il tempo della festa 
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Alfonso Cardamone
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EMI TRENTANNI DOPO MARCUSE
 
Nel mese di novembre del 199, il giornale dava notizia di un fatto eccezionale. EMI, il computer musicista, macchina mirabile dal nome graziosissimo, che una volta svolto si rivela essere niente altro che una sigla per Experiments in Musical intelligence, si era esibito davanti ad un pubblico di esperti e li aveva magnificamente tratti in inganno. Aveva eseguito niente di meno che una composizione inedita ed originale (in quanto composta dallo stesso computer), risultata agli orecchi dei raffinatissimi ascoltatori assolutamente indistinguibile, nello stile, da una sinfonia di Bach.
Sembra una parabola fatta apposta per avviare una discussione sul rapporto tra Arte e Scienza alle soglie del Terzo Millennio. E, ancora di più, per affrontare il quesito: è possibile parlare ancora di una autonoma festività dell' Arte, o bisogna dare per acquisito che la Scienza ha fatto, o si avvia a fare, all' Arte, definitivamente, la festa?
Una diavoleria della scienza, un prodotto della tecnologia più avanzata, che sposa l'Arte e la sostituisce. Punto d'arrivo di un'evoluzione e di un ripensamento delle ragioni dell'arte sotto l'incalzare della scienza e della tecnica, che apparrebbe quasi risolutivo, inappellabile. Eppure... a bene analizzare tutto viene rinviato al punto di partenza dal subdolo e sornione manifestarsi di un "male" inguaribile e perniciosamente sottile, endemico e peculiare delle concezioni più tradizionali dell'Arte, che ricompare proprio nel momento stesso in cui sembrerebbe essere stato definitivamente sconfitto: lo Stile, appunto.
A monte di EMI, prima di EMI e, vorrei dire, dopo di EMI, c'è lo STILE, e cioè il Soggetto, l'umana capacità di creare soggettivamente Arte. EMI per potersi proporre come compositore musicale artistico, e non semplice elaboratore matematico di suoni, ha dovuto appoggiarsi ad una personalità eccezionale, ad uno Stile preesistente. Lo Stile prescinde da EMI, EMI non può prescindere dallo Stile, altro che fine dell'Arte, altro che morte del Soggetto!
Emi, la macchina "mostruosa" che può apparire più Bach dello stesso Bach, si pone al vertice di una vorticosa ascesa di sperimentazioni e di tentativi (anche teorici) miranti a realizzare le previsioni e le speranze di quanti, teorici e sperimentatori, si eressero a pionieri della scienza che fagocita l'arte. Penso ad un. J. W. Burnham, per esempio, che, alla fine degli anni Sessanta, vaticinava e si augurava che nel corso del ventesimo secolo non solo si generalizzasse l'uso di macchine per produrre arte d'avanguardia, ma si riconoscesse anche il "concetto che le macchine possano essere arte ovvero parte diretta dell' esperienza artistica".
Burnham, nel periodo in cui gli intellettuali e gli artisti si sbracciavano nell'esercizio masochistico di celebrare la "morte dell'arte", si affannava, da parte sua e in compagnia di pochi altri, a rintracciare nella dinamica dei "sistemi intelligenti", allora ai primi passi, addirittura una nuova estetica, che fosse sostitutiva di quella esausta (o, per meglio dire, dagli avversari ritenuta tale) del tardo moderno. Il suo punto di partenza era costituito dalla teoria dei sistemi e dalla logica della teoria della comunicazione.
