul collo di un corpo nero che cavalcava su di un cavallo bianco, mentre dietro il nero nulla aveva cancellato ogni traccia di quel paese del passato, che forse non era nemmeno mai esistito.
Ma se il passato poteva essere soltanto l’illusione di un momento visto di spalle, il villaggio da cui non si ritornava doveva essere solido e reale, come il suo corpo ora intatto e proteso in avanti.
Senza perdersi d’animo il cavaliere riprese il suo viaggio e, cavalca cavalca, una nebbia striata dai molti colori lo avvolse in un vortice, da cui era impossibile liberarsi.
Dal vortice di quell’aria, cavallo e cavaliere, furono trasportati in balìa di onde e correnti a innumerevoli miglia di distanza, di cui non tenevano più i conti, tanto che più volte il cavallo aveva cambiato pelle, sì che da bianco si era fatto grigio, marrone e nero, e anche al cavaliere sembrava di esser morto e rinato cento e cento volte.
Sebbene a tratti si attenuasse, il vortice non voleva placarsi, mentre con aria, venti e mareggiate di nebbia striata andava sempre più assumendo le dimensioni di un nuovo paese.
Un paese in cui alberi, case e strade cambiavano continuamente natura, in una danza di trasformazioni che coinvolgeva anche le persone.
Il cavaliere si ritrovò al centro di una piazza, più alta, più bassa, con quattro pietre, una chiesa, tre palazzi, e poi case, grattacieli, cubiche costruzioni interscambiabili, tetti apribili, in cui entravano ed uscivano insetti metallici che trasportavano altra gente e di nuovo cenere e pietre.
Alla ricerca del suo cavallo, ma nessuno sapeva dirgli né dove fosse, né cosa fosse, il cavaliere fu preso da un altro vortice: un ballo inebriante e sensuale, sempre con una dama diversa, di cui sentiva l’ansia delle carni, ma se la fissava negli occhi un bagliore di nero accecante gli impediva di vederla.
Era come se si sentisse immerso in un mare di cecità fuggitiva, come fuggitivo era il giro di danza; e più annaspava cercando di aggrapparsi agli occhi e ai tratti invisibili del volto della dama, più percepiva la loro fuggevolezza, e così in quel rinnovato nero impenetrabile, ma in qualche modo riflettente, rivedeva le sue età passate e l’adolescenza della dama, la sua e la di lei fanciullezza e quel momento di fuggevole inganno e poi, sempre più nero, sempre più niente, mentre intorno tutto continuava a trasformarsi, a cambiare.
Da un passato che non c’è più ad un futuro che non c’è ancora: forse questo e questo soltanto era quel ballo, una dimensione di sospensione tra due assenze; un niente di mezzo.
Poteva essere questo quel villaggio da cui nessuno tornava? Il cavaliere non fece in tempo a chiederselo, che un passo di danza più veloce del precedente lo spinse fuori dall’orbita di quel mondo in incessante divenire, rimettendolo in groppa al suo cavallo bianco, su una delle strade del suo regno, al di qua degli ultimi confini.
Era la strada di casa. Quindi partire non era servito a niente, non aveva dato un senso alla sua ricerca, né più saggio ora era destinato a tornare!
Dovevano essere trascorsi tanti anni dalla sua partenza, magari anche secoli e forse addirittura millenni, visto che aveva attraversato paesi passati e futuri oltre gli ultimi confini del regno, in un viaggio nel tempo più che nello spazio.
Dovevano essere trascorsi tanti anni, anche perché si sentiva affaticato, stanco e vecchio, ora che oltre al peso dell’armatura, gli era divenuto insopportabile quello della barba e delle ossa scricchiolanti.
Altrettanti innumerevoli anni erano passati per il cavallo, oramai larva di se stesso, che si trascinava scheletrico in avanti, più per forza d’inerzia e dovere di ubbedienza al sovrano, che altro.
Entrati per la porta principale del regno, nessuno li riconobbe; ed anche il cavaliere stentò a riconoscere il suo paese, tanto era cambiato.
Sospinto da un procedere ignaro anche a se stesso, il cavallo si accostò a quello che rimaneva della reggia ormai diroccata, e di colpo si accasciò, stramazzando a terra.
Quando il cavaliere riaprì gli occhi, si accorse di non essere più a cavallo del suo Fulmine, ma disteso su un giaciglio di paglia, all’interno di una semplice e spoglia catapecchia e rinfrescato dalle cure amorevoli di due mani ruvide e callose.
«Su, prendete qualcosa da bere e da mangiare - disse la contadina che lo stava accudendo - chissà da quanto tempo siete in questo stato, pover uomo!»
Il cavaliere, che non aveva neppure la forza di parlare, rifiutò con un gesto quell’acqua e quel pane.
«Siete un mendicante, vero? - Insistette la contadina - E dovete avere penato molto, vero? Ma ditemi, cosa cercate nel nostro paese, oramai abbandonato da Dio e dagli uomini? Oh...scusatemi...siete così malridotto che non potete certo parlare. Ma allora..prendete un po’ di pane, bevete quest’acqua..è bella fresca! Oh...perdonatemi, sono una stupida e parlo troppo. Forse voi volete soltanto riposare ancora, è così?»
Il moribondo annuì con gli occhi; con quell’ultima forza che gli restava.
Ma quando la contadina aprì la porta della catapecchia per uscire, il cavaliere vide entrare un vento gelido e luminosissimo; dall’intenso profumo di limoni e scrosciante di insolita e fresca gaiezza, che intorno a lui prese a infondere forma e volume a cose, persone, animali, strade, palazzi: insomma un intero villaggio di vento, di ghiaccio, di gialli profumi e azzurre frescure.
Ma fu un attimo, poi quella gaiezza così intravista sparì, sommersa da un buio pesante che impediva al cavaliere di riaprire gli occhi.
Eppure continuava a vederlo quel villaggio e riconosceva amici e familiari scomparsi da tempo, e volute di tempo passato che giocava a fare ritorno, e cari volti d’immortale amore, che tanto disteso era, quanto inimmaginabile; e gente, animali, piante, sassi e spiriti venivano da ogni dove per popolarlo e renderlo sempre più allegro, quel villaggio, ma anche sempre più enorme e indefinito e nero.
Erano sprazzi di visioni fulminee che il cavaliere aveva, perché poi dal bianco abbagliante al nero più opprimente i suoi sensi percepivano continue e repentine variazioni e oscillazioni e capovolgimenti.
L’aveva cercato oltre i confini dei confini del suo regno sconfinato, quel villaggio, e ora, proprio ora, alla fine della sua vita, eccolo lì, vicino a lui, il più vicino di tutti, che cerchiamo senza mai trovare, finché non arriva lui a trovare noi, magari proprio quando non lo cerchiamo più; era lì, inafferrabile e inconcepibile; bianco, colorato, profumato eppure nero e invisibile: non è altro che il prossimo villaggio, posto alla fine, oppure, chissà! all’inizio, del viaggio più breve e più lungo che si possa mai immaginare.