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Oreste Bonvicini
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VIAGGIATORI SEDENTARI
Perché guardavano l'orizzonte?
 
-Guardavano l'orizzonte, il raso del cielo, tacevano, non potevano più staccare il pensiero da quel punto in cui la strada bucava la massa nera, indecisa.- ci spiega Yves Bonnefoy.
Ma dove s'arriccia la linea dell'orizzonte, sul nostro occhio allenato e svelto al veloce scorrere delle ore, delle stagioni, del tempo?
Abbiamo levato voce come di viaggi sedentari.

Ho scritto, nei versi di CONDIZIONE, di moto/immoto, di luoghi visti dentro, riflessi lontani dei corpi.

Come occhi su vetri riflessi/specchi, volti a sconosciute mete/oppure incontri a cardinali/ punti, confini, valichi/ valli invalicabili, ovunque restando immobile,/ mia unica condizione,/ sapevo, smarrendomi nel piacere,/il palpito del cuore, anima/che sa di vento, umile essenza/di corporee assenze.

Assenze come smarrimenti, smarrirsi nel piacere nell'ambra del tramonto o nel ricordo di una terra immaginata o di un'altra vita, vissuta altrove. Dove? Dentro di noi?
Come diceva Agostino a proposito della memoria?

“Grande è la potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo? E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque lo spirito sarebbe troppo angusto per comprendere se stesso? E dove sarebbe quanto di se stesso non comprende? Fuori di se stesso anziché in se stesso? No. Come ma allora non lo comprende? Ciò mi riempie di gran meraviglia, lo sbigottimento mi afferra. Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell'Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi. Non li meraviglia che io parlassi di tutte queste cose senza vederle con gli occhi; eppure non avrei potuto parlare senza vedere i monti e le onde e i fiumi e gli astri che vidi e l'Oceano di cui sentii parlare, dentro di me, nella memoria tanto estesi come se li vedessi fuori di me. Eppure non li inghiottii vedendoli, quando li vidi con gli occhi, né sono in me queste cose reali, ma le loro immagini e so da quale senso del corpo ognuna fu impressa in me.” (Conf. X 8.15)

Le percezioni allora, divengono quei luoghi visti con l'immaginazione, di cui si parla come veduti dentro, con il trasporto che ci trasmettono i sensi. Li porteremo sempre in noi, viaggiatori sedentari, che “vediamo” senza occhi eppure “sentiamo”. Non è così per i luoghi che ci “chiamano”, quei luoghi da cui ci sentiamo attratti pur senza averne mai respirato un refolo di vento della loro atmosfera?
Eppure c'è qualcosa che ci spinge e ci respinge, lasciando intatte le sensazioni, come un transfer accompagnato, nelle sere, al silenzio, al buio che annulla ripiana e nasconde la linea dell'orizzonte.
Non sono mai stato a New York, dice Remo Rapino, così come il mare delle Antille è meraviglioso, forse più bello sognato sulla carta dispiegata sulla scrivania.

Non sono mai stato a New York,
neanche in sogno né per caso saltando
in una sbregata stazione di provincia
alla fermata di un treno sbagliato.
Non conosco le grandi foglie dei platani
del Central Park né le luci neon giganti
dentro i fiati dei paesaggi fast food:
non a tanto arriva il mio cuore sedentario.
S'è fermato sui bordi fragili del vecchio
Tago, animale in letargo che stancamente
s'ingorga tra le scalmanate dell'oceano.
Non ci andrò mai a New York, gran bel
posto jazz and blues, okay, non lo nego,
pur con tutta quella che mi ritrovo
propensione all'autostop. I know che
mi perderò in mille tentacoli di strade
and so non saprò mai la fine della storia
come la raccontano tirando canapa buona
i reduci neri della santa guerra in Vietnam.
Lasciatemi stare qui incurvato alla sedia
con i miei necessari angeli a girotondo.

(Remo Rapino)

Non partiremo mai

Antonio, noi non partiremo mai.
Navigheremo sempre
antichi mari di sogno
sotto la luce fragile
del paralume giapponese.
Non sentiremo l'urlo
della sirena nei distacchi amari
lungo i moli della nebbia.

Restiamo, io non ho più voglia
di vedere
oltre i colli
della mia fanciullezza.

Il Mare delle Antille
ha un colore
meraviglioso
spiegato sulla scrivania.

(Giorgio Simonotti Manacorda, da I banchi di Terranova, Einaudi, 1967)