Secondo quell'autore, la "continua evoluzione tecnologica, sia nel campo delle comunicazioni che in quello dei controlli", sarebbe stata indubitabilmente "foriera di un nuovo tipo di rapporti estetici, molto diversi dalla comunicazione a senso unico dell'arte tradizionale e della valutazione di essa a noi consueta". Comunicazione e valutazione corrispondenti alla logica, per intenderci, che imposta tradizionalmente il circuito fruitivo del prodotto artistico secondo lo schema monodirezionale opera musificata/spettatore-fruitore passivo. Se osserviamo tutta l'arte passata in quanto forma di comunicazione -è sempre il nostro Burnham che disquisisce-, ignorando stile, contenuto e qualità (e sarà interessante notare che Ia condizione per procedere nell'argomentazione è proprio la rinuncia a priori delle caratteristiche che fondano il prodotto artistico in quanto tale, distinguendolo da ogni altro fenomeno genericamente comunicativo), troviamo che la comunicazione consiste in un processo contemplativo, a senso unico. All'epoca, Burnham sosteneva di avere già assistito (negli happening, nell'arte cinetica, nell'arte luminosa degli operatori d'avanguardia degli anni Sessanta, tutti antecedenti, in qualche misura, delle esperienze elettroniche e multimediali dei nostri giorni) "a qualche prematuro tentativo di espandere l'esperienza artistica e portarla su un doppio binario di comunicazione". Si trattava ancora di forme d'arte che utilizzavano "mezzi tecnici piuttosto grezzi, mantenendo una distanza sia reale sia concettuale fra lo spettatore e l'opera d'arte". Ma non era il caso di disperare, perché "i nostri legami con Ia tecnologia elettronica" sarebbero andati via via aumentando e l'esperienza artistica si sarebbe fondata, di conseguenza, sempre più su un "costante scambio di informazioni nei due sensi".
Quello che colpisce, e allarma, in queste parole non è tanto la capacità di vaticinio riguardo all'evoluzione dei meccanismi della comunicazione, quanto la pretesa di assumere "questo nuovo modo di comunicare a vicenda come un passo avanti nell'evoluzione del senso estetico". Anzi, come un cambiamento tout court degli stessi principi dell'Estetica!
In verità, possiamo convenire che così si avviava una certa inversione di tendenza "nella percezione umana dell'ambiente"; possiamo convenire che, se fino ad allora il pensiero occidentale aveva fatto "assegnamento su un rapporto fisso fra osservatore e oggetto (o fra soggetto e stimolo)" in cui la concentrazione era "puramente questione di cambiar d'obiettivo", dal momento in cui si cominciava ad avvertire un mutamento nella percezione umana dell'ambiente, questo fatto veniva ad incoraggiare -positivamente- il riconoscimento dell'uomo come parte integrante del suo ambiente, superando la razionalizzazione che ci aveva "indotto a pensare in termini di predominio umano e passività ambientale". Possiamo convenire ancora che, se il computer ha un significato sperimentale, è proprio quello di estendere il nostro sistema nervoso oltre il limite finora raggiunto dagli altri media di comunicazione; che il computer non è solo un calcolatore ultrarapido o un archivio di dati, ma anche "un sistema in grado di riorganizzare molteplici ambienti remoti ed incanalarli in una esperienza sostenuta e coerente".
Ma, il punto non sta qui. Il punto sta nel passaggio dall'auspicio di una utilizzazione dei mezzi offerti dal computer nella direzione di una nuova arte processuale o focale, come forma sicuramente auspicabile e legittima tra altre Forme d'Arte, alla pretesa di assolutizzazione esclusivistica di quella Forma rispetto a tutte le altre e, soprattutto, nel rischio a quella pretesa collegato di sostituire concetti, elementi e strutture della teoria comunicativa generale allo specifico particolare dell'Estetica.
