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Alessandro Liburdi
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DISCORSO INUTILE
 
Breve premessa a un discorso inutile. Una premessa che parte direttamente da una conclusione amara, eppure rassegnata; una premessa per la quale ho preso in prestito anche per me la parola “poeta” – uno scomodo fardello da portare nella moderna “civiltà dell’utile”. Ebbene, siamo inutili.
Noi poeti siamo inutili, non si scappa. Siamo inutili, nell’orribile accezione che l’economia contemporanea ha dato alla parola “inutile”. Siamo inutili, siamo disadatti a quest’epoca che ci incalza, ci morde e ci fa fuggire dentro i nostri cuori. Siamo inutili, non siamo capaci di apprezzare questo bel mondo splendente, ricco, lussuoso, pieno di tante possibilità e di progresso... Siamo inutili: scusateci se non abbiamo capito che la terra ci vuole bene, che ci accoglie sempre a braccia aperte, che vuole darci pane e denaro per campare cent’anni... Siamo inutili: non scriviamo sui muri, quelli li lasciamo sporcare ad altri, le scritte protoromantiche di questi beceri sono senz’altro superiori ai nostri lamenti, ai nostri latrati di pavone colpito dal cacciatore... Siamo inutili, perciò ce ne stiamo nell’angolo, nel chiuso delle nostre esistenze, a prendere polvere, mentre fuori imperversa come una tempesta il sole della modernità: con il linguaggio vacuo della pubblicità che si trascina come un’alluvione; con il pettegolezzo e lo scandalo che cadono a valanga; con la politica che frana ogni giorno di più su se stessa.
Siamo inutili, questo lo sappiamo. Non c’è più tempo per i versi: chi li scrive è “un pazzo, uno strano, un alienato”, non è normale. Ecco cosa siamo: cordoni ombelicali da tagliare, per evitare che si diffonda il contagio (oh, l’orribile contagio!) della poesia. Siamo qualcosa da evitare: un virus da controllare, da chiudere nei laboratori.
Siamo inutili, o piuttosto siamo scomodi, perché parecchi ci evitano e c’additano come seccatori? Siamo inutili, o piuttosto siamo scomodi, perché dissezioniamo la realtà e ci avviciniamo al nocciolo delle questioni, lacerando strati e strati di vischiosa ipocrisia? Siamo inutili, o piuttosto siamo scomodi al mercato, alla politica, all’economia, a tutti i burattinai che dirigono gli altri con i fili dell’opportunismo? Siamo inutili, o piuttosto siamo scomodi, perché abbiamo un cuore nella testa, un cuore che pulsa e che sprigiona un pensiero libero dal perbenismo e dall’ignoranza? Ci classificano come inutili, per non dirci che siamo scomodi, per continuare a ridere alle nostre spalle, a indicarci come “i falliti”, “gli antagonisti”, “i critici”. Noi poeti siamo le cicale di questo “mondo dell’utile”.
Siamo inutili, così inutili da sembrare perdenti. Qualcuno vorrebbe farci ingoiare il rospo, farci ammettere che siamo davvero perdenti. Ma come fanno a convincerci visto che noi, proprio noi, continuiamo ostinati a riflettere e a scrivere; visto che continuiamo a spremere sudore e a bruciare nelle nostre vene in preda all’ispirazione e alla passione del sentimento; visto che continuiamo a guardare il mondo con gli occhi nostri, usando la penna come una Durlindana un po’ ammaccata, ma sempre gagliarda.
La colpa che do piuttosto ai poeti, semmai i poeti hanno una colpa, è piuttosto un’altra e vale per me come un incoraggiamento: siamo ingenui, è questa la verità. Siamo così ingenui che crediamo ancora di dare un’anima alle cose del mondo; così ingenui da aggrapparci ancora ai sogni, alle favole, ai miraggi; così ingenui da metterci a disegnare traiettorie utopiche nel cielo e nella mente; così ingenui che ci illudiamo di poter scalfire i tanti cuori di pietra cantando con la disperazione o con la gioia dentro. Siamo ingenui: scusateci, se vogliamo rimanere bambini, piccoli incoscienti, sinceri fino alla ferocia, alla brutalità delle parole. Ma ci pare che questa sia l’unica strada per salvarci, per continuare a essere uomini e non semplici bestie che respirano, si nutrono, fanno sesso e dormono; ci pare sia questa l’unica strada perché non siamo né morti né sopravvissuti, ma viviamo nella stessa catastrofe dei nostri detrattori, ogni giorno di più e più ostinatamente. Perché la poesia può porsi le domande e cercare le risposte del nostro vivere, del nostro andare, del nostro ripartire verso porti ignoti o sepolti. Perché sono le parole, quelle serie e vissute, che seminano i fiori della moralità in mezzo alla plastica delle nostre esistenze. Perché sono le parole l’unico mezzo che abbiamo per decifrare questa foresta di simboli, e per riscoprire di nuovo il noi stessi che abbiamo smarrito da qualche parte.
I poeti ci sono, e fanno le cicale di questi tempi inondati dalla luce di questi riflettori fatui: a loro piace “perdere tempo” perché il tempo lo dipingono, lo smembrano in ogni sua fibra, alla ricerca del suo senso. I poeti lavorano, lavorano anche: fanno gli incantatori di serpenti in un grande circo chiamato realtà. Non sono nemmeno salariati, lavorano gratis, fieri di essere i perdenti di oggi, i premonitori di domani.

giugno 2010