Burnham, dunque, riconosceva che le nuove macchine sono fondamentalmente dei "sistemi per l'elaborazione dei dati d'informazione", eppure, con uno spericolato salto logico, pretendeva di definire una presunta estetica dei sistemi intelligenti, intesa come "un dialogo fra due sistemi che raccolgono e si scambiano informazioni in modo da modificare costantemente l'uno lo stato dell'altro". E non si accorgeva che questa è esattamente Ia definizione classica del rapporto di comunicazione e non certo l'individuazione di un ambito precipuamente estetico, che, pur poggiando su basi "comunicative", non può certo con quelle essere confuso e da quelle essere esaurito. In realtà, il concetto da cui ci si muove quando si compie un salto logico di questo genere è ancora di tipo macluhaniano: "è il modo della comunicazione (la stampa di una foto d'un'opera d'arte) piuttosto che il messaggio stesso (l'Opera d'arte) che ha definito e livellato il nostro responso d'arte".
Ecco, ho voluto citare abbastanza per esteso questa ossessione "comunicativa" e la sua applicazione in campo estetico, insieme con l'esplicitazione delle sue più immediate e dirette conseguenze (la sostituzione dell'opera d'arte con un suo simulacro), per rendere il più possibile evidente come questa pre-occupazione nasca in un ambiente e in una temperie culturali che sono gli stessi da cui germinano le teorie e le opere del post-moderno.
Ed è con questa "dominante culturale" che, nel bene come net male, inevitabilmente, dobbiamo fare i conti per cercare di comprendere che cosa significhi e come si configuri nella nostra epoca il rapporto tra Arte e Scienza e quali possano essere, alle soglie del terzo millennio, le ragioni dell'Utopia affidate all'Arte e quelle del rapporto di Arte e Scienza con il sistema produttivo.
Il postmoderno, per dirla con quello che io reputo il più lucido studioso e più convincente critico del fenomeno, F. Jameson (Il Post Moderno, Garzanti, 1989), si manifesta con alcuni connotati di rottura polemica nei confronti del moderno avanzato, tra cui la retorica del populismo estetico e l' assoggettamento di forme, categorie e contenuti alle scelte dell'Industria Culturale sono quelli che mi appaiono tra i più significativi e come quelli che, con una certa approssimazione, valgano a definirne i contorni nell'ambito così delle Arti come delta critica sociologica.
Ricordiamo che anche la rottura tra tardo moderno (o moderno avanzato) e postmoderno si consuma, a partire dai sintomi degli ultimi anni Cinquanta e primi anni Sessanta, con il progressivo definirsi di quello che Jameson molto opportunamente ha chiamato, nella versione più matura dell'ultimo scorcio del XXI secolo, una sorta di "millenarismo alla rovescia": non più premonizioni del futuro, ma diffuso senso della fine (prima dell'ideologia e dell'arte, poi anche delle classi sociali, del welfare ecc.).
Dunque, sancita la fine dell'Arte come Forma. si fa ricorso ad una sorta di retorica di populismo estetico, che pretenderebbe di cancellare il confine tra cultura alta e cultura di massa o commerciale, e, insieme, alla pratica dell' assoggettamento di forme, categorie e contenuti alle scelte dell'Industria Culturale, cioè a quel sistema di produzione globale che genera kitsch, scarti, serial, paraletteratura e arte-trash. Tutti prodotti che il postmoderno non si limita a citare (come poté fare per esempio un grande del moderno avanzato, J. Joyce), ma che incorpora direttamente in una scelta, che si vorrebbe stilistica e che di fatto invece nega ogni possibilità di "Stile", che può essere riassunta con il termine di "pastiche", vero tratto distintivo di ogni produzione postmoderna, dall'architettura alle arti visive, alla letteratura. Il postmoderno, in realtà, non è uno stile, ma piuttosto, come abbiamo anticipato, una "dominante culturale".
E, a questo proposito, non ci possono essere dubbi riguardo alla possibilità e legittimità di collegare le teorie del postmoderno alle generalizzazioni sociologiche che annunciano l'avvento di un "genere di società completamente nuovo, noto per lo più come 'società post-industriale', ma anche come 'società dei consumi' o dei media, o dell'informazione, o anche 'società elettronica o high-tech' e simili", Con queste affermazioni del Jameson determinandosi contemporaneamente: a) l'individuazione delle caratteristiche culturali di fondo della nuova società; b) lo stretto rapporto che arte e cultura intrecciano, o possono intrecciare con la tecnologia; c) al tempo stesso, i limiti ed i rischi che tutto questo comporta. Il postmoderno, infatti, nasce con una contraddizione di fondo. Esso pretende dichiaratamente di contrapporsi all'avvenuta canonizzazione e istituzionalizzazione accademica del movimento moderno in generale (a partire dagli ultimi anni Cinquanta) e considera i protagonisti del movimento moderno, che in origine era stato un movimento di opposizione, "alla stregua di classici morti". Ma questa in realtà non è altro che una paradossale maschera ideologica, che è per altro facile strappare. Perché, alla resa dei conti, la presunta rivolta postmoderna risulta essere tutta interna al sistema produttivo, ed anche i suoi eccessi più estremi sono non solo tollerati, ma preparati e promossi dal sistema del consumi, talché non scandalizzano proprio nessuno: non solo il postmoderno è affatto conformista ed istituzionalizzato, del tutto uniformato alla cultura ufficiale della società occidentale, ma, ciò che a noi sembra più grave, è pienamente integrato, in quanto produzione estetica, alla produzione di merce in generale.
Così si può dire che, mentre il moderno si è istituzionalizzato a seguito del mutarsi del giudizio estetico, la produzione estetica del velleitaristico postmoderno nasce già naturalmente integrata nella più generale produzione di merce. Tutta quanta la cultura postmoderna non è altro che l'espressione sovrastrutturale del nuovo corso del dominio economico e politico del capitalismo multinazionale così come si presenta oggi.
Moderno e postmoderno, pertanto, non sono diversi solo quanto a caratteristiche distintive, ma anche quanto a significato e funzione sociale, "a causa del differente modo di porsi del postmoderno nel sistema economico del tardo capitalismo e... della trasformazione della cultura nella società contemporanea".

A questo punto vale la pena di spendere qualche parola a proposito delle caratteristiche distintive del postmoderno. Jameson così le riassume:
1) una nuova mancanza di profondità, che si collega all'esaltazione dell' immagine e, anzi, del simulacro;
2) un conseguente indebolimento della storicità e della sensibilità anche privata del tempo, della durata, della memoria (un Proust sarebbe impensabile nell'era del postmoderno!);
3) un nuovo tipo di tonalità affettiva, che in realtà è solo euforia e declino dell'intensità sentimentale ed affettiva;
4) i rapporti profondi e costitutivi di tutto ciò con un' intera nuova tecnologia.

A puro titolo esemplificativo ricorderò, con Jameson (il quale mette a confronto Le scarpe della contadina di Van Gogh con Diamond Dust Shoes di Andy Warhol), che se l'opera di un Van Gogh può essere letta ermeneuticamente, nel senso di ricavarne indizi e sintomi di una realtà più vasta, quella di un Warhol in alcun modo può dare luogo all'ermeneutica, risultando impossibile restituire a quelli che sono solo "resti" e "simulacri" un più ampio contesto vissuto. All'opera del primo compete il gesto utopico dell'Arte, quella del secondo ne è del tutto priva.
La caratteristica formale suprema del postmoderno è un nuovo tipo di superficialità, nel senso più letterale del termine, la comparsa di un nuovo genere di piattezza o mancanza di profondità, che fa tutt'uno con la sciagurata scissione del significante dal significato e che si collega al declino delle grandi tematiche moderne del tempo e della temporalità, della durata e della memoria, in coincidenza con la pretesa caduta del Soggetto che è un altro topos tipico del postmoderno. Trionfo delle categorie di spazio su quelle di tempo e declino della consapevolezza e della profondità diacronica, e questo anche quando (anzi, soprattutto quando) si sceglie la rappresentazione meccanicistica dell'evento, come negli esperimenti di arte cinetica.
Torna opportuno, a questo proposito, citare ancora quel J. W. Burnham, che ci ha offerto il destro per il nostro argomentare, per il riferimento che egli fa ad alcuni artisti degli anni '60, che si sono distinti come antesignani dell'uso del computer nell'elaborazione delle loro opere. Ricorda, per esempio, lo scultore Johan Severtson, il quale si serviva del computer per "programmare i parametri delle sue sculture". Il Nostro gli fece osservare che "i dati forniti dal computer, sulla carta, dove essi tracciano disegni dalle squisite variazioni, erano più seducenti delle sculture da essi derivate". Lo scultore cessò di essere solo scultore e, da allora, si diede a filmare il computer mentre disegnava, e prese ad esporre questi film come parti integranti dell'opera d'arte [dove io non voglio discutere se sia più o meno legittimo inserire in un'opera sedicente d'arte procedure matematiche, tecniche scientifiche, in origine destinate ad essere supporto tecnologico per facilitare la realizzazione dell'opera stessa, ma rilevare, piuttosto, che, comunque, quelle procedure assumono statuto estetico solo "dopo" un atto volitivo dell' "artista", pur sempre soggetto centrato del percorso estetico].
Ancora: a sostegno delle sue previsioni sul futuro dell'Arte destinato ad essere "influenzato dallo sviluppo dei computer", l'Autore riferiva su studi allora recentissimi sull'intelligenza artificiale, su bionica e ricerca intorno ai sistemi autorganizzantisi; studi che s'industriavano di "simulare o riprodurre degli aspetti propri agli organismi viventi: come l'autorganizzazione, che sembra essere proprietà esclusiva della vita intelligente, e che comporta: percezione, crescita, apprendimento, sviluppo di strutture nervose, nonché gli effetti del feedback ambientale".
In un articolo apparso su una rivista scientifica nel 1967, intitolato "L 'uomo: un sottosistema?", si sosteneva che "come sottosistema, l'uomo lascia molto a desiderare. Quale altro sistema, infatti, non ha alcuna prospettiva di venir miniaturizzato o . . . è in grado di lavorare a pieno ritmo solo un quarto del tempo, dev'essere trattato come non sacrificabile, abbisogna di un ambiente psicologico e fisico appropriato, non può essere decontaminato ed è altrettanto imprevedibile?". Dove, trascurando il sorriso che le varie domande-affermazioni non possono non suscitare, colpisce in modo particolare la conclusione. Eh si, perché è proprio quell'imprevedibilità che ha fatto e fa la differenza dell'uomo rispetto agli altri animali, ed oggi, dobbiamo dire, la fa e continuerà a farla per domani riguardo alle macchine. L'uomo scriveva Edgar Morin (Il paradigma perduto, Bompiani, 1974) è un animale dotato di s/ragione: è questa la sua differenza, il tratto distintivo e la sua grandezza! E l'Arte, più di ogni altra umana realizzazione, poggia esattamente su questa sua specifica qualità.
Allora l'affermazione che "potenzialmente il computer è il mezzo migliore che abbiamo per rafforzare [i] circuiti di comunicazione con il cervello umano", comunicazione interattiva a più sensi, opposta all'interazione a senso unico dei sistemi simbolici (per es. pittura e scultura), può essere accettata solo nel senso per cui "per l'arte, forse, la forma più significativa di intelligenza non-biologica o iperbiologica, è quella della 'esaltazione dell'uomo mediante un rapporto uomo-macchina' … L'obiettivo è quello di pensare creativamente insieme con ii computer ...". Solo così i computer potrebbero diventare "attrezzi accettabili per l'artista". Ma, appunto, solo attrezzi e niente più!
"La secolarizzazione dell'arte proseguirà" -questo è indubbio- e le macchine saranno sempre più in grado di fare 'manufatti' migliori di quelli di qualsiasi artigiano, ma, appunto, solo manufatti artigianali o, peggio, industriali, che sono altro da quelli artistici. Il prodotto artigianale, e anche quello industriale, sono certo prodotti culturali, tasselli che contribuiscono alla complessiva definizione di un assetto e di una concezione del mondo, ma l'arte, se è tale, è qualcosa di più: è essa stessa creazione-rappresentazione-espressione di una e di infinite concezioni del mondo.
Per chiarire quest'ultimo concetto, avendo scelto di rimanere nello stesso ambito di discussione e nel medesimo spaccato cronologico da cui siamo partiti ed ai quali riconosciamo un segno importante di definizione delle coordinate atte a qualificare i termini attuali del problema, ci avvarremo di un saggio di H. Marcuse, L 'arte come forma della realtà , che condivide con quello di Burnham lo spazio di uno dei benemeriti Materiali Feltrinelli, edito nel 1972, Sul futuro dell'arte.
Anche Marcuse parte dalla considerazione dell'attacco "non solo politico, ma anche … artistico contro l'Arte":
"La distanza e la dissociazione dell'Arte dalla realtà vengono negate, rifiutate distrutte".
Ma, a differenza della vocazione apocalittica e della dipendenza mercenaria dci predicatori postmoderni della "morte dell'arte", qui si tratta di una avvertita esigenza di riaccostamento dell'Arte alla realtà, anzi di una aspirazione all' integrazione dell'arte alla vita non come adeguamento alla logica mercantile, ma al contrario come vocazione politica a fare dell'arte un momento particolarmente significativo di una vita votata all'impegno rivoluzionario e contestativo, di una vita che, insieme con l'arte se non addirittura grazie all'arte, divenga "essa stessa la cosciente negazione della normalità, del modo di vita convenzionale, stabilito. . .". Era proprio la Forma di Merce dell'arte, così come dell'antiarte, ad essere messa in discussione come forma di quella realtà "normale" che costituiva il bersaglio della ribellione.
Ma Marcuse, mettendo in risalto l'ambivalenza sociale dell'Arte, ne recuperava nel contempo tutte le valenze di Forma e di Stile (e questa è un'operazione di segno completamente, radicalmente opposto a quella portata avanti dal postmoderno): "Ciò che costituisce l'identità unica e duratura di un'oeuvre, e ciò che fa di un'opera un' opera d'arte … è la Forma. In virtù della Forma, e della Forma soltanto, il contenuto acquista quella unicità che fa di esso il contenuto di una particolare opera d'arte e di nessun'altra". E sono gli aspetti della Forma che propriamente "rimuovono, dissociano, alienano l'opera dalla realtà data e la fanno entrare nella propria realtà: il regno delle forme". E il regno delle forme, che è una realtà storica, "una irreversibile sequenza di stili, soggetti, tecniche, regole" (altro che pastiche!), "ripetibile solo come imitazione", non rappresenta che variazioni di una Forma "che distingue l'Arte da qualsiasi altro prodotto dell'umana attività".
Fin da quando l' Arte uscì dalla sfera del magico -ci ricorda Marcuse-, fin da quando cessò di essere "pratica", l'Arte non è stata più intesa come "un valore-uso da consumarsi nel corso delle quotidiane vicissitudini degli uomini; la sua utilità è di tipo trascendente, utilità per l'animo e la mente che non interferisce col normale comportamento dell' uomo".
L'arte è così "alienante", perché pone la realtà a confronto con un' altra e diversa realtà.
"In quanto parte della cultura stabilita, l'Arte è affermativa, sostenendo questa cultura, in quanto alienazione dalla realtà stabilita, l' Arte è una forza negativa".
Si vuole andare oggi -scriveva Marcuse- verso l' "arte vivente"? "Si vuole un'Arte in movimento, in quanto movimento?". Se l'Arte vuole essere reale non può che divenire una forza politica. Ma questo non significa né può significare annullarla nella realtà. E profetico e ammonitore, a fronte delle aberrazioni postmoderne così come delle tentazioni fagocitanti della tecno-arte à la EMI risuona ancora oggi l'avvertimento marcusiano a considerare opere autentiche, vera avanguardia del nostro tempo, quelle opere che "lungi dal rinnegare questo divario, lungi dallo sminuire il ruolo dell'alienazione, allargano l'uno, esaltano l'altro, ribadendo la propria incompatibilità con la realtà di fatto. . . Queste opere adempiono, in tal modo, il compito dell'Arte, la sua funzione conoscitiva (che è la sua inerente funzione radicale, "politica") e cioè: nominare l'innominabile, metter l'uomo di fronte ai sogni ch'egli tradisce, i crimini che egli dimentica".
Bene, io sono ancora convinto, con Marcuse, che la vera avanguardia "sia costituita non già da quelli che disperatamente tentano di produrre l'assenza della Forma e l'unione con la vita reale, bensì da quanti non si sottraggono alle esigenze della Forma, da quanti trovano parole, immagini e suoni nuovi che siano capaci di "comprendere" la realtà come 1'Arte soltanto può comprenderla, e negarla."
Io sono ancora convinto -con Marcuse- che l' "arte vivente", la "realizzazione" dell' Arte, può essere soltanto opera di una società qualitativamente diversa dall'attuale, una "società in cui un nuovo tipo di uomini e donne, non più soggetti allo sfruttamento, riescano a sviluppare, nella loro vita e nel loro lavoro, la visione, la visione delle possibilità estetiche soppresse d'uomini e cose: estetiche non quanto alle specifiche proprietà di certi oggetti ma come forme e modi di vita corrispondenti alla ragione e alla sensibilità di liberi individui" (secondo la concezione marxiana dell' "appropriazione sensuosa del mondo"). "La realizzazione dell'Arte, della 'nuova arte', è concepibile soltanto come processo di costruzione dell'universo di una libera società; in altre parole: l'Arte come Forma della realtà".
E questa -mi sia consentita l'appropriazione concettuale- è già UTOPIA per il prossimo millennio, utopia dell'Arte ed Utopia della Politica! Ancora una visione di Marx: "l' animale costruisce solo secondo i suoi bisogni; l'uomo costruisce, forma, anche seguendo le leggi della bellezza".
Questa -sempre citando Marcuse- "sarebbe allora creatività, sarebbe creazione in senso sia materiale sia intellettuale, sarebbe un connubio fra tecnica e arti per la totale ricostruzione dell'ambiente, un connubio fra città e campagna, fra industria e natura una volta liberate dagli orrori dello sfruttamento e dell'abbellimento commerciali, senza che l' Arte debba più servire da stimolo agli affari".
Ma "una siffatta realizzazione dell'Arte implicherebbe forse l' delle arti tradizionali?" No! Certo! perché l'Arte è trascendente "in un senso che la distingue e la divorzia da qualsiasi realtà che possiamo presagire. Per libera che sia, una società sarà sempre afflitta da necessità: la necessità della fatica, della lotta contro la morte e le malattie, contro la penuria [noi potremmo aggiungere: contro ogni oggettiva determinazione dell'essere umano o, paradossalmente, qualora la Scienza riuscisse ad imitare in Fantascienza ed a vincere le stesse limitazioni delle coordinate fondamentali di tempo e spazio, contro quella che potrebbe essere la nuova condanna all'eterno, che si verrebbe allora a creare nell'universo umano, in nome di una perduta finitezza, così come insegna il borgessiano Asterione. Perciò le arti manterranno forme d'espressione ad esse consone, e soltanto ad esse: di una bellezza e verità antagoniste a quelle della realtà". E questa è l'Utopia fondante e irrinunciabile dell'Arte, l'utopia di un linguaggio verticale, che distenda il suo passo tra Inferno e Paradiso, scavalcando la piattezza di ogni mortificata e mortificante orizzontalità!